LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 08, 2007, 05:26:40 pm



Titolo: EDMONDO BERSELLI
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2007, 05:26:40 pm
CENTROSINISTRA / GLI SCENARI POSSIBILI

Effetto Walter
di Edmondo Berselli

La candidatura di Veltroni ha spostato l'asse politico.

Aperto il confronto nel Pd. E messo in mora Berlusconi.

Ma il punto più critico è il rapporto col governo Prodi 

L'effetto Veltroni è passato sul centrosinistra e sulla politica italiana come un ciclone. Ma i giochi sono tutti fatti? L'abilità del nuovo entrato ha davvero acceso sul flipper democratico la lucina 'game over'? Non c'è dubbio che l'iniziativa del sindaco di Roma ha realizzato un evento politico di quelli che segnano una fase. Il blitz ha avuto successo. Si può dire tuttavia già adesso che il Partito democratico è un soggetto che si crea 'senza se e senza ma' a immagine e somiglianza del candidato Veltroni?

Dipende dagli angoli di osservazione. Per il momento dentro Palazzo Chigi si guarda all'appuntamento del 14 ottobre marcando silenziosamente le distanze. Romano Prodi ha bisogno di tempo per dimostrare che l'azione di governo ha dato risultati positivi e che dopo le stagioni delle tasse è arrivato il momento della redistribuzione. Nel circuito prodiano si sta cercando di mettere a fuoco il problema principale e per molti versi paradossale dell'esecutivo: come è possibile che una serie notevole di risultati positivi (controllo dei conti pubblici, livello dell'inflazione, dati sull'occupazione, sostegno alle imprese con il taglio del cuneo fiscale, ridefinizione della politica estera) si siano trasformati nella percezione pubblica in una catastrofe. Gradimento al 26-27 per cento, minimo storico, secondo i dati commentati su 'la Repubblica' da Ilvo Diamanti.

Ma la stessa candidatura di Veltroni, con il suo eccezionale rimbombo sui media e nell'opinione pubblica, ha dimostrato che la struttura del consenso è fluida. L'impopolarità di Prodi è il frutto di aspettative asimmetriche: il Nord si aspettava sviluppo e ha avuto tasse, il Sud voleva trasferimenti pubblico e non ha avuto nulla, i ceti medi qualificati avevano fatto buon viso a una redistribuzione virtuosa, a favore dei ceti non privilegiati, che invece non si è vista.

In ogni caso l'ingresso in campo del sindaco di Roma ha spostato in modo sensibile l'asse del confronto politico. Anche l'accanimento di Silvio Berlusconi contro Romano Prodi appare in qualche misura sfasato: serve per mobilitare il becerume contro le "stronzate" di Prodi, ma non va al di là della propaganda, oltre a introdurre un ulteriore quoziente di volgarità nel confronto politico. Il capo dell'opposizione sente il bisogno di scuotere il governo e la maggioranza per cercare di ottenere le elezioni a breve termine, ma per diversi aspetti oggi il baricentro dell'Unione non è più nell'esecutivo.

O meglio. Il governo Prodi costituisce la sintesi del centrosinistra, e proprio per questo mostra continuamente la corda, in quanto deve mediare a fatica tra sinistra riformista e sinistra alternativa. Ma in questo momento, se si vuole guardare alla prospettiva, ciò che conta davvero è il riallineamento degli schieramenti in vista del futuro confronto politico.

Ora, per ciò che riguarda il centrodestra la situazione è semplice. Berlusconi deve trovare il modo per giungere alle elezioni politiche in modo da riproporsi credibilmente come leader della sua coalizione e candidato insostituibile alla premiership. Ha poco tempo. Il rientro di Veltroni nella politica nazionale, con il discorso al Lingotto, ha rappresentato anche un salto generazionale cospicuo. Ogni giorno che passa, il Cavaliere invecchia. Magari non nella sua tenuta fisiologica e temperamentale, ma nella sua immagine, nel complesso degli interessi che rappresenta, nel contenuto simbolico dei suoi ideologismi e nella visione del paese che proietta nel futuro.

In sostanza, Berlusconi incarna quel complesso di pulsioni che fanno riferimento alla piccola e piccolissima impresa, al mondo delle partite Iva, a quell'universo di cittadini che sono disposti a scontare l'inefficienza pubblica come un prezzo da pagare per consentire l'interesse privato. Veltroni invece rappresenta un'Italia proiettata nell'immaginario, capace di accensioni emotive, in cui l'economia sembra la subordinata di un'evoluzione 'postpolitica', largamente fondata su fenomeni postmaterialisti.

Il salto qualitativo è impressionante, e per certi versi anche affascinante: in fondo, il confronto ideale tra la destra proprietaria di Berlusconi e la sinistra liberale di Veltroni si configura come un faccia a faccia tra il Novecento liberoscambista del Cavaliere e del sarkozismo alla lombarda di Giulio Tremonti, da una parte, e dall'altra il Duemila scintillante e spettacolare dell'autore delle notti bianche, l'impresario politico della movida romana, delle inaugurazioni, dei concerti, dell'economia dei servizi, dei media, del cinema, della reinterpretazione dell'effimero come strumento di consenso.

Ma nello stesso tempo la postpolitica di Veltroni pone serissimi problemi anche al centrosinistra e al Partito democratico. In primo luogo perché per ora l'investitura a leader del sindaco di Roma ha tutte le caratteristiche dell'operazione dall'alto, un gioco di strategia gestito da Massimo D'Alema e Franco Marini, con la collaborazione attiva di Dario Franceschini (un cervello politico di prim'ordine, capace di intuizioni notevoli, ma propenso a un realismo che potrebbe penalizzare le aspettative che si sono appuntate sul Pd come partito della fusione 'calda', promosso dal basso, frutto di una mobilitazione popolare), e con il sostanziale via libera di Francesco Rutelli, che per il momento sembra avere rinunciato, almeno nel breve periodo, alle ambizioni personali.

Resta da vedere quindi se il partito che nascerà il prossimo 14 ottobre può effettivamente organizzarsi intorno a una sola, per quanto amplissima e totalizzante, proposta politica. Se intorno a Veltroni si costituirà uno spettro di correnti secondo uno schema democristiano. A dispetto delle valutazioni più fideistiche sul carisma di Walter, nel Nord è presente una forte aspettativa legata ai temi più tradizionali della sinistra riformista, come il lavoro, l'impresa, la competitività sui mercati, le liberalizzazioni, l'impulso alla concorrenza e alla sburocratizzazione. È davvero possibile ricondurre tutto questo a una candidatura unico?

Nella sua intervista a 'L'espresso' e nella lettera di martedì scorso a 'La Stampa', Arturo Parisi ha confermato la sua concezione di un partito basato su un confronto esplicito, aperto, senza schemi precostituiti. Il principale ideologo del Pd, Michele Salvati, ha proposto sul 'Corriere della Sera', con una lieve provocazione, la candidatura di Guglielmo Epifani contro Veltroni: un modo per segnalare la necessità che il 'partito nuovo' nasca dalla dialettica e non dall'unanimismo, concludendo che se non c'è competizione, alle primarie del 14 ottobre "starò a casa".

Nel frattempo però sono diventate fortissime le pressioni verso una soluzione unitaria. Piero Fassino ha frenato il possibile candidato Bersani chiedendo che non venga scalfita "l'unità riformista". A Milano, il sottosegretario Enrico Letta, compagno di strada se non 'gemello' del ministro dello Sviluppo economico, ha sviluppato una piattaforma programmatica senza sciogliere i dubbi sul suo impegno diretto. Rosy Bindi ventila una candidatura di testimonianza, ma nel frattempo è in surplace. "Lanciare un partito nuovo", dice Salvati, "è stato un atto di coraggio. Ma ora questo coraggio non bisogna rimangiarselo".

Anche perché, come sanno bene a Palazzo Chigi, il punto centrale e critico della candidatura di Veltroni riguarda il rapporto con il governo Prodi. Nel caso di una intronizzazione mediatico-plebiscitaria, il rapporto fra il leader designato Veltroni e l'esecutivo di centrosinistra diventa critico. Se invece parte il gioco delle candidature, con il Partito democratico che diventa un'arena di confronto, Prodi si può riparare a Palazzo Chigi in attesa del risultato, e proporsi ancora come una sintesi pratica fra le anime della sinistra moderata.

In sostanza: con un Veltroni plebiscitato, sarà difficile mantenere una diarchia. Con un Veltroni sottoposto al vaglio democratico del voto delle primarie e a una competizione credibile, Prodi può prolungare se stesso: come un governo di garanzia, come un garante delle intese possibili in una politica che non è definita a priori.


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Il rebus del decalogo
 
I famosi 45 del Comitato promotore del Pd hanno già ricevuto la bozza di regolamento per l'elezione dell'Assemblea costituente del 14 ottobre, un po' pomposamente ribattezzata 'Decalogo per le assemblee costituenti del Pd'. Stefano Ceccanti, Salvatore Vassallo e Giuseppe Busia, i tre esperti tutti e tre ex Fuci (gli universitari cattolici) hanno sfornato l'ultimo testo una settimana fa, con la candidatura di Veltroni già sul tavolo. Con alcuni punti fermi: si vota domenica 14 ottobre, per eleggere 2.400 componenti dell'Assemblea costituente e i coordinatori regionali del Pd. Per partecipare ciascun cittadino dovrà dichiarare l'adesione al Pd e versare cinque euro. Si vota con il vecchio Mattarellum: l'Italia sarà ripartita in collegi uninominali, ogni collegio elegge almeno tre delegati che corrono in liste con l'alternanza uomo-donna. Ciascuna lista può indicare un candidato alla segreteria nazionale.

Per candidarsi alla leadership occorrono tra le 2 mila e le 3 mila firme raccolte in almeno cinque regioni, entro 15 giorni dall'approvazione del regolamento: presumibilmente, fine luglio. Potranno votare, novità assoluta, anche i sedicenni. Così, almeno, recita il decalogo.

Ora spetta ai 45 decidere.


da espressonline


Titolo: L'ideologia del forzaleghismo
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2007, 05:52:05 pm
POLITICA
IL COMMENTO

L'ideologia del forzaleghismo
di EDMONDO BERSELLI


DEV'ESSERE all'opera uno dei grandi e ricorrenti paradossi italiani se una delle più squinternate iniziative politiche mai lanciate nel nostro paese, la rivolta fiscale architettata da Umberto Bossi, è diventata un tema sociale e politico di primo piano. Il paradosso è che la ribellione contro le tasse avviene nel paese dell'evasione. D'altronde non si può dimenticare che, sotto la guida del suo insostituibile leader, la Lega ha lanciato nel tempo diverse altre iniziative insensate, dal parlamento di Mantova al governo padano, dalle elezioni del Nord nei gazebo alle minacce di secessione e di spartizione "federale" dell'Italia.

Quindi non c'è da stupirsi se Bossi proietta nel cielo della politica agostana una provocazione delle sue: semmai ci sarebbe da mettere a fuoco che l'estate è costellata di clamorosi casi di evasione o elusione fiscale, a cominciare dall'affaire che coinvolge il londinese "residente non domiciliato" Valentino Rossi. Sicché si ha la sgradevole sensazione che dietro l'appello all'insurrezione antitasse si nasconda una mobilitazione di alcuni ceti contro gli altri, i "liberi di evadere" contro gli obbligati al pagamento.

Si capisce in questo senso la totale sintonia che Silvio Berlusconi ha confermato al suo principale alleato, proprio lui Bossi. Non dovrebbe sfuggire infatti, e lo confermano le prese di distanza da parte di Alleanza nazionale e dell'Udc, che la ventilata insurrezione contro la fiscalità generale è un tipico tema del "forzaleghismo", cioè dell'ideologia profonda della Casa delle libertà, di quel nordismo sbrigativo che accomuna il mondo della Lega con l'insediamento politico ed elettorale di Forza Italia.

Sono settori del commercio, della piccola impresa, parte del tessuto imprenditoriale, professionale e in generale del lavoro autonomo, in sostanza quell'universo sociale che rifiuta antropologicamente la sinistra, non vuole saperne di parole come redistribuzione, e considera le tasse semplicemente come un prelievo insopportabile, a cui sottrarsi ogni volta possibile. Che questo discorso non tocchi il lavoro dipendente privato e pubblico, il quale non ha la minima possibilità di sottrarsi alla tassazione sul reddito, è la dimostrazione di quanto sia ideologica la forzatura di Bossi, vale a dire di come sia legata alla nozione di un'autentica lotta di classe (dichiarata, come si vede, dalla parte avvantaggiata).

Per questo vanno prese sul serio le parole con cui Walter Veltroni ha commentato l'appello di Bossi ("Se passa il principio che chi perde le elezioni smette di pagare le tasse, questo paese ha finito di esistere"); anzi, vanno semmai approfondite, proprio in quanto la rivolta fiscale non minaccia di inceppare soltanto il funzionamento dello Stato, ma costituisce la premessa di un confronto sociale durissimo, virtualmente capace di spaccare in due parti la società italiana, e di progettare la politica come la vendetta dei privilegiati su tutti gli altri.

"Prodi deve andarsene", dice Bossi, "perché così vuole la gente". Sbaglia, volutamente, per eccesso: pretende la caduta del governo un certo tipo di "gente", quella che immagina di poter trarre ricavi consistenti dai principi politici e fiscali del forzaleghismo. E in questo senso, se si capiscono quali interessi sono in gioco, diventa meno surreale la discussione se sia giusto, o doveroso, pagare le tasse. Diventa meno bizzarro che il segretario di stato vaticano, monsignor Tarcisio Bertone, avverta il bisogno di annunciare al meeting di Rimini che davanti a "leggi giuste" pagare le tasse è un dovere.

Non è il caso di prendere sul serio le dichiarazioni di Roberto Calderoli, che ha visto nelle parole del cardinale un sostegno alle posizioni leghiste. In effetti se le leggi sono ingiuste, come pensa Calderoli sulla base del dogma bossiano, è giusta la ribellione. C'è solo il problema di individuare chi sia, e in base a quali norme, a decidere se le leggi sono giuste o sbagliate.

Per la verità, monsignor Bertone si è limitato a stabilire un criterio di pura ovvietà. Non è poco, dal momento che quando il povero Prodi espresse la propria meraviglia perché nelle omelie domenicali non si sentono spesso inviti alla correttezza fiscale, ci furono risposte piuttosto risentite. Giulio Andreotti dichiarò che quelle parole non gli erano piaciute, e quindi praticò la piccola rappresaglia di votare contro il governo al Senato. Il settimanale dei paolini "Famiglia cristiana" rispose che pagare le tasse è un dovere, ma aggiungendo la clausola insidiosa che quando poi si assiste allo sciupio delle risorse pubbliche, quel dovere appare un'imposizione arbitraria: senza che molti mettessero in rilievo che questo è il tipico sofisma paraleghista dell'evasore: "pagherei le tasse se lo Stato non sprecasse i miei soldi".

E dunque bisognerebbe salutare le parole del segretario di stato Bertone semplicemente come un omaggio all'ovvio. Ma di questi tempi anche l'ovvietà, nella politica italiana, sembra esprimere una salutare controtendenza. Quindi viene voglia di ringraziare le ovvietà del cardinale: almeno per quel poco o quel tanto che contribuiscono a ripristinare condizioni di equità fra le due Italie del fisco, quella che paga automaticamente in silenzio e quella che invece può permettersi di aderire alla rivolta fiscale o di fomentarla. E talmente squilibrato il rapporto fra queste due porzioni di società che ogni parola a conforto risulterà consolante, e non solo per il governo Prodi.

(20 agosto 2007)

da repubblica.it


Titolo: Edmondo BERSELLI - Se Unione fa rima con tassazione
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2007, 11:35:54 am
PORTE GIREVOLI

Se Unione fa rima con tassazione
di Edmondo Berselli


L'azione fiscale del governo mostra solo la faccia cattiva di Visco. E non l'altra che punta alla crescita del paese 

Dietro la concezione delle tasse espressa dall'Unione dev'esserci una incomprensione del paese reale. Non si spiega altrimenti il forcing autolesionista che ha dato luogo alla sortita sulla tassazione delle rendite al 20 per cento. Non tanto perché la misura non sia 'giusta' o 'in linea con l'Europa', ovvero 'compresa nel programma del centrosinistra': tutto vero, ma la catastrofe comunicativa nasce dalla sensazione che si tratti di un nuovo balzello. L'aumento, se non si è capito male, ci sarebbe (da due a due miliardi e mezzo di euro), ma il senso dell'intervento su questa porzione del regime fiscale andrebbe nel senso di una razionalizzazione complessiva. E allora ditelo, fatelo capire, argomentatelo: non lo si può presentare slegato da una concezione di fondo, dentro un quadro riformatore, altrimenti i cittadini capiscono una sola cosa: mani nelle tasche.

Tutto questo mentre il gettito tributario continua a superare le previsioni, per ragioni che non sono ancora state spiegate con chiarezza. E soprattutto mentre il centrodestra sta coordinando tutti i propri sforzi per dipingere il governo Prodi come un'idrovora che drena risorse dal sistema economico e spegne la crescita. Nello stesso tempo, l'ex Casa delle libertà, compreso Pier Ferdinando Casini, conduce una campagna per imporre i propri stereotipi e la propria retorica all'opinione pubblica. Uno dei più martellanti sostiene che il livello di tassazione 'percepito come giusto dai cittadini' è un terzo del reddito. E su questa bubbola per babbei la propaganda diventa asfissiante: tutti gli esponenti grandi e piccini del centrodestra la ripetono con compunzione, facendola diventare una realtà autoevidente.

In realtà, basta leggere gli ottimi e sintetici articoli di Nicola Cacace sull''Unità' per rendersi conto che la propaganda dei berluscones è una bufala colossale, che il livello di tassazione italiana è solo leggermente superiore alla media europea, che rimane un problema di eccessiva tassazione del profitto d'impresa (temperato come sempre da livelli di elusione molto elevati), eccetera eccetera, con tanti saluti alla favola delle tasse a un terzo del reddito.

Ma per rispondere alla campagna del centrodestra, che nell'autunno diventerà martellante, e di cui Umberto Bossi ha già dato un saggio con la storiella militare del fucile ("C'è sempre una prima volta"), occorre una consapevolezza un po' più sofisticata di quanto l'Unione non abbia dimostrato finora. Vincenzo Visco avrà tutte le ragioni a ricordare che il problema risiede nella "pandemia" dell'evasione, che nonostante tutto è a livelli intollerabili per un paese europeo evoluto.

Ma l'azione del 'cane da guardia' Visco, terrore dei commercialisti e del lavoro autonomo, rappresenta solo una faccia, quella cattiva, dell'azione fiscale del governo. Ce ne dovrebbe essere un'altra, legata all'uso della leva fiscale come strumento per favorire la crescita. E su questo punto l'Unione brancola. Aveva cominciato male il suo lavoro, rimodulando la curva dell'Irpef dopo il 'regalo' di Giulio Tremonti nella scorsa legislatura, senza accorgersi che colpiva indiscriminatamente il lavoro dipendente qualificato, cioè il settore sociale dove l'Ulivo aveva il maggiore insediamento ("Solo voi potete capirci", aveva ridacchiato con un po' di imbarazzo Pier Luigi Bersani quando glielo avevano fatto notare).

Ma eravamo ancora nella plumbea stagione post-berlusconiana in cui sembrava che i conti fossero allo sfacelo e quindi il sacrificio obbligatorio. Oggi invece sarebbe il momento di agire per dare slancio al paese, e non soltanto alle aziende, già gratificate dal taglio del cuneo. Invece, il modello di pensiero prevalente nell'Unione sembra quello di una distribuzione del vantaggio fiscale a stralci, in parte 'ai redditi più bassi', 'alle famiglie', in parte 'alle imprese', sempre con una concezione che sembra preferire il sostegno egualitarista più che l'incentivo.

In realtà, si tratterebbe di far capire a settori consistenti della società italiana che il governo non ha intenzione di mettere i bastoni fra le ruote alle aree più dinamiche, che non intende più penalizzarne il reddito. Anche perché sono queste categorie che hanno visto tutte le corporazioni protestare e ottenere qualcosa dopo ogni protesta, per riprendere a protestare subito dopo, dato che la protesta conviene. Solo il lavoro dipendente tace, perché la sua rappresentanza naturale, il sindacato, ha un solo pensiero fisso, le pensioni. Forse, un pensiero su questo tema da parte di Enrico Letta, candidato 'democrat' in sintonia con un'idea di sviluppo, non sarebbe sgradito, a quell'elettorato così mortificato e così prezioso.


da espressonline.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2007, 10:54:23 pm
PORTE GIREVOLI

Beppe grillo l'algerino
di Edmondo Berselli


Sartori getta la spugna e si mostra ingrillito. Ma noi al posto di un De Gaulle abbiamo il comico genovese  Beppe GrilloLa premessa è che il professor Giovanni Sartori è il maggiore scienziato politico italiano, possiede un prestigio indiscusso, ha un alone di autorità internazionale. Liberaldemocratico a pieni titoli, ha insegnato a tutti che cos'è la democrazia. Se non abbiamo capito male a suo tempo, secondo la lezione di Sartori, la democrazia è un sistema di governo articolato in istituzioni, fatto di procedure, determinato da processi formalizzati. (È anche tante altre cose, ma questa sintesi estrema dovrebbe essere sostanzialmente corretta).

Bene, la settimana scorsa, sulla prima pagina del 'Corriere della Sera', Sartori ha pubblicato un editoriale che potremmo considerare una specie di evento culturale. Parlava di Beppe Grillo, che "ci sa fare", della 'casta' descritta da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, della terra che trema sotto la classe politica. Usava parole come "putrefazione"; ventilava un possibile "tsunami"; e concludeva: "Confesso che una ventata - solo una ventata - che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili".

Il professor Sartori ha ripetuto concetti simili anche nel programma di Santoro 'Annozero'. Per questo non sembra un'esagerazione parlare di evento culturale, a proposito del Sartori ingrillito. Perché se il venerato maestro di tutti noi getta la spugna, e dichiara che il sistema politico italiano è da buttare, e il ceto politico da liquidare, non so come la pensi l'opinione pubblica media, ma c'è da prenderlo sul serio.

Sono quasi vent'anni che si cerca di razionalizzare il sistema politico della Repubblica. Siamo passati attraverso ondate (o ventate) di populismo, in coincidenza con Tangentopoli e in seguito alle sferzate antipolitiche di Silvio Berlusconi e della Lega; sono stati cercati rimedi istituzionali con i referendum elettorali dei primi anni Novanta, con l'imperfetta legge elettorale semimaggioritaria, battezzata 'Mattarellum' proprio da Sartori, con tentativi farraginosi di riforma costituzionale. Può essere che i rimedi siano stati insufficienti. D'altra parte, contro l'incerto e ondivago sforzo di raddrizzare le gambe storte del sistema, e contro la transizione infinita, si è abbattuto anche il disastro della legge elettorale approvata unilateralmente nel 2005 dalla Casa delle libertà, il 'Porcellum' (altra definizione di Sartori).


Ma a questo punto, è inutile stare a sottilizzare: Sartori è andato giù con la scure: putrefazione, Seconda Repubblica palude imputridita. Non rimane che rivolgere al maestro, con una certa angoscia, la domanda classica: 'che fare?'. Perché è stato lui a insegnarci che la politica si può migliorare solo attraverso le istituzioni: e noi ci eravamo convinti, adottando la via faticosa dei miglioramenti graduali, delle riforme possibili, dei compromessi praticabili.

I sistemi politici si possono modificare attraverso trasformazioni istituzionali; con l'emergere di leadership e proposte culturali nuove; con la trasformazione dei partiti. In Italia, abbiamo provato tutte queste strade, e il risultato è ormai chiaro: non una transizione incompleta ma una transizione spezzata. Probabilmente Sartori potrebbe aggiungere che le democrazie cambiano anche in conseguenza di vicende traumatiche: una sconfitta in guerra, un cambio di regime istituzionale come la fine di una monarchia.

Tuttavia le rivoluzioni devono creare altre istituzioni, pena il fallimento. Lo ha insegnato Tocqueville, lo ha spiegato Hannah Arendt. Forse Sartori ha in mente che i sistemi democratici più o meno putrefatti possono essere travolti da eventi esterni, o eccentrici rispetto alla politica tradizionale. Il caso citato più di frequente è quello dell'Algeria, che procurò alla Francia il passaggio dalla ingestibile Quarta repubblica all'efficienza politica della Quinta.

Solo che il nostro algerino si chiama Grillo, e la nostra Algeria è un'Algeria interna, fatta di un 'popolo' astioso, anzi rabbioso, convinto che si possa andare verso modalità di democrazia diretta, felice di spedire il proprio insulto, 'vaffa', verso tutti. In sostanza, già le proporzioni sono squilibrate, se è vero che la Francia ha avuto il generale De Gaulle e noi abbiamo Beppe Grillo. Sicché non resta che prendere atto dello scarto di Sartori; ma poi viene naturale chiedergli davvero come agire, secondo quali prospettive, in che direzione. Si può anche augurarsi che la Repubblica imputridita venga spazzata via: ma dopo, e anche intanto, caro maestro, 'che fare'?

