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Autore Discussione: MATTIA FELTRI.  (Letto 75503 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Settembre 29, 2011, 04:53:52 pm »

Politica

29/09/2011 - GIUSTIZIA, LA POLEMICA NON SI FERMA

Miracolato ma nel gelo tutti gli siedono lontano

Alla fine l'unico collega rimasto ad ascoltarlo era Fitto

MATTIA FELTRI
ROMA

Hanno persino imbarazzo a sedergli accanto, i colleghi di governo. C’è una mobilitazione planetaria: a fine giornata Bobo Maroni transiterà sotto il banco della presidenza a consegnare la fiducia al ministro delle Politiche agricole, Saverio Romano, e con lui tutti i leghisti eterodossi, cioè più maroniti che bossiani. E’ il segno della compattezza dei disperati. Non c’è traccia di franchi tiratori. C’è una maggioranza solidissima e si capisce come andrà a finire ben presto (già da quando un inarrivabile Francesco Nucara, repubblicano, dopo pranzo annuncia che voterà la sfiducia ma soltanto se il suo voto non sarà decisivo: ci mancava quella del parlamentare che si preoccupa di non contare un piffero). E però la scena è allucinata, Romano (che gironzolava per Montecitorio da mattina con un codazzo di giornalisti e soprattutto di collaboratori, e che si intratteneva coi deputati sciorinando un plateale orgoglio espresso a testa alta, un’ostentazione di sé contraddetta soltanto dalle telefonate fatte sino a notte per esplorare gli orientamenti dei deputati), adesso che si era iniziato il dibattito sedeva ai banchi del governo in un deserto manifesto e desolante.

Quando Romano si è alzato per parlare, l’unico ministro lì ad ascoltarlo era Raffaele Fitto, e sebbene il discorso avesse una nobiltà, pure una forza, e specialmente nella parte in cui si ricordava che le indagini proseguono da otto anni - una mostruosità anche per un membro così impopolare di un governo così impopolare. Ma non c’era solidarietà, c’era esibizione di lontananza: Romano aveva due poltrone vuote, una alla destra e una alla sinistra, vuote fino a quando non sono rimaste le uniche due disponibili, e una è stata svogliatamente occupata da Umberto Bossi. E si sono fatti tutti delle grasse risate ad ascoltare Sebastiano Fogliato, piemontese, esperto leghista di questioni agroalimentari che infatti l’ha buttata sul tecnico, una lunga disquisizione attorno alla competitività del sistema, ai problemi del settore, le contraffazioni, il made in Italy, e la cavalcata fra le istanze dei coltivatori diretti ha scosso l’opposizione, gente che cominciava a saltellare sui sedili, a vociare, a sghignazzare, molti avevano le lacrime agli occhi, applaudivano, gridavano e fino a un accenno di ola; e pure il presidente Gianfranco Fini si concedeva l’ironia: «Colleghi! Vi prego di trattenere il vostro entusiasmo».

Ed è stato lì, a proposito, che quelli di Futuro e libertà (con il poster di Vauro per Il Fatto, il «Pornostato» di Patonza da Volpedo squadernato sui banchi) hanno esposto un cartello dalle intenzioni di molto superiori all’effetto («A proposito di Lega-lità», coi leghisti che rispondevano in coro rivolti a Italo Bocchino: «Be-gan! Be-gan!») e Fini faceva quello che cascava dal pero, «onorevoli colleghi... vi prego... riponete... non obbligatemi...». E siccome è tutto un teatro, anche l’interpretazione del leghista Fogliato aveva una sua verità: Romano lo si vota, non lo si difende, si parla di barbabietola da zucchero.

Sono state ore di dibattito senza un brivido, le celeberrime parti in commedia, Antonio Di Pietro che in certi casi ripiomba nella catalessi dell’inquisitore, il richiamo al comma bis, ciò che si pone in essere, la fattispecie di reato, e gli rispondeva Manlio Contento, avvocato del Pdl che già aveva collaborato alla stesura dell’autodifesa di Romano e ora si produceva nell’arringa dopo la requisitoria, applausi di qui e fischi di là. Per imbattersi in qualche cosa di saggio, di non prestabilito, bisognava aspettare i sessanta secondi accordati ad Antonio Martino, il quale ha ricordato una verità accantonata fin dai tempi di Filippo Mancuso: in Costituzione (sia detto ai milioni di paladini della Carta che questo Paese annovera) la sfiducia individuale non esiste. Una questioncella su cui un dibattito sarebbe anche interessante, e infatti non lo si tiene.

Si è trascorsa parte del pomeriggio, dunque, a guardare la bella cera di Marco Milanese, appena sfuggito alla galera (come capro espiatorio il buon Alfonso Papa basta e avanza), e di nuovo colorito, baldanzoso, si dirige a petto in fuori dal capogruppo Fabrizio Cicchitto, gli racconta che gironzolava per il Transatlantico quando - toh! - si è imbattuto nel suo ex capo, in Giulio Tremonti che stava chiacchierando con Niccolò Ghedini, lo stesso Tremonti che quando si trattò di salvarlo dall’arresto non c’era, era diretto a Washington, e insomma Tremonti lo ha salutato, gli ha teso la mano, gli ha forse persino sorriso, e Milanese era di nuovo felice. Quasi quanto Romano quando i radicali hanno annunciato l’astensione - e quelli del Pd hanno ascoltato con gli occhi di fuori - e a destra tanta grazia non se l’aspettavano, tutti a pregustare persino oggi il titolo più battuto della storia: «E la sinistra si spacca».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/422534/
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« Risposta #46 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:16:47 pm »

Politica

03/11/2011 - LA CRISI, IL CASO

Rischio-default ma tra feste e missioni il governo è distratto

Il 31 ottobre Tremonti era con Bossi a Pecorara (Piacenza) alla festa della zucca

Nei giorni del disastro, troppe dichiarazioni fuori tema

MATTIA FELTRI
ROMA

Quei quattro sciocchi, persuasi che Silvio Berlusconi si fosse portato il lavoro a casa, hanno ricevuto smentita ufficiale, e di prima mattina: «... destituita di ogni fondamento anche la voce di colloqui riservati tra il presidente del Consiglio, il cancelliere Merkel e il presidente Sarkozy...». Nessuna telefonata, ha sentenziato Palazzo Chigi. Domenica e lunedì il premier era rimasto a ritemprarsi ad Arcore e le misure eccezionali - stando ai resoconti del settimanale «Oggi» ripresi da «Dagospia» - non riguardavano le tortuosità economiche ma curve più prosaiche: «Dicono che il premier fosse a festeggiare Halloween con la presunta fidanzata Katarina Knezevic» travestita da Cat Woman.

Lunedì, in particolare, mentre qui e là anche le Borse ballavano, nel villone presidenziale «c’è stata una festa in maschera per la notte delle streghe», ricorrenza nella quale si sono celebrati anche i quattro anni del nipotino Alessandro, figlio di Barbara (attuale fidanzata del bomber Pato). Poi, magari, anche la mascherata troverà rettifica, ma di certo Berlusconi è tornato a Roma martedì, di fretta e furia, quando i programmi lo volevano al focolare e davanti alla tv per il Milan in Champions League. Se gli affari vanno male - dicevano i saggi valligiani - lo stomaco non ne deve soffrire. Che poi è la variante rurale dello stracitato Ennio Flaiano sulla situazione grave ma non seria. Dunque, saltato il ponte sullo Stretto, era un peccato liquidare anche quello di Ognissanti.

E sebbene per qualcuno ormai sia sempre vacanza. «In una situazione così drammatica, Giulio Tremonti deve intervenire subito e negli ultimi tre giorni è in giro per convegni. È anche brillante, ma non si rende conto dell’urgenza e ha rovinato tutto», ha detto Romano Prodi a Radio24. «Tremonti è defilato», ha aggiunto un Vincenzo Visco inebriato dal gusto della vendetta. E infatti questo strano ministro che gira col broncetto, o così pare, tace da quando il governo ha mandato a Bruxelles la letterina dei buoni propositi che lui non ha firmato.

Assegnata al rivale di sempre, Renato Brunetta, la guida della mai abbastanza muffita «cabina di regia», Tremonti si direbbe oggi dedito al birignao e la retroscenistica più accreditata racconta di riunioni surreali, nelle quali il poco divo Giulio ha da ridire su tutto, ma non fa più nulla. Né tanto meno si dimette. Per vedere il superministro in attività, si è dovuta attendere, anche in questo caso, una sagra della zucca vuota. Riunito con gli amici leghisti in provincia di Piacenza, Tremonti ha rotto il silenzio stampa con una dichiarazione psichedelica: «Sta venendo il tempo per mettere il pane al posto delle pietre e l’uomo al posto dei lupi».

