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Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 55426 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Marzo 29, 2010, 04:36:25 pm »

Il ministero dell'amore

di Piero Ignazi

Odio e Amore. Bene e Male.

Berlusconi agisce su potenti leve pre-politiche per ottenere consenso
 

Nell'universo concentrazionario immaginato da George Orwell in '1984', vi era una istituzione che più di ogni altra 'incuteva un autentico terrore': il ministero dell'Amore. Era l'unico privo di finestre perché nulla doveva trapelare all'esterno. Ai contatti con il mondo provvedeva il ministero della Verità, dove si cancellava la memoria delle notizie sgradite e se ne confezionavano di verosimilmente false. Solo il partito poteva decretare quando il vero era falso, e il falso vero.

Tutto questo suona familiare nel paese di Berluscandia. Non è vero il ritardo degli apparatniki pidiellini nel presentare le liste, non è vera la mancanza di timbri e bolli, non è vera la nonviolenza dei radicali (anzi, ecco un 'vero' scoop: sono i radicali i violenti, non i nostalgici del manganello). La realtà non esiste in sé: si materializza solo quando filtra dagli alambicchi comunicativi di Palazzo Chigi.

Così nasce e si impone il 'benpensare': eliminando i fatti sgradevoli e diffondendo urbi et orbi la loro 'giusta' versione. L'allucinante conferenza stampa del presidente del Consiglio che ribaltava su giudici e avversari politici la responsabilità dei pasticci commessi dai dirigenti del suo partito si attaglia perfettamente allo schema orwelliano. D'un colpo, appena annunciato, il benpensare berlusconiano diventa norma e i più diligenti dei suoi fidi si precipitano in tv a propagarlo, esaltando nordcoreanamente la nuova verità offerta dal capo ai poveri di spirito. E chi aveva dubitato, raddoppia l'impeto e l'entusiasmo. Per riconfermare la propria fedeltà. Perché il capo non sbaglia mai.

Ma il Grande Fratello non solo è l'unica fonte di verità: è anche e soprattutto fonte inesauribile d'amore, anzi è l'amore in sé e per sé. Infatti, come grondano d'amore le parole sue - e dei suoi seguaci - quando si rivolge agli avversari! Con quanta soavità e gentilezza li tratta! Questa continua inversione della realtà, questa continua manomissione dei fatti, costruisce uno scenario tanto fittizio quanto plausibile agli occhi di molti.

Perché? Perché agisce su potenti leve pre-politiche. Affinché lo scenario imposto dal Grande Fratello diventi credibile, va scatenata una gigantesca energia emotiva che diriga affettivamente l'attenzione, e poi l'adesione, alle parole del capo. Ogni richiamo a dati di fatto empiricamente verificabili, ogni ragionamento logico-razionale, ogni analisi critica, vengono travolti dalla potenza evocativa dei riferimenti mitico-simbolici al bene e al male. Tutto viene ridotto alla divisione del mondo tra chi ama e chi odia. Cioè alla massima semplificazione possibile delle categorie interpretative del reale, quelle che ogni persona, anche la meno articolata, utilizza per orientarsi nel mondo.

Adottando categorie dotate di valenze affettive così forti, che trascendono quelle cognitive-razionali, nel momento in cui vengono traslate in politica creano identificazioni e fedeltà solidissime. Staccarsene produce un trauma affettivo oltre ad uno spaesamento: se non sono più nel bene, vuol dire che sprofondo nel male?

La degradazione della politica italiana passa anche da questo riduzionismo etico-politico. La incanala lungo una strada di odio ideologico che pensavamo di aver lasciato alle spalle alla fine degli anni Settanta, quando esistevano i nemici del popolo o i nemici della nazione a seconda degli orientamenti politici.

Ci sono voluti i lunghi anni di piombo per riconoscere che il Sistema imperialistico delle multinazionali dei brigatisti era una ridicola stupidaggine, e che le cospirazioni comuniste contro la parte sana della nazione erano deliri di fanatici nostalgici. C'è voluto quel buissimo periodo per ritornare ad una politica magari noiosa e piatta, ma decentemente rispettosa delle posizioni degli altri, una politica dove nessuno si impossessava più del bene contro il male, dove nessuno brandiva più la spada dell'arcangelo Gabriele per schiacciare il drago impuro e maligno.

Ora, il ministero dell'Amore torna ad imporsi sulla scena. Come il Winston Smith di '1984', anche noi che resistiamo al 'buonvolere' del Grande Fratello, alla fine, dopo innumerevoli lavaggi del cervello minzoliniani, saremo costretti ad arrenderci?

(19 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Aprile 10, 2010, 11:14:29 pm »

Bossi e L'opa sul Pdl

di Piero Ignazi

Per il partito di Berlusconi e Fini si è aperta la 'competition' con il Carroccio per l'egemonia nel centro-destra
 

Il centro-destra supera con piglio sicuro lo scoglio delle elezioni regionali. Dilaga nella pianura padana, riconquista il regno del Sud con l'eccezione della Puglia (ma solo perché si è presentato diviso) e, ovviamente, del ridotto lucano, rosicchia voti nelle regioni rosse. Meglio di così era difficile fare, anche se questa volta sono state le liste minori a fare lo sgambetto al centro-sinistra in alcune sfide cruciali, così come lo fecero al centrodestra nelle regionali del 2005 e soprattutto alle politiche del 2006. Il centrodestra scoppia di salute, quindi? In realtà non sembra proprio, né in termini elettorali né sul piano politico. I voti alle liste di partito sommate a quelle di sostegno ai candidati presidenti lo collocano sotto il 50 per cento, con il centrosinistra appena dietro di qualche punto - sempre che i grillini siano iscrivibili al centrosinistra, il che è tutt'altro che sicuro (si veda l'articolo di Fausto Anderlini in questo numero). Ma sono soprattutto i rapporti interni allo schieramento, e al Pdl stesso, a essere messi in tensione dall'esito delle urne.

Il trionfo di re Umberto ha provocato onde anomale con conseguenze ancora tutte da vedere. Berlusconi non avrebbe problemi a siglare un patto d'acciaio con Bossi, eventualmente ma non necessariamente officiato da Giulio Tremonti. Del resto, come ha più volte sottolineato Edmondo Berselli, l'essenza vera del centrodestra risiede nel 'forzaleghismo': un impasto di liberismo a parole e di lassez-faire sfrenato e darwinista a spese dello Stato e dei più deboli, di insofferenza per le regole e le istituzioni e di una pratica gladiatoria della politica, di perbenismo e di rozzezza , di un indifferentismo etico e di un moralismo baciapile. Il tutto condotto attraverso una colonizzazione selvaggia di tutte le risorse possibili, figlia di un tribalismo politico rivestito da spoil system. Se ne accorgeranno le banche e le aziende pubbliche e partecipate ad ogni livello cosa significa il nuovo che avanza. Ma dall'abbraccio tra i due leader il Cavaliere potrebbe uscirne ammaccato. Per una ragione molto semplice: perché non ha truppe fedeli. Ha soldi a palate e può comprare qualche dirigente locale o nazionale, come ha già fatto in altre circostanze. Ma i leghisti hanno ormai fiutato l'odore inebriante del potere e non si faranno abbindolare da 40 denari. Lo schema del 1994-95 non è replicabile; e anche allora fallì. Il rischio di Berlusconi è quello di diventare, nel medio periodo, ostaggio del
Carroccio. Ma forse al settantatreenne Cavaliere il futuro del proprio partito non interessa più tanto. Basta che gli garantiscano il Quirinale per pensionarsi senza patemi giudiziari.

Tuttavia il rafforzamento della impronta leghista sul Popolo della libertà grazie al viatico Berlusconi-Tremonti apre anche spazi di dimensioni inattese per 'la faccia nascosta' del Pdl, quel ceto politico moderato che da tempo mugugna senza osare alzare la testa.

Non si tratta solo dei fedelissimi di Gianfranco Fini, bensì di tutti quelli che non considerano il Pdl un vuoto a perdere, preso e gettato dal leader a suo insindacabile piacimento, e che non gradiscono l'influenza concessa alla Lega. Se l'abbraccio di B&B si stringe davvero allora Fini potrebbe passare da una posizione di testimonianza 'cultural-politica' come quella adottata fin qui, ad una esplicita candidatura ad incarnare un'altra versione della destra. E non fuori dal Pdl, bensì dentro il partito.

Il mutato rapporto di forza tra i due partiti del centrodestra rilancia la competizione interna al Popolo della libertà perché la denuncia della deriva forzaleghista trova ora orecchie molto più sensibili e attente. Non tutti vogliono fare la fine di Brunetta. L'esito imprevisto delle urne sta quindi nel ritorno, o forse dell'inizio vero e proprio, della 'politica' all'interno di un partito che l'aveva espunta da sé per la sua configurazione carismatica .