(28 settembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI - Qualcosa è accaduto
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2007, 12:45:11 pm
POLITICA

IL COMMENTO

Qualcosa è accaduto

di EDMONDO BERSELLI


Ci vuole una certa inclinazione alla fiducia per credere all'ultima posizione assunta da Silvio Berlusconi; eppure con l'incontro di ieri fra il leader degli azzurri e Walter Veltroni il processo politico ha assunto una velocità improvvisa, e sul tappeto c'è un accordo possibile sulla riforma elettorale. Forse si profila anche qualcosa di più, il ridisegno del sistema politico italiano.
È vero che la tessitura dell'accordo è fragilissima, e che l'intelaiatura potrebbe crollare al minimo colpo di vento. Ma intanto, qualcosa è accaduto. Da quel che si capisce, non si è trattato di un'improvvisata. Non c'è un gesto estemporaneo, una trovata spettacolare, un'invenzione plateale, all'origine del faccia a faccia tra i due leader. La situazione politica si è messa in moto, e con modalità telluriche, dal momento della nascita del Partito democratico. Quella che era stata giudicata una deludente fusione a freddo, si è rivelata l'innesco di un mutamento multiplo, che come in un sistema di vasi comunicanti si è trasmesso a destra e a sinistra. Nelle ultime settimane si è poi sviluppata una decifrabile trama diplomatica, e ieri si è cominciato a osservarne i primi effetti.

In primo luogo, si è annullata come per miracolo la pregiudiziale di incompatibilità fra il leader di Forza Italia e il leader del Partito democratico. Berlusconi aveva riconosciuto nei giorni scorsi la legittimità democratica del centrosinistra "moderato", per poi presentarsi, con la solita goliardia, come il "Messia" che conduce o costringe il centrosinistra verso un approdo liberal o socialdemocratico. Per parte sua, Veltroni ha cercato l'incontro con il suo interlocutore, senza cedere alla tradizionale ostilità metafisica della sinistra verso il Cavaliere nero.
Detto questo, il summit di ieri ha marcato una ulteriore novità, e consistente, sul piano dei rapporti fra opposizione e maggioranza. Per la prima volta la caduta del governo Prodi, o la sua uscita dalla comune in caso di approvazione della nuova legge elettorale, non è stata rivendicata da Berlusconi come una condizione ultimativa del dialogo sulla formula del voto, e questo fa pensare a un nuovo e significativo cambio di passo da parte del leader del centrodestra. Vale a dire che dopo essersi logorato i muscoli (e anche l'immagine, agli occhi dei suoi ex alleati) nello sterile esercizio, a dispetto degli slogan propagandistici e delle acrobazie lessicali Berlusconi sta ragionando nei termini di un progetto di più lungo periodo.
Progetto che è figlio di una sconfitta ma che in fondo è semplice, non è solo suo, e che può attrarre consenso. Infatti la dichiarazione di morte presunta del bipolarismo è largamente condivisa dall'arco delle forze politiche.

A sinistra si oppongono alla "deriva proporzionale" quasi soltanto gli ulivisti capeggiati da Arturo Parisi, che vedono con orrore il ritorno alla politica delle "mani libere". A destra, Gianfranco Fini insiste perché il sistema elettorale resti ancorato su alleanze dichiarate in via preventiva e sull'indicazione del premier da parte degli schieramenti, ma è difficile capire se si tratta di qualcosa in più della resistenza di un leader fortemente indebolito, che cerca di ritrovare uno spazio e un ruolo in una prossima alleanza.
Per il resto, si tratta di sfumature e di interessi. Sfumature tedesche che piacciono a Rifondazione comunista e all'Udc, sfumature spagnole che spiacciono, e si capisce, ai partiti più piccoli. Interessi alla sopravvivenza, da parte di qualsiasi entità politica presente in Parlamento, e interessi corposissimi da parte dei due protagonisti. Perché Veltroni e Berlusconi stanno già immaginando quale dovrebbe essere il format della politica futura. Schema americano, due personalità e due partiti schierati l'uno contro l'altro, con un metodo elettorale che favorisca le due forze maggiori, e che induca le entità minori a raggrupparsi.

Non sorprende, allora, che ieri si sia osservata una sostanziale coincidenza di vedute sul modello elettorale ispano-tedesco, il "Veltronellum" o "Vassallum" che dir si voglia, almeno come base negoziale. E neppure che Berlusconi abbia accettato di prendere in considerazione quelle modificazioni dei regolamenti parlamentari tese a rafforzare il potere del capo del governo. Resta decisa la sua opposizione alle riforme costituzionali elencate da Veltroni, dalla riduzione del numero dei parlamentari al superamento del bicameralismo, ma è evidente che questo tema è condizionato dal fattore tempo: se ci fosse un accordo ragionevole e i tempi di realizzazione fossero prevedibili, uno spazio di trattativa si aprirebbe.

Dopo di che, occorre chiedersi quali sono le probabilità che questo progetto vada in porto. In verità il cammino è accidentatissimo, perché c'è la necessità di trovare un accordo soddisfacente sia per i due piccoli giganti, Pd e Pdl, sia per i "nanetti", che di fronte a una minaccia alla loro esistenza possono in ogni momento far saltare governo, legislatura e accordi di sistema. Basta niente per mandare all'aria il puzzle. E il referendum incombe, offrendo tentazioni di sabotaggio ai partiti più piccoli. Ma il rischio peggiore è che per tenere insieme interessi diversi, e per far sì che il compromesso tra Veltroni e Berlusconi non assomigli a un patto leonino, il modello ispano-tedesco venga condito all'italiana, con soglie di sbarramento infinitesimali ed espedienti per il recupero anche dei partiti minimi. Ieri potrebbe anche essere crollato un muro, fra i due partiti a vocazione maggioritaria che vogliono disputarsi il governo.

Ma se al crollo del muro non seguisse la costruzione di un edificio istituzionale decente, resterebbero per terra le macerie. E con le macerie, l'ultima occasione per provare a razionalizzare la politica italiana.

(1 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: Edmondo Berselli - Luttazzi fa autogol
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2007, 10:06:28 pm
TELEVISIONE

Luttazzi fa autogol

di Edmondo Berselli


La conclusione alla querelle televisiva con Giuliano Ferrara è che i satiristi farebbero bene a scegliere con attenzione i loro bersagli  Ciò che è sfuggito ai critici di Daniele Luttazzi nella querelle televisiva con Giuliano Ferrara, è che si è trattato di un duello fra spiriti irridenti: e nonostante Luttazzi si qualifichi (anche con apposite epistole a Dagospia e a questo giornale) come satiro politico, sottolineando politico, la vittoria è andata al politico satirista direttore del 'Foglio', sottolineando satirista.

Non solo perché di questi tempi la vena di Giulianone si è mostrata in abbondanza sul suo giornale con l'autocandidatura alla direzione prima de 'l'Unità' degli Angelucci e poi del 'manifesto' nella versione Cusani; da tempo infatti Ferrara conduce una battaglia sulfurea, in quanto fautore di D'Alema che sostiene il partito di Veltroni con il supporto di Berlusconi (ma in privato aggiunge sornione: "Sì, ma con la benedizione di Ratzinger").

Bene, contro un tipaccio così, l'esile Luttazzi aveva tutto da perdere: perché mentre molti lo criticavano per la maleducazione, il conduttore di 'Otto e mezzo' ha pubblicato sul 'Foglio' una recensione di Luttazzi, firmata dall'acribioso Christian Rocca, in cui si dimostrava che l'ormai celebre scena sadomaso che immortalava il ciccione nella vasca da bagno, sommerso da un profluvio sterco-urinario, era il calco di uno sketch di Bill Hicks vecchio di anni; la definizione del neologismo 'giulianone' come l'esito immondo di una pratica sessuale alternativa si deve al comico Dan Savage; e un'idiozia sul volo di una mosca per cui Luttazzi si accapigliò con Bonolis, ritenendosi scippato, oltre che essere patrimonio dell'umanità ha il copyright del comico George Carlin.

Conclusione: i satiristi farebbero bene a scegliere con attenzione i loro bersagli.


(20 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2007, 06:51:41 pm
Si va verso il Referendum

È l'unica via per superare l'impasse sulla legge elettorale e per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica 

DI EDMONDO BERSELLI


Non ci vuole una fantasia eccezionale per immaginare tutte le difficoltà che il negoziato 'di sistema' fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale si troverà ad affrontare, oltre a quelle che ha già incontrato nelle prime mosse. Da un lato ci sono le infinite varianti che qualsiasi formula deve contemplare per non scontentare troppo i soggetti politici minori, partiti e partitini (che nel centrosinistra potrebbero praticare ritorsioni contro il governo, e nel centrodestra minacciare svolte strategiche sul piano delle alleanze elettorali, portando sino in fondo la politica delle mani libere). E in via complementare a complicare le cose ci sono gli interessi dei partiti, maggiori e minori, che si intersecano con la tattica, la visione e le ambizioni dei leader, nonché il problema della durata del governo, e quindi della coalizione un tempo chiamata Unione, e dell'ex Casa delle libertà: insomma, una scacchiera con troppe varianti.

Tradotto in sintesi, il tema della legge elettorale può essere enunciato nel modo seguente, in una specie di nuovo Postulato delle impossibilità: "I conflitti sul sistema proporzionale sono il frutto della proporzionale". Vale a dire: noi ci troviamo già ora in una condizione proporzionale. Il metodo maggioritario è stato abbandonato dalla classe politica, sulla base del giudizio sommario secondo cui 'il bipolarismo è fallito'. Conta poco che il fallimento sia stato determinato dalla scelta suicida e folle del Porcellum, che reintroduceva la proporzionale esaltando il ruolo di ogni entità politica presente in un'alleanza politico-elettorale. Adesso si tratta di fare i conti con un consenso quasi generale che pretende il ritorno alla Repubblica manovriera dei partiti, delle contrattazioni post-elettorali, degli aghi della bilancia, dei due forni.


Benissimo, ci vuole realismo, inutile fissarsi sulle illusioni. Tre politologi, Piero Ignazi, Luciano Bardi e Oreste Massari hanno rilanciato sul 'Sole 24 Ore' l'argomento dell'uninominale a doppio turno (il sistema francese), ma il fascino della proporzionale è irresistibile. In primo luogo perché toglie drammaticità al confronto politico: c'è in tutti la convinzione ragionevole che con la proporzionale chi vince conquista il potere, ma chi perde non perde mai del tutto e mantiene un rassicurante potere di veto. Da questo punto di vista, anche le organizzazioni di rappresentanza economica, la Confindustria, le grandi aziende come Enel e Eni, il sistema bancario, il mondo dell'informazione, a cominciare dalla Rai, si sentono tutti rassicurati.

Si torna all'Italia del patteggiamento, e ciò risulta terapeutico per l'ansia di chi non sopporta il sapore della sconfitta, nonostante il fantasma delle lottizzazioni future. Eppure proprio il sentimento proporzionalista impedisce una razionale scelta della formula: ragion per cui ci si accapiglia sul Vassallum di Veltroni, sul sistema tedesco con doppia scheda elettorale, sulle soglie di sbarramento del progetto Bianco, sull'ampiezza delle circoscrizioni nel modello ispano-germanico, ancora su eventuali 'premietti' di maggioranza.

Eh sì, decenza vorrebbe che il nuovo metodo favorisse la formazione e la competizione di due partiti principali, costringendo i satelliti a raggrupparsi. Ma per ottenere questo scopo occorrerebbe un accordo di ferro tra Berlusconi e Veltroni, che in troppi hanno interesse a sabotare, per convenienze di bottega, gridando all''inciucio'. È chiaro tuttavia che accontentando tutti si arriva alla proporzionale pura, cioè presumibilmente alla disgregazione del sistema politico.

E allora la domanda sul 'che fare' ha poco senso in questo momento. Sarà pure possibile anche un tentativo di Romano Prodi, per quadrare il cerchio, in modo che l'accordo fra Silvio e Walter sia blindato dal governo in modo da garantire gli alleati della maggioranza, quelli a sinistra del Partito democratico. Ma è molto più probabile che invece si vada inevitabilmente verso il referendum. A metà gennaio la Corte costituzionale esprimerà il suo parere in proposito. Se sarà positivo, tanto vale prendere atto che il referendum si profila come l'unico modo per superare l'impasse. E anche per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica. Perché sono mesi che ci si dedica al discorso sul metodo: che è un'attività cartesiana, ma che a un certo punto dovrà pur cedere il passo ai contenuti. Altrimenti, è vero che la metafora bizantina è abusata: ma si resterebbe sempre di qui all'eternità, nei corridoi della politica a disquisire del sesso angelico della proporzionale.

(20 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2008, 12:22:01 pm
TELEVISIONE

Servizietto pubblico

di Edmondo Berselli


L'Italia non è un paese avanzato.

Siamo nel pieno del Medioevo più la televisione: di là si staglia l'Imperatore, di qua si profila il feudatario  D'accordo, è vero, come obietta su 'la Repubblica' Giovanni Valentini, che in tutti i paesi avanzati c'è il servizio pubblico e c'è il canone, anche molto più caro che da noi. Ma c'è un ma. L'Italia non è un paese avanzato.

Siamo nel pieno del Medioevo più la televisione: di là si staglia l'Imperatore, con i suoi possedimenti immensi su cui non cala mai l'antenna, di qua si profila il feudatario, il vassallo, il valvassore, fino al giullare di corte e al servo della gleba, richiesto di certe corvée. Per capire questa realtà feudale, che sfiora la grandezza degli affreschi di Marc Bloch per inoltrarsi nei territori dei Vanzina, basta un ripasso dei ludi telefonici fra Silvio Berlusconi e Agostino Saccà.

Presidente, direttore, tu, lei, il papa, la soldatessa, lo stronzo, quasi meglio di Totò e Peppino, con annessa la malafemmina di turno.

Ragion per cui si tratterebbe di capire come si può riformare il servizio pubblico (o il servizietto, per meglio dire) per rifarlo più bello e più grande che pria (bravo, grazie). E la risposta è quella volterriana: nel migliore dei mondi possibili, quello del dottor Pangloss, basta una buona riforma, per ridare alla televisione una "maggiore" autonomia dalla politica, come dice di solito il ministro Gentiloni. Ma siccome noi viviamo in uno dei peggiori pianeti dell'universo, maggiore o minore autonomia sono parole che non valgono niente.

Tanto vale prenderne atto, e trarre le conclusioni. Si è sempre detto che la Rai è lo specchio del paese. Be', il paese è quel che è, e fa quel che può.

Oltretutto, con il ritorno della proporzionale, l'incubo della lottizzazione è ancora più incombente.

Nessuno che abbia buoni propositi, per l'anno che comincia?

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Edmondo BERSELLI - I sinistrati. Radiografia degli errori che hanno messo in...
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 10:57:38 pm
I sinistrati

di Edmondo Berselli

Le liti continue. Le scelte impopolari. Il tradimento di Mastella. Il progetto di Veltroni di correre da solo.

Radiografia degli errori che hanno messo in crisi l'Unione. E dato fiato all'antipolitica 


Una specie di processo. Oppure una seduta di autocoscienza politica. Fumo di sigari toscani. Gli sguardi dello staff di Palazzo Chigi, qualcuno sbigottito, qualcuno divertito, tipo euforia degli abissi, allegria di naufraghi. Battute finto ciniche, e una domanda che aleggia sulla crisi: mi sapete dire dove abbiamo sbagliato? Già, dov'è l'errore fondamentale del governo Prodi, dov'è il baco della maggioranza? La domanda principale che si rivolgono tutti è semplice. Nasce da una constatazione brutale, già messa a fuoco da tempo: una serie di dati sostanzialmente positivi è stata percepita dall'opinione pubblica, dai cittadini, dall'elettorato, anche dentro il centrosinistra, come un disastro totale. E allora di chi è la colpa di questa malattia? Risposta: di Berlusconi e dei berluscones. Controllo di ampi settori di stampa, le reti Mediaset.

No, troppo facile. Facciamo la lista: abbiamo avuto un po' di crescita che il Cavaliere se la sognava di notte, i conti sotto controllo, la ricostituzione dell'avanzo primario, il deficit ridotto oltre le attese alla faccia di Almunia, la disoccupazione in discesa, l'inflazione sotto le aspettative, l'andamento del debito pubblico finalmente di nuovo in discesa, l'evasione messa sotto attacco, il tesoretto, i primi effetti della redistribuzione, l'abolizione dello scalone, la 'quattordicesima' ai pensionati poveri, l'adozione di strumenti a favore del lavoro discontinuo. I precari, dici? Ok, tutti argomenti forti, che 'Romano' ha rivendicato a Capodanno, cercando di passare all'attacco e scommettere sulla "nuova concertazione" con le imprese e il sindacato. Per provare a far crescere la produttività, abbassare le tasse, sostenere i redditi.

E allora, secondo voi che cosa è andato storto? C'è anche un'altra risposta: la comunicazione. Il governo agisce ma non sa comunicare. Facce che si rivolgono verso il volto freak di Silvio Sircana, il 'portavoce unico' del governo nominato a Caserta all'epoca della verifica nei pressi della reggia (anzi, "l'unico portavoce di cui non si conosce la voce", ironizzano anche i suoi amici e i collaboratori).

Ancora no, tutte storie. All'epoca, pure il governo Berlusconi, Dio l'abbia in gloria, elevava ululati lamentandosi che le sue trentasei o trentasette mirabili riforme erano state fraintese, non capite. E prima di lui si erano lamentati Giuliano Amato e Massimo D'Alema. No, ragazzi, quando il popolo non capisce non si può fare come diceva Bertolt Brecht, cioè chiedere le dimissioni del popolo. Ci dev'essere una ragione strutturale.

C'è sempre una ragione strutturale, dicono i più realisti. Quelli come Giulio Santagata, per esempio, che si ostinano a guardare i fatti. O quelli che sono stati considerati i pasdaran, almeno per un certo periodo, dell'Unione, come Arturo Parisi. I prodiani puri. È colpa loro, dice qualcuno, perché in seguito alla loro miopia, o alla loro fissazione intellettuale, non si è stati capaci di leggere adeguatamente il risultato delle elezioni del 9 aprile 2006.

Non avevamo vinto, boys. 'Romano' poteva anche dire che la maggioranza così ridotta era "sexy", ma questa era un'illusione ottica. Sexy sarà Carla Bruni, chiedere a Sarkozy, non Clemente Mastella. E quindi è stato un errore fare la voce grossa, e forzare sulle cariche istituzionali. Probabilmente non si poteva dare retta a Berlusconi sul governo istituzionale, sulle larghe intese, soprattutto dopo un voto che aveva spaccato l'Italia e una campagna elettorale che era diventata uno scontro di civiltà.

Ma la politica è la politica, devo dirvelo io? Si poteva essere più duttili. Parisi aveva detto che "vincere significa prendere un voto in più"? A che cosa è servito prendersi la presidenza della Camera, quella del Senato, e infine il Quirinale? Più che altro a rendere tesi i rapporti, a mostrare ingordigia, a sprecare energie anziché a creare spazi operativi.

Non dovevamo essere così fondamentalisti, dice qualcuno. Ci voleva diplomazia verso Casini. E soprattutto dovevamo rivolgerci al Paese con messaggi più rigorosi. Noi eravamo quelli della sobrietà, della serietà, del lavoro, e il primo messaggio in bottiglia che abbiamo lanciato nel mare magnum dell'opinione pubblica, anche ai nostri elettori, è stato quello del numero dei posti di governo, ministri e sottosegretari. La carica dei 102, o dei 104, non sappiamo nemmeno quanti sono.

Adesso riconosciamo che anche questa inflazione numerica era un effetto della coalizione "larga", dall'Udeur a Rifondazione, da Lamberto Dini a Franco Turigliatto (scusate, qualcuno mi spiega chi li ha scelti, Turigliatto e gli altri dissidenti?). E nel momento della verità, o della disperazione, dovremmo anche dire che in effetti noi non avevamo un programma: avevamo il famoso libro di 281 pagine, che aveva certificato gli accordi tra forze politiche poco compatibili.

E allora, diciamolo: abbiamo governato avendo dentro l'Unione un virus mortale. Una specie di impossibilità esistenziale, ontologica, genetica a stare insieme. I rifondaroli, i teodem come la Binetti, i superlaici, gli atei come il matematico impertinente Odifreddi, i nemici della Nato e delle basi militari, i contrari all'Afghanistan, i liberisti, gli statalisti, eccetera eccetera eccetera. Vedi come sono finiti i Dico. Guarda i casini con il papa e la Cei.

E le continue crisi sulla politica estera, ogni volta uno psicodramma. Eppure abbiamo chiuso la base della Maddalena con ordine, abbiamo la guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall'Iraq in modo indolore, l'ha riconosciuto anche Bush: e allora spiegate il mistero dolorosissimo: Zapatero viene via dalla guerra in modo traumatico ed è un eroe, noi usciamo con eleganza, con tutti i crismi, con il rispetto dell'alleanza e siamo dei pirla.

No, gente, il problema è stato economico. E anche sociale. E anche di 'manico', se permettete. Perché quando Bersani ha lanciato le prime liberalizzazioni avevamo il 97 per cento favorevole: solo che ci siamo giocati tutto perché abbiamo calato le brache con i tassisti a Roma. Anche Veltroni ci ha messo del suo, nel caso specifico. E a un certo punto abbiamo dovuto vedere anche la scenetta di Gianfranco Fini, davanti a un pubblico di imprenditori, che difendeva il Pra, grande lezione di liberismo postfascista.

Siamo diventati impopolari troppo presto. L'idea di Tommaso Padoa-Schioppa di tenere insieme i due momenti, risanamento e impulso alla crescita, non è stata capita. Si è capito soltanto che eravamo il governo delle tasse. E lui diceva che pagarle è "bellissimo". I politologi hanno spiegato che non ce la potevamo fare, perché al Nord si aspettavano libertà ed efficienza, e hanno avuto fisco, e Visco; al Sud si aspettavano trasferimenti pubblici, cioè soldi, che non sono arrivati. Tuttavia noi, beh, noi siamo stati dei geni: aumentare l'ultima aliquota, penalizzare il lavoro dipendente qualificato, quello che traina il paese anche secondo De Rita e il Censis, oltretutto un settore dove avevamo il maggiore insediamento elettorale: fantastico. Quando qualcuno ha provato a dirlo a Bersani, lui è scoppiato a ridere: "Solo loro possono capirci!". Bella battuta, ma politicamente un mezzo suicidio.

Sì, ma ve lo siete dimenticati che non passava giorno senza che Francesco Rutelli attaccasse la politica fiscale del governo? E i fischi della Confesercenti a Prodi, una platea che non doveva essere per forza ostile? E il governatore Draghi, che non ha perso l'occasione di dire che sì, avevamo risanato, ma l'avevamo fatto "dal lato delle entrate", cioè con le imposte. Ela Confindustria ammette a denti stretti che il risanamento c'è, ma è congiunturale: avviene nei saldi di bilancio, non con la messa in efficienza dei comportamenti statali, non con la valorizzazione della spesa.

Lascia perdere la Confindustria, guarda: con il suo stile ora felpato, e ora aggressivo come nell'ultima assemblea generale, quando si è messo a urlare "mai più nuove tasse", Luca di Montezemolo ha portato a casa quello che nessuno dei suoi predecessori era mai riuscito a mettersi in tasca. I tre punti di cuneo fiscale, l'Irap, l'Ires. L'aveva detto Santagata: "Questo governo di perfetti incapaci ha operato un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese". Non l'abbiamo detto abbastanza forte o abbastanza chiaro. E quindi siamo stati dei polli. Anche perché nel frattempo i due punti di cuneo destinati ai lavoratori sono finiti nel mucchio dell'Irpef, e non li ha visti praticamente nessuno. E i Comuni e le Regioni ci hanno messo l'ultima briscola aumentando le addizionali.

Ci voleva più attenzione. Già con la prima Finanziaria, settembre 2006, il consenso era crollato. Renato Mannheimer aveva rilevato una caduta verticale, che riguardava in particolare la gente in possesso dei titoli di studio più elevati, "i segmenti centrali della vita socioeconomica del paese". Abbiamo visto le contestazioni a Prodi al Motorshow di Bologna, praticamente a casa sua. Era partita una raffica fastidiosa di aumenti di prezzi, tariffe, ticket, bolli. Un pulviscolo fiscale, come l'ha chiamato Giuseppe Berta, micidiali polveri sottili di tasse. Mica male per un governo che era nato esprimendo l'intenzione di restituire il potere d'acquisto perso negli ultimi anni, provando a "rimettere il dentifricio nel tubetto", come ripeteva Prodi. Non siamo stati capaci di fare un po' di sano populismo con le tariffe: se il signor Moretti alzava le tariffe degli Eurostar bisognava che qualcuno gli dicesse, eh no, caro amico, prima mi fai vedere il miglioramento del servizio.