Nella stessa circostanza un altro dei nostri caposaldi, Umberto Bossi, ha proposto le gabbie previdenziali e una serie di considerazioni che hanno avuto un naturale sbocco nella pernacchia con la quale, ieri pomeriggio, ha commentato l’ipotesi del governo tecnico di Mario Monti. Nel frattempo di Berlusconi ha detto: «Tanto quello non se ne vuole andare». È vero che una volta avevamo una classe dirigente imperscrutabile e intraducibile, ma le disinvolture di oggi, mentre l’Europa viene giù, hanno piuttosto l’aria di euforia da vendemmia: numerosi economisti americani sostengono che il vero problema è l’euro, ma che Berlusconi facesse propria la diagnosi il giorno dopo aver intascato il soccorso europeo era abbastanza impronosticabile, nonostante le bizzarrie dell’uomo. La squadra lo segue a ruota.

Il neoministro Paolo Romani, da New Delhi, ha offerto rassicurazioni forse più sbrigative che apodittiche: «Il sistema Italia è più forte di quanto agenzie di rating e spread fra i Btp e i Bund tedeschi vogliano far credere». Pure questa non è una teoria così isolata, e che però trova una calorosa ospitalità nel pensiero di Romani, che in un’intervista dietro l’altra ha raccontato come gli ultimi maneggi trovino Tremonti entusiasta e l’Europa rinfrancata. Insomma, non è un esecutivo che offre l’impressione di prendere di petto la faccenda, e da molto tempo.

Dall’opposizione, che cosa avrebbero detto le migliori linguacce di centrodestra di un ministro di Prodi che, come Renato Brunetta, appena investito del ruolo di regista della crisi, fosse arrivato in ritardo al summit di governo? «Era a Pechino», dicono i suoi illustrando i non irresistibili orizzonti di un festival delle piccole e medie imprese italiane inaugurato, fra altri impegni, dal titolare della Pubblica Amministrazione. «Missione compiuta», ha infine esclamato Brunetta con un’enfasi appena inferiore a quella con cui Angelino Alfano - in un tripudio d’applausi pidiellini - ha annunciato il milione di tesseramenti al partitone. E i parecchi che, a questo punto, avessero una gran voglia di alternanza, prima si concentrino qualche minuto sullo spettacolare dibattito che nel mentre impegna il Pd: primarie sì, primarie no.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/427826/
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« Risposta #47 inserito:: Novembre 07, 2011, 10:58:50 pm »

5/11/2011

La casa di Scajola

Mattia FELTRI

Servizio Pubblico, la trasmissione di Michele Santoro, sostiene che Claudio Scajola vive ancora nella casa vista Colosseo pagatagli a sua insaputa (900 mila euro di un milione e mezzo). Scajola era così scioccato dalla scoperta del reale prezzo e dell’anonimo benefattore che decise di vendere la casa e di devolvere i soldi in beneficenza. Un anno e mezzo dopo, dicono i giornalisti di Santoro, la casa è invenduta e continua a essere abitata da Scajola. Ma non è vero: Scajola precisa di averla ceduta all’insaputa dell’acquirente.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=293
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« Risposta #48 inserito:: Novembre 07, 2011, 11:01:01 pm »

7/11/2011

Se cede l'ala popolar-tv

MATTIA FELTRI

Se ne vanno quelli di scuola liberale, quelli d’origine socialista, quelli di matrice cattolica. Con Gabriella Carlucci, Silvio Berlusconi perde anche le radici popolartelevisive: il buonsenso di Portobello e la verve del Cantagiro di cui ha impreziosito il Parlamento.

Se la lunga mano di Pierferdinando Casini plana sulla lunga coscia del Pdl (ed è la donna che pochi mesi fa definì il Cavalier Notturno un mito dei suoi figli), una specie di sentenza divina, evidentemente, è stata pronunciata.

La signora, annunciando il passaggio all’Udc, ha detto di augurarsi che i moderati possano trovare “nuove strade”. Qui viene in mente della volta in cui tamponò un bus, imboccò contromano via del Tritone e parcheggiò la Porsche sul marciapiede di Montecitorio. Solo per dire che a trovare nuove strade i moderati non si sa, ma la Carlucci è formidabile.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9406
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« Risposta #49 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:50:55 am »

Politica

16/11/2011 -

De Rita: "Il berlusconismo è finito ma se l'élite non ce la fa temo un leader populista"

"Non amo il governo che sta nascendo ma lo sosterrò perché è l'unica supplenza possibile"

Mattia Feltri

Roma

Professore Giuseppe De Rita, la seconda Repubblica e il bipolarismo paiono finiti. C'è un cambio
di scenario nella nostra società?

«Sì ma non sono sicuro che la coscienza collettiva lo stia cogliendo. Le contrapposizioni, la rabbia, il rancore e i giudizi morali come abbiamo visto nelle manifestazioni di piazza dell'altra sera, al Quirinale e davanti a Palazzo Chigi - sono ancora predominanti e non fanno capire che il ciclo del berlusconismo si è chiuso».

Lo dà per chiuso?

«Il ciclo del berlusconismo come soggettivismo etico è chiuso. Il ciclo del berlusconismo come tendenza a cavalcare la cultura popolare forse non ancora, anche se l'ultimo messaggio di Berlusconi era così ripetitivo che si aveva l'impressione di un leader incapace di trovare un linguaggio nuovo adeguato ai tempi nuovi».

Che cosa intende per ciclo del soggettivismo etico?

«Intendo la libertà intesa come libertà di essere se stessi. Non è una tendenza recente. Secondo me diventa predominante nei primi Anni Sessanta con don Milani e l'obiezione di coscienza, quando si diffonde il primato del soggetto e della coscienza. L'obbedienza non è più una virtù, dice don Milani. Poi c'è Marco Pannella con le sue battaglie referendarie: questa moglie non mi garba più, la cambio; non mi sento madre, abortisco. Poi anche l'azienda è mia e me la organizzo io. E il lavoro è mio e me lo organizzo io. Le vacanze sono mie. Il tempo è mio. Finché negli Anni Settanta finisce il mito della confessione perché anche il peccato è mio».

Il risultato finale è Berlusconi?

«Sì. Berlusconi non ha inventato niente: ha trovato un'onda alta e se l'è intestata. Ha portato il soggettivismo etico agli estremi, fino alla cultura libertina, alla licenza personale».

Viene in mente quel gran genio di Corrado Guzzanti: nel 2001 recitava il forzitaliano che faceva pipì sul sofà perché aveva vinto Berlusconi e tutto era concesso.

«Non ricordo quello sketch ma mi pare molto centrato. Soltanto che adesso la gente è stanca, si è stufata dell'abuso che Berlusconi ha fatto del soggettivismo etico. Attenzione, è un ciclo durato quasi cinquant'anni, è naturale che sia in via di estinzione».

Ritiene che stia nascendo una società più collettivista?

«è da vedere, non è detto che succederà ma è possibile. Io sono un sostenitore del ciclo comunitario, della società che coglie la sua dimensione. Bisogna vedere che cosa succede adesso».

Cioè?

«Come accennavo, credo sia finito anche il ciclo della cavalcata degli umori popolari. Non vedo nessuno da un certo punto di vista in grado di rimpiazzare Berlusconi. Mi spiego: sta arrivando un governo delle élite, costituito da rettori, prefetti, giuristi. è un governo che avrà la capacità di rappresentare la gente comune? Perché questo governo, dobbiamo dirlo, è figlio delle scelte di Francoforte e di Bruxelles ed è stato legittimato dal Quirinale. Quindi se un governo così non sa capire e non sa parlare alla gente comune, un reazione nazional popolare non sarebbe del tutto folle prevederla».

Insurrezioni di piazza?

«Non mi spingo a tanto, però il popolo italiano in fondo non è un popolo meraviglioso. Berlusconi lo ha reso per quindici anni un popolo sorridente, questo è stato il suo capolavoro. Non lo ha indurito come lo hanno indurito i suoi avversari. Ecco, i più sono rimasti sorridenti, ma il nostro è un popolo che tende a radunarsi nella piazza più stupida. Ci vorrebbe un leader autorevole, capace, sorridente...».

Oh, un Berlusconi senza difetti.

«Beh, il vero problema è se le élite deputate a quel compito sanno fare le élite per qualche anno. Me lo auguro. In fondo in Italia hanno fatto delle cose ottime. Hanno retto il paese dal 1824, l'anno in cui Giacomo Leopardi scrisse il "Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani", fino all'avvento del fascismo e anzi, al contrario di quello che si pensa anche il fascismo fu elitario: fu una dittatura all'acqua di rose, se paragonata a quelle russe o tedesche o spagnole, perché era un'élite che decideva con mano leggera. Introdusse il welfare dall'alto, ecco un esempio di governo elitario. Credo che le élite sappiano governare e spero che ci riescano, altrimenti c'è il pericolo di scuotere le piazze».

Insisto: lo schema sembra abbastanza classico: crisi della democrazia, tentativo di supplenza delle oligarchie, dittatura.