Non a caso Berlusconi, 'incredibile visu', ha convocato gli organismi collettivi nazionali del Pdl. Forse è alle viste un vero dibattito politico nel partito di maggioranza: di fronte al rischio dell'egemonizzazione leghista, dell'Opa più o meno ostile sul partito da parte delle camice verdi, tutti quelli che vivono di politica incominciano ad interrogarsi su quale sia il progetto 'autonomo' del Pdl e chi sia il leader più adatto a guidarlo nella 'competition' che si è ormai aperta con il Carroccio per l'egemonia nel centrodestra.

(08 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 25, 2010, 11:31:50 pm »

Una sfida al forzaleghismo

di Piero Ignazi

È apprezzato più del Cavaliere, ma esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni del presidente della Camera, Fini?
 

Il conflitto tra Fini e Berlusconi riflette due diverse proposte politiche. Il presidente della Camera, con un percorso accidentato e non rettilineo, è ormai giunto a identificarsi nel conservatorismo dei leader moderati oggi al governo in Germania e Francia, e domani forse in Gran Bretagna. Piccoli segni indicano una consonanza e un riconoscimento reciproco. Ad esempio, il presidente francese Nicolas Sarkozy partecipò all'ultimo congresso di An nel 2002 e Fini ha scritto la prefazione all'edizione italiana del libro-manifesto del presidente francese. Manifestazioni di simpatia che non si esprimono certo verso il Cavaliere - al di là degli obblighi diplomatici nei confronti di un rappresentante ufficiale del governo italiano - e men che meno verso Bossi.

D'altro lato Silvio Berlusconi incarna la versione populista, aggressiva e rancorosa del neo-conservatorismo: una versione molto più vicina alla destra Usa della Sarah Palin e del movimento del Tea Party che non ai Tory britannici pro-establishment, rispettosi dei diritti delle minoranze, attenti alla coesione sociale e naturaliter intrisi di fair play politico.

Questa divaricazione cultural-politica non si traduce in un dibattito aperto all'interno del Pdl. Per due ragioni. Innanzitutto le dinamiche degli 'interna corporis' del Popolo della libertà tendono ad appiattire, e spesso a svilire, il confronto delle idee e delle proposte . La sua natura patrimonial-carismatica, cui consegue una concentrazione di poteri formali e di risorse sostanziali (ed extra-politiche) nelle mani del leader tali da sovrastare incommensurabilmente ogni altro possibile contendente, favorisce un atteggiamento di conformismo, con punte di vera e propria adulazione. Sono molti i parlamentari Pdl che in privato mugugnano scontenti della sudditanza alla Lega ma di fronte alle armi suadenti, o contundenti, del Cavaliere chinano la testa e si allineano, dato che ogni fremito di contestazione porta al suicidio politico.

Per aprire una breccia in questo resistentissimo pack siberiano Fini deve quindi superare l'handicap del differenziale di risorse in mano al presidente del Consiglio. L'unica arma a disposizione del presidente della Camera consiste nell'apprezzamento dell'opinione pubblica che, da anni, lo vede prevalere su Berlusconi. Ma tale risorsa è difficilmente spendibile all'interno se non viene sostenuta da un progetto preciso e da solide gambe.

Il secondo handicap sta nella 'sostanza' della proposta politica finiana. Apparentemente non ci sarebbe nulla di più normale nel voler orientare la destra verso posizioni 'moderate', pro-business e rispettose delle regole e degli equilibri istituzionali, ancorata ai valori nazionali e aperta al cambiamento, all'Europa, al mondo. Il punto è che la destra forzaleghista, di cui il berlusconismo non è che una declinazione, è assolutamente eccentrica nel panorama delle forze conservatrici dei paesi di democrazia consolidata.

Il problema si restringe allora ad un interrogativo: esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni di Fini, oppure 15 anni di radicalizzazione continua del conflitto politico e di demonizzazione degli avversari condotta da Berlusconi - e da Bossi - ha ristretto a poca cosa quel tipo di elettorato? Quando gli elettori di centrodestra digeriscono tranquillamente le falsificazioni della realtà propalate dal presidente del Consiglio sul "complotto della sinistra - e di quei violenti di radicali - che vogliono impedire la presentazione delle liste del Pdl a Roma", o accettano tranquillamente il saldarsi della alleanza con Bossi sorvolando sugli amorosi sensi tra il leader della Lega e il criminale Milosevic all'epoca della guerra del Kosovo, oppure la devota partecipazione dello stato maggiore leghista alla messa degli adepti del vescovo lefebvriano Williamson, antisemita e negazionista dell'Olocausto, tutto ciò indica una elevata refrattarietà al discorso finiano.

Infine, questa situazione è figlia anche di una tempistica sbagliata. L'accelerazione nello scontro con Berlusconi nasce troppo tardi perché Fini non si è curato di mantenere stretta la propria organizzazione, e fin da prima dell'unificazione è finita in gran parte nell'orbita di chi ha risorse infinite da offrire sia sul terreno politico che su quello economico; d'altro canto, si sviluppa troppo presto perché, per riconvertire in senso moderato la destra berlusconiana ed ora forzaleghista, è necessaria una lunga opera maieutica di conversione a temi e stili ben diversi da quelli con i quali essa è stata nutrita per più di un quindicennio.

(22 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Maggio 07, 2010, 12:10:31 am »

Una sfida al forzaleghismo

di Piero Ignazi

È apprezzato più del Cavaliere, ma esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni del presidente della Camera, Fini?
 
I l conflitto tra Fini e Berlusconi riflette due diverse proposte politiche. Il presidente della Camera, con un percorso accidentato e non rettilineo, è ormai giunto a identificarsi nel conservatorismo dei leader moderati oggi al governo in Germania e Francia, e domani forse in Gran Bretagna. Piccoli segni indicano una consonanza e un riconoscimento reciproco. Ad esempio, il presidente francese Nicolas Sarkozy partecipò all'ultimo congresso di An nel 2002 e Fini ha scritto la prefazione all'edizione italiana del libro-manifesto del presidente francese. Manifestazioni di simpatia che non si esprimono certo verso il Cavaliere - al di là degli obblighi diplomatici nei confronti di un rappresentante ufficiale del governo italiano - e men che meno verso Bossi.

D'altro lato Silvio Berlusconi incarna la versione populista, aggressiva e rancorosa del neo-conservatorismo: una versione molto più vicina alla destra Usa della Sarah Palin e del movimento del Tea Party che non ai Tory britannici pro-establishment, rispettosi dei diritti delle minoranze, attenti alla coesione sociale e naturaliter intrisi di fair play politico.

Questa divaricazione cultural-politica non si traduce in un dibattito aperto all'interno del Pdl. Per due ragioni. Innanzitutto le dinamiche degli 'interna corporis' del Popolo della libertà tendono ad appiattire, e spesso a svilire, il confronto delle idee e delle proposte . La sua natura patrimonial-carismatica, cui consegue una concentrazione di poteri formali e di risorse sostanziali (ed extra-politiche) nelle mani del leader tali da sovrastare incommensurabilmente ogni altro possibile contendente, favorisce un atteggiamento di conformismo, con punte di vera e propria adulazione. Sono molti i parlamentari Pdl che in privato mugugnano scontenti della sudditanza alla Lega ma di fronte alle armi suadenti, o contundenti, del Cavaliere chinano la testa e si allineano, dato che ogni fremito di contestazione porta al suicidio politico.

Per aprire una breccia in questo resistentissimo pack siberiano Fini deve quindi superare l'handicap del differenziale di risorse in mano al presidente del Consiglio. L'unica arma a disposizione del presidente della Camera consiste nell'apprezzamento dell'opinione pubblica che, da anni, lo vede prevalere su Berlusconi. Ma tale risorsa è difficilmente spendibile all'interno se non viene sostenuta da un progetto preciso e da solide gambe.

Il secondo handicap sta nella 'sostanza' della proposta politica finiana. Apparentemente non ci sarebbe nulla di più normale nel voler orientare la destra verso posizioni 'moderate', pro-business e rispettose delle regole e degli equilibri istituzionali, ancorata ai valori nazionali e aperta al cambiamento, all'Europa, al mondo. Il punto è che la destra forzaleghista, di cui il berlusconismo non è che una declinazione, è assolutamente eccentrica nel panorama delle forze conservatrici dei paesi di democrazia consolidata.