E allora, aveva un bel dire Romano che "il paese è impazzito". Certo, abbiamo visto all'opera le corporazioni, lo spirito di clan, i particolarismi. È arrivata la "mucillagine", come ha detto il Censis. La società "sfilacciata" del presidente dei vescovi, il cardinale Bagnasco. E l'indulto, dove lo metti l'indulto? E le interviste di Prodi a cazzeggio come quella alla 'Zeit'? E la perdita di credibilità a causa delle indagini e le intercettazioni su D'Alema e Fassino?

Abbiamo avuto anche la sfortuna di intercettare l'ondata dell'antipolitica. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sulla 'casta' ha rovesciato addosso alla classe politica quintali di fango. Qualcuno di importante, uno come Giovanni Sartori, il grande politologo, ha perfino preso sul serio Beppe Grillo e il 'Vaffa Day'. Ha detto che "ci sa fare" e che era meglio che Prodi sparisse dalla circolazione, essendo il tappo su una situazione politica bloccata.

Bene, di nemici ne abbiamo avuti tanti. Ma noi non siamo stati capaci di fare qualche battaglia esemplare. Per esempio, qualcuno sa dove è finita la legge sul conflitto d'interessi? E la legge Gentiloni sul sistema televisivo, che oltretutto non è proprio una rivoluzione? E poi c'è stata la botta dell'immondizia a Napoli. Mica colpa di Prodi. Ma vaglielo a spiegare alla gente che Bassolino non ha responsabilità: quello è andato in tv da Bruno Vespa e ha detto che ha fatto quel che doveva fare, ha firmato le carte, ha mandato avanti gli atti. Ma la monnezza è lì, e Gianni De Gennaro mica può fare miracoli.

E a questo punto... A questo punto ci mancava soltanto la spallata, non quella di Berlusconi: l'autospallata, quella di Veltroni. Noi correremo da soli. Capito? Una fatica d'inferno per tenere unita la coalizione, uno sforzo bestiale per mostrare all'Italia che si poteva governare, anche con i comunisti e Rifondazione, con Diliberto e Giordano, mentre Bertinotti diceva che 'Romano' è come Vincenzo Cardarelli, "il più grande poeta morente", e quello là, Veltroni, mette sul tavolo l'asso del Pd che vuole andare da solo alle elezioni. Puri si vince. E adesso siamo qui, ai piedi di Cristo. No, lascia perdere Cristo e la santa madre Chiesa, è meglio.

Eppure qualcuno un giorno dovrà inchinarsi alla testa quadra di 'Romano', alla sua ostinazione reggiana, e magari anche alla sua caratteristica leggendaria.
Il famoso 'culodiprodi'? E dov'è finito? Questi venti mesi di resistenza disperata si devono tutti a lui. E magari a quelli che ce l'hanno messa tutta, come la Finocchiaro al Senato. Sì, ma lui, Romano, che fa, che farà, Romano? Se volete un consiglio, credetemi, non datelo mai per morto, Romano.

(24 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 10:04:55 am
Edmondo Berselli

Partita tutta da giocare

D'ora innanzi i sondaggi vedranno Berlusconi in calo. E se il Pd avrà un messaggio forte da dare al Paese...  Certo che se uno spaurito elettore del centrosinistra, con lo spirito demoralizzato dall'abbattimento del governo Prodi, si lasciasse impressionare dalla colossale, e vittoriosa a priori, campagna lanciata da Silvio Berlusconi, dovrebbe lasciare ogni speranza: il centrodestra ha già vinto, dato che i sondaggi riservati che circolano fra le multinazionali mostrano dati spaventosi, da thriller o da horror, quasi 30 punti di differenza fra i due schieramenti, il presagio di un trionfo berlusconiano con qualsiasi sistema elettorale e con qualsiasi alleanza.

Insomma, neanche farle, le elezioni. Conviene consegnare il potere direttamente al Cavaliere, con tutti i salamelecchi del caso, un cuscino con le chiavi di Roma e mazzi di fiori. E poi mettersi nella posizione acconcia per ricevere con espressione compunta l'omaggio dell'ombrello di Altan.

Ma nelle situazioni difficili, e quella presente a essere franchi è una situazione perlomeno molto problematica, non conviene cedere alla disperazione.
E che sarà mai, Berlusconi. Il populista democratico, come lo chiama Giuliano Ferrara, che abbiamo già conosciuto, con la sua corte di Dell'Utri, Gasparri, Fini, La Russa, Cuffaro, Previti, ecc. Facce note e stranote, e quindi esorcizzabili. Inoltre, qualcuno lo ricordi alla destra, non sta bene cantare vittoria prima di avere disputato la partita. Non sta proprio bene, non fa parte del galateo. E poi, è proprio scritto nei cieli della patria che il destino italiano debba dipendere da Berlusconi e dalle sue 'troupe'?

Va da sé che il centrosinistra è alla canna del gas. Sono bastati pochi senatori fra Mastella, Fisichella e Dini, per buttare all'aria il difficile e complicato contratto con 19 milioni d'italiani, stipulato a suon di voti nell'aprile 2006. Mentre passeggia sconsolato in Strada Maggiore a Bologna, Romano Prodi non riesce a farsi una ragione di come sia finita questa vicenda politica: pazienza cadere, ma
cadere per lo sgambetto di gente che rappresenta soltanto se stessa, questa è peggio che una beffa, è una tragedia travestita da farsa.

Dunque, adesso, la parola spetta a Veltroni. Il quale ha un compito mica da poco: deve convincere metà del Paese, quella parte che non ha voglia di rivedere certe facce al potere, che i giochi non sono fatti. Recuperiamo la saggezza padana di Giovanni Trapattoni: non dire quattro se non l'hai nel sacco. Una buona campagna elettorale riduce le distanze. Il centrodestra trionfante di oggi è tutto da valutare: in 20 mesi di opposizione non ha espresso un'idea che sia una, se non quella di mandare a casa Prodi. E allora quale sarebbe la sua miracolosa credibilità?

E va bene, Veltroni ha un compito proibitivo. Ma può anche puntare a far diventare competitivo il Partito democratico. Qualsiasi partita giochi, nel 2008, in coalizione o da solo, deve guardare qualche metro davanti a sé. Non troppo lontano: nel 2009 ci sono le elezioni europee. Ecco, perdere 'bene' le elezioni politiche e vincere benissimo l'anno dopo, facendo diventare il Pd il primo partito italiano sarebbe già un ottimo progetto: sempre ammesso che il centrodestra berlusconiano vinca davvero il confronto nell'immediato.

Perché 'Walter' avrà tanti difetti, ma si sa che come 'homo televisivus' non è inferiore a Berlusconi: anzi, forse lo batte, perché è più giovane, piace alle mamme, alle nonne e alle zie, è rassicurante, può essere convincente. Quindi non vale la pena di fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Anziché alzare le mani in segno di resa, conviene ricordare ciò che ebbe a dire il senatore Enrico Morando, rivolgendosi ai parlamentari del centrodestra, durante la discussione in aula per uno dei tanti voti di fiducia, a proposito dell'andamento della spesa pubblica: "Noi non siamo granché, ma voi avete fatto un disastro".

Quindi conviene giocarsela. Con qualsiasi formato, da soli o in alleanza con la sinistra. Perché in questo momento l'importante è partecipare. Esserci. D'ora in avanti si assisterà al lento calo dei sondaggi favorevoli alla destra: è fisiologico, non ci vuole un indovino. Non appena il confronto si scalda, la mobilitazione cresce. E quindi c'è spazio per una proposta politica stringente. Non il paradigma del 'ma anche', ma un progetto politicamente impegnativo. Perché in questo momento vale più il messaggio che si offre all'opinione pubblica che non il perimetro dell'alleanza. Se la sinistra, una sinistra moderna, ha un segnale o un messaggio da dare al Paese, questo è il momento per mostrarlo. Il pessimismo, e il masochismo, sospendiamoli, almeno per qualche settimana.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Tra calcolo e scommessa
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 09:14:48 am
POLITICA IL COMMENTO

Tra calcolo e scommessa

di EDMONDO BERSELLI


È FINITA come ormai si era capito che finiva, nonostante gli sforzi di persuasione morale da parte del Quirinale, con il rammarico del presidente del Senato, la disillusione di Walter Veltroni per l'"occasione mancata", la soddisfazione degli inquilini della ristrutturanda Casa delle libertà e di Silvio Berlusconi.

Adesso c'è da aspettare soltanto che si compia l'atto obbligato di indire il referendum e che il presidente Napolitano sciolga le Camere per convocare le elezioni. Ma il tentativo di Franco Marini, per quanto silurato a priori dal niet del centrodestra, non è stato del tutto inutile.

Nello stilare un bilancio della crisi, occorre innanzitutto mettere a fuoco la linearità dell'asse fra i vertici istituzionali: Napolitano e Marini condividevano l'idea che occorresse praticare ogni ragionevole tentativo per evitare di andare alle urne con una formula elettorale già rivelatasi infausta, e insieme hanno tentato di venire a capo del rebus. Il capo dello Stato ha esercitato la sua autorevolezza, nell'auspicio che la razionalità delle preoccupazioni più volte manifestate potesse convincere una parte del centrodestra a impegnarsi nella riforma del sistema elettorale. Il presidente del Senato ha allargato la platea delle consultazioni alle parti sociali, allestendo una specie di "concertazione di scopo" e cercando di fare avvertire alla politica l'opinione praticamente unanime del sindacato e delle imprese.

Non è servito a niente. Ha prevalso il "sacro egoismo" del centrodestra, convinto di poter vincere a mani basse le prossime elezioni, a dispetto delle trappole di cui è disseminato il sistema elettorale del Senato.

Berlusconi e i suoi alleati faranno il possibile per respingere l'etichetta di sfasciacarrozze, cioè di gente che per pura voracità elettorale ha rifiutato la chance di modificare utilmente le regole della politica. Tuttavia è chiaro che il centrodestra ha sabotato il tentativo di Marini praticamente all'unanimità (fatto salvo qualche tenue distinguo di Pier Ferdinando Casini): Berlusconi con qualche generico rilancio sugli accordi costituenti da fare nella prossima legislatura, An con la durezza che Gianfranco Fini rispolvera quando sente odore di interesse personale e di partito, al punto di dimenticarsi di avere sostenuto il referendum Segni-Guzzetta; e la Lega addirittura con una sgrammaticatura volgare, rifiutando il confronto con il presidente del Senato.

Tutto questo per poter condurre una campagna contro "il migliore avversario possibile", Romano Prodi, contando sull'impopolarità del governo, senza avere mai indicato, in venti mesi, una proposta politica che non fosse la famosa "spallata" per mandare a casa il centrosinistra. Il calcolo è elementare, ma che sia esatto è tutto da vedere. Perché sul campo politico si è già vista una realtà nuova: al calcolo di Berlusconi, si contrappone la scommessa di Veltroni. Vale a dire che la decisione del segretario del Partito democratico di correre da solo, e comunque di stringere alleanze soltanto con chi condivide il programma del Pd, rappresenta una novità in grado di scompaginare molte previsioni.

In pratica: fra qualche tempo Berlusconi e il centrodestra potrebbero anche accorgersi di combattere una battaglia immaginaria. Perché la scommessa solitaria di Veltroni e del Pd rappresenta una innovazione politica radicale, con una fortissima assunzione di responsabilità anche personale. È una specie di rupture nella strategia bipolare, discutibile e discussa anche all'interno del partito, rischiosa negli esiti ma anche rigorosamente impegnativa sul piano politico, e quindi presumibilmente di impatto ancora imprevedibile sull'opinione pubblica. E dunque non va sottovalutato che fin da oggi si pone sul tappeto una questione che investe la credibilità delle proposte politiche: perché è probabile che gli elettori dovranno scegliere fra uno schieramento e un partito.

Come conseguenza c'è un'asimmetria vistosa fra quello che sarà lo schieramento di centrodestra, un'alleanza verosimilmente composta da qualsiasi formazione in grado di portare voti, e invece il Partito democratico, orientato a presentarsi nella competizione elettorale con un'identità precisa e a presentare un programma stringente per chi vorrà accettarlo. La novità è così spettacolare che potrebbe avere riflessi importanti nell'elettorato, e potrebbe anche imporre al centrodestra qualche forma di razionalizzazione della propria offerta politica.

Perché con il calcolo si può conquistare il potere; ma una scommessa intelligente può far saltare il banco. E quindi toccherà anche a Berlusconi decidere se vuole vincere una battaglia apparentemente già vinta, ma perciò ovvia, e quindi potenzialmente deludente, e di certo non proprio originale né creativa per i cittadini, oppure se non valga la pena di accettare una sfida, dopo avere rifiutato, per la fretta di vincere, l'ultima occasione di scrivere regole decenti.

(5 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2008, 03:15:45 pm
POLITICA IL COMMENTO

Il "Vaffa DaY" di Viva Radio2

di EDMONDO BERSELLI


AIUTO, anche a Fiorello è venuto il ghiribizzo e si è ingrillito. Aveva finito da poco il suo programmino corsaro e citazionista in tv, con il bianco e nero così trendy e la caratteristica atmosfera da Studio uno, ed eccolo invece di nuovo in radio, ma ora in formato Mr Hyde, a testa bassa contro la politica.

"Quando vi arriva il certificato elettorale strappatelo e buttatelo per strada", ha detto. Ora, è fuori discussione che il cittadino Rosario Fiorello, come pure la star Fiorello, ha tutte le ragioni a prendersela con i partiti, gli amministratori e i politici a causa dei rifiuti a Napoli. Si capisce un po' meno invece l'idea di trasformare Viva Radio2 in un altro santuario dell'antipolitica, lanciando sondaggi e invitando gli ascoltatori a far sentire la loro voce contro presumibilmente tutto, dall'emergenza rifiuti alla giustizia ingiusta e ai condannati che "non passano neanche un giorno in prigione".

Ma non si era stabilita consensualmente la fine del tempo dell'antipolitica, dei "Vaffa Day" e delle mobilitazioni piazzaiole, almeno per un po'? Siamo in piena campagna elettorale, con un vincitore annunciato che pare in fase di rallentamento e l'inseguitore che ha messo le marce alte: si confrontano i programmi, i cittadini si fanno un'idea, anche gli astensionisti pian piano rinunceranno all'astensione e voteranno.

E dunque proteste come "i politici non fanno niente quindi prendiamo in mano noi la situazione", detto dalla coppia Fiorello & Baldini, hanno un immediato e deprimente sapore qualunquista. Un qualunquismo fuori moda, e oltretutto promosso da uno studio della Rai, che è il luogo del servizio pubblico, sacrario della politica se ce n'è uno: in ogni caso non esattamente la sede più adeguata per lanciare un programma contro la politica, oltretutto alla presenza cerimoniale di Claudio Cappon, il non proprio impolitico direttore generale della Rai.

Ci dev'essere una malattia particolare, la botta del comico, il colpo dell'entertainer, o un interruttore nervoso che improvvisamente si incenerisce, un comando neurale che scatta all'improvviso, che a un certo punto induce gli intrattenitori a scendere in campo vociando. Anche in tempi di par condicio, anzi meglio, inaugurando una nuova forma di par condicio: nel senso che come fu per il grillismo, e ora anche per il neonato fiorellismo, i partiti sono tutti uguali, così come sono uguali leader e comprimari, tutti alla pari, tutti ugualmente colpevoli e da indicare al dileggio o alla rabbia del partito dell'audience.

Eppure c'è sempre qualcosa di irritante allorché un protagonista del divertimento, un bravo parodista, un eccellente cantante autodidatta, insomma Fiorello, con quel suo dilettantismo elevato a genialità, invade il campo altrui e decide di dire alla politica "fatti più in là". Anche perché aleggia sempre il sospetto che la popolarità trascini con sé il consenso e magari la credibilità.

Il mai schierato politicamente Fiorello infatti è un perfetto non-politico, ma è anche il talentuoso imitatore di Andrea Camilleri, l'autore delle esilaranti telefonate al presidente Napolitano, il firmatario di infernali parodie dell'opera di Riccardo Cocciante, l'inimitabile imitatore di Gianni Minà e delle sue avventure cubane in anni "formidabili".

Per tutto questo, Rosario Fiorello è più insidioso di Grillo: perché Grillo è volutamente antipatico, attacca a brutto grugno, non vuole mezze misure. Mentre Fiorello è una specie di sintesi di tutto ciò che è televisivo e radiofonico insieme; è l'evoluzione di Mike Buongiorno, che prima della Rai e di Mediaset aveva alle spalle una storia antifascista e resistenziale, quindi politica, ma non si sarebbe mai concesso sconfinamenti; è l'erede del "nazionalpopolare" Pippo Baudo, che una volta attaccò il presidente socialista della Rai Enrico Manca ma solo perché a sua democristianità Baudo tutto si può fare ma non toccargli il mestiere.

E quindi se l'ex intrattenitore del villaggio vacanze, il situazionista da spiaggia che si vestiva da papa per movimentare le mattinate, da tempo diventato supereroe e salvatore della tv, insomma se Fiorello attacca i partiti e dice "strappate il certificato", è come se fossero la televisione e la radio, un loro concentrato totale, ad assaltare la politica. Mica male come programma, solo a capire se si tratta di un programma televisivo, radiofonico, politico o antipolitico.

Nell'incertezza, per evitare confusioni, non verrebbe male, come diceva la vecchia politica, abbassare i toni, fare un passo indietro; anzi, come gli dice talvolta il suo mentore Bibi Ballandi: "Fiore, stare bassi, per schivare i sassi".

(19 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il paradosso Gianfranco Fini
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:35:19 pm
Edmondo Berselli

Il paradosso Gianfranco Fini


Il leader di An ha sbagliato tutte le grandi scelte politiche ma nei sondaggi risulta il più credibile  Gianfranco FiniPer avere voluto a tutti i costi le elezioni anticipate, Silvio Berlusconi doveva essere matematicamente, scientificamente certo della vittoria. In effetti fino a un paio di settimane fa prevedere una impasse del Popolo delle libertà sembrava più che altro una boutade. Ma è proprio scritto che a destra si prospettino soltanto magnifiche sorti, e progressive? E che quindi il Partito democratico debba soltanto puntare a una sconfitta onorevole, in attesa che il tempo faccia dimenticare il fallimento dell'alleanza che fu chiamata Unione, condizionata dalla sinistra radicale e sabotata alla fine dai centristi Mastella e Dini?

Può darsi. Può darsi che per il momento occorra soprattutto parare i colpi e pararsi il didietro, per evitare il fatidico ombrello di Altan. Ma i sondaggi non sono una scienza esatta. Lo straordinario vantaggio vantato dal Cavaliere è un atto di fede, se è vero che i sondaggisti indipendenti stimano al 30 per cento i cittadini che non si pronunciano. Ma al di là dei dati scientifici ci sono altri metodi per cercare di indovinare i risultati elettorali. Valgono più o meno come l'analisi dei fondi di caffè o del volo degli uccelli, ma ognuno crede a ciò che vuole. E quindi le prossime elezioni possono anche essere divinate in base al 'paradosso Fini'.

Non dite che non conoscete il paradosso Fini. Si chiama così perché Gianfranco Fini è l'uomo politico che ha sbagliato tutte, diconsi tutte, le grandi decisioni politiche; e ciò nonostante è riconosciuto dai sondaggi come l'uomo politico italiano dotato di maggiore credibilità. Mistero misterioso. L'elenco degli errori 'strategici' del capo dell'ex An è impressionante. Poco prima di Tangentopoli inneggiava al fascismo come una teoria politica non transeunte, e proponeva un "fascismo del Duemila" come eterno destino dell'Msi. Poi si oppose al referendum maggioritario, convinto che il suo partito dovesse rimanere nella nicchia. Quindi alternò il bene e il male in un ottovolante da 'tenetevi stretti': divenne maggioritarista fondamentalista, parlò di Mussolini come massimo statista del secolo, si unì allo sfortunato Mariotto Segni, ripudiò il fascismo "male assoluto", fece cadere il divo Tremonti. E infine ha annunciato che An si scioglierà nel Pdl.

Ma chi può giurare che quest'ultima sia la 'cosa giusta'? Fini potrebbe semplicemente avere ceduto il partito per assicurarsi la primogenitura. Ma la sua scelta rappresenta uno, e solo uno fra gli altri, dei processi in corso a destra. L'unificazione tra Forza Italia e An, con l'alleanza della Lega, prospetta una forza popolar-conservatrice più simile alla bavarese Csu che alla Cdu di Angela Merkel; in ogni caso ha liberato energie politiche a destra e al centro. A destra si aprono spazi per il duo Storace & Santanché, i quali faranno una fiammeggiante campagna contro 'Esaù' Fini, reincarnazione del personaggio biblico che si vendette l'eredità per un piatto di lenticchie (in questo caso 'un partito per uno strapuntino', secondo le battute feroci degli storaciani).

Al centro invece si è determinato un affollamento imprevisto. L'Udc, la Rosa bianca, l'Udeur, ovvero Casini, Tabacci, l'orfano e sfrattato Mastella. A cui si aggiunge la campagna per la moratoria antiaborto di Giuliano Ferrara (che rimane credibile se va in solitaria, ma non come lista veicolo sospettata di trasferire voti cattolici a destra).

Il fatto è che la politica è in movimento tellurico, tutta. E allora fare previsioni è un esercizio sterile, per il momento. Anche perché almeno finora il Pdl e Berlusconi in persona non sembrano avere proposto novità sostanziali, programmatiche, politiche o psicologiche. A quanto si capisce, il Cavaliere proporrà alcune fra le sue tipiche 'ricette', misure di riduzione fiscale, provvedimentini che piacciono ai commercialisti e alle aziendine, oltre alle solite campagne contro piemme, giudici, intercettazioni, e la proposta della tolleranza zero contro i clandestini.

Ma di un nuovo 'sogno' finora non c'è traccia. È anche possibile che, come dice Giuseppe De Rita, il futuro si giochi sulle grandi connessioni infrastrutturali ("Visto che non possiamo gingillarci ancora fra Ponte di Messina e pavimentazioni comunali"), e quindi sulla modernità delle proposte politiche. A cui forse è più disponibile il Pd, mentre il Pdl sembra ancora per molti versi espressione di corporazioni, categorie, clan professionali, notabilati, oltre all'elettorato d'ordine della vecchia An. Quell'Italia invecchiata che riesce difficile presentare come un'espressione di spinta e di innovazione, sarkozista o imprenditoriale che sia: quando in realtà è la solita Italiona di stampo corporativo. Corporazioni degli anni Duemila: ma sempre corporazioni sono.

(22 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Edmondo Berselli. Tremonti Stranamore
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2008, 12:28:16 pm
Edmondo Berselli

Tremonti Stranamore


Nel suo ultimo saggio l'ex ministro avvisa: è finita l'età dell'oro. E ipotizza dazi e barriere doganali. E il liberismo?  Lo sanno anche i bambini che a pensar male si fa peccato. È il primo pensiero che affiora nell'aprire il nuovo libro di Giulio Tremonti, possibile futuro ministro del Pdl, nel caso non proprio scontatissimo che Silvio Berlusconi vinca le elezioni e riesca a fare un governo. Il saggio di Tremonti si intitola 'La paura e la speranza'. Per capire il clima di queste pagine basta il primo capoverso: "È finita in Europa l'età dell'oro". È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito. La fiaba della globalizzazione, la "cornucopia del XXI secolo. Una fiaba che pure ci era stata così ben raccontata. Il tempo che sta arrivando è un tempo di ferro".

A pensare male si fa peccato, lo diceva anche Giulio Andreotti. Ma intanto viene da chiedersi se non ci troviamo davanti a una contraddizione. Un dilemma. Anzi, un dilemmone avvolto in un enigma. Perché si vorrebbe capire qual è la visione offerta dal Popolo della libertà. Nel senso che Berlusconi è sempre stato l'uomo delle visioni e delle televisioni, del miracolo, del 'sogno'. Todos caballeros! Non si paga! Meno tasse per tutti! E adesso invece c'è un guastafeste, un ex professorino pessimista, che parla dei tempi grigi e dei giorni bui che ci attendono. Il dottor Stranamore che al posto dell'arma nucleare detiene la crisi globale. Il quale si oppone all'ultima ideologia, il "mercatismo", ventilando dazi, ipotizzando barriere doganali contro il dumping sociale delle economie asiatiche, prevedendo crisi epocali e progettando di bloccare il processo di globalizzazione.

E allora c'è qualcosa che non va. Non si capisce per quale motivo un elettore né di qua né di là, abituato a votare con il portafogli più che con il cuore, dovrebbe scegliere una Cassandra che gli promette avvenimenti funesti. Lo stesso cavalier Berlusconi ha annunciato provvedimenti "impopolari". Ohibò, ma allora è il mondo alla rovescia, come nel carnevale, solo che qui il carnevale diviene quaresima.