«Non credo. Sto parlando soltanto di una cultura populista e nazionalista che a naso nel Paese c'è e periodicamente si sfoga, come dicevo prima, nelle piazze più stupide. Il governo che sta nascendo non lo amo, ma bisogna crederci altrimenti salteranno fuori tutti quei sentimenti da vittoria dimezzata, da imposizione calata dall'alto, da orgoglio violato, coi precari arrabbiati, gli industriali arrabbiati, i dipendenti arrabbiati. Se questo governo non ce la fa, non vedo un altro sbocco».

Cioè, si tornerebbe a cavalcare gli umori popolari.

«Esatto. Il ciclo berlusconiano è finito come soggettivismo etico ed è finito come cavalcata dell'umore popolare. Ma se c'è il fallimento delle élite, al posto di Berlusconi, potrebbe spuntare un altro leader capace di instaurare col popolo il medesimo rapporto, un leader che avrebbe nell'orgoglio nazionale e popolare i suoi riferimenti, che condurrebbe gli italiani a reagire all'eterodirezione e a contestare il sistema in quanto tale. Questo è il nuovo scenario che vedo davanti a noi».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/430063/
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« Risposta #50 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:51:53 am »

Politica

14/11/2011 - LA CRISI IL CENTRODESTRA/ INTERVISTA

Galan: l'indignato sono io E non perdonerò Tremonti

L’ex ministro: «Giulio non era dei nostri, ci ha trascinati nel baratro Silvio? Nonostante tutte le sue sciocchezze resta il migliore»

MATTIA FELTRI
ROMA

Ministro Galan, lei non è nemmeno parlamentare. Come si sta da di soccupati?
«Non me lo dica... Stamattina ho chiesto a mia moglie un soldo. Le ho detto, amore, è per il caffè, i giornali...».

Gliel’ha dato?
«Sì. Però mi ha detto che devo mettermi a fare qualcosa».

Lei, così esuberante, come mai questa vocina?
«Ma perché sono amareggiato, avvilito, indignato...».

Indignato?
«Con quelli che nella vita non hanno mai fatto niente di buono e ci trattano peggio dei delinquenti. Urlano, sputano, tirano monetine. Lo so che anche l’asino tira un calcio al leone ferito, ma non pensavo che gli asini fossero tanti. E dovrei fare un governo con quelli?».

Non proprio con quelli.
«All’incirca... E dopo aver sentito Franceschini alla Camera mi veniva voglia di rispondergli con un’allocuzione romana ormai così in voga anche fra noi al Nord, che ci lasciamo stuprare la lingua. E cioè: ma vaff...».

Ministro...
«Franceschini sappia che non ci hanno battuti, né in aula né le elezioni, e nemmeno i magistrati sono riusciti...».

Era più remissivo nei giorni scorsi. A metà fra il neomontiano Frattini e i sostenitori del voto subito, alla Ferrara.
«È che sono dibattuto. Io sentivo il montare delle critiche al governo. In Veneto tre persone su quattro stanno con me ma ultimamente erano meno di tre su quattro, ed erano più tiepide. Però una fine così, con Franceschini, i cori, gli sputi... no, non la meritavamo».

E del governo Monti che cosa pensa?
«Faccio una previsione. Mario Monti diventa premier, il giorno dopo Mario Draghi compra 30 miliardi (dico una cifra a caso) del debito, lo spread si dimezza e tutti a gridare: miracolo! miracolo!».

I poteri forti?
«Già. E io rimango a metà tra Frattini e Ferrara perché è colpa nostra, ché i poteri forti dovevamo spazzarli via, distruggerli, farli a pezzi».

Ma chi?
«I grandi banchieri. La finanza internazionale. Le multinazionali».

Un po’ vago.
«Un po’ vago? Ma noi dovevamo fare la rivoluzione liberale, cancellare i privilegi. E invece una volta non tocchiamo le coop perché l’Udc ha le coop bianche. Poi se ne va l’Udc e non tocchiamo gli amici di An. Poi se ne va Fini e arrivano Tremonti e la Lega».

E lì che succede?
«Abbiamo progressivamente ceduto alle corporazioni. Abbiamo smesso di parlare agli industriali per parlare con Confindustria. Abbiamo smesso di parlare ai commercianti per parlare all’Ascom. Abbiamo smesso di parlare alla gente per parlare alle corporazioni, alle nomenklature, ai poteri che poi ci hanno ammazzati».

È colpa di Tremonti e Bossi?
«In un anno e mezzo, il tempo in cui sono stato ministro, ho visto un progressivo spostamento di potere da Palazzo Chigi alla sede dell’Economia. Sono cose che da lontano non si colgono, ma a Roma sì... Ecco, io Tremonti non lo perdonerò mai! Mai!».

È stato lui...
«Io dico solo una cosa: ho visto da parte sua un’arroganza, una protervia. Ci ha trascinati nel baratro. Penso all’ultima seduta del Consiglio dei ministri, ci siamo detti che in fondo eravamo una bella squadra, che abbiamo fatto delle cose importanti... ma io dico che Tremonti non è dei nostri. Lui non ha mai fatto parte della nostra squadra».

Dice che ha remato contro?
«Per carità, non mi faccia dire altro...».

Ministro...
«Non dico altro. Davvero. Anche perché sono stati diciassette anni belli. Abbiamo davvero fatto cose positive: abbiamo fermato la Gioiosa macchina da guerra di Occhetto, abbiamo fondato un sistema bipolare che aveva tutte le caratteristiche per diventare un sistema bellissimo, civilissimo».

Se aveste adeguato la Costituzione al bipolarismo, ora non ci sarebbe Monti.
«È vero. E saremmo scampati anche all’osceno mondo dei partiti, che sono ancora lì a spartirsi posti nei consigli di amministrazione, nelle municipalizzate...».

Si rende conto che non ha ancora pronunciato la parola «Berlusconi»?
[tace, ndr]

Ministro?
«È difficile per me... Potrei elencare mille suoi difetti, riempire cento pagine con gli errori che ha commesso ma... sono con lui da 27 anni, gli devo tutto, non è neppure ipotizzabile che non gli sia riconoscente, fedele, leale fino a pagare il prezzo più alto. E poi, per quante sciocchezze abbia fatto, lui è ancora il migliore di tutti. Mi viene il magone...».

Gli dica qualcosa.
«L’altro giorno, al Consiglio dei ministri, avrei voluto farlo, ma mi veniva da piangere. E siccome mi vergognavo, sono stato zitto. Ma vedevo intorno a me tanti ministri che già pensavano al loro futuro. Vedevo tanta ipocrisia».

Ministro, i nomi...
«No, basta, sono stanco. E poi i nomi li sapete anche voi».

Veramente no.
«Comunque adesso ci dobbiamo inventare qualcosa».

Lei che farà?
«Diciamo tutti che torniamo a fare i contadini ma non è vero. Radunerò i trenta amici più cari per riprendere la mia guerra, quella per portare un po’ di liberalismo in questo Paese».

Con Berlusconi?
«Non ci resta che ripartire da lì. Poi, si vedrà».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/429652/
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« Risposta #51 inserito:: Novembre 16, 2011, 12:05:57 pm »

13/11/2011

La rivoluzione mancata

MATTIA FELTRI

La storia del IV governo di Silvio Berlusconi è la storia di un’occasione buttata. Era una prateria, non un Parlamento, quello che il premier si trovò davanti il 14 maggio del 2008 quando ottenne alla Camera una copiosa fiducia di sessanta deputati, 335 a 275. Di comunisti non ce n’erano. Fatti fuori dai loro stessi fallimenti, dalla legge elettorale e dal sistema di alleanze voluto dal candidato di sinistra, Walter Veltroni. C’era un’aria di pacificazione, persino la speranza che sarebbe stata una legislatura costituente, di passaggio a un bipolarismo meno farabutto. Berlusconi e Veltroni si stringevano la mano in aula e si davano appuntamento per pranzo. Il discorso del presidente del Consiglio, aperto a riforme condivise, era stato applaudito e la risposta di Veltroni - orgogliosa e non supina - conteneva un elemento fondamentale: yes we can, se po’ fa’. L’esecutivo era in stato di grazia.

Sembrava che Napoli fosse stata buttata in lavatrice e stesa all’aria del golfo. La confusa manovra di salvataggio dell’Alitalia procedeva nello sventolio dei patriottici. Giulio Tremonti già lavorava alla sua Finanziaria da piano triennale, quella che, per usare i termini in voga, doveva mettere in sicurezza i conti pubblici. Renato Brunetta si occupava dei suoi fannulloni in mezzo alle trascurabili rimostranze dei lavoratori pubblici e nelle ovazioni da stadio del suo pubblico. Mariastella Gelmini studiava una riforma contestatissima ma senz’altro ambiziosa. In estate era entrato in vigore il lodo Alfano (cancellato in ottobre dalla Corte Costituzionale) perché si proteggesse il presidente del Consiglio dall’eterno match con la magistratura, e dunque lavorasse. Lì, però, si era già capito qualcosa. Berlusconi concepiva il dialogo come l’adeguamento indiscusso delle opposizioni ai progetti di maggioranza; adeguamento che Veltroni negò anche in minima parte, per ragioni di contenuto (il lodo Alfano ebbe un ruolo) e forse perché dipietristi ed extraparlamentari lo chiamavano inciucista e nelle manifestazioni di piazza lo inserivano in una scomoda trinità col premier e George Bush.