Il problema si restringe allora ad un interrogativo: esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni di Fini, oppure 15 anni di radicalizzazione continua del conflitto politico e di demonizzazione degli avversari condotta da Berlusconi - e da Bossi - ha ristretto a poca cosa quel tipo di elettorato? Quando gli elettori di centrodestra digeriscono tranquillamente le falsificazioni della realtà propalate dal presidente del Consiglio sul "complotto della sinistra - e di quei violenti di radicali - che vogliono impedire la presentazione delle liste del Pdl a Roma", o accettano tranquillamente il saldarsi della alleanza con Bossi sorvolando sugli amorosi sensi tra il leader della Lega e il criminale Milosevic all'epoca della guerra del Kosovo, oppure la devota partecipazione dello stato maggiore leghista alla messa degli adepti del vescovo lefebvriano Williamson, antisemita e negazionista dell'Olocausto, tutto ciò indica una elevata refrattarietà al discorso finiano.

Infine, questa situazione è figlia anche di una tempistica sbagliata. L'accelerazione nello scontro con Berlusconi nasce troppo tardi perché Fini non si è curato di mantenere stretta la propria organizzazione, e fin da prima dell'unificazione è finita in gran parte nell'orbita di chi ha risorse infinite da offrire sia sul terreno politico che su quello economico; d'altro canto, si sviluppa troppo presto perché, per riconvertire in senso moderato la destra berlusconiana ed ora forzaleghista, è necessaria una lunga opera maieutica di conversione a temi e stili ben diversi da quelli con i quali essa è stata nutrita per più di un quindicennio.

(23 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-sfida-al-forzaleghismo/2125704/18
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« Risposta #34 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:47:27 pm »

Se Obama chiama Giorgio

Piero Ignazi

Per l'amministrazione americana il presidente Napolitano è il garante della nostra politica estera. Ecco perché
 

L'invito di Barack Obama al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha colto di sorpresa per i tempi irritualmente stretti richiesti dall'amministrazione democratica per organizzare la visita di Stato. Altrettanto irrituali per un incontro a livello non-governativo sono stati l'agenda fittissima e il taglio politico degli incontri. Quasi scontata invece, ma pur sempre significativa, la cordialità con la quale è stato accolto il presidente.

Tempi stretti e un programma politicamente densissimo riflettono, oltre che una considerazione particolare per il capo dello Stato italiano, trasparenti preoccupazioni degli Usa per il corso degli eventi in Italia. Gli Stati Uniti sono sempre più inquieti per la disinvoltura delle relazioni bilaterali e personali del nostro governo. Ad impensierire non sono solo i rapporti informali di Silvio Berlusconi con Vladimir Putin, chiaramente preferito al presidente russo Dmitry Medvedev benché quest'ultimo sia più aperto e modernizzante; lasciano perplessi anche l'ostentata cordialità con il dittatore di Tripoli (un conto è normalizzare le relazioni, un altro appaltargli il controllo dell'immigrazione e farlo scorrazzare per Roma con la sua corte per una settimana), l'affabilità con l'autocrate bielorusso Aleksandr Lukashenko, la recente apertura di credito nei confronti del Venezuela di Hugo Chávez.

Di fronte a questa sorta di "nonchalance" nelle nostre relazioni internazionali - atteggiamento che riflette antichi vizi nazionali, dal fastidio per l'intrappolamento in alleanze non dirette da noi alla dispersione degli obiettivi - il presidente Napolitano ha assunto agli occhi dell'amministrazione Obama il ruolo di garante della continuità, atlantica ed europeista, della politica estera italiana.
La ragione è evidente: se sono i rapporti diretti e personali a determinare i nostri orientamenti in politica estera, allora ne consegue che, una volta uscito dalla Casa Bianca "l'amico George", l'atteggiamento del governo italiano può cambiare anche nei confronti dell'America. E in effetti, nella stampa di destra sta spirando un inedito vento anti-americano.

Il capo dello Stato si è presentato a Washington per fugare queste preoccupazioni (e non sappiamo quanto ci sia riuscito vista la cordialità da vecchi amici esibita dal ministro degli esteri Franco Frattini con il presidente venezuelano Chávez subito dopo gli incontri americani); in più, è stato ricevuto in qualità di "ambasciatore informale" dell'Unione europea. Il nostro presidente condivide con la regina Elisabetta II il ruolo di senior leader in Europa, ma diversamente dalla sovrana britannica ha un passato politico lunghissimo e articolato. Conosce le dinamiche dei conflitti politici interni ed internazionali. Soprattutto, è l'unico leader in carica di una generazione che ha conosciuto la guerra e le divisioni ideologiche della guerra fredda; ed ha sperimentato su di sé le contraddizioni di quegli anni, dimostrando come quelle contraddizioni possano superarsi in una ottica di convivenza civile e di reciproco rispetto, all'interno degli Stati e tra gli Stati.

Insomma, la peculiare biografia politica di Napolitano ne fa un interlocutore privilegiato degli Stati Uniti sia per i rapporti bilaterali che, ancor più, per i rapporti tra Usa ed Europa. L'europeismo spinelliano del presidente lo differenzia dalle cautele e dagli egoismi nazionali di tutti gli altri capi di governo europei. Di fronte alla crisi dell'euro, i balbettamenti di una Merkel sempre più ingobbita nella chiusura della fortezza Deutschland contro i pigs mediterranei, la paurosa crisi di identità della Francia sarkoziana, la depressione spagnola, triste come una movida bagnata e troppo ebbra, potrebbero concedere, per una volta, un ruolo trainante all'Italia. Il presidente ha rappresentato oltre Atlantico il volto europeista del Vecchio Continente con la credibilità che la sua storia gli concede.
Ma Napolitano ha solo un ruolo simbolico. Quello operativo spetta al governo Berlusconi. Purtroppo le argomentazioni con cui è stata presentata la manovra finanziaria vanno nella direzione opposta. Quando il presidente del Consiglio parla di "manovra causata dalla crisi greca e imposta dall'Europa" rinverdisce gli stereotipi anti-europei echeggiati già all'epoca dell'introduzione dell'euro (anche dal ministro Tremonti). Un orientamento lontano mille miglia dall'europeismo del Quirinale.
E così zigzagando, negli Usa crescono le perplessità sul nostro Paese.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/se-obama-chiama-giorgio/2128369/18
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« Risposta #35 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:54:43 am »

Big bang per Silvio

di Piero Ignazi

Berlusconi sta arrancando e ora deve temere più che contare su Bossi, Fini e Casini

(15 luglio 2010)

Le risorse del Cavalier Berlusconi sono innumerevoli e l'errore più grande che si possa fare è di darlo per "finito". Coloro che nel passato avevano pronosticato il suo tramonto politico sono sempre stati smentiti. Anche ora, nonostante le nubi che si addensano, il presidente del Consiglio potrebbe inventare qualche mossa spiazzante e rimettersi al centro dei giochi. Le disponibilità finanziarie illimitate e il loro utilizzo generoso e spregiudicato, il controllo dei media, il potere derivante della carica istituzionale che occupa, i mille contatti e i mille dossier di cui dispone, costituiscono un arsenale formidabile. Nessuno può muoversi su tanti piani e con tante armi.

Detto questo, però, il primo ministro sta arrancando. Sulla manovra non è riuscito a cambiare praticamente nulla se non alcuni provvedimenti dal sapore quasi provocatorio come il taglio delle tredicesime alle forze di polizia (ma altri ne restano, come il blocco dell'anzianità alle categorie sociali "nemiche"). Il ministro dell'Economia Tremonti pare divertirsi a infierire: volteggiando come un torero nell'arena, prima fa inferocire toro berluscones con mille provvedimenti-banderillas, poi, tra una veronica e l'altra, l'infilza con la blindatura europea dei conti.

Il presidente della Camera, dal canto suo, sempre più algido sul suo scranno, lo attende al varco delle intercettazioni mantenendo, in attesa dell'ora X, una apnea degna di Enzo Maiorca.

Il "fido" Bossi, come sempre, pensa ai propri interessi e sarà di nuovo il primo a dargli il bacio della morte, 16 anni dopo, se necessario (se cioè, ad esempio, l'opposizione stringesse un patto scellerato con il Carroccio del tipo, a voi il federalismo a noi la testa di Berlusconi in un governissimo per le riforme).

Infine i suoi fedelissimi si stanno compattando dietro di lui come neve al sole: ognuno con la propria corrente, e alcuni con la prospettiva di una estate al fresco, dal coordinatore del Pdl, Denis Verdini, all'amico dei mafiosi - ma solo fino al 1992 - Marcello dell'Utri.
Per fortuna c'è l'opposizione a dargli un po' di respiro. L'ottimo Bersani continua a lamentarsi che così non si può andare avanti, e in effetti molti nel Pd ne sono convinti. Di Pietro batte e ribatte sempre sullo stesso tasto, ma qualche altra nota non farebbe male, tanto per capire cosa pensa del mondo.