Sono rimasti molto sorpresi i liberal-liberisti del centrodestra, che pensavano di poter vivere fra poco nel migliore dei mercati possibili. Il severo professor Francesco Giavazzi ha criticato. Il professor Angelo Panebianco si è dichiarato "non d'accordo". Anche il professor Renato Brunetta ha detto che parlare di dazi, be', non è il caso. Il liberalissimo atque chiarissimo professor Dario Antiseri ha ribadito che il protezionismo non lo convince. E il rigoroso presidente della liberista Adam Smith Society, Alessandro De Nicola, ha condannato: "Da sessantottino che era in gioventù, Tremonti è diventato un conservatore ottocentesco. Assomiglia a certi aristocratici inglesi, che consideravano la rivoluzione industriale una sciagura". Infine, di fronte alle ricette di Tremonti sulla riscoperta dei valori, l'austero professor Gian Enrico Rusconi ha sentenziato: "I valori spirituali e morali sono l'ultima risorsa retorica alla quale si ricorre quando non si sa più che cosa dire".

Si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. E per pensare male fino in fondo bisogna risalire alle origini della confluenza tra Forza Italia e An. Che ha dato luogo a un transpartito, a un partito ermafrodita, che mette insieme l'istinto liberal-privatista di Berlusconi con la cultura nazionalcorporativa del partito di Gianfranco Fini. Che cosa vuole allora il Pdl? Liberalizzare o proteggere? Puntare sul mercato o sulla rendita? Perché ha pensato di mettere in lista il capo dei tassisti romani Loreno Bittarelli, il più accanito oppositore della liberalizzazione di Bersani?

A meno che, a pensar male. A meno che il Pdl non abbia l'intenzione magica di applicare selettivamente il liberismo e il protezionismo. Per esempio, essere protezionista con il proprio elettorato, con le categorie, i clan, le tribù, i privilegi, le rendite, le tariffe dei professionisti tutelati dall'assenza di concorrenza. E invece di essere spregiudicatamente liberalizzatore nei confronti del lavoro dipendente, privato e pubblico, dove si annida il voto a sinistra. In questo caso, ecco fatto il gioco di prestigio.

Berlusconi non promette più miracoli, ma difenderà gli interessi.

Insomma, tanto rumore per poco. Il petrolio, le materie prime, la fine dell'età dell'oro. La paura e la speranza. Le sette parole d'ordine tremontiane (valori, famiglia, identità, autorità, ordine, responsabilità, federalismo). Se a pensare male si fa peccato, ma si va vicini alla realtà, viene da pensare, malissimo, che il programma massimo del Pdl è la lotta di classe praticata con altri mezzi. Rappresentata simbolicamente dall'ombrello di Altan, con qualcuno che lo mette in quel posto, l'ombrello, a qualcun altro.

Ci si azzecca, ci si azzecca.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI.
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2008, 11:15:06 am
Edmondo Berselli

La casta dei supermanager


Siccome molti di noi sono moderni, disincantati, aperti al mercato, fautori della concorrenza e confidenti nella competitività e nell'innovazione, non c'è nessuna ostilità verso i grandi emolumenti dei manager, ovvero dirigenti industriali, finanziari e bancari, attivi nei settori tradizionali o nei settori del terziario più o meno avanzato. Figurarsi: vale per tutti il paradigma con cui se qualcuno si scandalizza per lo stipendio di Ibrahimovic, come a suo tempo di Maradona o Platini, e auspica la moralità del calmiere, gli si risponde a brutto grugno: guarda che se in campo ci vai tu, quei soldi non te li danno.

Dopo di che, capita fra le mani un editorialino non firmato del 'Sole 24 Ore', non proprio un quotidiano ostile al capitalismo e alle imprese, che domenica 30 marzo, a pagina 10, scrive: "Il 2007 è stato un anno d'oro" per i vertici aziendali. "Tra super-stipendi, bonus e stock option, i top manager di banche, industrie e imprese di servizi hanno messo in cassa cifre da capogiro, spesso meritate ma, in alcuni casi, anche molto distanti dal valore creato per gli azionisti".

Ah, però. Il quotidiano della Confindustria si riferisce a una tabellina pubblicata il giorno prima, sabato 29, in cui a pagina 37, in apertura della sezione 'Finanza e mercati', si riportava la classifica provvisoria delle retribuzioni manageriali. Classifica interessantissima, che vede al primo posto Matteo Arpe (37 milioni e mezzo lordi), l'ex amministratore delegato di Capitalia, uscito dalla banca dopo una brusca rottura con il secondo della classifica, Cesare Geronzi (24 milioni), seguito dai due ex Telecom Riccardo Ruggiero e Carlo Buora (rispettivamente 17 e quasi 12 milioni di euro).

Il quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli è un solido esempio di professionalità giornalistica, e spiega il perché e il percome di tanti soldi. Qui c'è una buonuscita, qua un bonus, qui una stock option, poi una liquidazione, gli incentivi all'esodo, il compenso straordinario, il premio alla carriera, il patto di non concorrenza: insomma, c'è sempre una spiegazione a far capire perché i primi cinque della graduatoria hanno incassato 102 milioni di euro, contro i 58 dei Top Five nel 2006. Da cui si capisce che c'è una certa inflazione anche per i manager, in primo luogo, e poi che in realtà, senza il premio per le fusioni, per le integrazioni, le acquisizioni e compagnia bella, i manager devono accontentarsi, nel senso che in testa alla classifica provvisoria si situa Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fiat e della Ferrari (poco più di 7 milioni di euro) davanti a Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat poco meno di 7 milioni; (vedere inchiesta a pagina 154).


Che dire? Boh. 'Il Sole 24 Ore' commenta con una frasetta al cianuro: "Anni fa si diceva che il problema italiano era nel considerare il salario una variabile indipendente: oggi la stessa questione sembra porsi per i manager", valutando l'aumento dei compensi in relazione al segno meno che caratterizza l'andamento della Borsa. Vero è che Marchionne e Montezemolo hanno alle spalle il risanamento della Fiat e i successi della Ferrari. Ma vero anche che ci sono dirigenti che hanno praticato soprattutto il modulo di Woody Allen 'prendi i soldi e scappa'. Catastrofiche gestioni delle ferrovie si sono tradotte in buonuscite sensazionali; tragiche corresponsabilità in casi penosi come quello dell'Alitalia hanno visto correre stipendi da fiaba.

E allora qui non è certo il caso di essere moralisti, né di stracciarsi le vesti, perché siamo tutti modernissimi e competitivi e aperti e bla bla. Ma con tutti i pomposi codici etici che sono stati approvati nelle aziende, ci fosse mai stato qualcuno che avesse rispolverato qualche vecchia usanza dell'ultraliberista economia americana, dove in certe società la retribuzione dei top manager non doveva superare limiti prefissati. Si potrebbe stabilire che la remunerazione di un dirigente, fusioni o no, buonuscite e stock option comprese, non ecceda, che so, il multiplo di cento volte il salario di un usciere.

È troppo poco? Il mercato disapproverebbe? I sostenitori della libertà d'impresa si straccerebbero le vesti? Ma ci sarebbe una soluzione alternativa, allora: dopo avere tanto blaterato di trasparenza e concetti collegati, non si potrebbe connettere il compenso dei manager al rendimento aziendale? A obiettivi, fatturati, efficienze da raggiungere? Perché il mercato è bello e fa bene: ma ormai sembra che il mercato debba agire a senso unico. E questo non è bello, questo non va bene. A proposito della casta: la sensazione è che non ci sia solo la casta politica. Qui le caste prosperano, altroché: e di Maradona e Platini se ne vedono pochini.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI. La deriva del talk show
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2008, 11:04:52 pm
POLITICA

LA SINISTRA

L'antagonismo ex parlamentare

di EDMONDO BERSELLI

 

Probabilmente siamo davanti al più brutale processo di razionalizzazione politica che si sia mai visto in Italia.
Sparisce dal Parlamento un cartello elettorale, la Sinistra Arcobaleno, che riuniva partiti capaci in astratto, ma anche per storia politica alle spalle, di superare il dieci per cento.

La sinistra anticapitalista si trova ai margini della politica, fuori dal gioco, esclusa dal circuito istituzionale. È di nuovo una sinistra extraparlamentare.

Il suo simbolo oggi potrebbe essere proprio il suo candidato premier, Fausto Bertinotti: il presidente della Camera uscente che non riesce a rientrare nell'assemblea rappresentativa. La realtà complessiva è che finiscono in fuorigioco la vecchia Rifondazione comunista, i Verdi, i Comunisti italiani e quella frazione ex diessina che non aveva accettato la confluenza nel Partito democratico.

È questo uno dei risultati della rivoluzione copernicana di Walter Veltroni, che ha rovesciato lo schema politico precedente, quello di Romano Prodi e di Arturo Parisi: ai quali si doveva la convinzione per cui la sinistra "antagonista" doveva essere inclusa nel perimetro dell'alleanza necessaria per battere la destra; mentre toccava poi a ministri come Tommaso Padoa-Schioppa il compito di insegnare la "triste scienza" agli utopisti e agli oltranzisti, ai no global e agli anticapitalisti.

Tuttavia il contributo alla governabilità non esauriva la funzione che la sinistra radicale pensava di essere chiamata a realizzare. Fare la portatrice d'acqua per il governo tecnocratico del centrosinistra non era così soddisfacente. Gli anticapitalisti al servizio del risanamento del deficit e a favore del taglio del cuneo per la Confindustria: una cosa bizzarra. Insopportabile per l'acuta consapevolezza sociale di molti esponenti della sinistra radicale, per la loro nitida percezione delle nuove conflittualità, per un senso critico vivificato dal coinvolgimento personale, per il pacifismo e quindi per l'incapacità di subire troppo a lungo compromessi in economia e sull'orizzonte della politica internazionale. Tutto questo, cioè l'asimmetria delle intenzioni rispetto ai risultati, venne sintetizzato infine nel gusto dissacratorio e politicamente irridente di Bertinotti: che con le battute su Prodi come Vincenzo Cardarelli, "il più grande poeta morente", fece risuonare le campane a morto per il governo dell'Unione ben prima della disastrosa defezione di Clemente Mastella e Lamberto Dini.

Veltroni ha messo allo scoperto la fragilità di questa sinistra. L'ha costretta a porsi il problema della sua rappresentatività, e della qualità del suo programma politico, non tanto fra i velluti delle aule parlamentari e con le obiezioni di coscienza, bensì nel gioco crudele dell'arena elettorale. Nessuno, per la verità, pensava che fosse possibile la liquidazione totale di un'esperienza come quella di Rifondazione; e si pensava che nell'alveo della sinistra contestativa avrebbero trovato spazio e ruolo le nicchie ambientaliste governate da Pecoraro Scanio come gli irrigidimenti postcomunisti di Oliviero Diliberto e i maldipancia dei diessini dissenzienti guidati da Fabio Mussi e Cesare Salvi.

Invece è scattata una specie di trappola elettorale, spaventosa negli effetti ma piuttosto tipica per l'estremismo politico di sinistra. Quando è il momento meno opportuno, che si tratti della scissione di Livorno o della scomparsa dello Psiup, a sinistra non si conoscono mezze misure. O catastrofe, o niente. L'Arcobaleno ha pagato la scarsa visibilità delle sue proposte, in parte dovute al concentrarsi dei media sul duello fra Pd e Pdl, e in parte legate alla varietà volatile dei suoi programmi politici. La nuova sinistra voluta da Bertinotti, finalmente slegata dalle sue eredità comuniste, doveva diventare una forza moderna trasversale, connessa ai temi di fondo della globalizzazione, alle inquietudini sull'"impronta ambientale" dello sviluppo, e al recupero di ispirazioni socialiste reinterpretate alla maniera della Linke tedesca. Messi nello shaker questi ingredienti, ne è venuta fuori una miscela in cui le identità sono evaporate, la falce e martello si è dissolta, le culture non si sono amalgamate se non in un composto di radicalismi vari.

Vale a dire: mentre Veltroni tentava un'iniziativa davvero egemonica (e spesso denunciata come tale dalla sinistra radicale), tutta proiettata a definire il profilo di una sinistra di governo, la Sinistra arcobaleno si è trovata in una impasse drammatica. Era finita la rendita dei partiti in grado di raccogliere voti estremisti e di renderli comunque "utili" all'interno di un'alleanza estesa e anche condizionabile. E in una situazione come questa sono stati gli elettori a risolvere i problemi impossibili della sinistra antagonista: qualcuno si è fatto convincere dall'appello implicito al "voto utile" al Pd come bastione contro la macchina berlusconiana; altri hanno trovato sfogo antipolitico nel partito di Di Pietro e perfino nel populismo radicaleggiante della Lega; e mentre qualcuno dei nostalgici della falce e martello ha trovato rifugio nel simbolo di Sinistra critica dell'eretico Turigliatto, molti altri, a quanto si capisce, come i redattori del manifesto, devono avere sciolto il dilemma rifugiandosi nell'astensione.

Ma andrà detto che il ripiegamento fuori dalla politica, in una sinistra ideale e non empirica, lascia il campo privo di una rappresentanza istituzionale per una parte di società dispersa ma ancora consistente. Ora, Bertinotti annuncia l'addio. Gli altri parlano di anno zero, di costituenti, di un nuovo inizio. Comunque sia, ogni costituente è buona se si pone il problema di come ci si connette al problema del governo. L'idea che fosse possibile il giardinetto dei radicalismi è stata sfigurata dalla violenza della realtà. Per chi ha sempre amato parlare delle ragioni "oggettive", dei "rapporti di forza", della "struttura", è giunto il momento di fare i conti fino in fondo con la realtà, e non con il labirinto delle illusioni.

(15 aprile 2008)
 
da repubblica.it


Titolo: Edmondo Berselli. La caduta dell'impero romano
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 07:58:12 pm
La caduta dell'impero romano

di Edmondo Berselli


Non solo l'addio al Campidoglio. Il voto di Roma segna la sconfitta della strategia di Veltroni. E il Pd ora rischia la disintegrazione della sua classe dirigente  Il nuovo sindaco di Roma Gianni AlemannoIl borgataro si stacca dalla festa in Campidoglio per Gianni Alemanno, stappa una birra e ti punta il dito nel costato: "Ahò, lo volevate er nuovo conio, mò beccatevelo". Per il Partito democratico, per Francesco Rutelli, per Walter Veltroni la serata romana di lunedì è il segno di una disfatta spaventosamente incomprensibile. È come se la capitale avesse deciso di sferrare un uppercut micidiale all'idea democratica, al progetto stesso del Pd: già, perché lo sconfitto è Rutelli, ma la batosta romana si ripercuoterà sul partito, sui suoi equilibri, forse sulla sua stessa esistenza.

Per il momento c'è lo choc tremendo di uno schianto politico inatteso anche nelle dimensioni, il rovesciamento clamoroso del risultato del primo turno, ma soprattutto un urto che fra molti saluti romani, clacson di tassisti entusiasti, cori di ultras, spazza via 15 anni di egemonia del centrosinistra, cominciati nella dura campagna elettorale del 1993, quella che aveva sdoganato Gianfranco Fini, e fa a pezzi il 'modello Roma', l'invenzione di Goffredo Bettini portata all'eccellenza mondana e planetaria da Veltroni, liquidando la Roma piaciona che aveva egemonizzato il gusto e anche il conformismo in società.

Il caos non è proprio calmo. La tranvata, sostiene immediatamente l'ala hard del Pd, i dalemiani che non hanno mai creduto ai lustrini, dimostra quanto fosse fragile la struttura del consenso raccolta dal sindaco uscente, quanto volatile la popolarità, quanto effimero il radicamento sociale, e alla fine quanto leggero e alla lunga irrilevante il clima capitolino fatto di attori, scrittori, registi, notti bianche, festival, intrattenimento, morettismi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in due anni sono evaporati oltre 20 punti di vantaggio, contraddicendo anche la tendenza generale del Pd, che alle politiche si è mostrato più competitivo nelle città e negli aggregati metropolitani.

Eppure, per restare al caso romano, la politica "lieve" e colorata di Veltroni era forse l'unico strumento capace di tenere insieme l'establishment e le periferie; non appena si è assistito al ritorno in campo di un candidato come Rutelli, interpretato come un uomo dell'establishment, anzi della 'casta' politica, è scattato il cortocircuito. Con distorsioni che devono essere ancora interpretate, e possono portare a vendette e regolamenti di conti, ma che per il momento rappresentano concretamente un attrito ineluttabile della scelta di Veltroni di rompere con la Sinistra Arcobaleno alle politiche: accanto al fallimento di Rutelli, il successo conquistato alla Provincia di Roma dal candidato Zingaretti, con un numero di voti nelle sezioni elettorali della capitale che fanno subito sospettare un paradossale esercizio del voto 'disgiunto', Zingaretti alla Provincia e Alemanno al Comune ("Ipotesi che fa ribrezzo", scrive 'l'Unità', ma tant'è).

Una modalità quasi dadaista per praticare la vendetta della sinistra radicale contro la leadership del Pd, responsabile della scelta di 'correre da soli' (nei centri sociali l'idea di punire Veltroni votando Alemanno era stata sostenuta ripetutamente). Un colossale 'tié', magari con il gesto dell'ombrello, rivolto a 'Franciasco', l'uomo dei vescovi, l'amico della Binetti, il cattolico delle alleanze "di nuovo conio". E che esalta la capacità di Alemanno di unire le 'due Rome', da un lato la città centrale della borghesia, i Parioli, i circoli tiberini, il generone scettico che si era prestato all'unanimismo veltroniano, e dall'altro le borgate e gli outsider. La destra 'sociale' del genero di Pino Rauti promette infatti misure di sicurezza alla borghesia spaventata dai comportamenti irregolari dei clandestini, e offre rappresentanza all'universo marginale nelle periferie (laboratorio sociale e politico tutto da analizzare, che sembra essere stato messo a fuoco soltanto dalla percezione letteraria di Walter Siti, autore di un recente e impressionante libro postpasoliniano, 'Il contagio', che esplora l'antropologia degradata e mutante della Roma periferica). Mentre anche dalle borgate salgono slogan che scandiscono "via gli albanesi, via i romeni", Alemanno seleziona utilmente aspettative differenziate anche nella Roma del degrado, prospettando criteri che etichettano i clandestini come il nemico interno da colpire con spettacolari misure di polizia.

Ora, è vero che il trionfo capitolino ha un impatto anche sul Pdl e nel rapporto con la Lega, con un politico meridionale che fa il salto di qualità, comincia a oscurare Gianfranco Fini in procinto di sedersi sullo strapuntino della Camera, e in qualche misura riequilibra il successo di Umberto Bossi al Nord. Ma è fuor di dubbio che il crollo a Roma rappresenta un macigno sulla strada del Pd, e in particolare del Pd veltroniano. Finora, dopo il risultato del 13-14 aprile, si poteva sostenere che il 33,1 per cento, pur nella sconfitta, rappresentava la costituzione del 'motore riformista', un partito in grado di diventare competitivo nel medio periodo, e che risultava capace di mobilitare le città, i ceti culturalmente più elevati, il lavoro dipendente qualificato, la società italiana più moderna e creativa.

Prima del 'voto di pancia' e della voglia di discontinuità, prima del sacco di Roma da parte delle 'truppe alemanne', Veltroni poteva accampare una serie di giustificazioni credibili. A gravare sul Pd c'era l'impopolarità di Prodi, nel Nord industriale lo sfondamento della Lega nelle fasce operaie, al Sud l'effetto desolante dell'emergenza rifiuti. C'era da mettere a fuoco il progetto berlusconiano di 'modernizzazione reazionaria', o anche semplicemente conservatrice, fondato sulla sintesi del secessionismo leghista con il protezionismo tremontiano e il clientelismo dell'Mpa di Raffaele Lombardo. A cui adesso si aggiunge il successo 'missino' di Alemanno, prefigurando una destra complessivamente nazionalcorporativa, aggregatrice di interessi parziali.

Non conviene naturalmente ai 'democrat' cercare pallide rivincite di tipo culturale, stigmatizzando un modello politico a sfondo peronista. Ma intanto, prima di procedere alle ritorsioni interne inevitabili nelle sconfitte, ci sono da mettere a fuoco alcuni aspetti problematici, che la leadership del Pd dovrà affrontare. In primo luogo, l'esaurirsi empirico della pregiudiziale antifascista e resistenziale, cioè l'esito fisiologico di un processo socioculturale per molti versi inevitabile (ma che toglie valore alle richieste di "lealtà costituzionale" che Veltroni aveva inviato a Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale del 13 aprile, ricevendone in cambio un'alzata di spalle). In futuro sarà difficile esibire una sorta di superiorità etico-repubblicana come risorsa politica spendibile, così come sarà inutile puntare sui simboli se in gioco ci sono gli interessi. Insomma se ne va fuori dalla simbologia politica il ditino alzato dell'ideologismo targato Fgci, se è vero che il 'capobranco missino' Alemanno sbanca il Campidoglio con una campagna sinceramente populista, in una fragranza tutt'intorno di umori autenticamente fascisti.

In secondo luogo, se il Pd riuscirà a sopravvivere al contraccolpo della sconfitta alle politiche e alla caduta di Roma, dovrà uscire dalla sindrome di un partito che per una settimana, aspettando l'apertura del Parlamento, ha discusso esclusivamente della questione epocale di chi dovevano essere i capigruppo alle Camere. Andrebbe tenuta a mente come uno scongiuro la battuta di Giancarlo Pajetta dopo i funerali del 'Migliore': "Con la morte di Togliatti nel Pci si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra".

Per evitare una dinamica dissolutiva, il Pd deve provare a ripartire. Deve avere la consapevolezza che la propria classe dirigente è particolarmente logora e che niente come le sconfitte richiama le sconfitte. Occorre quindi mettere in rete gli amministratori locali più capaci, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e individuare una strategia di azione sul territorio. È la fase in cui le posizioni di rendita stanno smottando, e in momenti come questo devono uscire allo scoperto le energie meno consumate. Innanzitutto la coppia composta da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, per ricominciare dal territorio. E poi, occorre inquadrare le prossime sfide: ci sono alle viste le elezioni europee del 2009 (un incubo, dato che con la proporzionale non c'è voto utile che tenga) e il referendum elettorale. Ci vuole una strategia. Altrimenti, le spinte alla disintegrazione non le fermerà nessuno, e il tutti a casa sarà inevitabile.

da espresso.repubblica.it


Titolo: Edmondo Berselli. Sapere dove si va
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:35:09 pm
Sapere dove si va

Edmondo Berselli


Importa poco la bizantina rivalità fra Veltroni e D'Alema. A quanto si vede non è chiara la linea del Pd 

Piccolo manuale di sopravvivenza democratica (nel senso del Partito democratico, s'intende). Ah, se solo si riuscisse a sottrarre la discussione sul futuro del Pd all'eterna questione bizantina della rivalità fra Veltroni e D'Alema! Perché altrimenti si ha la sensazione tristissima di essere tornati ai tempi della Fgci, o del popolo dei fax contro l'élite del partito, di quella volta che dal basso scelsero Walter e dall'alto invece Massimo. Il pensiero che il Pd debba ancora soffrire degli effetti di un dualismo nato ai tempi del Pci è particolarmente deprimente: soprattutto se si pensa a quali problemi politici reali il Pd dovrebbe invece dedicarsi.

Punto primo. Dalle infinite e approfonditissime, e anche intrise di molto realismo, analisi sui risultati elettorali, che sempre vengono promesse e poco realizzate, bisognerebbe che qualcuno traesse qualche conclusione e soprattutto qualche indicazione di prospettiva sulla politica da seguire. Converrebbe infatti definire che cosa è oggi e che cosa sarà domani l''entità Pd'. Se continua ad avere la celebre vocazione maggioritaria; se si organizzerà per tentare di vincere le elezioni, una volta o l'altra; ovvero se ha intenzione di aprire una nuova strategia di alleanze, ed eventualmente con chi, dove e perché.

Non è proprio facilissimo, si capisce. Ci vuole il buon senso casalingo di riconoscere che il 13-14 aprile 2008 il Pd ha subito una brutale sconfitta, anche senza calcolare le speranze suscitate dai sondaggi e andate deluse nella realtà. C'è una sconfitta in sé. Una sconfitta 'noumeno'. Ma le sconfitte possono essere un punto di partenza o un'occasione di frana. Vale a dire: oggi il Pd è una galassia in espansione, oppure una stella che collassa dentro se stessa? Davanti all'Italia riformista c'è un universo nuovo o un buco nero vecchio? L'alternativa non è soltanto teorica. Implica un orientamento della sua classe dirigente, cioè quella che una volta si chiamava 'la linea'.