La speranza che Berlusconi e Veltroni concludessero quello che non si concluse con la bicamerale del 1997 a giugno era giù sfumata: «E’ guerra aperta», titolava una nota dell’Ansa. C’era tuttavia un governo forte, compatto, con un poderoso sostegno parlamentare e una spinta riformatrice. Nella primavera del 2009, il disastroso terremoto dell’Aquila aveva offerto all’esecutivo l’opportunità di mostrarsi veloce ed efficace. I soccorsi furono eccellenti. Il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, aveva l’appeal dell’angelo protettore. Il premier visitava quotidianamente le zone distrutte raccogliendo consensi misurabili in applausi e pacche sulle spalle, e nei sondaggi. Per una volta non si ritrasse alla festa della Liberazione: il 25 aprile fu a Onna, col fazzoletto tricolore al collo, a pronunciare un discorso commovente apprezzato anche a sinistra; fu l’ultimo momento in cui la guerra civile parve archiviabile. Le coincidenze della storia sono micidiali. Il giorno dopo, il 26 aprile, Berlusconi raggiunse una festa a Casoria, quella dei diciotto anni di Noemi Letizia.

Fu l’inizio di un bordellificio senza precedenti, un imbarazzante giro d’Italia pelvico, le registrazioni fai da te di Patrizia D’Addario, le parentele supersoniche di Ruby Rubacuori, e poi Nicole Minetti, le Olgettine, le miserelle malversazioni degli amici del Capo. E naturalmente una fecondia di intercettazioni ordinate dalla magistratura e pubblicate dai giornali in un festival da brividi, senza distinzione fra notizie di reato e ciance di ringhiera che consegnò alla maggioranza e ai suoi giornali la comprensibile convinzione che la guerra continuasse, e non convenzionale. Inchieste non sempre solidissime che si sono succedute sul premier, su Denis Verdini, su Bertolaso, su Marco Milanese, fino al raggelante voto della Camera che mandò in carcerazione preventiva Alfonso Papa. Subito dopo Casoria, Veronica Lario aveva lasciato il marito denunciando un «ciarpame senza pudore», che comprendeva le disinvolte candidature per le Europee. Fu una battaglia anche dei finiani. Il presidente della Camera, che aveva rotto («siamo alle comiche finali») con Berlusconi alla fine del 2007, era tornato in squadra dopo il lancio del partito unico sul predellino. L’idea era di «costituzionalizzare» Berlusconi.

La stessa di Veltroni, in fondo. Gianfranco Fini visse la missione come una fronda quotidiana, un obbligatorio controcanto su tutto e del tutto sterile, se il destinatario è Berlusconi. Lo scontro fu plateale il 22 aprile del 2010 quando, in una direzione del Pdl, Fini si alzò dalla platea e puntò l’indice contro il premier: «Sennò che fai? Mi cacci?». Lo caccerà pochi mesi dopo, a fine luglio. Non soltanto non si era riusciti a estinguere la rissa con la sinistra, ma la si era importata nel Pdl. Tuttavia la maggioranza sembrava imbattibile. Passava dalle Europee alle Amministrative come di trionfo in trionfo, saccheggiava le regioni del Pd (Abruzzo e Sardegna), la Lega volava e lavorava al federalismo fiscale, e il 14 dicembre del 2010 si stabilì il fallimento totale di Fini, che aveva portato il suo manipolo a sinistra senza però mandar sotto il governo. In realtà fu un disastro anche per Berlusconi.

La vittoria gli era costata carissima: passarono con lui deputati di ogni provenienza (i Responsabili), capricciosi, voraci, instabili. L’ultimo anno è stato il tormento di una maggioranza virtuale, capace di portare in aula solo provvedimenti scontati (e talvolta nemmeno quelli), sconfitta a Milano e a Napoli, travolta da una crisi minimizzata fino a metà 2011 e che invece pretese misure che hanno impegnato il governo per tutta l’estate in un balletto da morir dal ridere, e deprimente, un can can di ricette contraddittorie, garantite alla mattina, bocciate al pomeriggio, riproposte alla sera. E intanto si era pure obbligati alla guerra a Muammar Gheddafi, l’ospite d’onore accolto a Roma fra baciamani e amazzoni, di modo da chiudere in coriandoli la questione coloniale. Si è invece chiuso, fra bizze e meschinerie, un governo che ha scialacquato una straripante maggioranza. E che ha tradito una prospettiva tramontata dietro un sorriso villanzone e francese.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9429
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« Risposta #52 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:18:39 pm »

Politica

27/11/2011 - il caso

Le frasi alla lavagna del premier-professore

Rigore, freddo, necessità di imparare: l’Italia e i compiti a casa

Mattia Feltri
Roma

Chiamatemi professore».
Un frasario essenziale del nuovo premier non può cominciare che da qui, dalle presentazioni e da tutto quello che ne consegue. La citazione, subito dopo, era dell’illustre predecessore Giovanni Spadolini: «I professori durano, i premier passano», ma naturalmente a tutti è venuta in testa l’altra sentenza, degli uomini che passano e delle idee che restano. Quelle di Mario Monti ci resteranno in eredità: è l’augurio di chi ci vorrebbe un po’ più calvinisti, persuasi che non ci sia «contraddizione fra rigore e crescita», e anzi
l’unico modo per regolare le esistenze, e forse non soltanto dal punto di vista economico: senza rigore non c’è crescita - la dialettica montiana è implacabile -, la riforma sarà «equa e incisiva», il governo sarà «incisivo ed efficace». Nei momenti di maggiore severità servono «decisioni facili e non gradevoli»: fossero state prese prima non ci saremmo ritrovati con pochi denari in tasca. Ecco, «chiamatemi professore», e ogni volta è come se da lui passasse a noi un novembre umido e piovigginoso.

Ora viene facile ironizzare su quella frasetta - che poi era indirizzata più ai professorini europei che agli alunni compatrioti -,
«l’Italia farà i compiti a casa», come li faranno tutti. Fosse tutto lì. Il piglio è ben altro, «non applaudite, ascoltate», ha detto ai senatori. Ecco, aprite bene le orecchie, sturatevele, «la prima cosa da fare, e lo dico in particolare agli italiani, è di abituarsi a trovare meno facilmente le responsabilità negli altri». E’ proprio una questione sistematica, si tratta di capire il mondo, stabilire nuove prassi e Monti le tratteggia alla lavagna, «il governo che è nato ha certamente una missione di gestione della situazione ma ha anche una funzione di aiutare le forze politiche a trovare una forma di, almeno temporaneo, disarmo reciproco». E però, se arriveranno temperature più miti, la speranza è che si registrino «nei toni e non nell’inazione».

Sin ora, si capisce, è stata soltanto una rissa sterile, un tirarla per le lunghe. Ora si tratta di fare «presto», «prestissimo», «alla svelta», essere «rapidi», e le riforme saranno «strutturali con il consenso (o «in associazione», ndr) con le parti politiche e sociali». «Tutti assieme», diceva Romano Prodi, ma l’obiettivo di Monti è di altra portata, è globale, coinvolge tutti perché «il compito è quasi impossibile, ma ce la faremo» e «d’altra parte se non ci fosse la crisi sospetto che non sarei qui» e nessuno è autorizzato a coltivare sospetti: «Nel mio passato non si nota una particolare frequenza in cui mi sono candidato a qualcosa. Il numero è zero». Quanto ai poteri forti, a chi li considera gli azionisti di maggioranza dell’esecutivo, «io di poteri forti in Italia non ne conosco», semmai ce ne sono in Europa e l’Economist scrisse che «il mondo degli affari internazionali considerava Mario Monti il Saddam Hussein del business».

Poi questa squadra di governo («non siamo un manipoli di tecnici» ma anche di uomini) ha la consegna del riserbo, politicamente della collegialità, così basta e avanza quello che spiega il professore. Il suo scostare i giornalisti ha l’aria del vezzo: possiamo farle una domanda? «Non credo». Manca soltanto un «preferirei di no», non fosse una frase così poco beneaugurante. Di cose da dire ne ha molte,
l’importante è non dirle a richiesta, fuori dagli orari prestabiliti, allora arrivano enunciati perfetti come sfere («il mio sforzo e del mio governo sarà di mettere l’Europa al centro dell’attività mia e del mio governo») o facezie non oliatissime («vi sarei grato se non fosse usata l’espressione “staccare la spina”: non ci consideriamo un apparecchio elettrico, e non saprei a quel punto se dovremmo essere un rasoio o un polmone artificiale»).