Rimane Pier Ferdinando Casini. Dopo il patto della crostata abbiamo quello della cassata, vista la stagione. Casini è stato convocato dall'anfitrione Vespa ad una cena con il Cavaliere, con contorno di banchieri e cardinali, forse per discutere del raffinato libretto di Paolo Prodi e Guido Rossi dedicato al "Non rubare", o forse, più prosaicamente, per invitare il leader dell'Udc a divorziare di nuovo dall'opposizione e tornare nella vecchia famiglia. Dopo un periodo di appannamento Casini torna ad essere corteggiato. Respinte le avances dalemiane di questa primavera, ora si fa sotto di nuovo il Cavaliere azzurro. A questo punto Pierferdi deve decidere se continuare la ricerca di altri pretendenti o accasarsi presso il Panopticon delle libertà vigilate.

Vista la situazione gelatinosa in cui si trova il Pdl, al nuovo venuto si aprirebbero anche spazi interessanti, tutti da giocare. Ma il suo sarebbe anche un correre in soccorso di Berlusconi, con il rischio di rafforzare lui e, di riflesso, l'opposizione interna, rimanendo così stretto in mezzo. Avrebbe invece tutt'altro respiro una corsa solitaria alla ricerca di una nuova aggregazione con energie fresche. In fondo è ora che ci sia una circolazione delle élite a destra.

La classe politica della destra è rimasta inchiodata al 1994: i leader sono sempre gli stessi da allora, e Bossi ha addirittura superato ogni record di permanenza nella poltrona di segretario tra tutti i partiti europei. Per dare un metro di paragone della stagnazione, 15 anni sono quelli che separano il primo governo centro-sinistra di Moro (1963) dal suo rapimento del 1978. Distanze abissali, dove era cambiato tutto.

Il malessere dell'area governativa segnala che siamo vicini al momento del big bang, della ridefinizione dei rapporti di forza interni alla galassia del centro-destra, un po' come accadde alla Dc e ai suoi eredi all'inizio degli anni '90. Sarebbe questa la vera fine della transizione.

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« Risposta #36 inserito:: Luglio 30, 2010, 12:20:14 pm »

L'impossibile scalata al partito carismatico

Piero Ignazi

Il conflitto tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è destinato a ridefinire il profilo del Pdl sia sul piano organizzativo che sul piano politico. Nei partiti i cambiamenti organizzativi – ma anche le semplici richieste di cambiamenti – riflettono quasi sempre (richieste di) nuove strategie politiche. Anche in questo caso l'offensiva tambureggiante del co-fondatore del Popolo della libertà per un diverso assetto interno non si limitava a qualche modifica statutaria ma investiva l'identità stessa del partito.

Chiedere più democrazia interna e ruoli realmente paritari in un partito a configurazione simil-carismatica qual è il Pdl comporta un cambiamento di natura, un salto di specie. Significa azzerare il capitale simbolico costruito in un quindicennio da Silvio Berlusconi sulla sua figura di leader in grado di risolvere ogni problema e di superare ogni ostacolo, ribaltando previsioni e certezze acquisite. Tutta la storia del centro-destra post-Tangentopoli narra delle sue gesta, mentre gli altri, da Fini a Bossi (e a Casini, all'epoca), sono relegati al ruolo di comprimari: essenziali per governare, ma sideralmente lontani in voti e in risorse.

Date queste premesse, era evidente che la fusione di An e Forza Italia avrebbe lasciato a Fini solo un ruolo di co-partnership formale. Semmai il leader di An poteva contare su un progetto di medio periodo, e cioè conquistare il nuovo partito dal basso, utilizzando le risorse militanti che aveva portato in dote al Pdl, le uniche in cui potesse vantare un reale vantaggio su Forza Italia. Ma questo progetto presupponeva una vita di partito "normale", tradizionale, fatta di processi di selezione della classe politica pidiellina dal basso, attraverso celebrazioni di congressi ed elezioni degli organi.

In An, proprio perché è sempre stato un partito diviso in correnti (così come lo era, e ferocemente, l'antesignano Msi), una prassi del genere era moneta corrente, anche se una certa propensione al "cesarismo" era affiorata fin dal 1994. In Forza Italia, invece, la fluidità delle regole interne e il potere carismatico del fondatore hanno lasciato poco spazio a queste prassi, spesso liquidate come un residuo dei "vecchi" partiti. Ammettendo che il progetto di Fini al momento della fusione in Pdl fosse quello della conquista del basso, esso avrebbe però dovuto superare due ostacoli, organizzativi e politici: sul primo versante, la scarsa predisposizione alla "vita normale" di partito non solo da parte degli ex forzisti ma anche dei suoi, data la centralizzazione e verticalizzazione del potere interno nella stessa An; sul secondo, l'opacità di uno specifico politico-culturale di An. Questo secondo aspetto costituisce tuttora un'area grigia nell'interpretazione della crisi del Pdl.

Le ricerche condotte sugli elettorati dei due partiti negli anni precedenti alla fusione hanno evidenziato un processo di osmosi cultural-politica accelerata. Le "tradizioni" di An, che si tingevano sempre un po' troppo di nero quando emergevano (si vedano i festeggiamenti per la vittoria di Gianni Alemanno al comune di Roma), erano andate diluendo in un neoconservatorismo indistinto e inconsapevole, e quindi sostanzialmente accodato alla versione berlusconiana.

Solo ora Fini ha tracciato il profilo di partito ideologicamente distinto dal mainstream berlusconiano quando ha proposto una destra classicamente moderata-conservatrice sul registro di quelle europee, senza forzature istituzionali e appelli populistici. Nel presentare questa proposta, ha posto, inevitabilmente, anche il problema di una diversa gestione del partito. Movendosi sui due versanti – dando consistenza a una identità nuova degli ex An, identità alla quale però non aderiscono molti suoi ex sodali già sfiancati dal passaggio al post-fascismo, e insistendo su un partito meno dipendente dal (carisma del) leader – il presidente della Camera tenta un'operazione di rinnovamento interno ad alto rischio perché, ancor più del profilo ideologico, la natura di partito personal-carismatico del Pdl non può mutare senza effetti catastrofici. E di fronte al rischio di una catastrofe organizzativa ogni partito si chiude a riccio a difesa dell'esistente.

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 08:03.
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« Risposta #37 inserito:: Agosto 12, 2010, 08:25:02 am »

La messa in scena è finita

di Piero Ignazi

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi".

Oggi non più

(06 agosto 2010)

Partiamo da cose minime: un ministro (Umberto Bossi) che si offre ai flash dei fotografi in un gesto osceno; un altro ministro del gentile sesso (Michela Vittoria Brambilla) che viene ritratta a seno nudo in una festa opulenta dell'establishment berlusconiano (il classico schiaffo alla miseria...); un presidente del Consiglio che ironizza volgarmente sul cognome di un deputato (Italo Bocchino). Certo, bazzecole rispetto ai gravi problemi del Paese.

Ma questi episodi non sono forse tracce, spie, dello stile e della mentalità della classe politica di governo? L'esibizione della ricchezza e dello sfarzo da un lato, la compiacenza , quasi la naturalezza, del gesto e della battuta da trivio dall'altro, sono elementi costitutivi della cultura politica del centrodestra, e come tali meritevoli di analisi più che di "condanne". Il dileggio per la "buona creanza", irrisa dall'esaltazione futuristica per le malandrinate dai cantori del berlusconismo, e l'ostentazione del privilegio dato dal denaro, non hanno mai giocato contro il centrodestra. Anzi, hanno suscitato quella simpatia servile e canagliesca, insita nel nostro carattere nazionale, per lo scherno verso tutto e tutti ad opera del potente di turno.

Alla radice del successo del forzaleghismo sta il ribaltamento dei codici di comportamento, l'autoaffermazione proteica e ribalda rispetto all'establishment, la rottura delle consuetudini e dei riti della politica, la liceità del "desiderare" senza inibizioni: in sostanza, un disagio freudiano della civiltà. Tutto ciò era forse inevitabile nel passaggio di regime dei primi anni Novanta. Erano cresciuti ceti sociali non rappresentati da alcuno, nemmeno dal socialismo craxiano, troppo vecchio intriso com'era, al suo meglio, di umori garibaldin-turatiani, per essere il cantore della nuova Italia produttiva, faber ed acquisitiva, desiderosa di conquistare il proprio posto sotto i riflettori. Solo forze nuove potevano esprimere l'energia vitale di quelle componenti sociali: in assenza di interpreti credibili dei valori repubblicani e universalistici - del resto, come poteva esserlo un partito comunista appena riverniciato, e male, di socialdemocrazia?