Bene, a quanto si vede la linea del Pd non è chiara. Una proiezione ottimistica nel futuro delineerebbe un partito in crescita, capace egemonicamente di rappresentare un'amplissima fascia di sfumature politiche, dal centro alla sinistra. Mentre una concezione più cauta porterebbe a ragionare nel modo seguente: il Pd è un grosso residuo politico, figlio della sinistra democristiana e nipote del Pci riformista. Le culture che rappresenta non hanno grande fortuna nell'Italia di oggi. Dunque è più conveniente pensare ad allargare l'alleanza, trattare con i cattolici dell'Udc, guardare ai socialisti, parlare con la sinistra radicale.

Ovviamente non è soltanto una questione teorica. A quanto si capisce, anche la classe dirigente del Pd è divisa. Deve ancora metabolizzare la batosta e quindi non è pronta a guardare al futuro. La stessa infinita querelle Veltroni-D'Alema in fondo rispecchia questa divaricazione del pensiero politico possibile. Ma ciò che è da evitare riguarda i modi con cui affrontare il problema: se si resta nelle fumosità, tipo "sia chiaro che la vocazione maggioritaria non significa l'autosufficienza", e roba simile, si può anche chiudere bottega.

Se qualcuno se lo fosse dimenticato, ci sono alle viste alcuni appuntamenti di rilievo. Uno, le elezioni europee, è un salto nel buio, perché con la proporzionale pura non c'è appello possibile al 'voto utile' (e neanche la ragionevole possibilità di introdurre soglie di sbarramento, come aveva proposto Dario Franceschini), e si tratterà di vedere come si rimetteranno in pista i partiti della defunta Sinistra Arcobaleno. L'altro appuntamento riguarda il referendum elettorale, che comporta una posizione netta: vale a dire, se si crede ancora nella vocazione maggioritaria del Pd, si dovrebbe puntare sul referendum Segni-Guzzetta (che se approvato porterebbe all'assegnazione del premio di maggioranza al partito, e non alla coalizione vincente).

Mentre qualora dovesse prevalere una concezione non espansiva del Pd, sarebbe meglio abbandonare le illusioni egemoniche e giocare con le carte, e le alleanze, disponibili.

Sono discorsi di troppo lungo periodo? Mica tanto. Le ore passano in fretta, i mesi corrono, 'tempus irreparabile fugit'. Si può aspettare fiduciosamente la crisi del governicolo Berlusconi IV, quell'esecutivo formato famiglia, di fronte a processi socioeconomici più grandi di lui (lui governo e lui Berlusconi). Ma nel frattempo si potrebbe cercare una strada, un'idea, un partito. Non c'importa nulla sapere chi siamo e da dove veniamo: ma almeno sapere dove andiamo, questo sì, sarebbe utile.

(16 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Edmondo BERSELLI
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 05:07:30 pm
Edmondo Berselli

La casta democratica


La superiorità morale della sinistra è qualcosa che non è intrinseca al Dna dei suoi leader, non è una virtù innata  Il sindaco di Bologna Sergio CofferatiIl pasticciaccio brutto di Genova, con il durissimo colpo subito dall'amministrazione di Marta Vincenzi, 'SuperMarta' per i titoli dei giornali, ha un rilievo importante e rischioso nel panorama politico italiano; e naturalmente getta ombre inquietanti sul Partito democratico. Questo per una serie di ragioni che conviene cominciare a districare prima che i problemi aumentino fino a diventare incontrollabili.

Per chi non l'avesse ancora capito, il Pd è in una condizione difficile. Ha una leadership indebolita dalla sconfitta elettorale; nutre un'incertezza strategica sul terreno delle alleanze, testimoniata dall'eterno duello fra Massimo D'Alema e Walter Veltroni; prova un'attrazione letale per la sfera del governo e per il Berlusconi seduttivo e presidenziabile di questi tempi; ha rinunciato nei fatti a difendere i risultati dei due anni del governo Prodi, consegnandolo al silenzio; non sa se il 33,1 per cento del 13-14 aprile potrà essere confermato alle elezioni europee del prossimo anno.

E via elencando cose sotto gli occhi di tutti. Come ha detto il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, sulla sicurezza la sinistra è preda di "sociologismi e inconcludenze". Sulla questione istituzionale, e in particolare sul federalismo fiscale, il Pd naviga a vista, facendo sentire voci diverse a seconda di chi parla al momento. Le sue risorse di credibilità principali, invece, sono elementi poco spettacolari, che si possono riscontrare soltanto sul campo. Ad esempio, la buona amministrazione nelle regioni 'rosse', frutto di sintesi storiche, di pragmatismo e di contiguità con il mondo della piccola e media impresa, consolidatisi sulla scorta di un rigore e un'onestà strutturali nelle procedure burocratiche e nelle decisioni politiche.

Ma il caso Genova, con le sue mance miserabili,
la sua Tangentopoli stracciona, è lì a dimostrare che la superiorità morale della sinistra è qualcosa che non appartiene ontologicamente al Dna dei suoi esponenti, non è una virtù antropologica innata. Quindi il Pd queste doti qualitative deve conquistarsele, mantenerle o riconquistarle ogni giorno (non dovremmo trascurare che ci sarà pure un motivo se 'La casta' di Stella e Rizzo è apparso come un atto d'accusa al centrosinistra, ben più che alla destra).

Ed è sotto gli occhi di tutti che il potere non appartiene alla sinistra per diritto naturale o divino, neanche nei suoi territori tradizionali. A suo tempo, il cerchio magico fu spezzato a Parma da Elvio Ubaldi, e da Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. Oggi, sotto le due Torri bolognesi, Sergio Cofferati ha deciso di ricandidarsi a Palazzo d'Accursio, ma è evidente che dovrà darsi da fare per andare a caccia dei voti di una città divenuta politicamente scettica.

In sostanza: il diritto ereditario si è esaurito anche in quell'Italia che era orgogliosa dei suoi sindaci e dei suoi amministratori. La Lega in Emilia-Romagna ha raddoppiato i voti, e nella zona appenninica ha spuntato percentuali da record (è il vecchio voto 'bianco' ancora alla ricerca di una rappresentanza). Analisti come Carlo Trigilia e Francesco Ramella hanno già individuato sintomi di degrado politico-amministrativo nelle regioni rosse, anche se le percentuali spuntate dal Pd alle elezioni politiche appaiono ancora confortanti.

In queste condizioni, il pericolo di un'erosione del consenso anche nelle aree di questa Italia 'centrale', un tempo fiore all'occhiello della capacità amministrativa del Pci, non è affatto un'ipotesi remota.

È vero che fa fatica ad affacciarsi sulla scena una plausibile classe dirigente di destra, ma non è il caso di contare sulle insufficienze altrui. Se è vero che il Pd deve ripartire dal territorio, o "avvicinarsi al Paese" (come ripeteEnrico Letta), deve mettere a frutto le personalità più convincenti che nel territorio agiscono.

A quanto si capisce dai dati elettorali, il Pd è un'entità politica maggiormente competitiva nelle grandi città e fra le classi più scolarizzate: contiene in sé un elemento di dinamismo culturale e un contenuto di modernizzazione. Per valorizzare questi aspetti ci vuole un lavoro intenso e capillare, non un partito virtuale.

Occorre saper ascoltare i cittadini, e non mostrare la sovrana indifferenza assicurata dalla propria indiscutibile superiorità. Infine, se occorre, ci vuole anche la capacità di farsi da parte, tempestivamente, quando le cose si mettono male, per distrazione o per incapacità. Altrimenti, in ogni roccaforte presunta può essere al lavoro la sindrome Bassolino.

(10 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Edmondo Berselli. Petrolio a orologeria
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:48:40 am
Edmondo Berselli

Petrolio a orologeria


La politica dei bassi tassi d'interesse perseguita dalla Federal Reserve ha dato man forte a quanti si sono messi a speculare sul barile  La borsa di Wall StreetFinalmente l'attenzione internazionale comincia a concentrarsi sulla bolla finanziaria che si sta sempre più gonfiando sul mercato del petrolio: il tema ha tenuto banco al vertice dei ministri economici del G8 in Giappone. Non se n'è cavato nulla di utile, ma almeno i termini della questione ora sono sul tappeto. Il nodo attorno al quale si discute è il clamoroso scollamento quantitativo tra petrolio reale e greggio virtuale. Il rapporto numerico fra le due grandezze è impressionante: ogni giorno la produzione media è di circa 85 milioni di barili, mentre sul mercato dei contratti a termine se ne movimentano per oltre un miliardo.

Le principali piazze sulle quali avvengono questi scambi di carta petrolifera sono Londra e, soprattutto, New York: collocazioni geografiche che rischiano di avere un peso non trascurabile sull'evoluzione della vicenda. Infatti, al richiamato summit giapponese del G8, sono stati proprio i rappresentanti del Regno Unito e degli Usa a contrastare le pressioni dei colleghi degli altri paesi affinché si concordassero misure atte a frenare almeno le eccessive facilitazioni con le quali si può speculare sui prezzi del greggio virtuale. Per esempio, imponendo maggiori margini di garanzia (il contante che va versato da chi firma un contratto a tempo, oggi a livelli irrisori) in modo da tener fuori dal gioco gli speculatori più avventurosi.

Attenzione, è stata la tesi opposta dalla coppia anglo-americana, interventi del genere rischiano di avere una controindicazione seria: la destabilizzazione del mercato. Un discorso non tanto dissimile da quelli che si facevano qualche anno fa negli Stati Uniti contro chi metteva in guardia sui pericoli della bolla speculativa che la politica del credito facile stava facendo ingigantire sul mercato dei mutui immobiliari. Dunque, un discorso che oggi suona ancor più miope e allarmante: soprattutto perché avvalora
la pessima sensazione che i governi di Londra e di Washington siano di fatto ostaggio dei mercati, perfino nei loro aspetti più deteriori, e non vogliano guardare oltre la realtà quotidiana anche per non dover ammettere gli errori delle proprie politiche economiche.

Il principale dei quali consiste nella strategia del denaro facile seguita dalla Federal Reserve prima e dopo la crisi dei mutui subprime. La miscela delle forti iniezioni di liquidità e dei bassi tassi d'interesse avrà magari salvato qualche banca dal collasso, ma in misura importante ha anche fornito munizioni ai tanti che si sono gettati a corpo morto nelle speculazioni sui mercati delle materie prime, petrolio in testa a tutte. Proseguire su questa strada sarebbe una follia, anche perché la bolla petrolifera può provocare sconquassi ben più devastanti di quella dei mutui immobiliari. Anzi, ne ha già provocati facendo emergere un po' dappertutto scenari di bassa crescita e alta inflazione. È davvero sconsolante che in proposito il G8 se la sia cavata con la banale richiesta al Fmi di fare uno studio per capire quanto vi sia di ordinario e quanto di patologico nelle speculazioni sui barili di carta. Un espediente che non promette nulla di buono.

(26 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI. La deriva del talk show
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2008, 11:18:48 pm
POLITICA IL COMMENTO

La deriva del talk show

di EDMONDO BERSELLI

 
C'è un'Italia che vuole esprimere la sua indignazione, contro le leggi canaglia, contro i provvedimenti ad personam, contro la manipolazione spregiudicata della Costituzione repubblicana. E questa Italia fa fatica a trovare una voce. Per questo ieri a Piazza Navona è venuta tanta gente. Persone che volevano far sentire la loro esasperazione, che cercavano di uscire dal cerchio stregato della frustrazione civile, provando a far risuonare nel paese la protesta contro l'improntitudine del potere berlusconiano. Era per molti aspetti una testimonianza di dignità democratica e di civiltà politica: il tentativo di uscire dal recinto dell'impotenza.

Ha rischiato di finire male. Di diventare la parodia di un talk show deteriore, un Bagaglino di sinistra aggravato dal turpiloquio e dalla malevolenza gossipara. Peggio ancora, di trasformarsi in un attacco distruttivo alla chiave di volta istituzionale della nostra democrazia. Perché quando il microfono finisce nelle mani di un Beppe Grillo, non è più la politica a esprimersi. È una torsione populista che attacca ogni istituzione, che rifiuta di avere fiducia anche nelle istituzioni di garanzia costituzionale. Che alla fine sottrae legittimazione alla Repubblica.

Difficile dire che cosa volesse significare, politicamente, l'attacco vernacolare portato da Grillo a Giorgio Napolitano. Qualcuno può davvero credere che la soluzione di un momento ad altissimo rischio per gli equilibri democratici possa passare per l'umiliazione pubblica e spettacolare del garante della Costituzione? Eppure dovrebbe essere chiaro a chi ha un minimo di intelligenza politica che il Quirinale è l'ultimo delicatissimo diaframma che si frappone all'assalto delle truppe berlusconiane: svilire Napolitano, ridurlo a un presidente fantoccio, a un'ombra senza qualità, significa né più né meno consegnare la Carta costituzionale a coloro che vorrebbero ritagliarla a proprio uso e consumo.

In sostanza, è accaduto che tutta la gente convenuta a Piazza Navona è stata espropriata delle sue intenzioni. Da protagonista di una denuncia, è stata ridotta in pochi minuti a spettatrice di uno show, uno dei tanti allestiti da Grillo, uno dei violenti "vaffa" antipolitici portati sulle piazze italiane. Con il risultato che tutti coloro che erano venuti a rappresentare le ragioni di un'opposizione civile alle leggi carogna, al "lodo Alfano", ai tentativi gaglioffi di mettere la museruola all'informazione, si sono ritrovati all'improvviso in un altro ruolo. Tutti improvvisamente ammutoliti, indotti a risate a denti stretti, e anche percepibilmente imbarazzati, mentre Sabina Guzzanti enunciava come verità di fatto e criteri di giudizio politico le dicerie sui comportamenti erotici del Cavaliere.

Ciò che colpisce è in primo luogo il sequestro delle oneste ragioni che hanno portato in piazza un'opposizione presente nella nostra società e poco o per nulla rappresentata nelle istituzioni politiche. Un'occasione di presenza e di vivacità democratica è stata confiscata, almeno per qualche minuto, da un accesso di varie volgarità, prive di qualsiasi finalità che non fossero quelle dello spettacolo in sé. Perché non dovrebbero esserci dubbi: un conto è la pratica di un'opposizione combattiva, con tutti i mezzi disponibili (per dire, con l'ostruzionismo nelle Camere e con gli slogan nelle piazze); e un altro conto è lo sputtanamento generale, che getta fango su tutto e tutti, a cominciare da quelli che dovrebbero essere compagni di strada.

Perché c'è un altro aspetto da mettere a fuoco. Per le piazze ingrillite, per i contestatori che trattano il presidente della Repubblica come un addormentatore delle coscienze, si realizza rapidamente uno spettacolare transfert politico, un trasferimento freudiano di capi d'accusa: l'avversario, anzi, il "nemico" non è più la figura del capo del governo depositario del conflitto d'interessi, il manipolatore che cambia le regole per tutelare la propria posizione. Per gli autori degli show più incendiari, va da sé che Berlusconi è il male: ma è l'alterità assoluta, e quindi costituisce un male contingente, un male materiale, ideologicamente insignificante, culturalmente inesistente.

Secondo questo schema, la destra padrona è una disgrazia che ci è capitata, l'ultima incarnazione della mediocrità italiana, ma con cui non vale la pena prendersela. Più colpevoli sono i suoi elettori, semmai. E più colpevoli ancora, secondo una lista inesorabile di concatenazioni, sono i rappresentanti della sinistra moderata, coloro che hanno accettato di trattare con il Cavaliere, che hanno creduto nel "dialogo" e ancora adesso non si sono accorti di essere diventati complici della malattia, soci di un virus, partecipi di una metastasi. Il vero nemico, insomma, è il tuo compagno.

Si corre il rischio che una parte della sinistra, ed è la parte maggioritaria, si riduca al silenzio, fino a non riuscire a dire nulla, in nessuna occasione, fino all'ammutolimento più totale. E che un'altra parte, un'altra sinistra, venga consegnata a un furore astratto, televisivo, mediaticamente estremo, incapace tuttavia di trovare strade che conducano alla politica.

Ieri Furio Colombo e poi anche Antonio Di Pietro hanno cercato di uscire dal reality show che si stava realizzando (e che avevano contribuito a organizzare, prima che gli scappasse di mano), e di riportare la gente alla realtà. Ma in futuro occorrerà riflettere con severità radicale. Se prosegue l'assopimento della politica, se frange significative della società italiana si confermeranno nell'idea di essere escluse e di non avere voce, l'attrazione del nichilismo spettacolare di Grillo e compagni risulterà irresistibile.

E non è una prospettiva gradevole quella di una sinistra divisa fra l'ammutolimento e l'ipnosi cattiva generata da un talk show permanente. Dove si va da cittadini, e si torna da spettatori di uno spettacolo deprimente, dove tutti sono colpevoli, dunque la politica e anche l'opposizione diventano inutili e resta solo il "vaffa". Chi ha deciso di muoversi contro le leggi ad personam merita qualcosa di più, e la politica deve darglielo.

(9 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI. Un governo di maniaci
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:16:06 am
Edmondo Berselli


Un governo di maniaci


Ministri che si dedicano alle proprie fissazioni, senza senso delle cose, ordine, accuratezza.
 
Il governo Berlusconi non ha un programma.

Adesso pare che il ministro dell'istruzione Mariastella Gelmini, definita a suo tempo dai supporter "tenero germoglio del berlusconismo", si sia concentrata sul voto in condotta. Interessante. Collegare il profitto, come si chiamava una volta, quando c'erano le mezze stagioni, al comportamento. Ecco la soluzione ai problemi della scuola. Anzi, con il ripristino del sette in condotta e della bocciatura in tutte le materie in caso di infrazioni gravi, ecco un possibile impegno per il programma di governo.

Quale programma? Già, è vero. Il governo Berlusconi non ha un programma. Ma se è per questo il centrodestra non ha nemmeno una cultura. Sono lontani se non lontanissimi i tempi in cui il Cavaliere si proponeva come il rappresentante domestico di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, nel nome del neoliberismo e del taglio delle tasse. Altri giorni, allorché re Silvio prometteva meno tasse per tutti e il 'sogno'. Altre estati allorché il divo Berlusconi, fra un vulcano artificiale e una serata con le señoritas si proponeva come l'interprete nostrano dello spirito neoconservatore.

Anche Berlusconi alla fine dev'essersi convinto, come accadde a Benito Mussolini che "governare gli italiani non è difizzile, è inuttile!". E quindi si dedica a importanti strategie internazionali, puntando sulla sua trascinante simpatia: dove nessuno lo prende sul serio, ma che lui presenta come grandi innovazioni geopolitiche. Al G8 di Tokyo: aumento dei depositi sui futures, per bloccare la speculazione (la proposta, scrivono freddamente le cronache, non è stata presa in considerazione). E poi: i governi fissino un tetto al prezzo del petrolio! Idem con patate. La prossima volta, per stupire il mondo, verrebbe bene una proposta sugli Ufo, magari presentati come "i nostri amici sconosciuti" (quelli conosciuti sono Putin e Sarkozy).

In sostanza, il Popolo della libertà non possiede più le 'ricette' per "il nuovo, grande, straordinario miracolo italiano" che Berlusconi promise nel 1994 all'epoca della discesa in campo. Non sa più che cosa dire sul "nostro tesoro nascosto, il Mezzogiorno". Ha rinunciato alle fantasmagorie sulle tasse e alla curva di Laffer. Si butterà sulle riforme costituzionali per far credere di esistere e per confermare a suon di decisioni l'egemonia della destra sulla politica italiana. E nel frattempo darà corpo al suo vero programma: che consiste nell'integrare gli interessi di riferimento della destra in una struttura corporata, in modo che possa spolpare il lavoro dipendente. Le corporazioni potranno prosperare, mentre gli altri pagheranno con l'inflazione il prezzo della prosperità altrui.

Basta guardare alle prese di posizione dei ministri e dei principali esponenti del Pdl, per capire che cosa sta succedendo. Poiché non esiste più una cultura comune nella destra, ogni protagonista si sente autorizzato a esprimere le sue manie. È una congrega di fissati, ognuno dei quali coltiva da decenni un pensiero fisso, attraverso il quale pensa di risolvere a cascata tutti i problemi nazionali. Oltre alla signora fissata con i grembiuli a scuola, c'è quello delle impronte digitali, quello del federalismo fiscale, quello dei fannulloni nel pubblico impiego, quello dell'abolizione del valore legale del titolo di studio. Ognuno convinto che c'è un modo per penetrare nel meccanismo della società, un problema che, una volta risolto con una trovatina, si ripercuoterà beneficamente su tutti gli aspetti del vivere civile.

Abolire i limiti di velocità in autostrada, permettere la deducibilità fiscale delle spese. Mandare l'esercito nelle città. La tolleranza zero. Multare quelli che fanno pipì nei parchi. Ripristinare le pene corporali. Vietare le sigarette ai giardini pubblici.Sono le soluzioni semplici a cui si affezionano le anime semplicissime. Tutti coloro che ignorano la complessità delle società contemporanee, gli interessi in gioco, la rete degli effetti. D'altronde, il miglior talento del governo, Giulio Tremonti, è l'inventore dei condoni, dell'ipoteca sulla proprietà delle case, della Robin Tax, della social card.

In realtà il governo non farà nulla. Per fare qualcosa ci vuole senso delle cose, ordine, accuratezza. Una compagnia di fissati si dedicherà alle proprie fissazioni. Chi ad acquistare coltelli di notte, chi a parlare di donne, chi a convincere il bar che i bambini zingari vanno strappati ai genitori, eventualmente per farli partecipare a qualche reality show strappalacrime. Perché c'è una soluzione per tutto. Anche se si ignora quale sia il problema

(18 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Edmondo Berselli. Veltroni al bivio di settembre
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:33:36 pm
Edmondo Berselli


Veltroni al bivio di settembre


Il governo lavora per diventare maggioranza permanente. E lo fa con i soldi degli altri  Certo è difficile inventarsi strategie politiche in agosto: e allora per il Pd conviene proiettarsi sulla riapertura dopo le ferie. Settembre può diventare una stanca parata di numeri due e di dibattiti frustranti alle ex feste dell'Unità, ora in molti casi Feste democratiche, in cui si continuerà a dire stancamente che Silvio Berlusconi con il suo governo non fa niente per i ceti poveri e il reddito fisso. Oppure si può cominciare a fare opposizione in modo convinto e convincente: se lo si fosse dimenticato, ci sono davanti a noi quasi cinque anni di governo di destra; ergo il mestiere dell'opposizione va imparato e praticato (è il mestiere che gli elettori hanno assegnato al Partito democratico).

Prima premessa: fuori i conti. Pierluigi Bersani insiste che il deficit stimato dal ministro dell'economia Giulio Tremonti è sovrastimato, e lascia intendere che il guru no global dell'antimercatismo sta costituendo una provvista per i costi delle riforme future, forse per superare indenne gli shock di spesa del federalismo fiscale. Non conviene avere un'idea chiara e passare a una battaglia manovriera sui conti del superministro?

Seconda premessa. Con una delle sue più spettacolari giravolte acrobatiche, Berlusconi ha annunciato che si taglia la spesa pubblica per non aumentare le tasse. Ma la riduzione del carico fiscale è sempre stata la stella polare del capo del Pdl; mentre adesso sostiene che ci dobbiamo accontentare che le tasse restino come sono, se non dovranno addirittura aumentare. Una presa in giro colossale, pronunciata con la faccia tosta dello statista preoccupato, mentre si ha la sensazione, come ha intuito Enrico Letta, che la flessione dell'Iva sia dovuta non solo e non tanto alla crisi dei consumi, bensì alla ripresa dell'evasione.

Quindi è il caso di mettere a fuoco in primo luogo il tema politicamente più rilevante di questa stagione. A dispetto delle storielle di un'azione sedicente 'di sinistra', per autocertificazione berlusconiana,
il governo in carica e la sua maggioranza hanno tutto l'aspetto di un esecutivo esplicitamente classista. Hanno diviso in due la società italiana, corporando gli interessi delle imprese e del lavoro autonomo, premurandosi di aggiungere qualche lustrino e le fatuità come la 'social card' per illudere la componente più inconsapevole di lavoro dipendente, pensionati e marginalità sociale.

In questo modo, il governo sta consolidando il blocco sociale di riferimento, a cui concederà di arricchirsi sfruttando l'inflazione (cioè manovrando i prezzi ai danni di coloro che non possono rivalersi). Si tratta di un'analisi rozzamente materialista, come no; ma come talvolta succede, la rozzezza individua un problema; sarebbe dunque un errore per il Pd occuparsi soltanto dell'eleganza astratta dei diritti e delle costuzioni giuridico-costituzionali mentre la destra comincia a spolpare concretamente il lavoro dipendente a ogni livello professionale.