A quel punto si sono spesi impegnativi elogi sul suo umorismo, che vide l’alba una domenica mattina, il solito assedio dei gionalisti, e lui che sfugge con una battuta: «E’ una bella giornata». Eravamo tutti molto ammirati,come davanti alle geniali ricette economiche distribuite in «Oltre il giardino» dal giardiniere Chance («se l’albero non dà frutti, bisogna tagliare i rami secchi»), poiché spesso, al culmine della disperazione, si vede quel che si vuole vedere, e non quel che c’è.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/431880/
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« Risposta #53 inserito:: Dicembre 15, 2011, 06:06:46 pm »

Politica

15/12/2011 - il caso

Il Carroccio ritorna all’epoca del cappio Ma ci crede poco

I senatori del Carroccio hanno alzato cartelli di protesta durante l'intervento del premier Mario Monti

Cartelli e insulti in Senato. Schifani: sceneggiata mortificante

Mattia Feltri
Roma

Canuti ed esagitati: eccoli i senatori leghisti, come ai ruggenti anni del cappio, che sollevano i cartelli a caratteri verde-padano, «Non è una manovra è una rapina», e poi «Giù le mani dalle pensioni» e infine «Basta tasse». Mario Monti, che ancora sbigottisce, come venisse da un altro sistema solare, rimane lì a naso in su intanto che gli attempati oppositori vociano, e dicono che è ora di finirla, adesso basta, hanno ventri gelatinosi e ballonzolanti, Roberto Calderoli, che ne ha viste di ben altre, ride attorniato da questi reduci a cui non pare vera tanta grazia.

Qualcuno come il capogruppo Roberto Bricolo o come l’ex sindaco di Lampedusa, Angela Maraventano, ha la grinta paonazza di chi ancora ci crede, ma forse sono eccezioni. L’aria che tira è quella dell’atto dovuto sinché alle rimostranze di Renato Schifani («È una sceneggiata veramente mortificante») e alla decisione di sospendere la seduta, il leghista Enrico Montani reagisce con cavernicola creatività: «Ma va a ca... pagliaccio!».

La mattina, anzi la giornata è finita lì. Il resto è stato conseguente. Come per esempio l’ex segretario generale della Cisl, Sergio D’Antoni, in brodo di giuggiole per il taglio delle pensioni di anzianità («finalmente una riforma strutturale») o per il ritorno dell’Ici/Imu («finalmente una patrimoniale»), ed è l’immagine spettrale di un partito, il Pd, costretto ad abbandonare il sentiero del sindacato e a votare una manovra impietosa. Se oggi in Parlamento c’è un partito della Cgil, questo partito ha sede alla destra dell’emiciclo ed è la Lega: siamo alle convergenze parallele fra Umberto Bossi e Susanna Camusso (con Antonio Di Pietro fermo a metà del guado, ancora indeciso fra la lotta e il governo).

C’è un parlamentare valtellinese, Jonny Crosio, che ieri con le braccia tese faceva il gesto di chi ha trovato l’autostrada libera, e ci si è buttato sopra a duecento all’ora. Per il pidiellino Osvaldo Napoli la Lega non ne ricaverà un voto, forse ha ragione, gli otto anni sugli ultimi dieci trascorsi al governo pesano di più, ma non è una posizione diffusa dalle sue parti: un ex ministro ancora non se la sente di mettere la firma sotto le proprie opinioni, che sono le seguenti: «Prima o poi dovremo dirlo che abbiamo fatto una gran cretinata. Questa manovra la poteva presentare qualsiasi commercialista, altro che professori. Ma che scienza ci vuole a togliere le pensioni o ad alzare il prezzo della benzina? E intanto che noi votiamo una finanziaria schifosa, i leghisti si fanno la loro bella opposizione in solitaria, e finirà che al Nord ci spazzano via».

Tutto vien buono, infatti. Intanto che alla Camera, per conto del Pdl, Massimo Corsaro offriva una clamorosa «excusatio non petita» («su questa manovra saremo interlocutori, punto su punto, e non portatori d’acqua»), i leghisti organizzavano il presidio notturno. Si progettava un ostruzionismo per cui i leghisti avrebbero parlato sino all’alba di una legge sciagurata, centralista, romana, da sanguisughe, cose peraltro dette e ridette tutto il giorno, proteste gutturali in un’universale melassa. La disposizione d’animo dei leghisti, per capirci, ieri ha portato la commissione Sanità a bocciare un emendamento (sulle risonanze magnetiche nucleari) voluto dal vecchio governo poiché la leghista Francesca Martini, ex sottosegretario, si è confusa, credeva fosse un emendamento del governo attuale, e ha guidato i suoi alla ribellione.

In serata il Parlamento sembrava risparmiarsi la commedia (anche i gatti sanno che stamattina il governo porrà la fiducia che culminerà intorno alle 20 di domani, giusto in tempo per la fine dello sciopero dei treni, come sottolinea un deputato sveglio e malizioso), il dibattito era stato chiuso per decisione della maggioranza: non c’era ragione di offrire al Carroccio anche una lunga notte di propaganda gratuita. E oltretutto con davanti un governo a tendenza smargiassa, come nel caso di Piero Giarda che alla richiesta del leghista Maurizio Fugatti («è vero che ci sarà un maxiemendamento che cambierà anche il testo uscito dalla commissione?») si è alzato beffardo chiedendo di quali fonti di intelligence disponesse. Fugatti, con le vene del collo pulsanti, ha chiesto più rispetto e meno supponenza. E poi, alla chiusura del dibattito, è stato il caos finché - dietrofront - alla Lega è stata restituita la sua prateria notturna. «Non facciamo casino, facciamo politica», ha detto Bossi. Sempre che le due cose non coincidano.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/434486/
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« Risposta #54 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:44:38 am »

Politica

11/01/2012 - GOVERNO, LA VICENDA

Tecnici in disgrazia? Ora godono i politici

Ugo Sposetti Pd: Perché invece non ci si chiede le ragioni per cui hanno nominato Malinconico?

A Montecitorio gli “sconfitti” assaporano la rivincita

MATTIA FELTRI
Roma

Il sottosegretario si piega su di sé, si ingobbisce, quasi scompare dentro la propria stessa giacca - che spettacolo imprevisto - e, ricevuta solenne promessa d’anonimato, esprime il timore: «Dopo Carlo Malinconico, non ci risparmieranno niente». Quello del rigore non soltanto contabile ma anche morale era il punto sul quale il governo dei tecnici - spiega il sottosegretario - intendeva marcare il maggior distacco. «E invece... Qualsiasi cosa potranno dire, la diranno». Non è propriamente un pregiudizio. Ieri, a Montecitorio, certi deputati parevano gattoni con la scintilla sull’artiglio. Si volava persino alto: «Non sono stati i tedeschi, sono stati gli uomini». Cioè, si citava Léon Blum a colloquio con Marek Edelman, subito dopo la Seconda guerra mondiale, per spiegare che l’indole umana, specie in fatto di mascalzonaggine, attraversa le epoche e i Paesi, figuriamoci le caste. Anzi, precisava la berlusconiana Deborah Bergamini: «Gli uomini si muovono lungo il crinale della Piramide di Maslow, dove alla base ci sono i desideri primari, la fame, il sesso eccetera, e al vertice quelli, appunto, più elevati e spirituali. Ci sono uomini che tendono alla base e uomini che tendono al vertice».

E così, a furia di metterla giù pesante, ci si stava quasi dimenticando di certificare la soddisfazione somma (ma non esibita) di una categoria sputtanatissima davanti al secondo caso (il primo fu l’abitazione con vista Colosseo di Filippo Patroni Griffi) di umana debolezza nell’esecutivo di teutonica tempra. «Perché non sono tecnici. Sono politici. E la politica è fatta da grandi politici, politici medi, politici piccoli e quaquaraquà», diceva ieri il liberale Giuseppe Moles. E sebbene non sia il caso di godere delle disgrazie altrui, pare confermarsi (attraverso il repubblicano Giorgio La Malfa) un antico detto: «In Parlamento il dieci per cento è meglio degli italiani, il dieci per cento è peggio, e il restante ottanta è l’Italia. Quindi, quando si pesca nella società civile, è come se si pescasse in Parlamento, né più né meno. Nessuno stupore».

E insomma, un esercizio di puro buon senso che arriva sino a Franco Giordano (segretario di Rifondazione ai tempi di Fausto Bertinotti presidente della Camera, uno che bazzica ancora il Transatlantico in attesa di riappropriarsene...), il quale ci mette dieci secondi a inquadrare la situazione: «Le vicende della cricca dimostrano ampiamente come, se si tratta di rubare, politica, imprenditoria, burocrazia e tecnici sanno mettersi d’accordo benissimo». Impeccabile. E naturalmente alla fine la peggio gioventù siamo noi giornalisti: un Ugo Sposetti (ex tesoriere dei Ds) come al solito in formissima, alla domanda se il caso Malinconico confermi una volta di più che non è la politica ma l’occasione a fare l’uomo ladro, risponde: «A me lo chiede? Lo chieda a se stesso, al suo direttore, ai suoi colleghi. Per esempio si continua a discutere delle nostre retribuzioni ma non si discute delle vostre, cosa che mi piacerebbe fare, dopo aver votato tanti finanziamenti e agevolazioni all’editoria».