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi", e non staremo con il ditino alzato a farvi vergognare dei vostri difetti, anzi. La forza del populismo berlusconiano passa per questo meccanismo di identificazione profonda con ceti medi in ascesa non riconosciuti nel loro ruolo, oltre che con una più ampia platea desiderante in senso lato. Tutto questo sembra in via di esaurimento. Insolenze verso gli avversari e disprezzo per il politically correct, offensive cultural-mediatiche sui totem della vulgata repubblicana-resistenziale e miraggi di miracoli economici, erano funzionali all'affermazione di un nuovo ceto politico, ma ora l'insistenza sullo stesso registro dimostra piuttosto che il centrodestra è entrato nel tunnel dell'autoreferenzialità. Le feste trimalcioniche e le vacanze da nababbi, condite da abbondanti sguaiataggini, entrano in dissonanza con le priorità dell'opinione pubblica.

Si guardino i dati delle tante ricerche condotte nell'ultimo anno. Quelli dell'SWG, ad esempio, ci dicono che a fine 2009 il 59 per cento degli italiani era convinto che l'Italia stesse regredendo, mentre era solo il 24 per cento nel 2000, e coloro che si ritenevano di "ceto medio" sono scesi dal 70 per cento del 2000 al 57 di oggi; inoltre, quasi i due terzi lamentano la scarsa "virtuosità" del Paese. Si sta sfarinando la base sociale - e anche culturale - del berlusconismo. Per questo la ripetizione delle messe in scena da Costa Smeralda et similia non crea più dinamiche di identificazione ma produce piuttosto cortocircuiti. Il nuovo del 1994 è al tramonto. La sua coazione a ripetere lo ha cacciato in un vicolo cieco, magari lungo, ma comunque cieco.

Le truppe finiane indicano un percorso diverso per interpretare le priorità di quei ceti sociali un tempo punta di diamante del berlusconismo ed ora alla ricerca di una nuova rappresentanza, con domande di una politica più sobria e meno ideologica, più concreta e meno arrembante. La "competition" è approdata anche a destra. E non è un problema di conflitti personali.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-messa-in-scena-e-finita/2132138/18
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« Risposta #38 inserito:: Agosto 12, 2010, 04:45:36 pm »

La messa in scena è finita

di Piero Ignazi

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi".

Oggi non più

(06 agosto 2010)

Partiamo da cose minime: un ministro (Umberto Bossi) che si offre ai flash dei fotografi in un gesto osceno; un altro ministro del gentile sesso (Michela Vittoria Brambilla) che viene ritratta a seno nudo in una festa opulenta dell'establishment berlusconiano (il classico schiaffo alla miseria...); un presidente del Consiglio che ironizza volgarmente sul cognome di un deputato (Italo Bocchino). Certo, bazzecole rispetto ai gravi problemi del Paese.

Ma questi episodi non sono forse tracce, spie, dello stile e della mentalità della classe politica di governo? L'esibizione della ricchezza e dello sfarzo da un lato, la compiacenza , quasi la naturalezza, del gesto e della battuta da trivio dall'altro, sono elementi costitutivi della cultura politica del centrodestra, e come tali meritevoli di analisi più che di "condanne". Il dileggio per la "buona creanza", irrisa dall'esaltazione futuristica per le malandrinate dai cantori del berlusconismo, e l'ostentazione del privilegio dato dal denaro, non hanno mai giocato contro il centrodestra. Anzi, hanno suscitato quella simpatia servile e canagliesca, insita nel nostro carattere nazionale, per lo scherno verso tutto e tutti ad opera del potente di turno.

Alla radice del successo del forzaleghismo sta il ribaltamento dei codici di comportamento, l'autoaffermazione proteica e ribalda rispetto all'establishment, la rottura delle consuetudini e dei riti della politica, la liceità del "desiderare" senza inibizioni: in sostanza, un disagio freudiano della civiltà. Tutto ciò era forse inevitabile nel passaggio di regime dei primi anni Novanta. Erano cresciuti ceti sociali non rappresentati da alcuno, nemmeno dal socialismo craxiano, troppo vecchio intriso com'era, al suo meglio, di umori garibaldin-turatiani, per essere il cantore della nuova Italia produttiva, faber ed acquisitiva, desiderosa di conquistare il proprio posto sotto i riflettori. Solo forze nuove potevano esprimere l'energia vitale di quelle componenti sociali: in assenza di interpreti credibili dei valori repubblicani e universalistici - del resto, come poteva esserlo un partito comunista appena riverniciato, e male, di socialdemocrazia?

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi", e non staremo con il ditino alzato a farvi vergognare dei vostri difetti, anzi. La forza del populismo berlusconiano passa per questo meccanismo di identificazione profonda con ceti medi in ascesa non riconosciuti nel loro ruolo, oltre che con una più ampia platea desiderante in senso lato. Tutto questo sembra in via di esaurimento. Insolenze verso gli avversari e disprezzo per il politically correct, offensive cultural-mediatiche sui totem della vulgata repubblicana-resistenziale e miraggi di miracoli economici, erano funzionali all'affermazione di un nuovo ceto politico, ma ora l'insistenza sullo stesso registro dimostra piuttosto che il centrodestra è entrato nel tunnel dell'autoreferenzialità. Le feste trimalcioniche e le vacanze da nababbi, condite da abbondanti sguaiataggini, entrano in dissonanza con le priorità dell'opinione pubblica.

Si guardino i dati delle tante ricerche condotte nell'ultimo anno. Quelli dell'SWG, ad esempio, ci dicono che a fine 2009 il 59 per cento degli italiani era convinto che l'Italia stesse regredendo, mentre era solo il 24 per cento nel 2000, e coloro che si ritenevano di "ceto medio" sono scesi dal 70 per cento del 2000 al 57 di oggi; inoltre, quasi i due terzi lamentano la scarsa "virtuosità" del Paese. Si sta sfarinando la base sociale - e anche culturale - del berlusconismo. Per questo la ripetizione delle messe in scena da Costa Smeralda et similia non crea più dinamiche di identificazione ma produce piuttosto cortocircuiti. Il nuovo del 1994 è al tramonto. La sua coazione a ripetere lo ha cacciato in un vicolo cieco, magari lungo, ma comunque cieco.

Le truppe finiane indicano un percorso diverso per interpretare le priorità di quei ceti sociali un tempo punta di diamante del berlusconismo ed ora alla ricerca di una nuova rappresentanza, con domande di una politica più sobria e meno ideologica, più concreta e meno arrembante. La "competition" è approdata anche a destra. E non è un problema di conflitti personali.

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« Risposta #39 inserito:: Agosto 29, 2010, 09:17:01 am »

Chi nomina e chi si nomina

di Piero Ignazi

L'ossificazione della nostra classe politica, a destra e a sinistra, non ha riscontri in Europa

(27 agosto 2010)

L'ossificazione della classe politica italiana è frutto di due fattori convergenti: le modalità di selezione della leadership e la vischiosità delle vecchie élite, favorita peraltro dalla scarsa aggressività delle giovani leve. I percorsi di selezione della classe dirigente di un partito si valutano sulla base di due criteri: le qualificazioni necessarie per essere candidato (chi è candidabile) e il potere di scelta sui candidati (chi ha la facoltà di eleggere/nominare la leadership). Più numerosi sono i soggetti candidabili e quelli coinvolti nella decisione, maggiori sono l'apertura e l'inclusività del partito, tanto all' interno, verso la propria base, quanto nei confronti della società civile. Il ventaglio dei concorrenti ai ruoli dirigenti può spaziare da quegli iscritti che esibiscono un particolare cursus honorum (essere parlamentari, avere ricoperto varie cariche pubbliche o di partito, essere iscritti da un certo numero di anni, ecc.), fino a cittadini senza tessera che intendono comunque candidarsi.

Gli statuti di alcuni partiti non pongono alcuna limitazione alle candidature - come per l'elezione del presidente della Repubblica o per la nomina di un pontefice - rendendo implicitamente possibile l'irruzione di figure esterne. Ma questa circostanza si manifesta solo in situazioni di grandissima difficoltà dell'organizzazione partitica. (L'elezione di François Mitterrand alla testa dei socialisti francesi nel 1971 si avvicina molto a questo caso limite).

Anche il potere di decidere sulle candidature può andare dal massimo di chiusura e di verticismo - è solo il leader che decide - al massimo di inclusività e apertura verso la società civile - tutti i cittadini sono chiamati a scegliere. La linea di tendenza seguita dai maggiori partiti europei è stata quella di spostare progressivamente il baricentro del potere di nomina dagli organi ristretti di vertice verso gli iscritti, mentre per quanto riguarda i candidabili questi continuano ad essere pescati tra i dirigenti (locali o nazionali) del partito.

La situazione italiana è del tutto eccentrica - anche in questo - rispetto al panorama europeo. Tutti i partiti, ad eccezione del Pd, adottano procedure opache e "acclamatorie" per designare i leader; o meglio per confermarli di volta in volta, vista la loro inamovibilità. E, ancor peggio, il processo di selezione negli organismi dirigenti procede ormai dall'alto in basso.