E allora Walter Veltroni e tutti i ministri del governo ombra dovrebbero fare il piacere di uscire dall'estemporaneità e dalle dichiarazioni a stralcio sui singoli provvedimenti. Basta guardare gli attacchi al welfare, alla scuola, a tutte le strutture pubbliche, per rendersi conto che il governo Berlusconi sta preparando un colossale trasferimento di richezza da una parte all'altra della società. Qualcosa di simile a ciò che avvenne con l'adozione dell'euro, quando a interi settori e categorie fu concessa mano libera ai danni del reddito fisso.

Se lo schema non fosse ancora chiaro, ripetiamolo: il Pdl sta preparando le condizioni per diventare una maggioranza permanente, e lo fa con i soldi degli altri. Poiché la situazione è drammatica, e la prospettiva scoraggiante, ci vuole uno scatto di iniziativa. Una ricognizione minuziosa sugli andamenti economici, sul contenuto delle misure del governo, e una campagna d'autunno razionale e corale.

Per capirci: il discorso sulle riforme (federalismo, Costituzione, giustizia) non sono in questo momento la vera priorità per il Pd. La priorità effettiva è contrastare l'azione di una maggioranza politica che potrebbe costringere il Pd a diventare effettivamente, come ha detto Massimo D'Alema, un "minoranza strutturale" nel Paese e ad "aggregarsi" alla maggioranza, secondo il lessico del Cavaliere.

Se non si coglie questa drammaticità, Veltroni continuerà a essere un capo politico ininfluente, il Pd un partito ipotetico, l'opposizione un esercizio fumoso. È ora di svegliarsi. Altrimenti, quando ci si sveglierà davvero, sarà il risveglio da un incubo a portare il Pd e i suoi elettori nella realtà più nera.

(08 agosto 2008)


espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI. La scelta delle gerarchie
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2008, 11:28:14 pm
POLITICA

IL COMMENTO

La scelta delle gerarchie


DI EDMONDO BERSELLI



ALLA FINE per rintuzzare le critiche di Famiglia Cristiana al governo Berlusconi e per spegnere il focolaio delle polemiche è dovuto intervenire il direttore della sala stampa del Vaticano: e in quel momento si è capito che se padre Federico Lombardi aveva scelto di intervenire ai microfoni del Tg1 voleva dire che sullo sfondo si erano mosse le alte gerarchie, chissà, la segreteria di Stato, la presidenza della Cei, evidentemente preoccupate per la piega presa dagli eventi, e dalla durezza delle risposte nel governo e nel Pdl.

E difatti padre Lombardi, con le sue misuratissime parole, ha provveduto a ripartire le competenze e a definire le responsabilità: Famiglia Cristiana, ha detto il portavoce del papa, è un giornale importante del mondo cattolico ma non rappresenta affatto la linea del Vaticano o della Cei, e quindi i suoi giudizi identificano soltanto chi li ha scritti e il direttore del settimanale, don Antonio Sciortino.

Difficile immaginare una presa di distanza più radicale. Non si ricordano interventi equilibratori di questo tenore allorché il settimanale dei Paolini aveva criticato aspramente Romano Prodi e il suo governo, e più tardi il "pasticcio in salsa pannelliana" del Pd. E a questo punto viene anche da chiedersi per quale motivo le alte sfere vaticane hanno deciso un intervento che ha tutta l'aria di voler ridurre ufficialmente a Famiglia Cristiana a voce periferica e irrilevante.

Si può dissentire dalle valutazioni espresse dall'editorialista Beppe Del Colle, o comunque giudicare esasperato il giudizio secondo cui con misure come "la sciocca e inutile trovata" delle impronte digitali ai bimbi rom il nostro Paese sfiora il rischio di un nuovo fascismo. Ma nondimeno, per inquadrare decentemente i fatti, occorre anche considerare che il più importante e venduto giornale cattolico rappresenta un punto di vista significativo nella cultura cattolica, e non solo cattolica, italiana.
Sotto questa luce, non è facile definirlo politicamente. Destra e sinistra non sono termini che possono restituire integralmente la posizione storicamente rappresentata dal giornale dei Paolini.

Infatti Famiglia Cristiana si colloca rigorosamente nella tradizione cattolica per ciò che riguarda la concezione della famiglia, e su altri temi che attengono al magistero etico della Chiesa. Ma nello stesso tempo il settimanale ha sempre rappresentato un punto di riferimento per il cattolicesimo più aperto e non impaurito dalla modernità.

L'ortodossia verso il magistero papale, insieme con l'amore filiale manifestato verso i pontefici da Wojtyla a Ratzinger, non ha mai impedito ai Paolini, prima sotto la direzione di don Leonardo Zega e poi con la guida di don Sciortino, di esporre una propria linea culturale e finanche "sociale", legata a quelle inquietudini conciliari che hanno vivificato a lungo il cattolicesimo italiano e che hanno trovato nel papato di Montini l'espressione più compiuta, e nel pensiero del cardinale Martini la presenza più suggestiva.

Sarebbe una sciocchezza attribuire alla direzione di Famiglia Cristiana e ai suoi giornalisti un orientamento esplicitamente di sinistra. Si scadrebbe al grado di livore manifestato in questi giorni da Maurizio Gasparri, e dalle controaccuse di fascismo da parte dell'ex Udc Carlo Giovanardi (che si è scagliato contro i "toni da manganellatore" che don Sciortino consente ai suoi collaboratori). Eppure, non ci sono dubbi che nel corso degli anni Famiglia Cristiana ha rappresentato una delle sempre più rare isole di riflessione e anche di critica verso l'ineluttabilità del disincanto politico, e verso l'edonismo cinico che ha segnato l'ultima fase della modernizzazione del nostro Paese.

Se esiste un luogo in cui persiste un atteggiamento non corrivo, cioè non arrendevole, verso la brutalità e la volgarità dell'Italia consumista e televisiva, questo è stato ed è Famiglia Cristiana. Prendere tale atteggiamento e proiettarlo come una critica essenziale verso il berlusconismo può essere una forzatura: ma nondimeno è connaturata alla mentalità del giornale dei Paolini l'idea di una società sobria, esente dai fulgori effimeri, dagli amori fatui, dall'iperconsumo irresponsabile. E di converso di una partecipazione alla sofferenza degli umili, qualunque sia il loro posto nella società dell'euforia coatta. Una condivisione dettata dalla fede, dall'umanità, dalla curiosità verso ciò che è diverso, e dalla disponibilità culturale verso ciò che è inedito.

Che da destra si manifesti un'insofferenza tanto acuta verso il settimanale cattolico sembra la dimostrazione palese che il rapporto con il mondo cattolico viene sentito sotto un aspetto strumentale e problematico. Come una risorsa politica ed elettorale, ma anche come una possibile fonte di delegittimazione. D'altronde, appartiene interamente allo spirito di Famiglia Cristiana la critica verso quei provvedimenti governativi di taglio spettacolare, che sembrano fatti apposta per aumentare l'inquietudine dei cittadini, vale a dire per intensificare l'allarme sociale che dichiarano di voler combattere (con rischi, se non di un nuovo "fascismo", di un circolo vizioso di misure sempre più aspre e sempre più inadeguate rispetto all'allarme generato).

Non è facile oggi stare dentro i panni del direttore di Famiglia Cristiana. Rappresenta una posizione impopolare rispetto a quel mondo cattolico, maggioritario, che dopo la fine della Dc ha scelto di farsi rappresentare dalla destra. Non troverà sostegni apprezzabili a sinistra, dove la parte laica guarderà sempre con sfavore le sue posizioni sui temi politicamente sensibili della bioetica.

Ma il pericolo maggiore, prima ancora delle proteste di chi viene criticato, e che riguarda tutti i cattolici consapevoli, è quello di restare schiacciati da un implicito patto di potere fra la destra trionfante di questa stagione e il realismo politico delle gerarchie vaticane: cioè dalla strana e nuova conciliazione che sembra delinearsi, un nuovo patto di interessi e di potere che potrà premiare la Chiesa come istituzione temporale, ma che lascerebbe senza voce un cattolicesimo che ancora accetta di misurarsi con i dubbi, le incertezze e le angosce del nostro tempo.

(15 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Cavalier recessione
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2008, 06:24:21 pm
Cavalier recessione

di Edmondo Berselli


Attacco agli apparati pubblici. Fine della lotta all'evasione. Dai primi cento giorni di governo emerge la strategia di Berlusconi: cavalcare la crisi. E a pagare saranno i lavoratori dipendenti  I primi cento giorni del Caimano, del Cavaliere, dello 'statista', dello stratega di affari geopolitici sono una sfida micidiale al Pd e a tutte le opposizioni. Anzi, un attacco putiniano in pieno assetto di guerra. Peccato non essersene accorti. Come ha detto Giulio Tremonti presentando la manovra: "L'Italia possiede un punto di forza: la stabilità politica; che resterà per cinque, dieci, forse quindici anni".

Se il Pd fosse meno impegnato nelle sue beghe, a creare fondazioni, a demolire Sergio Chiamparino, a proiettare nel cielo dell'estate vaghe astrazioni fra il letterario e lo sciamanico, un lunghissimo brivido scenderebbe nella schiena dei suoi dirigenti, primo fra tutti Walter Veltroni.

Come aveva detto Massimo D'Alema? Rischiamo di diventare una "minoranza strutturale". Infatti, per la prima volta si assiste in Italia al profilarsi di una nuova specie di guerra di classe. Berlusconi e Tremonti hanno in mente il progetto perfetto per diventare eterni.

Per capirlo, bisogna uscire dal coacervo dei singoli provvedimenti: l'abrogazione dell'Ici era un atto dovuto dopo la campagna elettorale, la detassazione (parzialissima) degli straordinari è una misura irrilevante nella quantità, la campagna su immigrazione e sicurezza ha un valore simbolico fortissimo, con l'esercito in strada e le vecchiette che dicono "vi vogliamo bene" ai soldati, ma i suoi contenuti saranno da valutare più avanti.

Ma è il lavoro dietro le linee quello che viene condotto dal governo, e nasce da una concezione darwiniana della politica. Di destra vera e cattiva, senza inibizioni e remore culturali. Il Popolo della libertà vede con chiarezza una perdita di peso del lavoro dipendente e di tutti i ceti riconducibili nel perimetro del reddito fisso, e quindi la possibilità di creare un blocco sociale di maggioranza che possa confermarsi, come ha ripetuto Tremonti, "a tempo indeterminato". Un settore politico che copre la metà della società, 'la società del 50 per cento' (diversamente dalla "società dei due terzi" descritta a suo tempo dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz), che
governa agevolmente contro tutti gli altri ceti dispersi e perdenti.

Per ottenere questo scopo, a suo modo 'storico', Berlusconi si è premunito garantendosi l'immunità, con la cinica operazione del provvedimento bloccaprocessi, che è servito a introdurre la 'mediazione' del lodo Alfano: prima si minaccia l'atomica e poi si negozia da posizioni di forza. Un capolavoro di violenza sulle istituzioni.

A questo punto, sereni e tranquilli, si può passare alla Fase 2, la fabbricazione di una maggioranza sociale e politica non aggredibile dalle opposizioni. Con un esemplare ragionamento da economista, Francesco Giavazzi sul 'Corriere della Sera' del 17 agosto ha scritto che Tremonti, che pure ha evocato spesso lo spettro del Ventinove, "rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione".

Tremonti, dice Giavazzi, tiene la pressione fiscale invariata per un triennio, "al livello elevatissimo al quale l'aveva lasciata Prodi". Strano, per gente che aveva sempre puntato sul 'meno tasse per tutti'. Tanto più, aggiunge l'editorialista del 'Corriere', che "come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini (.), ciò che servirebbe è un'energica riduzione delle tasse sul lavoro".

Ora, consideriamo che Giavazzi è uno dei più celebri economisti italiani, e che Guido Tabellini è un quasi premio Nobel. Si può immaginare allora che Tremonti sia uno sprovveduto che durante una fase di stagnazione e inflazione approva riduzioni di spesa con effetti, direbbero i suddetti economisti, 'pro-ciclici', cioè con una seria probabilità di aggravare la recessione?

Non è possibile. Una interpretazione più realistica è quella di Pier Luigi Bersani:il governo sta facendo provvista per affrontare i costi inevitabili della struttura federalista. Ma c'è anche un'interpretazione più inquietante. La recessione può essere un fenomeno preoccupante sotto l'aspetto economico, ma funzionale invece al disegno politico del Pdl. Basta dividere in due la società: da una parte il già citato reddito fisso, lavoro dipendente e pensionati; dall'altra imprese e lavoro autonomo (professioni, commercio, artigiani ecc.).

Per queste categorie sociali, né l'inflazione né la stagnazione rappresentano un'inquietudine. Alle imprese è stato lanciato il messaggio sulla contrattazione da flessibilizzare, sul lavoro precario e perfino su aspetti premoderni del rapporto fra imprenditori e lavoratori, come la cancellazione della legge che impediva la pratica delle dimissioni firmate in bianco. Alle categorie del lavoro autonomo, che Bersani aveva tentato con qualche limitato successo di sottoporre alla concorrenza, viene assegnata di fatto la possibilità di manovrare prezzi e tariffe. Non che il mercato si possa comprimere con i calmieri; ma la scomparsa del contenimento dell'inflazione dalle priorità vere del governo mette allo scoperto la pesante sfasatura, per il reddito fisso e per i contratti, fra l'inflazione programmata, del tutto irrealistica, e l'inflazione reale.

In ogni caso i pilastri dell'azione del governo sono da un lato l'attacco a tutti gli apparati pubblici; dall'altro il tendenziale smantellamento del contrasto all'evasione.

Il primo aspetto è spettacolare (così come è uno show quotidiano l'azione intimidatoria di Brunetta sul pubblico impiego): i trenta miliardi in tre anni di tagli alla macchina pubblica incidono su scuola, università, sanità, sicurezza, e su tutti gli enti locali, in maggioranza di centrosinistra, che avranno difficoltà pesanti nell'assicurare i servizi.

L'altro, il ritiro dalla lotta all'evasione, è più strisciante. Si compone di provvedimenti invisibili, che non fanno titoli sui giornali, e che non accendono la fantasia dei commentatori.

Tanto per dire, sul 'Sole 24 ore' Stefano Micossi riconosce al governo di avere avviato per il paese un percorso di "riforme strutturali, capaci di liberarne il potenziale di crescita e modernizzarne le istituzioni obsolete". Converrebbe allora capire se fra queste riforme va compresa anche l'istituzionalizzazione politica dell'evasione, che l'ex viceministro dell'Economia, l'odiatissimo ma efficiente Vincenzo Visco ha riassunto in questo modo: "Ormai si è convinti che le tasse le debbano pagare solo i lavoratori dipendenti".

Per chi volesse avere un'idea delle misure 'anti-antievasione', secondo Visco non c'è che l'imbarazzo della scelta: abolizione della tracciabilità dei compensi, indebolimento delle norme sugli assegni bancari, eliminazione dell'elenco dei fornitori, con l'aggiunta dello smantellamento dello staff ministeriale che aveva lavorato con il governo precedente.

Via libera al sommerso, quindi, sotto la coltre fumogena di operazioni come la 'social card' e un esproprio patrimoniale con strizzata d'occhio come la 'Robin Tax': tanto che nessuno nell'opposizione sembra in grado di cogliere la portata dello choc sociale che è stato innescato. Vale a dire un trasferimento di ricchezza potenzialmente colossale, mascherato dietro le filosofie di Tremonti sull'economia sociale di mercato, sul federalismo fiscale, sulla resistenza 'di comunità' alla globalizzazione.

Ci sono insomma due linee di confronto, e di scontro, dell'opposizione con la maggioranza: una corre su questa redistribuzione regressiva, di tipo castale. L'altra sull'operazione 'istituzionale' di tipo federalista. Entrambe le iniziative di fondo del governo possono innescare tensioni fortissime nel tessuto sociale e nazionale. Con la prima, l'attacco al reddito fisso, il Pdl ha cominciato a costruirsi il suo blocco politico, e lo fa 'con i nostri soldi', cioè con i soldi dell'opposizione. Con la seconda, aprirà un tiro alla fune spaventoso fra Centro-nord e Sud, che potrà essere gestito soltanto aprendo i rubinetti delle casse pubbliche, cioè a spese del bilancio dello Stato. Con rischi fortissimi o dell'aumento della tentazione separatista, oppure di un attentato materiale alla crescita (ma non importa, si è già visto che nella recessione la maggioranza e i suoi elettori ci sguazzano).

È per questo che il Pd, e tutte le opposizioni residue dovrebbero dedicare l'autunno a un'azione di duro contrasto al progetto generale berlusconian-tremontiano. Il 'dialogo', le 'commissioni à la Attali' e altre finzioni collaboranti vanno lasciate a momenti migliori. Il punto centrale è: attrezzarsi a fare opposizione sulle questioni reali. Per il dialogo sulle questioni immaginarie verranno tempi migliori, forse, chissà, un giorno, se nel frattempo non ci avranno spolpati.

(25 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Botola sadica
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2008, 07:40:34 pm
TELEVISIONE

Botola sadica

di Edmondo Berselli



Chi partecipa al programma condotto da Fabrizio Frizzi rischia una piccola tortura. Può esibirsi in uno studio televisivo, ma se il pubblico lo boccia viene buttato in acqua  Basta la sigla del programma condotto da Fabrizio Frizzi 'La botola' (su Raiuno dopo il tg delle 20) per capirne la perfezione. La botola è una botola reale, che riporta con il pensiero a torture ed esecuzioni capitali. Qui a farsi torturare benevolmente da Frizzi e a subire la pena della botola che si spalanca sotto il perdente, e lo fa cadere in un sotterraneo pieno d'acqua, sono i soliti italiani medi, quelli sempre pronti a candidarsi alla 'Corrida'.

Sono tutti simili: sanno fare una cosa, un numeretto, un piccolo show, cantare una canzone stonando il giusto, suonare brani orchestrali tamburellando sui denti (un vero classico degli artisti dilettanti), esibirsi in spettacolini di danza. Sono in genere mediocri, ma Frizzi è un maestro a cogliere nelle esibizioni di ognuno un tratto personale apprezzabile: se stona ammira l'energia, se non va a tempo sottolinea la personalità. Ma il clou è l'acme di sadismo che si registra nel momento in cui due contendenti vengono piazzati su due botole affiancate, in attesa della decisione del voto del pubblico che condanna l'uno o l'altro a precipitare nel vuoto e nell'acqua.

Vale la pena di rischiare uno shock acquatico per puntare a una somma modesta? Il fatto è che i concorrenti non puntano al denaro. Desiderano andare in scena, mostrare in tv la specialità che ha fatto divertire parenti e amici. Siamo sempre dentro il familismo amorale più il 'Grande fratello', frullati in un solo show serale. A ogni botola che si apre, non si sa bene se prevale il divertimento per la piccola suspense o la vergogna per vedere maltratti dei virtuali vicini di casa. Alla lunga, prevale l'insofferenza.

(27 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il ministro Lorello
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 11:27:06 pm
Edmondo Berselli


Il ministro Lorello

Brunetta il più amato dagli italiani? No, il suo format è solo intimidatorio. Colpisce i sintomi ma non la malattia  Il ministro della Funzione pubblica
Renato BrunettaE poi dicono che sono finite le ideologie. È come nella sintesi di Karl Barth: "Quando il cielo si spopola di Dio, la terra si popola di idoli". Finito il socialismo, almeno nella provincia italiana, sono rimasti i socialisti. Anzi, come dice uno dei divi del Pdl, il ministro Renato Brunetta: "Io sono un socialista in Forza Italia". La trovata è talentuosa, e a suo modo plausibile, dal momento che fra i berluscones c'è di tutto, dagli ex socialisti agli ex liberisti, dagli ex dc agli ex fascisti. A quanto pare, Brunetta è il ministro più popolare, grazie alla sua campagna contro i fannulloni del pubblico impiego. Ne è consapevole. Ammesso che nel frattempo non abbia smentito, Brunetta ha dichiarato al settimanale famigliare 'Gente': "Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il culo al mondo e sono la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi, il più amato dagli italiani".

Ma qui cominciano i problemi. Perché il ministro 'Lorello Cuccarini' Brunetta ha creato un format infallibile, irresistibile, di eccezionale successo. Secondo il quale l'Italia si divide in due parti precise: da un lato "60 milioni di cittadini che vogliono vedere premiato il merito e puniti i furbi"; dall'altro "un milione di lavativi", "la stima che abbiamo di tutta un'area politico-culturale-amministrativa: al massimo 500 mila statali, e poi politici, sindacati".

Da questa prima osservazione (tratta da una rivelatrice intervista a Conchita Sannino de 'la Repubblica', apparsa il 21 agosto) sembrerebbe di capire che esistono fannulloni per appartenenza 'd'area', culturale e politica. Bah. Ma il cuore della strategia di Brunetta è l'invenzione di una stragrande maggioranza di italiani buoni costretta a fronteggiare un fortilizio di farabutti neghittosi, asserragliati nel privilegio del non lavoro. A parte il simbolismo della cifra tonda, 60 milioni contro 1, è ideologica, e manipolatrice, l'idea che l'inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa produttività degli apparati burocratici, e di conseguenza l'insoddisfazione di cittadini e imprese, dipenda dalla strenua fannullaggine di una minoranza proterva.


Il format di Brunetta è infallibile, e suscita un grande successo popolare, perché chiama al tifo i 60 milioni di gentiluomini che scelgono di stare ovviamente dalla parte del bene e della modernità, contro il milione di fautori del male e dell'arcaismo. E allora, come definire l'azione del ministro? Su una base manichea, si innesta un'iniziativa populista; si agitano fantasmi, nemici immmaginari, indicando un generico capro espiatorio. Ma questa è demagogia in quintessenza. A suo tempo il populismo socialista provocò l'irritazione di Nino Andreatta, che nella famosa "lite fra comari" con Rino Formica accusò il Psi di "nazional socialismo" (il compianto economista bolognese traduceva mentalmente dall'inglese, anteponendo in modo meccanico l'aggettivo al sostantivo e combinando così qualche pasticcio lessicale e politico: ma chi voleva intendere intendeva).

L'azione di Brunetta è intimidatoria. Colpire i sintomi di una malattia, cioè l'inefficienza, ossia bastonare le conseguenze senza toccare le cause, è un peccato intellettuale. Riformare la pubblica amministrazione è un compito essenziale, ma per uscire dal cerchio dei rimedi medievali (la gogna per i peccatori, i vagabondi, i nullafacenti), occorre una diagnosi adeguata, che valuti le differenti realtà territoriali e gli standard di rendimento, magari con qualche confronto europeo, nonché alla fine i danni provocati dalle intromissioni della politica (perché quanto a clientelismo, lottizzazioni e assunzioni di favore nemmeno i socialisti amici di Brunetta scherzavano).

E poi occorre una terapia davvero moderna e riformista, che consiste nel procedere al ripristino di una catena di comando, cioè alla responsabilizzazione di tutti gli snodi dell'apparato pubblico. Altrimenti siamo sempre alle 'gride' manzoniane, che produrranno nuovi Azzeccagarbugli, e frustrazioni supplementari nei cittadini.

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Politica ai Ferri
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 09:09:12 am
TELEVISIONE

Politica ai Ferri

di Edmondo Berselli


Omnibus estate su La7, condotto da Manuela Ferri, è l'unico salvagente per i tossicodipendenti del talk show politico.

Perché d'estate non tutti vanno in vacanza. Per quasi tutto il mese d'agosto gli intossicati di politica, e di talk show politici, coloro che non sanno vivere senza Vespa, Mentana, Floris, Mannoni, Annunziata, Piroso, Telese, Parenzo, Formigli eccetera, avrebbero dovuto accusare forti sintomi di crisi d'astinenza. Per forza, diranno gli attentissimi lettori: in agosto la politica va in vacanza. E i relativi talk show anche.

Errore: un'isola di salvezza per gli 'addict' c'è anche durante le ferie. È il programma de La7 'Omnibus estate', condotto da Manuela Ferri.
Talk show per tossici veri: uno si sveglia al mattino, accende la tv, e vede nel teleschermo il ministro La Russa, detto a suo tempo dai camerati milanesi 'il volto demoniaco del fascismo'.

Ci vogliono nervi saldi. Oppure Piero Sansonetti, il volto combattente del comunismo. O Mario Ajello, il volto ironico del commento. E anche Franco Grillini, il volto bolognese dell'orgoglio gay. Ammetteranno lorsignori che, alla vista di tali protagonisti, personalità deboli e meno scafate scatterebbero immediatamente con il pollice sui tasti del telecomando, alla ricerca di un documentario sui bruchi, sulle rane gibbose, sui bramiti d'amore di certi ungulati.

E invece no: il tossicodipendente segue affascinato il dibattito, chiedendosi se ci sarà Cicchitto in collegamento. E così osserva la conduttrice Ferri, che ha l'aria di una che potendo sarebbe a 10 mila chilometri di distanza dove il mare è più blu; tuttavia, già che c'è, sfoggia la bravura che l'aveva già fatta notare a Telelombardia. Sempre preparata, calma, con l'aria di dire: ma guarda con chi mi tocca parlare la mattina presto.