Siccome serve anche un piccolo reportage dall’angolo ultrà, è stato ovvio intercettare il pensiero di Domenico Scilipoti: «Questo governo è espressione di una pessima borghesia e di un capitalismo sfrenato, che non si cura del bene del Paese ma del bene dei suoi componenti e dei suoi referenti. E la vicenda di Malinconico lo prova». Mentre il berlusconiano Osvaldo Napoli - molto irritato perché la guerra alla casta ha, per esempio, portato il crodino a tre e cinquanta alla buvette - allarga le braccia e osserva che «o ci diamo una regolata o presto ci sembrerà il caso di andare a vedere quante bottiglie ha ricevuto a Natale il magistrato, e quante cene mi sono state offerte questo mese». Bè, Malinconico non era a queste minuzie, e Napoli lo ammette, ma «in questo clima da caccia alla streghe è durato due giorni. Del resto, chi scaglia la prima pietra...». Ma c’è anche in questo clima si sente benone. Per esempio, Pierlugi Castagnetti (Pd) il quale ricorda di quando Nino Andreatta si inalberava: «I comportamenti privati e quelli pubblici sono facce della stessa medaglia». E il dipietrista Ivan Rota, che non si accontenta di vedere il tecnico nel fango: «Serve uno scatto etico, e deve cominciare dalla politica». Ma quando tutto pareva sentito e detto, è risaltato fuori Sposetti - faccia da gatto, artiglio all’insù: «Perché invece non si chiede le ragioni per cui hanno nominato Malinconico nonostante questi guai, che tutti conoscevamo». Perché? «Forse perché bisogna accontentare tutte le burocrazie?». Un manuale Cencelli della società civile? «E questa la chiamate società civile?».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/437727/
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« Risposta #55 inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:24:45 pm »

Politica

28/01/2012 -

La corsa alla modernità s’impantana in Parlamento

Il regolamento della Camera dei deputati risale al 1997, quello del Senato al 1999

Doppie chiamate e urne bicolori: le lungaggini dei regolamenti non aggiornati

Mattia Feltri
Roma

I regolamenti parlamentari sono aggiornati alla fine degli anni Novanta. Al 1997 quelli della Camera, al 1999 quelli del Senato. I due rami del Parlamento, dunque, viaggiano su binari tracciati nel millennio scorso. Sarebbe come se voi oggi lavoraste con un computer acquistato quindici anni fa. È per questo che spesso si sente parlare dell’inadeguatezza dei regolamenti. Meno di frequente si hanno esempi concreti. Senza l’ambizione di esaurire il tema, qualche esempio ve lo facciamo noi.

Fiducia
Quando il governo pone la fiducia, per votarla alla Camera dei deputati bisogna aspettare ventiquattro ore. Per anticipare il voto serve l’intesa di tutti i capigruppo, ma è una facoltà esercitata di rado. Perché aspettare un intero giorno? Per consentire a tutti i deputati di arrivare a Roma dai quattro angoli del Regno, quando si viaggiava su calessi, navi a vapore o treni a carbone non precisamente competitivi con gli Eurostar di oggi. È una regola che il Senato ha abolito. Montecitorio se la tiene stretta.

Fiducia due
Il voto di fiducia è a doppia chiamata nominale. Significa che ogni deputato viene chiamato a transitare sotto il banco della presidenza a dire «sì» o «no» e se è assente alla prima chiamata ce n’è sempre una seconda. Con seicentotrenta deputati, servono circa due ore. La tecnologia (non necessariamente quella moderna) consentirebbe in trenta secondi di votare dal posto, con immediata diffusione dell’elenco dei deputati e di come hanno votato.

Elezioni
Ancora più anacronistico il sistema di elezione del Presidente della Repubblica o del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Si allestisce in aula un baracchino dove il parlamentare entra, su un foglietto scrive il nome gradito e lo imbuca. Operazione, compreso lo spoglio, che è anche scenograficamente di epoca giolittiana.

Decreto
I decreti escono dal Consiglio dei ministri e vanno alle Camere per la conversione in legge. La Camera che riceve il decreto deve convocare l’aula e avvertire i parlamentari che lo sta girando alla tal commissione o alla tal altra. È successo lo scorso Ferragosto in Senato per uno dei tanti decreti anticrisi. Naturalmente arrivarono a Roma sei o sette senatori (uno dei quali prese due aerei all’andata e due al ritorno, se la questione era quella della casta...) e tutti gli altri si presero dei fannulloni insensibili agli affanni del Paese. Ma era una presenza inutile, se non dannosa: a differenza dei loro colleghi ottocenteschi, avevano saputo del decreto da radio, tv, giornali e Internet. E se Renato Schifani gli avesse spedito una mail, l’avrebbero saputo anche dallo smart phone.

Commissioni
Tenetevi forte. Nelle commissioni capita spesso di dare pareri su nomine, per esempio alle authority, e si procede per voto segreto. In questo caso si allestiscono due urne, una color marrone scuro, una color marrone chiaro, e ogni membro della commissione deve recuperare le due palline, una nera e una bianca, che ha in dotazione. Se è d’accordo sul nome proposto, infila le palline in coerenza cromatica: la pallina nera nell’urna marrone scuro, la pallina bianca nell’urna marrone chiaro; se è in disaccordo, fa il contrario. Uno dei problemi è che c’è sempre qualcuno che inverte le palline. Un altro è che al momento buono c’è sempre un deputato che non ricorda dove diavolo le ha lasciate.

Segretario d’aula
Ogni seduta viene registrata, sbobinata, riscritta e stampata. Se ne occupano gli stenografi che, decenni fa, dovevano stenografare l’intera seduta (oggi si appuntano soltanto le cose dette da deputati che non hanno il microfono acceso, quindi fuori registrazione). Ogni gruppo parlamentare nomina un segretario d’aula che siede a fianco del presidente e controlla che gli stenografi stenografino correttamente. E cioè non attribuiscano a un deputato espressioni o pensieri mai pronunciati. Non importa che oggi i parlamentari possano controllare sul sito quasi in tempo reale.

Carta
Tutto ciò che viene detto, scritto o prodotto in Parlamento deve essere stampato, in molti casi in duplice copia per Camera e Senato. Proposte di legge, discussioni generali, emendamenti, ordini del giorno. Migliaia di pagine che quotidianamente affluiscono in faldoni inviati in misteriose stanze remote, in cui nessuno entra se non per depositare il faldone successivo. Un dettaglio: si trova tutto sul sito.

Leggi
Questo splendido folclore non fa altro che rallentare una macchina che è più inadeguata che costosa. Le leggi ormai le fanno i governi con decreti e fiducie (o persino le Protezione civile con le ordinanze), eppure la procedura è sempre quella, con un Parlamento al centro di tutto, ma con meno poteri di un semaforo.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/440202/
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« Risposta #56 inserito:: Febbraio 06, 2012, 12:19:41 am »

Cronache

05/02/2012 - A PASSEGGIO PER LA CAPITALE

Città eterna e abbandonata

Ci pensa il sole a salvare i romani

Mattia Feltri
Roma

Quando si dice scommessa vinta: invece del gelo è arrivato il sole e ha sciolto la neve, ha liberato le carreggiate, ha reso inutili le gomme termiche, quasi dannose le catene, le strade e i marciapiedi sono diventati ruscelletti. Ecco il trionfo istituzionale: il cielo sereno. Perché lungo la notte fra venerdì e sabato i romani erano rimasti incollati alle finestre a godersi la rarità assoluta, l’intemperie meravigliosa e fitta, e alla mattina la città era tutta bianca, era un deserto allucinato, spuntava un’auto ogni tanto, pochi turisti. Alle nove dalla stazione Termini al Colosseo a piazza Venezia a Campo de’ Fiori, la capitale era consegnata alle mani di rari passanti che si crogiolavano al rumore della neve sotto le suole. Un autobus qui e là, niente taxi, nemmeno un camion, non uno spargisale, figurarsi gli spazzaneve.

La pulitura delle strade era stata ingegnosamente affidata agli pneumatici di chi passava, se passava. Il cielo grigio chiaro prometteva un’altra giornata scandinava. La gran parte dei negozi era chiusa. I bar pure. Era un sabato che esordiva davvero splendidamente, con le previsioni del tempo che annunciavano la gelata: il presupposto di una Roma impraticabile per chissà quanto. Alla stazione i treni restavano fermi. Erano in funzione due binari, a un certo punto tre. Le rare partenze portavano almeno due ore di ritardo. Fuori una lunga coda attendeva taxi latitanti. Girava giusto un elicottero a sorvegliare non si sa che. Come spettri, alcune macchine sostavano sbieche e ammaccate, altre erano ricoperte, insomma si camminava nel nulla, in un abbandono surreale, ognuno lasciato a se stesso.