La conseguenza è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo la classe politica più vecchia e più ossificata del continente: nessuno, a parte Jean-Marie Le Pen, leader del Front National francese, supera per longevità politica alla testa del proprio partito Umberto Bossi, segretario federale della Lega dal 1991, Silvio Berlusconi, alla testa di Forza Italia-Pdl dal 1994, e Pier Ferdinando Casini anch'egli leader del Ccd-Udc dal 1994, a parte la parentesi dei cinque anni di presidenza della Camera. Anche Gianfranco Fini aveva totalizzato quasi un ventennio di conduzione del Msi-An prima di accettare la "diminutio" a cofondatore del Popolo della Libertà.

A sinistra, e specialmente nel Pds-Ds-Pd , così come nel Ppi-Margherita-Pd, invece, è stato tutto un avvicendarsi di figure diverse. Ma quello che manca ad entrambi i fronti sono nuovi dirigenti. Con un paradosso. I partiti più verticisti e chiusi come Lega e Pdl negli ultimi anni hanno messo in campo politici relativamente giovani, privi di precedenti appartenenze, nati e cresciuti politicamente nel post '94.

Al contrario, nel Pd, nonostante la vorticosa e saturnina decimazione della leadership, non è affiorato un potenziale gruppo dirigente di ricambio. Qualcuno ha avuto il suo momento di celebrità o realizzato un exploit - da Deborah Serracchiani a Matteo Renzi - ma non si vede ancora una massa critica di giovani "democrat", senza targhe pregresse, tale da prefigurare una vera e propria "circolazione dell'elite" del partito.

È proprio questo che manca al Pd: uno show-down che partendo da premesse ideali ben definite metta sotto accusa tutta la vecchia classe dirigente di ex, e si candidi ad innalzare il vessillo dei democratici, senza timidezze o retropensieri. Solo imitando i grandi innovatori, dai Willy Brandt della socialdemocrazia tedesca di fine anni Cinquanta ai Tony Blair del Labour party di metà anni Novanta, si può conquistare il potere.

La strada per farlo non passa necessariamente dalle primarie, sacro Graal illusorio del cambiamento. Passa dalle idee e soprattutto dal coraggio di sfidare gli elefanti. A destra la chiusura verticistica di quelle organizzazioni, oltre al consenso che gli attuali leader ancora riscuotono, consente di controllare e gestire il ricambio. A sinistra, invece, c'è tutta una prateria di fronte a giovani leoni e leonesse.

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« Risposta #40 inserito:: Settembre 17, 2010, 02:13:24 pm »

Quel silenzio sulla Lega

di Piero Ignazi

Le volgarità di Bossi, il crack Credinord, il flop delle ronde, gli amministratori inquisiti.

Ma nessuno ne parla più

(17 settembre 2010)

C'è una sorta di "spirale del silenzio" nei confronti della Lega Nord. Non che della Lega non si parli, tutt'altro. Ma se ne parla solo bene. Nessuno si azzarda a criticarla a muso duro. La "spirale del silenzio", espressione coniata negli anni Sessanta dalla politologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann, indica quel timore reverenziale a esprimere critiche nei confronti di qualcuno o qualcosa che "va per la maggiore". È la paura di apparire minoritari e fuori gioco a far scattare un atteggiamento di compiacenza-adeguamento nei confronti di ciò che si ritiene il parere dei più. In questo modo le opinioni dissenzienti ammutoliscono per non essere ostracizzate dal benpensare della maggioranza.

Oggi la Lega gode di una situazione di questo tipo. Dopo i suoi ultimi successi elettorali si è scatenata una corsa ad esaltarne le doti, anche a sinistra: dal modello di partito forte e radicato alla nuova e capace classe dirigente, dalle grandi intuizioni politiche al legame con il territorio, e via di questo passo. Alla Lega si consente tutto perché a criticarla non solo si viene coperti di insulti (e di minacce) ma si viene anche irrisi come quelli che "non hanno capito come va il mondo". Più o meno è lo stesso atteggiamento di sufficienza e di scherno che i post-sessantottini riservavano a chi non credeva nella rivoluzione imminente e nel salvifico libretto rosso di Mao.
Di conseguenza ora un ministro della Repubblica come Umberto Bossi può impunemente esibirsi in gesti volgari senza che venga chiamato dall'opinione pubblica informata o dalla classe dirigente di questo paese a renderne conto e, come minimo, ad esprimere pubbliche scuse. Ve lo immaginate il ministro di un altro paese europeo immortalato in quel gesto? E se anche accadesse, per quanti nanosecondi potrebbe rimanere in carica? Anche questo, oltre alle ormai consuete buffonate internazionali del nostro premier, ci separa e allontana dall'Occidente (in fondo i nostri migliori amici non sono Putin e Gheddafi?...).
L'assordante fanfara sulle magnifiche sorti e progressive della Lega nasconde però un crescendo di stonature. Già è stato steso un velo misericordioso sui lutti finanziari prodotti dalla Credinord, la banca della Lega fallita miseramente e rilevata da quell'ineffabile personaggio dei "furbetti del quartierino" che risponde al nome di Gianpiero Fiorani (Popolare di Lodi e AntonVeneta). Eppure Bossi adesso vuole "entrare nelle banche", cioè tornare alla vecchia lottizzazione. E nessuno fiata.

Persino la sicurezza, tema centrale dell'appeal leghista, mostra qualche crepa. La soluzione miracolista sostenuta a gran voce dal Carroccio era rappresentata dalle ronde. Dopo più di un anno sembra ne abbiano avvistata una a Varazze. Del resto, come era prevedibile, questo tema è scomparso dai telegiornali e dai quotidiani. Ovviamente non perché i reati siano crollati ma semplicemente perché sono occultati. Ilvo Diamanti ha più volte dimostrato il nesso strettissimo tra lo spazio dedicato dai mass media ai crimini e la percezione di insicurezza. Dopo essere stata al centro delle cronache per tutto il periodo del governo Prodi, ora di sicurezza non se ne parla più: Tg1 e Tg5 hanno più che dimezzato lo spazio a queste notizie. E l'opinione pubblica si mostra più tranquilla. Indipendentemente dal numero dei reati.

Altro mito leghista, è la qualità della sua classe dirigente: giovane, onesta, capace, motivata. Sono passati pochi mesi dall'ingresso trionfale in tante amministrazioni locali che già affiorano scandali, malversazioni e corruzione, oltre a pericolosi inquinamenti della malavita organizzata, come svelato dal blitz contro la 'ndrangheta nel luglio scorso. Quisquilie per i dirigenti leghisti, che badano al sodo e, soprattutto, si curano dei padani in erba. Non solo la scuola leghista di Bosina fondata dalla moglie di Bossi e presieduta dall'ex senatore leghista Dario Galli ha ricevuto quest'anno 800 mila euro di finanziamenti (mentre si tagliano fondi a quelle statali). Ma addirittura le scuole comunali diventano luoghi di indottrinamento politico: ad Adrio è stata inaugurata una scuola pubblica - di tutti - che sembra un campo di rieducazione politica, con simboli del partito impressi ovunque.
Orbene, di fronte alle volgarità, ai fallimenti e all'aggressività illiberale leghista sarebbe tempo di rompere la spirale del silenzio.

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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 08, 2010, 12:57:31 pm »

La sinistra ha perso il popolo

di Piero Ignazi

Il vero conflitto oggi in Europa non è tra moderati e progressisti, bensì tra questi ultimi e l'estrema destra

(08 ottobre 2010)

Manifestazione Pd Manifestazione PdAlla fine degli anni Novanta la sinistra dominava sul continente europeo: 14 dei 15 paesi dell'Ue pre-allargamento avevano governi a guida socialista. Il peccato originale della sinistra del nuovo secolo risale forse a quel momento. Allora si manifestò una sorta di delirio di onnipotenza, condensato nella convinzione di gestire la globalizzazione economica piegando ai propri fini (crescita e welfare) gli strumenti dell'avversario (apologia del privato e dell'individuo, deregulation e finanziarizzazione).
Questo passaggio a destra, intellettuale e politico, si poggiava su motivazioni fondate. In primo luogo, la convinzione che il modello di sviluppo dei primi trent'anni non producesse più le risorse necessarie per il mantenimento delle prospettive di crescita e benessere con cui era cresciuta la generazione del baby boom, e che quindi bisognasse cercare qualcosa di nuovo e alternativo. A sostegno di questo assunto era venuta la teorizzazione della "terza via", un autentico nuovo manifesto della socialdemocrazia europea se fosse stato seguito e adattato con coerenza invece di ridurlo ai lustrini della "cool Britannia" blairiana.