E noi, lì, allocchiti.


(08 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Alcuni ministri hanno imposto un modello comunicativo che divide il paese in due
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:40:38 pm
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Alcuni ministri hanno imposto un modello comunicativo che divide il paese in due

Il maestro è Berlusconi. Ma il metodo è stato messo a punto da Brunetta

Quando la politica diventa un format


di EDMONDO BERSELLI

 

E SE LA DEMOCRAZIA contemporanea fosse più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole? Nella politica come gioco mediatico, le percentuali di gradimento per il governo schizzano in alto. L'audience appare soddisfatta. Eppure qualcuno dovrà pur chiedersi quali sono le ragioni del consenso che sta accompagnando Silvio Berlusconi.

Dati addirittura "imbarazzanti", ha confessato il premier reprimendo un brivido di piacere di fronte a quel 60 per cento di favorevoli che campeggia nei sondaggi.

L'imbarazzo è un sentimento soggettivo; a sinistra, invece, il picco di popolarità è considerato inspiegabile. Anche osservando da vicino l'azione dell'esecutivo e dei singoli ministri riesce difficile spiegare il perdurare della luna di miele. Difatti, a causa di quelle congiunture economiche sfortunate a cui Berlusconi e Tremonti sembrano condannati, la crescita è praticamente sottozero; l'inflazione ha rialzato la cresta; i consumi flettono; parti consistenti della società italiana avvertono il peso di un andamento economico sfavorevole. Sullo sfondo si intravede l'incubo del Ventinove. E allora?

Allora è probabile che per il momento serva a poco giudicare il governo Berlusconi con le categorie tradizionali della politica e dell'economia. Occorre invece un approccio culturale, se non addirittura antropologico: il governo e i ministri più popolari sono riusciti, chissà se per intenzione esplicita o per un caso fortunato, a imporre un modello, una forma specifica di comunicazione. Anzi, un format.

Come in un programma televisivo di successo, Renato Brunetta, Roberto Maroni, Mariastella Gelmini, e perfino la "new entry" Mara Carfagna, sono riusciti a trasmettere un contenuto secondo modalità standardizzate, di tipo essenzialmente mediatico-televisivo, e quindi a mettersi in comunicazione con il pubblico (ovvero lo stadio di implosione nella privacy a cui è stata consegnata l'opinione pubblica).

Il maestro del format è ovviamente Berlusconi. È stato lui per primo a dare una cornice competitiva e spettacolare alla politica, separando gli italiani "della libertà" dai "comunisti", e quindi a declinare la gara elettorale come un giudizio di Dio fra due Italie separate e inconciliabili. Ma Berlusconi è stato in grado più che altro di dividere, mobilitando la propria parte, fanatizzando ideologicamente i pasdaran del berlusconismo e chiamando a raccolta gli elettori anche più tiepidi contro l'esercito del male, in cui il sostantivo "comunisti" riuniva amministratori, magistrati, sindacalisti, impiegati pubblici, politici fannulloni, insegnanti sessantottini.

Ma in questo modo il consenso non poteva crescere oltre i limiti fisiologici della destra, oltre la sua geografia politica. Per superare il perimetro del voto conservatore occorreva un'invenzione culturale. La Lega, e in particolare Roberto Maroni, hanno aperto la strada, con le iniziative sulla sicurezza e le misure contro l'immigrazione irregolare: ma eravamo ancora nei pressi delle azioni classiche, in cui si individua un nemico vero o virtuale, e lo si etichetta esponendolo alla pubblica opinione, generando così processi dominati dalla configurazione classica del capro espiatorio.

Lo straniero, l'altro, il nomade, identificato come una figura potenzialmente incline a crimini come il furto o lo stupro, capace di violenze inaudite sotto l'effetto della coca, senza rispetto nemmeno per i codici della criminalità autoctona tradizionale.

Il passaggio successivo è stato formalizzato con metodi di rara efficacia da Brunetta, che lo ha pure teorizzato nelle numerose interviste concesse durante l'estate. Nello schema del ministro della pubblica amministrazione, la popolazione nazionale si divide in due parti ben individuate: da un lato, "sessanta milioni" di italiani per bene, contrapposti a un milione di farabutti, fannulloni, lavativi, buoni a niente, sabotatori. Dal lato dei fondamenti empirici, il modello descrittivo di Brunetta è irrilevante.

Ma quanto a capacità di mobilitazione è formidabile. Il format del ministro è un perfetto produttore di consenso, perché colloca la stragrande maggioranza dei cittadini dalla parte del buon senso e della buona volontà, e consegna a una gogna ipotetica un imprecisato milione di italiani (questi sì "imbarazzanti", quindi licenziabili, punibili, penalizzabili dagli ukase ministeriali).

Sarebbe superfluo dire che il format è impreciso, e non descrive nulla della società contemporanea, se non fosse che come modello proposto in pubblico ha successo. Anzi, un successo travolgente. Da un lato rassicura, dall'altro esorcizza. Rassicura i bravi cittadini, gli impiegati onesti, l'intera platea di chi auspica efficienza e rigore nei comportamenti pubblici; esorcizza il rischio di una società contagiata dagli imbroglioni, indifferente ai dettami etici, governata dai criteri di un familismo ancora e sempre amorale.

Naturalmente, il format distorce la realtà nel momento stesso in cui fa entrare a forza le tessere in un mosaico predeterminato. Semplifica con forzature impressionanti, attribuisce responsabilità collettive di procedura alla disposizione individuale, identifica l'inefficienza come il prodotto della furbizia e della neghittosità individuale anziché alla cattiva organizzazione degli apparati.

Non è L'isola dei famosi a essere cattiva in sé; sono un paio di protagonisti, su cui si può concentrare l'animosità degli altri. Ma il format è dannatamente efficace, perché permette a una maggioranza sociale dispersa, anonima, prima di riconoscersi, poi di autoassolversi (nessuno è colpevole, nella soap in cui tutti i cattivi, pochi, sono immediatamente riconoscibili), e infine a sostenere l'azione delle autorità contro questi imprecisati cattivi soggetti, a cui possono essere assegnate tutte le responsabilità.

Non c'è un inventore certo del format. Si è creato per prove ed errori, per tentativi e cambiamenti successivi. Che nel pubblico ci sia una disposizione favorevole, ormai quasi naturale, è fuori dubbio. Basta partecipare a una presentazione dei libri di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (La casta e il più recente La deriva) per rendersi conto che il pubblico si autointerpreta ogni volta come una moltitudine di bravi e onesti cittadini, stupefatti, e anzi angosciati, di fronte all'impazzimento dei meccanismi della politica, agli sprechi, alle piccole e grandi corruzioni delle strutture pubbliche.

Il format è quindi infallibile perché sgrava la coscienza: c'è un'altra Italia, là sullo sfondo, a cui dare la colpa. Un'Italia fortunatamente minoritaria, insignificante anche numericamente rispetto ai sessanta milioni di italiani brava gente, i quali possono deprecare scuotendo la testa il residuo milione di cattivi soggetti.

Il contenuto populista del format è fortissimo: in primo luogo perché inibisce qualsiasi distinguo. Sottilizzare è vietato: non vorrete stare dalla parte dei fannulloni, o dei corrotti. Attribuire la responsabilità dei disfunzionamenti a questioni di struttura e di imperfezione degli apparati è uno dei vizi della sinistra e del sindacato. Sono sciocchi giustificazionismi: bisogna licenziare gli assenteisti, mandare a domicilio le visite fiscali, colpire i fannulloni nel vivo dello stipendio, mettere in galera i corrotti e tenerceli.

Ma più ancora che di populismo si tratta di demagogia allo stato puro: i progetti e i provvedimenti del ministro Gelmini sul voto in condotta, i grembiuli, il "maestro unico" implicano tutti l'idea di un "ritorno" a una condizione nostalgica, in cui l'autorità e l'ordine erano sanciti da rapporti sociali e codici culturali apparentemente immutabili (e purtroppo distrutti dal "nullismo" del Sessantotto, come ripete spesso Giulio Tremonti, ministro che dichiara di ispirarsi sinteticamente al motto "Dio, patria e famiglia").

Dovrebbe essere chiaro che non si esce a ritroso dalla modernità, e che gli anni Cinquanta non sono riproducibili per decreto se non, per l'appunto, nella realtà artificiale del format. Il revanscismo dei ministri del Pdl conduce a una fiction: nessuno dei nessi e nessuna delle contraddizioni della modernizzazione, nessuno dei processi descritti a suo tempo da Max Weber, viene affrontato dagli applauditi serial della destra.

Eppure le semplificazioni, almeno per ora, generano consenso. Le scorciatoie mobilitano risorse affettive, emotive, sentimentali nella società. Rappresentano un antidoto al nichilismo, allo sradicamento morale e all'assenza di senso caratteristici dell'età contemporanea. Offrono soluzioni vicarie di fronte agli choc generati dalle scie vertiginose della globalizzazione.

Perfino i poveri, infatti, nelle soap sono pochi, e risultano trattabili con espedienti come la social card, non con gli apparati "socialisti" dello stato sociale, come ha spiegato da sinistra Laura Pennacchi nel suo ultimo libro, La moralità del Welfare. Contro il neoliberismo populista, editore Donzelli, pagg. 260, euro 27).

Il format offre soluzioni, ma in genere si tratta di soluzioni narrative. Cioè terapie che portano all'individuazione della causa, come se la causa fosse una sola, e la curano con un colpo di scena o un happy ending. Formidabile, per esempio, la trama allestita da Mara Carfagna sulla punizione on the road di prostitute e clienti: come se la realtà metropolitana fosse costituita da pochi devianti, dediti agli incontri sessuali nelle periferie, da dissuadere con le maniere forti.

Mentre il numero stesso dei frequentatori dei viali, e la straordinaria varietà dell'offerta erotica, mostrano una realtà proliferante, in crescita continua, legata sia a scelte individuali sia a macrocircuiti illegali, sostanzialmente incontrollabili con i metodi di polizia.

Cioè una realtà "sociale". Un mercato. Eppure il romanzetto rassicurante di pochi peccatori da colpire con la mano dura è irresistibile. È la tolleranza zero, o una sua imitazione. È il decisionismo che corregge funzionamenti complessi con misure di fantastica semplicità. È il format, amici telespettatori.

(18 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Paradigma Mariastella
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:31:48 am
Edmondo Berselli


Paradigma Mariastella


Il ministro Gelmini è l'emblema della nuova ideologia di destra, portatrice di una modernizzazione reazionaria  Mariastella GelminiPiù di Brunetta, e più di Tremonti, il ministro Mariastella Gelmini impersona lo spirito autentico del governo Berlusconi. La trentacinquenne Gelmini campeggia su copertine e fotografie agghindata in abiti colorati, in uno stile che ricorda gli anni Cinquanta, a cui gli occhiali da vicepreside aggiungono un tocco 'vintage'.

Ma ciò che più interessa, e la rende un emblema della nuova ideologia di destra, è la sua azione e le idee che la ispirano. Il ministro Gelmini infatti è la portatrice dell'autentico pensiero che anima il governo, già identificato come portatore di una modernizzazione reazionaria (o se si preferisce di una restaurazione modernizzatrice: sempre di ircocervo si tratta).

Per questo la Gelmini va presa alla lettera. E alla lettera vanno presi i pilastri della sua opera. Per dire, il recupero del grembiule e del voto in condotta non sono semplici proclami demagogici: costituiscono gli indizi di un metodo, secondo il quale problemi complessi si risolvono con operazioni semplici, fra gli applausi di una società vecchia e stanca, che rimpiange la propria modesta gioventù.

Chi scrive ha avuto la ventura di frequentare la scuola materna e le elementari in una provincia bianca degli anni Cinquanta, dove i maestri comandavano 'mani in prima' e 'mani in seconda' ('in prima' dovevano essere appoggiate sul banco; 'in seconda' portate dietro la schiena). All'asilo, le suore punivano i bambini cattivi con castighi graduali che cominciavano con la pacca della riga da sessanta centimetri sul palmo della mano, potevano passare al cerotto sulla bocca e giungere a legare i troppo vivaci alla sedia con una fune grossa due centimetri.

Perché non recuperare queste usanze? Solo perché non lo consente il buonsenso? Ma il buonsenso non è una categoria politica, l'importante è reagire al "nullismo"
, come lo chiama Tremonti, del Sessantotto, ripristinare il principio di autorità, recuperare una società ordinata. E se questo non basta, sarà bene applicare integralmente tutte le soluzioni o le fissazioni del ministro Gelmini: a cominciare dall'eccellente idea di tornare al maestro unico (o per meglio dire alla maestra unica, vista la composizione del corpo insegnante alle elementari).

La polemica contro il 'modulo', cioè contro la riforma che portò alle équipe coordinate di insegnanti è un vecchio tema di destra, che si è sempre nutrito di considerazioni in parte economiche e in parte filosofiche. Certo, tre insegnanti al posto di uno costano di più, anche se non tre volte di più, e possono apparire una soluzione corporativa alla crisi demografica, secondo lo slogan 'meno bambini, più maestri'.

Le critiche filosofiche invece hanno sempre preso di mira il fatto che il 'modulo' rappresenterebbe un attentato alla libertà d'insegnamento e un attacco gravissimo alla psicologia degli alunni, disorientati dalla varietà delle figure di riferimento.

Nessuno dei fautori del ritorno all'insegnante unico, in politica, ha mai chiesto che si procedesse a valutazioni empiriche sui risultati della scuola elementare, e a confronti con la scuola primaria almeno europea, sui metodi, sulle peculiarità delle pedagogie nazionali. Magari si scoprirebbe che il 'modulo' è una schifezza, ma finora ha funzionato. Magari l'Europa è più avanti, è più indietro, è più di lato, ma l'insegnante multiplo non l'abbiamo inventato noi.

Invece no. Ciò che importa è trasmettere l'idea di un proficuo ritorno al passato, all'ordine, al merito (si fa per dire, naturalmente: sappiamo che la meritocrazia, come la concorrenza, si applica agli altri). È la restaurazione selettiva, rivolta preferibilmente verso inemici di classe, che per il momento potrà piacere a un paese vecchio mentalmente e provinciale culturalmente, che crede di poter riassaporare i metodi di una tradizione già da un pezzo in frantumi.

Illusioni. Illusionismi. Il tentativo di far credere che i problemi si risolvono a partire dalla coda, guardando a un tempo che non esiste più, quando si faceva la buona azione quotidiana e i dodicenni non compravano la cocaina all'angolo di strada. E allora avanti, c'è modo di fare di più e meglio: abolire la sciagura famigliare del divorzio, tornare all'adulterio punito con il carcere.

E quanto alla scuola, ridateci i meravigliosi professori di 'Amarcord' con i loro tic, quello là che vuol tenere intatta la cenere della sigaretta, quella lì che scandisce "la pro-spet-ti-va!". Tutto stupendo, anche secondo il sessanta per cento degli italiani che nei sondaggi mostrano di gradire: ma noi, noi anime prave, che cosa abbiamo fatto di male, per meritarci tutto questo?

(19 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il paese disgregato
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 06:50:14 pm
Edmondo Berselli


Il paese disgregato


Il razzismo è un problema reale, serio e grave, più vasto di come appare e non servono risposte immaginarie  Non abbiamo un'altra parola, al di là di 'razzismo', per definire gli episodi di intolleranza e di violenza contro gli stranieri che si manifestano ormai ripetutamente in Italia. Ma anche se talvolta gli eventi appaiono degradanti, non è detto che si tratti della parola giusta. Ilvo Diamanti ha mostrato che in effetti si agita nella nostra società un atteggiamento nuovo rispetto agli immigrati. Un insieme di insicurezza e di inquietudine che talvolta può sfociare in atti di insofferenza e di ripulsa, e perfino di aggressività violenta. Ma se si guarda a un episodio come la strage dei ghanesi a Castel Volturno, ci si accorge che l'espressione 'razzismo' non esaurisce affatto il potenziale drammatico di quell'avvenimento.

L'uccisione camorristica di sei africani sembra avere un contenuto terroristico: occorreva far capire con un gesto micidiale chi comanda sul territorio. In una realtà estrema come quella di Gomorra, ciò che una volta si sarebbe concretato in un raid punitivo è diventato un eccidio spaventoso. Da destra si continua a dire che non c'è razzismo nel nostro paese, che ci troviamo davanti episodi isolati, e il ministro Roberto Maroni fa il possibile per trattare gli avvenimenti più gravi con metodi di polizia. Ma da sinistra viene facile rispondere che l'ostilità verso gli stranieri è stata favorita dal clima generato dai provvedimenti del governo, dalle 'gride' contro il reato di immigrazione clandestina, dall'aver favorito l'allarme dei cittadini angosciati dalla criminalità venuta da fuori.

Ora, che la destra abbia puntato molte carte politiche sulla sicurezza e sulla paura è indubbio. Ma difficilmente le soluzioni del Pdl e della Lega condurranno a risultati significativi. Perché noi, noi cittadini italiani, in questo momento e in futuro non dovremo fare i conti soltanto con il fenomeno dell'immigrazione, regolare e clandestina. La realtà più preoccupante è che stiamo assistendo a una sostanziale disgregazione della collettività nazionale. Ci sono territori non controllati dallo Stato, enclave urbane gestite dalla criminalità, entro un perimetro, quello del Mezzogiorno, in cui tutti gli indici, economici ma anche sociali, sono in terreno negativo. Esistono periferie come quelle romane in cui la promiscuità antropologica prolifera in un ambiente dominato dal commercio della cocaina e del sesso (a questo proposito resta un documento letterario e sociologico impressionante il recente e iperrealistico romanzo di Walter Siti 'Il contagio').

Come ha scritto Zygmunt Bauman, si ricorre all'identità quando la comunità crolla. Al Nord il successo della Lega, oltre che sull'allarme anti-immigrazione, si fonda sul tentativo di ricreare una serie di 'comunità reattive', i cosiddetti 'popoli' del Nord, che si qualificano per un grado di autoprotezione che verso l'esterno diventa atteggiamento ostile. Una volta, nella propaganda informale dei leghisti, si chiamava secessione. Adesso, si qualifica per l'insofferenza verso tutte le altre comunità, comprese quelle nazionali, con l'esito tendenziale di accentuare i processi disgregativi. Anche il federalismo fiscale e istituzionale servirà per accentuare le separatezze (altrimenti, in versione blanda e 'cooperativa', non serve politicamente a nulla).

Dunque la destra non ha soluzioni, se non le solite: l'esercito nelle strade, costruzione di carceri, autosegregazione di parti della popolazione rispetto ai barbari, con telecamere e vigilantes di guardia. Toccherebbe alla sinistra, a questo punto, non limitarsi a gridare contro il fantasma del razzismo, ma proporre un progetto per il paese. Perché non si risolve il problema xenofobo isolandolo dal contesto generale. Non si riesce credibili semplicemente lanciando allarmi e accusando la destra, e neppure rivendicando i diritti e il nuovo illuminismo.

La convivenza con gli stranieri, con i neri, i cinesi, i maghrebini, i romeni, i polacchi, i moldavi, i bielorussi, implica la ricostruzione di un'Italia capace di sfuggire al 'bellum omnium contra omnes' delle bande contrapposte, delle mille secessioni che si agitano sotto la superficie del paese ricco e si manifestano esplosivamente sopra la superficie del paese povero. Significa fare i conti con la realtà: la realtà vera, non quella presunta. Il Pd deve fare una cura di realismo, osservare la stridente fenomenologia italiana e offrire una risposta che non sia l'appello retorico. In sostanza che non sia, di fronte a un problema serio, grave e più vasto di come appare, una risposta immaginaria.

(10 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Per un populismo della sinistra
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2008, 07:03:59 pm
COMMENTI

Per un populismo della sinistra

di EDMONDO BERSELLI


 OGGI al Circo Massimo va in scena una strana coppia: il riformismo e la piazza. Cioè una protesta di massa contro il centrodestra galvanizzato dai sondaggi insieme con un'idea razionale di possibili riforme alternative. Ma è un matrimonio possibile? È opportuno, è conveniente, è politicamente utile che nella cultura e nella pratica del Partito democratico si sviluppi anche una componente populista?

Fa bene a un partito riformista un po' di esplicito populismo di sinistra? Sono interrogativi che equivalgono a chiedersi, in fondo, se il riformismo debba contenere una quota di radicalità. Con quel che ne consegue anche nello stile e nei simboli: cortei, bandiere, un'opposizione animosa e rumorosa, con il recupero di una contrapposizione nettissima rispetto al governo e al Popolo della libertà. Insomma: oggi, domani, nel futuro politicamente prevedibile, il riformismo può trovare una risorsa nel populismo?

C'è un'insidia in questa domanda, se si pensa che l'accusa di populismo è sempre stata brandita contro la destra. Secondo la cultura unanime del centrosinistra, l'istinto demagogico appartiene all'indole del Pdl e dei suoi capi, a cominciare dal populista principe Silvio Berlusconi, dato che un marcato atteggiamento antistituzionale è stato la cifra continua negli slogan, nelle proteste e negli atti della destra: contro le tasse, contro l'euro, contro le regole, contro i partiti, contro i "comunisti", contro i giudici, contro i fannulloni, contro gli stipendi degli insegnanti.

A rigor di termini, l'ideologia e la vocazione populista si realizzano nell'intenzione di trasformare immediatamente in leggi la cosiddetta volontà popolare. L'attuale governo ne è un esempio plateale, con i ministri (in particolare Mariastella Gelmini, Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Roberto Calderoli) impegnatissimi a disporre pacchetti di riforme, anche per decreto, cercando comunque di superare di slancio il disturbo delle discussioni parlamentari. Ecco la Finanziaria approvata in Consiglio dei ministri nel giro di nove minuti e mezzo, ecco l'assurda Robin Tax, tassa discrezionale "contro la speculazione petrolifera" e contro le banche, quando sembrava che petrolieri e banche facessero profitti troppo alti grazie alla congiuntura; e poi l'esercito in tenuta campale nelle strade, il federalismo affidato a una delega generica e caotica, i tagli alla scuola che idealizzano strumentalmente l'età delle mezze stagioni e dei grembiulini.

Non conviene nascondersi che, di fronte al forcing comunicativo del Pdl, il centrosinistra ha mostrato finora armi spuntate. In parte per le ripercussioni politiche e psicologiche della sconfitta elettorale, ma in parte anche per una specie di sfasatura rispetto alle iniziative del governo. L'azione politica del Pd veltroniano, infatti, si svolge in genere su un piano differente rispetto a quello della maggioranza berlusconiana. La cultura democratica prevalente è largamente rivolta verso la sfera dei diritti, evoca battaglie culturali nel nome dell'antifascismo, combatte il razzismo e la xenofobia, si concentra sulle pari opportunità e contro le discriminazioni, nel nome del rispetto di una consapevole cultura costituzionale.

Sono tutte tematiche sacrosante, ma per il momento poco producenti nella battaglia politica in corso. Hanno la veste di posizioni filosofiche più che di strumenti politici utilizzabili nel confronto. Confermano l'elettore del centrosinistra di essere nel giusto, convincono i già convinti, ma almeno nel breve periodo non allargano l'area del consenso. Mentre dovrebbe essere chiaro che, se non vuole restare politicamente subalterno (cioè "minoranza strutturale", secondo la definizione di Massimo D'Alema), nelle prossime stagioni il problema centrale del Pd consisterà non tanto nel confermare i propri elettori, bensì nel tentare di staccare pezzi di elettorato dall'area berlusconiana.

A questo scopo, il centrosinistra deve riuscire a spiegare, prima a se stesso e poi all'opinione pubblica, che il riformismo è sì politica delle compatibilità, ma che ciò non esclude affatto un principio di radicalità. Perché la radicalità è uno strumento che serve a perseguire due obiettivi: a individuare con nettezza i problemi, e a suscitare identità.

Vero è che occorre intendersi su quali ambiti convenga essere radicali. Cioè i punti su cui esercitare una pressione politica efficace. Al di là dall'incertezza generale suscitata dalla recessione, sarà il caso di vedere con chiarezza che Pdl è all'attacco sul terreno socio-economico, ha in mente una politica chiara, tesa a corporare gli interessi in un blocco sociale permanente. L'eclettismo berlusconiano sui principi di fondo e sui "valori" consente alla destra di assumere le posizioni di volta in volta più convenienti, specialmente nel rapporto con la Chiesa; ma sugli interessi non si scherza mai. Il Pdl avrà pure commesso errori strategici (in particolare predisponendo misure economiche depressive, cioè i tagli, in una fase di crescita zero), ma ha chiarissimo l'obiettivo unilaterale di favorire i ceti a cui può offrire una conveniente casa comune.