Poi finalmente qualcosa è accaduto: le nuvole si sono scansate per far passare il sole. Eccolo il piano antiemergenza. Però nel frattempo il sindaco Gianni Alemanno stava ingaggiando duello con la Protezione civile, secondo lui colpevole di non averci preso sull’entità delle precipitazioni. Per la Protezione civile era Alemanno che non sapeva leggere i dati ma, ecco, ieri mattina ci si attendeva qualsiasi cosa tranne che il sindaco annunciasse una commissione d’inchiesta con cui dirimere la bega. Intanto diffondeva video per raccomandare ai romani di restarsene tappati in casa a cospargere i davanzali di briciole per i piccioni, e semmai che uscissero per raggiungere i punti di raccolta dove si distribuivano pale ai volontari. Il cronista naturalmente è stato molto sfortunato e in tutto il giorno non si è imbattuto in nessuna pala e in nessun posto di raccolta.

I romani più che ubbidienti erano stati giustamente poltroni: era pur sempre sabato mattina. Ma già verso le undici, e fino a metà pomeriggio, si sono riversati in centro a migliaia, hanno colmato i Fori imperiali candidi e bellissimi, a frotte li hanno fotografati così incantevoli dai parapetti del Campidoglio. Avevano tirato fuori l’intero armamentario da Terminillo, tute da sci, Moonboots, pedule, persino specialissime scarpe con le catene, qualcuno procedeva aiutandosi con la racchette, l’importante era affrontare addobbati la giornata di domestico turismo. Al Circo Massimo centinaia di ragazzini giocavano alle palle di neve e venivano giù saettanti dai declivi con slitte di legno e slittini di plastica, o anche con i sacchetti di cellophane. Nel giro di un paio d’ore la città era tornata a essere un luna park, un andirivieni vociante mentre il sindaco da qualche eremo proseguiva le sue non eccitanti dispute dialettiche, reiterava a lunedì la chiusura delle scuole che già sabato era stata ampiamente disattesa da numerosi istituti (più interessante l’informazione dell’azienda trasporti: mancavano le catene per i bus). A nessuno veniva in mente di ripristinare almeno per qualche ora i turni dei taxi, lasciati liberi venerdì. Eppure i tavolini dei bar erano stati ritirati fuori, tutti al loro posto di battaglia. In piazza Venezia si beveva il caffè sbracati sulle seggiole di metallo. Il traffico si rifaceva corposo. Ogni qualche metro bei pupazzi di neve molto ortodossi, con la carota al posto del naso, consegnavano l’idea di quale terrore avesse pervaso gli abitanti. Giusto alla mattina si era vista qualche coda ai supermercati: si sa mai. Del resto ora tutto è nelle manidi Dio, se darà ragione alle blande previsioni della Protezione civile o a quelle più allarmanti dell’Aeronautica, soprattutto se nella notte avrà portato il ghiaccio mancato ieri, o se invece benedirà questi folli romani, l’eterno esercito che ha marciato invincibile di vetrina in vetrina.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/441238/
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« Risposta #57 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:16:18 pm »

Politica

24/03/2012 - Riforme, esecutivo alla prova Renzi: l’articolo 18 solo un totem

Il vero problema è la burocrazia

"Conservarlo o cancellarlo, non cambia nulla.

Semmai, andrebbero abbassate le tasse."

MATTIA FELTRI

Roma

Sindaco Renzi, sull’articolo 18 lei di che idea è?
«Penso sia un gigantesco specchietto per le allodole. Poi per capire bene la questione, non dico serva una specializzazione giuslavoristica ma quasi. Comunque, se ci interessano gli aspetti tecnici, se vogliamo una riforma all’americana o alla tedesca, sentiamo che hanno da dire Pietro Ichino e Tito Boeri...»

E Stefano Fassina no?
«Io veramente pensavo a gente che seguo con qualche interesse, con tutto il rispetto per Fassina e il ruolo che si è attribuito... Se invece ci interessa l’aspetto politico, mi pare che il tema ruoti attorno a un totem ideologico. Non ho mai trovato un ventenne che mi chiedesse la conservazione dell’articolo 18 o un imprenditore che me ne chiedesse l’abolizione».

Col Pd passi, ma ce l’ha anche col governo?
«No: capisco che il premier voglia dire all’estero che la riforma del lavoro si fa. Invece i partiti, quando dicono che la riforma non li convince, dovrebbero prima rispondere a una domanda: perché non l’avete fatta voi? Specialmente quelli di destra, che la rivoluzione liberale non sanno nemmeno da dove si comincia. Questo governo ha un merito non da poco: sta mettendo mano a una materia a cui non ha mai messo mano nessuno. Però i punti veri sono altri. Faccio un discorso in generale: non si deve garantire il posto di lavoro, ma il lavoratore...».

E in particolare?
«Mah, per esempio: questi bravissimi tecnici sanno quanti fondi europei sono stati buttati per la formazione, e più a beneficio dei formatori che dei formati?».

Sindaco, è per l’abolizione o no dell’articolo 18?
«Lo ripeto: per me l’articolo 18 possono conservarlo o cancellarlo, non cambia nulla. E’ la coperta di Linus sotto cui tutti nascondono le loro insicurezze. Io ricevo imprenditori russi, coreani, cinesi, tutti innamorati di Firenze, e quando gli chiedo di investire mica scappano perché c’è l’articolo 18. Scappano per la burocrazia, per le tasse, per la giustizia».

La giustizia?
«Ora che non c’è più lo spauracchio di Silvio Berlusconi, il processo breve dovremmo farlo noi. Soprattutto nel civile, perché sono le cause eterne a bloccare l’economia».

Però bisogna ammettere che Pierluigi Bersani ha ricompattato il partito.
«E’ stato saggio. Tatticamente impeccabile. Oltre questa élite tecnica che ci governa c’è un paese che ha ancora paura, ed è una paura che Bersani ha assecondato. Ha detto: impediremo che vi licenzino. Ma gli chiedo: lo statuto del lavoratori è del 1970, quando la smetterai di parlarci dell’Italia di allora per parlarci di quella del 2030? Perché qui ci sono la sondaggiocrazia e la tecnocrazia, ma quando toccherà alla politica?».

Il consenso non è uno scherzo.
«Però è passata una riforma delle pensioni e gli italiani, che sono più maturi di quello che spesso si dice, l’hanno capita benissimo: si campa dieci anni di più, se ne lavorano due o tre in più. Ma anche noi non dobbiamo dimenticare la responsabilità atroce dell’abolizione dello scalone di Roberto Maroni per iniziativa di Cesare Damiano».

E quindi?
«E quindi vogliamo dire che oltre tre milioni di dipendenti pubblici sono uno sproposito? Vogliamo dire che in Italia un operaio specializzato costa tre mila euro e ne prende uno e quattro e in Germania ne costa quattro e mezzo e ne prende tre? Che dal 2005 al 2010, con Tommaso Padoa Schioppa e soprattutto Giulio Tremonti, cioè i ministri rigoristi, la spesa pubblica è aumentata di venti miliardi di euro e ai comuni nello stesso periodo ne sono stati tolti due miliardi e settecento milioni? Che abbiamo una spesa sanitaria folle e non riusciamo nemmeno a stabilire un prezzo delle siringhe che valga in Calabria come in Veneto?».

Sindaco, ma qui stiamo ancora discutendo se la concertazione serva o no...
«La concertazione? Le primarie ci insegnano che il partito novecentesco è morto, che il potere decisionale è tolto alle segreterie, dai risultati capiamo che c’è una clamorosa crisi di rappresentatività, e si parla di concertazione? Ma chi rappresenta la Cgil? E Confindustria? Ma via...».

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« Risposta #58 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:44:19 pm »

Politica

06/05/2012 -

La società civile e il trionfo impazzito della lista civica

Mario Spallone Medico di Togliatti, tuttora stalinista, ad Avezzano a 95 anni è il candidato più vecchio d’Italia

Dal “Bunga Bunga” a “Fascismo e Libertà”, non manca nulla

MATTIA FELTRI
Roma

Assorbito il duro colpo del ritiro di Milly D’Abbraccio - la pornostar amata da Vittorio Sgarbi che a Torre del Greco voleva sfidare il sindaco uscente Ciro Boriello, chirurgo plastico specializzato in ricostruzione vaginale -, la società civile si è rimessa in marcia a capo di duemila e seicentonovantuno liste civiche. Purtroppo, va detto subito, è venuta meno anche «Taranto svegliati», la lista lubrica di

Amandha Fox che alle primarie aveva prevalso su Luana Borgia (per i pochi ignari, entrambe apprezzate colleghe della D’Abbraccio). Mancarono le firme, non l’onore. E così questo particolare settore della rivendicazione notturna vede gli stendardi al vento grazie alle liste «Bunga Bunga» (nudo di donna stilizzato su campo fucsia) che spopolano in Piemonte, puntano alla conquista di Vesime, provincia di Asti, dove se la vedranno con una lista a chilometro zero, la «Grappolo d’Uva», e una importata dal Nord Europa, la «Pirateparty.it», naturalmente per simbolo un teschio bianco su campo nero, eppure la non violenza e la disobbedienza come cuore del programma.