Dalla consapevolezza dell'usura del modello di welfare postbellico-keynesiano, e dal convincimento di poter attrarre cospicue fette di elettorato "borghese" con una agenda "alla terza-via", nasce l'abbandono di alcuni cardini dell'ideologia socialdemocratica. Certo, l'apertura al liberalismo sul piano dei diritti ha conquistato nuovi ceti sociali - giovani, acculturati, urbani, attivi nelle professioni intellettuali - al punto da diventare interlocutori privilegiati delle sinistre europee. Ma il disdegno delle radici e la difficoltà a coniugare la nuova agenda post-materialista con gli interessi delle classi popolari ha lacerato il tessuto sociale di tanti partiti socialisti.

Oggi il profilo socio-demografico di queste formazioni politiche non si discosta granché da quello dei partiti moderati, se non per una diversa presenza dei dipendenti (pubblici in particolare) nei primi, e dei lavoratori autonomi nei secondi. Ma in termini di fasce di reddito non c'è più l'enorme differenza di trent'anni fa. Senza mitizzare, però: il partito conservatore attraeva voti operai e popolari (il fenomeno del working class torysm), e lo stesso valeva per i gollisti francesi e per i partiti confessionali in Italia, Germania, Austria e Benelux.
Tuttavia è solo a partire dagli anni Ottanta che la stratificazione sociale interna ai grandi partiti di destra e di sinistra è andata assomigliandosi sempre più. E ciò per una mutazione interna ai partiti socialisti che hanno perso consenso tra i ceti popolari.

Dove sono andati quegli elettori? Oltre che rifugiarsi nell'astensione si sono riversati verso una nuova offerta politica, quella dell'estrema destra. Già tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila, partiti come i liberalnazionali austriaci di Jorg Haider e il Front National francese di Jean-Marie Le Pen avevano tra i rispettivi elettorati una quota di operai superiore a quella dei partiti socialisti.
Questo fenomeno non si è arrestato con il nuovo secolo, anzi. L'11 settembre - che ha inciso più nella politica interna dei vari paesi occidentali che non nel sistema internazionale - ha immesso una tale quantità di ansia collettiva, di xenofobia e di chiusura da rendere sempre più solido il distacco dei ceti popolari dai loro referenti storici.

Su questi temi l'estrema destra esercita grande appeal, ma non ha nulla di credibile da offrire sul piano economico e sociale. Un terreno, questo, sul quale è del tutto scoperta (rarissimi i suoi elettori che credono abbia ricette efficaci), mentre con la crisi ritorna centrale la domanda di una "economia giusta".

Per quanto possa sembrare paradossale, il vero conflitto oggi in Europa non contrappone moderati a progressisti, bensì la sinistra all'estrema destra: perché la posta in gioco è la (ri)conquista del voto popolare. È per questo che dal Labour di Ed Miliband al Ps di Martine Aubry risuonano con nuova forza echi "sociali". È per questo che le parole di giustizia ed equità sociale tornano ad affacciarsi nella loro agenda politica. È per questo che anche in Italia il Pd dovrebbe riscoprire la sua vocazione popolare: per imboccare la strada di una economia ed una società "giuste".

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« Risposta #42 inserito:: Novembre 19, 2010, 10:06:20 am »

L'opinione

I mille del Pd

di Piero Ignazi

Il partito è percepito indefinito, incerto, paralizzato dai contrasti interni.

È necessaria una nuova rivoluzione interna che lasci spazio ai dirigenti locali e ai giovani scalpitanti

(19 novembre 2010)

Fini e i suoi occupano la scena mediatica e politica da mesi, Casini e Rutelli tessono intese con agende fitte di incontri, Vendola fa sognare la sinistra radical-chic, e non solo quella. Il Pd e il suo segretario, invece, scivolano lentamente nell'irrilevanza. Non una iniziativa, non un gesto, non una proposta. Eppure esiste ancora un popolo democratico pronto a mobilitarsi. Basti vedere la partecipazione alle primarie per il candidato sindaco di Milano che sconta appena un lieve calo rispetto al 2006, quando il centro-sinistra era sulla cresta dell'onda.

Anche se la maggioranza non ha votato per il candidato ufficiale del Pd ma ha preferito l'outsider Pisapia, la mobilitazione degli elettori al di là della cartolina precetto del partito dimostra quanto sia ampia la riserva di passione politica a sinistra. Il problema di Bersani sta nella capacità di suscitare e intercettare questa mobilitazione. Fin qui a raccogliere i frutti sono stati i concorrenti. Perché il Pd continua ad essere percepito indefinito, incerto, e attraversato da una continua lotta per bande. Qualunque cosa dica il segretario si leva immancabile il controcanto di qualcun altro, pronto a contestare, sminuire, protestare.

Persino di fronte a quello che dovrebbe essere il terreno privilegiato di qualsiasi partito di sinistra, la difesa degli interessi dei lavoratori, il partito rimane paralizzato dai contrasti interni e dalle diverse fedeltà sindacali delle sue correnti.

In questa situazione le chance di ripresa del partito sono scarse, come segnala anche la vittoria di Giuliano Pisapia. Eppure il Pd dispone di una classe politica, composta da migliaia tra amministratori locali e responsabili di partito in periferia, di esperienza e capacità quanto nessun altro partito. Mentre il PdL ha solo negli ex di An e in qualche riciclato della prima repubblica personale navigato, e la Lega affastella giovanotti ambiziosi e affamati di prebende le cui carenze emergono ogni giorno di più, il partito di Bersani gode di un serbatoio amplissimo di dirigenti sperimentati.

Questo vantaggio competitivo rispetto agli altri partiti non riesce però ad esprimere tutte le proprie potenzialità perché frenato da un gruppo dirigente, oltre che diviso, ripiegato su sé stesso. La sua autoreferenzialità si manifesta tutta nell'essere preda di conflitti che ormai oscillano tra il ridicolo e il patologico (stai con Veltroni o con D'Alema?), o che rimandano a questioni irrisolte - partito a vocazione maggioritaria o ulivista? partito di sinistra o di centrosinistra? partito socialdemocratico o democratico (e solo il cielo sa cosa significa "democratico" nella politica europea contemporanea).

Senza smontare questi cortocircuiti perversi, il flusso di innovazione, sia in termini di idee che di personale politico, rimane bloccato. Anche se Bersani ha avuto la buona intuizione di nominare in segreteria tutti quarantenni, nessuno di questi, salvo rarissime eccezioni, ha assunto una sua fisionomia riconoscibile.

Il meeting di Firenze dei "rottamatori", organizzato da Matteo Renzi e Pippo Civati, riflette e risponde a questo blocco interno. Potrà anche aver avuto qualche sbavatura narcisistica, ma la partecipazione "di massa" e il clima effervescente che si respirava alla stazione Leopolda hanno come paragoni solo l'assemblea fondativa del Pd.

Quello che è mancato a Firenze è un progetto politico che desse sostanza alla domanda di ricambio generazionale.

Quando la socialdemocrazia tedesca con il mitico congresso di Bad Godesberg e lo stesso PCI occhettiano di fine anni ottanta diedero vita a straordinarie trasformazioni politiche, lo fecero anche sulla spinta di profondi rinnovamenti generazionali. Il Pd sconta tuttora due peccati originari: essere nato senza chiarirsi fino in fondo sui "fondamentali", ed aver buttato alle ortiche, considerandolo un fallimento, il grande risultato del 2008, quando raggiunse la percentuale più alta mai toccata dalla sinistra in questo paese.
Per superare questi due handicap non basta l'onesta e generosa dedizione di una persona per bene come Bersani: è necessaria una nuova, ulteriore rivoluzione interna che lasci spazio ai "mille" dirigenti locali in attesa e ai giovani scalpitanti "leopoldini".
Il Pd , per sua fortuna, dispone di risorse umane in abbondanza. Il futuro del partito è legato alla loro capacità di "prendere il potere".

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« Risposta #43 inserito:: Novembre 26, 2010, 05:22:16 pm »

Chi ha in mano il futuro del Pd

di Piero Ignazi

Il partito è percepito indefinito, incerto, paralizzato dai contrasti interni.

È necessaria una nuova rivoluzione interna che lasci spazio ai dirigenti locali e ai giovani scalpitanti

(19 novembre 2010)

Fini e i suoi occupano la scena mediatica e politica da mesi, Casini e Rutelli tessono intese con agende fitte di incontri, Vendola fa sognare la sinistra radical-chic, e non solo quella. Il Pd e il suo segretario, invece, scivolano lentamente nell'irrilevanza. Non una iniziativa, non un gesto, non una proposta. Eppure esiste ancora un popolo democratico pronto a mobilitarsi. Basti vedere la partecipazione alle primarie per il candidato sindaco di Milano che sconta appena un lieve calo rispetto al 2006, quando il centro-sinistra era sulla cresta dell'onda.