Per tornare alla lista «Bunga Bunga», che l’anno scorso sfiorò di concorrere al sindaco di Torino, ha intenzione serie anche a Claviere (provincia proprio di Torino), dove il fondatore Marco Di Nunzio ha rafforzato il concetto lanciando la lista «Bunga Bunga Più Pilu per Tutti», un ticket ideale fra Silvio Berlusconi e Cetto La Qualunque. Insomma, non sono tutte liste tipo «Insieme per Gallarate» o «Guardialfiera Rinasce». Ci sono anche quelle, per carità; a Torre Annunziata c’è «Torre nel Cuore», «Insieme per Torre», «Uniti per Torre», «Orgoglio e Dignità Torrese», «Torre del Valore», e del resto lì c’è un’irrimediabile ansia di rinnovamento, quarantatremila abitanti, seicento candidati al Consiglio comunale, uno ogni settanta residenti. Però il momento della lista civica coincide col colpo di genio. Il primo premio va a Pietro Vierchowod, mezzo bergamasco e mezzo russo, grande difensore della Samp, della Juve e della Nazionale negli anni Ottanta e Novanta, che si è candidato a Como al comando della lista «Quel faro del lago di Como» (se è l’incipit di una carriera politica, è una carriera promettente), e il suo motto è «Sto (p) per candidarmi», dove quello «Sto (p) per» dovrebbe ricordare il ruolo ricoperto sui campi di calcio. A dargli una mano c’è Davide Fontolan, ex attaccante dell’Inter che nelle cronache della Gialappa’s era il celebre «Fontolino Fontolan».

Forse a questo punto avrete intuito quale fermento partecipativo scuota l’Italia. Non c’è istanza, competenza, entusiasmo che le elezioni amministrative sappiano annacquare. A Bitonto c’è un altro beniamino assoluto, Pinuccio Lovero, candidato vendoliano al consiglio comunale che ha ambientato i manifesti elettorali sul proprio luogo di lavoro: il cimitero. Ottimo il suo primo piano, e sullo sfondo un carosello di lapidi, fiori e cipressi. Beneaugurante lo slogan: «Pensa al tuo domani». Il programma di Lovero è schietto: «... più loculi, più ossari...».

Peccato, piuttosto, per le occasioni mancate: quali soddisfazioni ci avrebbe dato, avesse raggiunto l’obiettivo della candidatura, Alfonso Restivo, il «Paladino di Agrigento» che prometteva di radere al suolo la Valle dei Templi per costruirvi un centro direzionale, e far zampillare dalle fontane del centro «vinu e gazzusa»? Ma per fortuna il futuro è radioso. Se siete di Cassano Magnago, paese di nascita di Umberto Bossi, avete la rara opportunità di votare per l’Ape (niente a che vedere con l’Api rutelliana), lista che ha nello slogan il suo punto di forza: «Vola, vola, vola l’Ape...», e sottinteso Maia (chi non sa di cartoni, chieda chiarimenti a figli e nipoti). Anche la società civile ha scoperto gli strumenti della comunicazione moderna: «Rendere tutto migliore spendendo meno e aiutando tutti» è il programma più corto d’Italia, cinquantaquattro caratteri a portata di Twitter. Tuttavia la comunicazione moderna può anche essere una trappola: col copia e incolla, un candidato ha trasferito a Paternò, provincia di Catania a venti chilometri dal mare, le promesse di un collega genovese, compreso il porto. Ma meno male che la politica è anche sangue e carne, e i giornali hanno salutato con moti di simpatia il ritorno alla contesa di Mario Spallone, che fu medico di Palmiro Togliatti e a 95 anni è il candidato più vecchio d’Italia. Cerca di riprendersi Avezzano, già guidata nello scorso millennio, e ricorda di essere comunista tendenza Stalin. In fondo il revival è tutta cosa nostra. L’Msi (Movimento sociale italico) di Duronia, Campobasso, è roba da smidollati in paragone a Fascismo e Libertà, il partito fondato nel ’91 da Giorgio Pisanò, gran mussoliniano che combattè nella ridotta di Valtellina nella vana attesa del Duce. A Fascismo e Libertà, che gareggia un po’ ovunque sotto varie spoglie, è stato concesso di presentarsi poiché il suo fascio littorio è diverso da quello del Ventennio e negli stemmi non presenta altri simboli che richiamino il fascismo. Poi, va bè, si chiama Fascismo e Libertà e lotta per un’Italia «basata sul pensiero di Mussolini». Ma la società civile ha anche i suoi piccoli tic.

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/453003/
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:02:04 pm »

9/5/2012

Un leader per il centrodestra

MATTIA FELTRI

Nella seconda metà del 1993, un ricco imprenditore del mattone e dell’etere si trovò ad analizzare un voto amministrativo che somiglia parecchio al voto di oggi. Nelle città vinceva e sopravviveva il partito erede del Pci.

E si sbriciolava la rappresentanza moderata, quella che era della Dc e del Psi; se la giocava e bene il Msi, discendente diretto del fascismo per quanto - dice oggi Enrico Mentana, direttore del tg de La7, allora del Tg5 «avesse un ruolo di testimonianza, non di aggregazione». C’era un non più nuovissimo ma non ancora compreso voto di ribellione raccolto dalla Lega Lombarda di Umberto Bossi, così come oggi lo raccoglie il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. A Palermo c’era, guarda un po’, il sindaco Leoluca Orlando eletto con il 75 per cento dei consensi sulla promessa belligerante del rinnovamento. Fu lì che quel ricco imprenditore decise di inventarsi il centrodestra che avrebbe dominato per diciotto anni, conquistando tre volte il governo del Paese. Il dubbio è se ci sia ancora in giro qualcuno con un nome e un’idea all’altezza di una nuova rifondazione. «Macché. Il nome non c’è adesso come non c’era nel 1993. Tanto è vero che Silvio Berlusconi finì con il lanciare se stesso», dice Giancarlo Pagliarini, ex leghista e ministro del Bilancio nel gabinetto del ’94.

Ecco, la discussione potrebbe finire qui poiché la diagnosi di Pagliarini è ampiamente condivisa. Mario Sechi, direttore del Tempo (già vicedirettore del Giornale e di Panorama), dice che «il centrodestra italiano è raso al suolo, e il passo indietro di Berlusconi di colpo ha fatto invecchiare il berlusconismo». Per Mentana, senza Berlusconi la destra «era una merce invendibile allora, figuriamoci adesso». E pure Antonio Martino, vecchio liberale, vecchio amico del Cav., confida che lui un partito personalistico lo rivorrebbe, «ma manca una personalità: Silvio non ha nessuna voglia di tornare, Angelino Alfano è anche bravo ma non ha carisma, un erede in giro non si vede». E quindi? Uno spazio c’è, come c’era nel ’93. Si tratta di riempirlo. «E’ che nel ’93 Berlusconi pensò di importare la rivoluzione reaganiana, meno Stato e più iniziativa privata, poca burocrazia, ma ormai quella roba lì non la vuole più nessuno», dice Sechi. Eppoi questo centrodestra bipolarista, eterno giocatore di digrignanti derby, non ha ancora capito, afferma Mentana, «che davvero le nozioni di destra e sinistra sono evaporate: per quelli nati dagli Anni Ottanta in poi, il Novecento è sui libri di storia, e il voto a Grillo lo dimostra». «Se è per quello ricordo una lezione con cui Gianfranco Miglio, nel 1964, chiarì che i concetti di destra e sinistra appartenevano alla sfera infantile della politica, e presto sarebbero stati superati. E invece...», aggiunge Pagliarini. Insomma, non c’è un leader, nessuna lampadina s’accende, resta una drammatica tendenza a ripetere i postulati nemmeno della Seconda, ma della Prima repubblica.

E mentre a Martino basterebbe sbarazzarsi «dei pagliacci dell’Udc e del Fli che hanno succhiato il sangue a Berlusconi e poi lo hanno tradito», Mentana immagina «per un polo moderato, chiamiamolo così, la chance di prendere a modello la politica legalista di Flavio Tosi incentrata su più sicurezza, anche economica, su parole d’ordine chiare, persino impopolari, che prefigurino uno Stato forte, altro che deregulation». Sechi aggiunge il tema del merito «perché prevale la nausea per la gerontocrazia che si perpetua. Grillo sarà discutibile, ma porta idee e facce nuove, e prende voti. Cosa che l’attuale centrodestra non può fare in alcun modo». E’ il sistema perfetto di caricare Pagliarini: «Ma certo, quelli parlano a una società che non c’è più. Io voterei Grillo o non voterei, ed è lo stesso motivo per cui mi avvicinai a Bossi: tutti ne dicevano male perché era un ufo, perché era diverso, e più ne dicevano male più ci piaceva. Grillo fa discorsi incomprensibili e spesso inconsistenti, ma ha capito che nessuno è servitore dello Stato, semmai lo Stato è servitore del cittadino. Sogno per noi una Svizzera dove gli elettori bocciano per referendum la riduzione delle tasse. Purtroppo non abbiamo né una politica né un elettorato all’altezza».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10078
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