Anche se la maggioranza non ha votato per il candidato ufficiale del Pd ma ha preferito l'outsider Pisapia, la mobilitazione degli elettori al di là della cartolina precetto del partito dimostra quanto sia ampia la riserva di passione politica a sinistra. Il problema di Bersani sta nella capacità di suscitare e intercettare questa mobilitazione. Fin qui a raccogliere i frutti sono stati i concorrenti. Perché il Pd continua ad essere percepito indefinito, incerto, e attraversato da una continua lotta per bande. Qualunque cosa dica il segretario si leva immancabile il controcanto di qualcun altro, pronto a contestare, sminuire, protestare.

Persino di fronte a quello che dovrebbe essere il terreno privilegiato di qualsiasi partito di sinistra, la difesa degli interessi dei lavoratori, il partito rimane paralizzato dai contrasti interni e dalle diverse fedeltà sindacali delle sue correnti.

In questa situazione le chance di ripresa del partito sono scarse, come segnala anche la vittoria di Giuliano Pisapia. Eppure il Pd dispone di una classe politica, composta da migliaia tra amministratori locali e responsabili di partito in periferia, di esperienza e capacità quanto nessun altro partito. Mentre il PdL ha solo negli ex di An e in qualche riciclato della prima repubblica personale navigato, e la Lega affastella giovanotti ambiziosi e affamati di prebende le cui carenze emergono ogni giorno di più, il partito di Bersani gode di un serbatoio amplissimo di dirigenti sperimentati.

Questo vantaggio competitivo rispetto agli altri partiti non riesce però ad esprimere tutte le proprie potenzialità perché frenato da un gruppo dirigente, oltre che diviso, ripiegato su sé stesso. La sua autoreferenzialità si manifesta tutta nell'essere preda di conflitti che ormai oscillano tra il ridicolo e il patologico (stai con Veltroni o con D'Alema?), o che rimandano a questioni irrisolte - partito a vocazione maggioritaria o ulivista? partito di sinistra o di centrosinistra? partito socialdemocratico o democratico (e solo il cielo sa cosa significa "democratico" nella politica europea contemporanea).

Senza smontare questi cortocircuiti perversi, il flusso di innovazione, sia in termini di idee che di personale politico, rimane bloccato. Anche se Bersani ha avuto la buona intuizione di nominare in segreteria tutti quarantenni, nessuno di questi, salvo rarissime eccezioni, ha assunto una sua fisionomia riconoscibile.

Il meeting di Firenze dei "rottamatori", organizzato da Matteo Renzi e Pippo Civati, riflette e risponde a questo blocco interno. Potrà anche aver avuto qualche sbavatura narcisistica, ma la partecipazione "di massa" e il clima effervescente che si respirava alla stazione Leopolda hanno come paragoni solo l'assemblea fondativa del Pd.
Quello che è mancato a Firenze è un progetto politico che desse sostanza alla domanda di ricambio generazionale.

Quando la socialdemocrazia tedesca con il mitico congresso di Bad Godesberg e lo stesso PCI occhettiano di fine anni ottanta diedero vita a straordinarie trasformazioni politiche, lo fecero anche sulla spinta di profondi rinnovamenti generazionali. Il Pd sconta tuttora due peccati originari: essere nato senza chiarirsi fino in fondo sui "fondamentali", ed aver buttato alle ortiche, considerandolo un fallimento, il grande risultato del 2008, quando raggiunse la percentuale più alta mai toccata dalla sinistra in questo paese.

Per superare questi due handicap non basta l'onesta e generosa dedizione di una persona per bene come Bersani: è necessaria una nuova, ulteriore rivoluzione interna che lasci spazio ai "mille" dirigenti locali in attesa e ai giovani scalpitanti "leopoldini".

Il Pd , per sua fortuna, dispone di risorse umane in abbondanza. Il futuro del partito è legato alla loro capacità di "prendere il potere".

   
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 10, 2010, 10:24:38 am »

Italia isolata e irrilevante

di Piero Ignazi

I rapporti di Berlusconi con Putin e dittatori vari ci hanno allontanato dagli Usa e dall'Europa

(10 dicembre 2010)

La marea di documenti lanciati in rete da WikiLeaks ha sfondato porte aperte. Contrariamente alle notizie sulle operazioni "sporche" in Iraq o in Afghanistan, messe in circolazione da WikiLeaks nei mesi scorsi e che svelavano fatti ignoti o occultati, i dispacci della diplomazia americana hanno semplicemente confermato quello che i media tradizionali avevano già raccontato su simpatie, idiosincrasie e diffidenze dei diplomatici Usa. Per quanto riguarda il nostro Paese i resoconti sulla "affidabilità" del premier Silvio Berlusconi sono crudi e taglienti. Niente di nuovo, ovviamente, per chi abbia un minimo di senso critico sull'operato del governo e del suo capo. Ma c'è da dubitare che queste informazioni sfondino il muro di omertà costruito dalle televisioni nazionali attorno al presidente del Consiglio al quale hanno dedicato, e continuano a dedicare, servizi trionfalistici sulle sue attività internazionali. Basti ricordare il capolavoro di disinformatzia operato dal Tg1 di Clemente Mimun quando, nel servizio dedicato all'intervento di Berlusconi all'Onu nel 2005, al posto della platea vuota e distratta vennero inseriti filmati di applausi scroscianti di un'altra seduta. Per una cosa del genere, in un paese civile, sarebbero cadute delle teste. Ma in Italia non era la prima volta che si faceva un "servizio" a un potente. Solo che nei confronti di Berlusconi la disinformatzia è diventata una costante.

Lo stesso canovaccio si è infatti ripetuto in occasione del discorso di Berlusconi al congresso americano del 2006, osannato come un grande successo internazionale quando invece, come messo a nudo dai documenti di WikiLeaks, fu una sceneggiata da regime con stagisti e uscieri a riempire gli scranni vuoti.

Al di là di queste miserie rimane il problema di fondo: qual è la politica estera italiana? È allineata agli standard, agli obiettivi e ai presupposti dei partner europei e degli alleati atlantici? O ancora una volta vuole le "mani nette", vuole giocare in solitaria? Il ministro degli Esteri Franco Frattini, messo alle strette sui rapporti Italia-Russia criticati dagli Usa, ha avuto uno scatto, inconsueto per la sua esperienza, quando ha scandito che "nessuno può dettare all'Italia la sua politica energetica". Una espressione che ha fatto aleggiare il fantasma di Enrico Mattei. Ma delle due l'una: o questa reazione riflette un nervo scoperto - che duole allo stesso Frattini - o più semplicemente ci sono interessi diversi tra l'Italia e i suoi alleati al di qua e al di là dall'Atlantico.
Entrambe le ipotesi sono inquietanti. La prima rinforza i sospetti che i rapporti così amichevoli tra Berlusconi e la dirigenza russa e la frequenza insolita di incontri - superiore a quella con qualsiasi altro alleato occidentale - sconfinino anche in ambiti privati. Ma ammettendo per carità di patria che così non sia, anche la seconda ipotesi non lascia tranquilli. Tutt'altro. Perché significa che l'Italia non si cura più delle compatibilità delle sue azioni rispetto alle linee guida europee e americane.
In effetti sono talmente ridotti i rapporti con i tradizionali partner dell'Ue che non stupisce l'isolamento, e l'irrilevanza, in cui ci troviamo. Il "rango" del nostro Paese sta scendendo a precipizio anche e soprattutto per la valutazione che i governi dei paesi democratici danno del presidente del Consiglio. Dopo la fase della curiosità e dell'amusement - il solito "ma come sono buffi questi italiani..." - il ritorno di Berlusconi nel 2008 è stato accolto con molta più freddezza. Le gaffe a ripetizione - inarrivabile quella con la cancelliera Angela Merkel fatta aspettare per una telefonata e, soprattutto, le scelte "irrituali" quali la visita all'ultimo dittatore europeo, il bielorusso Aleksander Lukashenko, fino ad allora tenuto ai margini dalla comunità internazionale, l'ospitalità servile a Gheddafi, oltre al sostegno incondizionato alla Russia, hanno portato a una progressiva emarginazione del nostro Paese. Rompere l'isolamento di un dittatore senza fare mai cenno ai diritti umani violati, o dimostrare grande familiarità con i leader di un paese "problematico" come la Russia (il video trasmesso da Euronews che mostra la rimpatriata a tre di Putin, Medvedev e Berlusconi in qualche dacia evidenzia una familiarità inimmaginabile con Obama o Cameron o altri leader occidentali) rende anche l'Italia un Paese problematico per gli alleati.

Non illudiamoci che la presenza dei militari italiani in Afghanistan basti a tranquillizzare Washington e le altre capitali.
Quando ci si muove in solitaria e non si ha una grande reputazione alle spalle l'esito è isolamento e irrilevanza.

   
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