Ebbene, in una situazione simile il Pd non può permettersi il lusso di disputare una partita diseguale, ossia di rispondere a una politica economica aggressiva con una serie di rivendicazioni intellettuali, civili, filosofiche. È vero che il codice della lealtà repubblicana e di una modernizzazione guidata da criteri di apertura culturale sono essenziali per stabilire una differenza qualitativa rispetto alla destra: una laicità radicale è un elemento essenziale di identità politica rispetto al clericalismo opportunista di Berlusconi; così come un'idea avanzata ed europea della riforma della scuola è necessaria per rispondere in modo radicale (e nello stesso tempo con buonsenso) alla striminzita restaurazione della Gelmini.

Ma in questo momento ci vuole innanzitutto uno strenuo esercizio di radicalità per mettere allo scoperto i pilastri della politica del Pdl. Il "populismo" della sinistra riformista dovrebbe essere la leva per concentrarsi sulle contraddizioni della coalizione di centrodestra, per richiamare su di esse l'attenzione dei cittadini e per provare a sgretolarle. Altrimenti la politica italiana resta divisa in due corpi separati, ognuno dei quali gioca la sua partita indipendente: solo che la destra si fa gli affari, la sinistra nutre buoni sentimenti con il rischio, alla fine, di vederli trasformati in frustrazione permanente.

E invece no: per uscire dal cerchio del consenso magico del Re Silvio, dalla stregoneria comunicativa indipendente dagli eventi reali, occorre anche quel tanto di realistica asprezza che induce a parlare di cose elementari. Quindici milioni di italiani intorno alla linea della povertà. I negozi di quartiere deserti. I salari falcidiati dall'inflazione, che invece favorisce chi può ancora manovrare i prezzi. Il lavoro dipendente sacrificato alle necessità della concorrenza globale; e nello stesso tempo settori commerciali già in crisi per la flessione dei consumi determinata dall'erosione dei redditi medi.

Insomma, è il caso di tornare a mettere il dito su fenomeni a loro modo brutali. E per farlo ci vuole la schietta radicalità implicita nel parlare di cose vere, cioè di soldi, di redditi, di bilanci famigliari, di profitti, di problemi reali dell'economia. Per la sinistra riformista, la sfera degli interessi è stata in passato confinata in fantasmi contabili come il Pil, il debito, il deficit, l'avanzo primario. In seguito si è praticato un tentativo quasi eroico di reinterpretare da sinistra le categorie liberali del merito e della concorrenza, come strumenti per scardinare la disuguaglianza sociale.

Adesso occorre essere convincenti in profondità: non è sufficiente il cervello, la razionalità, la linearità dell'analisi. Ci vogliono anche il sangue, i polmoni, il cuore. Quel tanto di cattiveria che consente di parlare alla pancia della nostra società e di attaccare la destra sul suo stesso terreno e con realistiche possibilità di successo. (Benissimo la moral suasion su Guglielmo Epifani, ma non si dovrebbe dimenticare che la migliore critica all'operazione Alitalia è venuta dal radicalismo televisivo di Milena Gabanelli, non dal governo ombra).

Il Circo Massimo serve a ricordare che è venuto il momento di mettere il naso nella concretezza. Di tentare con adeguata forza polemica di dissolvere i fumi berlusconiani del consenso gratuito. Il populismo possibile della sinistra significa che occorre guardare alla realtà vera del nostro paese, alla sua vita quotidiana. Nonostante la prevalenza del virtuale, la politica è ancora scontro di posizioni, delimitazione fra scelte incompatibili, contrapposizione di soluzioni apertamente alternative. In questo senso, il populismo, interpretato con intelligenza da sinistra, non è un ibrido incoerente: è semplicemente lo strumento per dare una voce a un'Italia che fino a oggi ha rischiato di restare attonita e muta.

(25 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Non ridete di 'Report'
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 07:51:33 pm
TELEVISIONE

Non ridete di 'Report'

di Edmondo Berselli



Molti pensano che la televisione sia pura marmellata elettronica. Una concezione, però, messa a dura prova dalle performance del programma di Milena Gabanelli  Milena GabanelliI critici più alla moda pensano che la televisione sia il nulla: un baluginare di suoni e luci, di exploit, di sketch, scene madri e cavolate assortite. Questa prospettiva analitica è affascinante, e conduce a considerare i programmi sotto unico metro di giudizio: piace, non mi piace, mi fa orrore, fa ribrezzo, sono raccapricciato. Tanto sempre di tv si tratta: marmellata elettronica.

Questa concezione realistica, che porta a guardare con altri occhi anche ai programmi cosiddetti di approfondimento, è messa a dura prova dalle performance di Milena Gabanelli con 'Report'. Chi ha seguito la puntata sull'Alitalia potrebbe essersi chiesto: ma anche questo sarebbe allora puro infotainment, incrocio di generi, televisione quintessenziale al di là dello spessore e della qualità dell'inchiesta? La domanda è complicata, quindi è una buona domanda. Dato alla Gabanelli tutto quello che c'è da darle, vale a dire che dopo una sintesi come la sua, in un paese occidentale moderno qualcuno si prenderebbe la briga di chiudere i protagonisti dell'affare Alitalia-Cai in un carcere tipo Guantanamo, con la pena accessoria di ascoltare tutto il giorno le note di 'Guantanamera', ecco, detto questo, la risposta resta tutt'altro che semplice.

Il punto centrale dell'inchiesta è quando la Gabanelli, con la sua telecamerina d'assalto, mostra lo statuto della Cai al presidente Roberto Colaninno, dicendogli: si potrebbe mica cambiare l'oggetto dell'attività d'impresa, che a tutt'oggi è 'passamanerie'. Colaninno scoppia in una spettacolare risata. Stacco. Siamo dentro un reality? Una fiction? Uno show? Alla Gabanelli, ma anche a tutti i gabbati, l'ardua risposta.

(27 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI L'incredibile re Silvio
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 03:46:17 pm
Edmondo Berselli


L'incredibile re Silvio


Non è il suo mestiere gestire la tempesta economica: la favola bella con cui ieri illuse l'Italia sta per fare i conti con la realtà  Silvio BerlusconiGli effetti del Circo Massimo si faranno sentire per qualche tempo soprattutto in casa del Pd, perché il successo dell'iniziativa sgombra il cielo dai nuvoloni più neri. Almeno per il momento non è più in gioco la sopravvivenza o la disintegrazione del partito. Ma il destino del Pd non dipende soltanto dal 33,1 per cento dei suoi voti, dal risultato delle elezioni provinciali in Trentino e alle regionali in Abruzzo, e infine dalla soglia che otterrà l'anno prossimo alle elezioni europee. Il problema è sempre lo stesso, vale a dire: il Pd ha un potenziale di sviluppo che possa portarlo a essere competitivo con il partito di Berlusconi oppure rischia di essere la "minoranza strutturale" di cui ha parlato Massimo D'Alema?

Fino a qualche giorno fa la risposta era virata sul pessimismo. Da una parte si vedeva un Pd mortificato dall'assenza di spinta politica, ancora sotto l'effetto della dura sconfitta elettorale dell'aprile scorso, dall'altra si osservava l'euforia del Pdl, con i sondaggi alle stelle per il premier, che non esitava a gigioneggiare fingendo preoccupazione: "I nostro sondaggi sono perfino imbarazzanti.".

È cambiato qualcosa? Certo, è cambiato qualcosa. Il mondo non è fatto soltanto da Renato Brunetta e da Mariastella Gelmini; è fatto anche dagli impiegati pubblici, controparte di Brunetta, e da studenti, genitori, insegnanti, ricercatori, docenti, cioè gli interlocutori della Gelmini. Per esempio, benché il movimento che ha aperto le danze contro il ministro dell'Istruzione sia articolato, e contraddistinto da finalità assai differenziate al suo interno, i contestatori hanno toccato punti che hanno cominciato a sgonfiare i palloncini colorati della Gelmini.

I riflessi sul consenso al governo si sono fatti sentire. È troppo presto per dire, come arrischia qualcuno, che la luna di miele è finita: tuttavia i sondaggi cominciano a registrare una prolungata flessione del consenso dell'esecutivo, e una crescita consistente dei giudizi negativi nei suoi confronti.


E questo induce a valutare con maggiore attenzione critica i sondaggi su Berlusconi. Era infatti poco credibile che il governo da lui presieduto potesse godere di tanto favore mentre una crisi pesantissima si è abbattuta anche sulla società italiana, e mentre le prospettive per la nostra economia appaiono inquietanti.

Probabilmente c'è da distinguere tra il favore verso Berlusconi e il consenso al suo governo. Il premier è un talento mediatico che ripulisce Napoli, si arma di ramazza per strada, risolve i problemi dei 'subprime' e fila al Bagaglino, si infila in discoteca fino alle quattro e mezzo di mattina, si intrufola in una sede del Pd e scherza con i militanti, vola in Cina, sistema i cinesi e torna.

I suoi ministri invece devono fare i conti con le reazioni concrete alle loro iniziative. E allora, può darsi che il Re Silvio sia vissuto dall'opinione pubblica come una specie di prodigio naturale, una presenza inspiegabile, un miracolo da ammirare o un problema da sopportare come una volta si sopportava la Dc.

Ma il suo governo non deve soltanto produrre fenomeni pop, fuochi artificiali, paillette. Dovrebbe anche cercare di gestire un presente e un futuro di impressionante difficoltà, che non può essere addomesticato con gli slogan e le furbizie mediatiche.

Anche se il Pdl ha le idee chiare, e punta a crearsi una base elettorale strutturale, cioè un blocco di consenso permanente, la situazione si sta complicando. La modernizzazione restauratrice funziona negli annunci, ma è molto dubbio che abbia successo nella realtà.

Negli ultimi giorni Berlusconi si è incattivito, si è stizzito per le critiche, ha denunciato gli attacchi dei "facinorosi". Le cose vanno male. Per un po' Re Silvio si presenterà come l'unico argine contro la tumultuosa forza degli eventi, il sovrano che paternamente protegge i sudditi con il suo impegno straordinario. Ma poi qualcuno comincerà a pensare (anzi, molti hanno già cominciato) che sarà un caso, ma ogni volta che il premier prende il bastone del comando l'economia va in picchiata.

Come diceva quella storiella su Napoleone che prediligeva i generali fortunati? Ecco, Berlusconi ha tutte le doti del mondo, ma è un uomo abituato a gestire le fasi di sviluppo e di successo: trovarsi nella tempesta economica e nella crescita sottozero non è il suo mestiere. Quando le cose vanno male si può mentire al popolo oppure promettergli "sangue, sudore, fatica e lacrime". In quest'ultimo ruolo, Re Silvio non è credibile. Le bugie, si sa, hanno le gambe corte. A occhio, la favola bella che ieri illuse l'Italia sta per fare i conti con la realtà.

(31 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La RAI e il futuro dell'informazione.
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2008, 11:32:00 pm
W la RAI?
20 novembre 2008


La RAI e il futuro dell'informazione.



Caro Santagata,

rispondo alla tua sollecitazione e descrivo brevemente l'opinione che ho sulla Rai.

Ogni volta che c'è di mezzo la televisione pubblica succede un mezzo casino, o un casino intero. L'affaire Villari è a suo modo rivelatore e, come si è visto, non privo di particolari grotteschi. Serve a poco andare alla ricerca delle colpe di una parte e dell'altra. Diciamo che l'opposizione ha tenuto duro per oltre quaranta votazioni sul nome di Leoluca Orlando, e alla fine la maggioranza ha selezionato, con uno spettacolare colpo basso, un altro nome. E per la presidenza della Commissione di vigilanza si è dovuto ricorrere a un grande vecchio, l'onorabilissimo Sergio Zavoli.

Ma tutto questo dovrebbe portarci a riflettere sulla Rai e in particolare sul concetto di "servizio pubblico". Ho scritto più volte in passato che il servizio  pubblico, oggi, è una finzione. Serve più che altro a consentire alle forze politiche di tenere un piede, e anzi tutt'e due, dentro l'emittente di Stato. Il sistema barocco inventato per la designazione del Consiglio d'amministrazione, della presidenza, della direzione generale non fa che mettere in rilievo le distorsioni che la politica provoca nel sistema televisivo sostenuto dal canone pagato dai cittadini.

Sono questioni che vengono da lontano. Bettino Craxi sosteneva ironicamente che il centralino della Rai era "643111", vale a dire, sei democristiani, quattro comunisti, tre socialisti e uno a testa ai partiti laici minori. Si chiamava, secondo la definizione di Alberto Ronchey, "lottizzazione". Una formula quasi scientifica, che implicava le trattative estenuanti e i compromessi al ribasso che alla lunga hanno fatto franare la Repubblica dei partiti.

Per tornare al presente, ho sempre pensato che nell'informazione, e quindi anche nell'informazione televisiva, non serve a molto appellarsi ai grandi principi, all'autonomia, all'indipendenza dei giornalisti, all'obiettività, ai fatti separati dalle opinioni. Ormai, ogni canale informativo, stampato, radiofonico o televisivo, ha un orientamento, un padrone, una simpatia, talvolta un'appartenenza esplicita. Insomma non è neutrale.

E allora serve a poco aggrapparsi a categorie del passato. Invece conviene avere fiducia nel mercato: in cui il valore principale è la pluralità degli organi di informazione, e la concorrenza fra di loro.

So di semplificare molto le cose, ma questo discorso conduce a conclusioni di un certo interesse. Vale a dire: proviamo a immaginare che cosa succederebbe se qualche eroe e martire proponesse di mettere sul mercato la Rai, privatizzandola (ovviamente in un contesto che prevedesse anche lo smantellamento antitrust dell'oligopolio Mediaset). Avremmo sei reti televisive in concorrenza. Sei telegiornali diversi, potenzialmente, sei modi concorrenziali di fare informazione (e anche intrattenimento).

A me sembra un'idea di qualche interesse. Il sistema televisivo si è arricchito con l'informazione di Sky, con il satellitare, con il digitale. Soltanto Rai e Mediaset dovrebbero restare immobili e uguali per sempre.

Alcuni sollevano un'obiezione: e il servizio pubblico? Chi farà i programmi di approfondimento, le inchieste, la televisione di qualità? Risposta: la farà chi vorrà rivolgersi a fasce di pubblico determinate. Chi individuerà una domanda e deciderà di soddisfarla. Chi si qualificherà come una emittente qualificata, chi avrà una vocazione culturale e andrà alla ricerca di un pubblico e di un mercato.

Troppo radicale, come idea? Può darsi. Ma a forza di moderazione, siamo sempre dentro il doppio monopolio e il conflitto d'interessi. Un po' d'aria nuova non farebbe male, anche per rinfrescare il dibattito.

Un caro saluto

 

di: Edmondo Berselli

da www.lafabbrica.eu


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il nemico perfetto
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:58:28 am
Edmondo Berselli.


Il nemico perfetto

L'attacco del governo alla Cgil serve a tenere insieme una coalizione caotica 


Ad applicare schemi tradizionali, non si capirebbe granché della strategia del governo. Dunque, ci troviamo dentro una crisi economica dai contorni indefiniti, dall'evoluzione imprecisabile, che potrebbe avere conseguenze inquietanti sulla nostra economia e richiedere interventi molto più pesanti di quelli predisposti a tentoni dal governo Berlusconi. In circostanze simili, un minimo di cautela, se non di preveggenza, dovrebbe indurre le forze politiche di maggioranza e i loro leader più esposti pubblicamente a moderare i toni e a valorizzare un rapporto decente con l'opposizione. Potrebbe capitare infatti, non si sa mai, di dover accettare o chiedere un contributo di coesione, per fronteggiare con ragionevolezza civile gli eventuali picchi della crisi.

E invece no. Come ha spiegato Matteo Colaninno, Berlusconi e i suoi gregari non perdono l'occasione per "mettere le dita negli occhi" all'opposizione. Il ministro Brunetta continua ad attaccare "i santuari della sinistra", mentre Maurizio Gasparri insulta pesantemente il leader del Pd ("stupido, arrogante e incapace" nel caso dell'elezione del presidente dalla Commissione di vigilanza Rai).

Ma l'attacco più forte, e a suo modo ideologico, è quello in atto contro il sindacato. Anzi, non contro il sindacato in generale, perché Cisl e Uil stanno intensificando le loro caratteristiche di sindacato "cooperativo" (il segretario della Uil Angeletti ha lasciato intendere che la base della sua confederazione lo orienta verso posizioni non antagoniste rispetto al governo). L'offensiva è invece esplicitamente contro la Cgil.

Quale sia la razionalità di questa scelta strategica non è ben chiaro. La caotica vertenza della Cai ha dimostrato, e continua a dimostrare, che quando i sindacati ufficiali sono in minoranza, le componenti autonome possono condurre al caos un settore intero. Vale a dire che se il governo riuscisse effettivamente a umiliare la Cgil, stringendo accordi con le altre due confederazioni, dovrebbe poi fronteggiare gli esiti di un conflitto sindacale conclusosi con la mortificazione di un interlocutore, e le possibili azioni ricattatorie, nonché le agitazioni selvagge, dei sindacati minori.

Conviene quindi cercare uno sfondamento? Conviene davvero trattare con sufficienza e astuzia malandrina Guglielmo Epifani, considerandolo e mostrandolo pubblicamente come un intruso da evitare? Soltanto un paio di stagioni fa questo appariva uno schema razionale ed efficiente per la destra. Dividere il sindacato, sconfiggere e marginalizzarne una componente, procedere con rapidità verso pacchetti di riforme 'liberiste'. Ma in questo momento il governo Berlusconi non ha in programma riforme liberalizzatrici. Anzi, la sua azione si sta sviluppando in termini corporativi, cercando di aggregare in un blocco coerente i ceti sociali che esprimono consenso verso il Popolo della libertà. E allora? A che cosa serve in definitiva l'offensiva contro la Cgil?

A niente. O meglio, serve più che altro a introdurre quote di conflittualità nella politica e nelle relazioni industriali. Il Pdl è una coalizione eterogenea, e il centrodestra un'alleanza in fondo caotica. Può essere tenuta insieme più agevolmente, durante una crisi grave come l'attuale, se viene continuamente mobilitata contro avversari, nemici, sabotatori, fannulloni. Da questo punto di vista la Cgil è il nemico perfetto. Ha una chiara origine di sinistra, è 'collaterale' al Partito democratico, raccoglie una rappresentanza di ceti (in particolare operai e pensionati) in via di emarginazione nei processi sociali contemporanei. È il nemico ideale, che ha come sola arma di rivalsa l'indizione dello sciopero generale, con tutti i rischi che ne possono conseguire.

Si può dire quel che si vuole, che il governo non ha una concezione chiara di come fronteggiare la crisi finanziaria ed economica, ma non che non abbia idea di dove colpire. Come si è visto, la principale capacità del Pdl consiste nel selezionare i propri avversari, valorizzandoli quando si differenziano dal mainstream del centrosinistra e attaccandoli quando rappresentano il bersaglio ideale. Il governo Berlusconi è una compagine dotata di 'cattiveria' agonistica, che ha individuato le zone deboli della sinistra e prova ad affondare i colpi. Una ragione in più per provare a difendersi con ordine, e a contrattaccare con lucidità: sullo stesso terreno, e non sul piano delle belle idee.

(21 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Zavoli amarissimi
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 10:25:08 pm
TELEVISIONE

Zavoli amarissimi


di Edmondo Berselli


Villari, la scheggia impazzita, Zavoli messo in croce e le soluzioni dadaiste per la Commissione di vigilanza   Sono tempi duri, che inducono a riflettere sulla vita e il futuro della tv pubblica. Come ha scritto su 'Tuttolibri' l'arguto Luciano Genta, è passata una settimana di "Zavoli amari", e il solo pensiero che un uomo della qualità di Sergio Zavoli sia stato messo in gioco per finire in croce fa male alla coratella e zone circostanti. Nel frattempo tutti se la sono presa con l'uomo della sceneggiata, la scheggia impazzita del Pd Riccardo Villari. Ma fosse solo Villari, il problema. Il problema è che ci sono quelli che. Quelli che lo hanno eletto, Villari, con una bellissima soluzione dadaista: ah sì, il presidente della Commissione di vigilanza spetta all'opposizione? E allora noi della maggioranza eleggiamo uno che piace a noi.

Poi ecco quelli che hanno continuato a votare per Leoluca Orlando per più di 40 volte, forse sperando di prendere il Pdl per fame. E anche quelli che adesso dicono: tanto, la Commissione non serve a niente. Quelli che rispondono: se non serve a niente, perché questo casino? E così via.

Fosse ancora qui con noi l'inventore di Telekabul, il compianto Sandro Curzi, potrebbe fare uno dei suoi discorsi preferiti: "Compagni, attenti a non commettere altri errori" (nei suoi discorsi in pubblico, Curzi aveva l'abitudine di chiamare 'errori' i crimini del comunismo).

Insomma. Ancora non si capisce quale sia la ragione per cui quando qualcuno dice: ma dai, la Rai va privatizzata (naturalmente smantellando anche l'oligopolio Mediaset), salgono voci addolorate, che evocano il servizio pubblico e altre favole belle. Su, compagni, su fratelli, fatevene una ragione. Sennò, sempre più amari saranno gli Zavoli.

 (28 novembre 2008)
Da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Questione morale, lo scenario capovolto
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2008, 06:11:33 pm
Questione morale, lo scenario capovolto

di EDMONDO BERSELLI


CI VUOLE la sfrontata fantasia di Silvio Berlusconi per attaccare il Pd sulla questione morale. Perché anche chi ha criticato la ventata populista dei primi anni Novanta, e non ha mai pensato che i giudici possedessero la chiave della rivoluzione politica, non può avere dimenticato la sequela di leggi ad personam volute dal capo del centrodestra, tutte tese a legare le mani a procure e tribunali, dal decreto Biondi del 1994 fino al "lodo Alfano".

Il centrodestra ha dedicato quasi 15 anni a regolare i conti con la magistratura (le "toghe rosse", nel lessico berlusconiano).

Alla fine, vinta la sua guerra personale, Berlusconi si è assunto tutte le responsabilità politico-penali della prima Repubblica, concludendo che i magistrati sono i veri colpevoli di ciò che ha spezzato una "storia di sviluppo e di libertà".

Se si accetta il teorema di un sequestro della vita pubblica operato nei primi anni Novanta da Mani pulite, con il corollario di una lotta per la vita, durata fino a oggi, fra la politica e la giustizia, risulta facile chiudere il sillogismo argomentando che in questi giorni si assiste alla vendetta della giustizia contro chi pretese di cavalcarla, salvandosi immeritatamente dalla tempesta che travolse il sistema politico-affaristico di Tangentopoli.

Ma è una ricostruzione distorta. Mani pulite travolse una classe di governo corrotta e sfinita. Il Pci-Pds non partecipava al governo nazionale, ed era meno implicato nell'oligopolio di Tangentopoli. Immaginare che il Pd attuale sconti la rivalsa della storia, e paghi integralmente la strategia di allora degli ex comunisti, significa da un lato equiparare i Democratici a eredi diretti del Pci, e dall'altro procedere secondo filosofie cospirative che in realtà spiegano ben poco della situazione attuale del partito guidato da Walter Veltroni.

Nella realtà, il Pd sente il peso di un'abitudine al potere locale che scopre alcuni suoi vizi: negli ultimi anni, studiosi come Carlo Trigilia hanno messo in rilievo non tanto una "questione morale" nelle regioni rosse, quanto gli indizi, non proprio sporadici, di un degrado della qualità amministrativa.

Alcuni episodi e situazioni, come il caso abruzzese della sanità, il disastro dei rifiuti a Napoli e la vicenda urbanistica di Firenze, rendono evidente questo aspetto (anche se Rosa Russo Jervolino e Leonardo Domenici rivendicano con orgoglio l'assoluta estraneità da coinvolgimenti penali).

Quindi il Pd non dovrebbe limitarsi a respingere con disprezzo le provocazioni di Berlusconi. Se una decente qualità tecnica e morale nelle amministrazioni costituisce una delle risorse residue del partito, qualsiasi incrinatura in questo patrimonio va considerato un'insidia grave, che genera inquietudine e tende a rendere meno credibili le rivendicazioni come quella espressa polemicamente da Veltroni nella manifestazione del Circo Massimo ("Il paese è migliore della destra che lo governa").

In sostanza, è improprio e strumentale sostenere l'esistenza di una "questione morale" che grava sul Pd. Semmai un problema di dignità pubblica, di lealtà con i cittadini, di deontologia, di trasparenza, di stile, e talora di corruzione perdurante, incombe su tutta la politica italiana. Questo però si deve a ragioni che il Pd farebbe bene a esaminare con realismo, senza accontentarsi di formule manichee. La questione morale infatti non è il frutto della disonestà intrinseca agli uomini, alla politica o alla destra; è piuttosto il risultato di cattive pratiche, di lacune operative, di soluzioni mancate.

Noi scontiamo le riforme incompiute, e la conseguente mancata razionalizzazione delle regole. Va da sé che si fanno sentire anche le riforme tradite, come è avvenuto con il Porcellum, autentica legge carogna voluta dalla destra per impedire all'Unione di governare. Ma paghiamo soprattutto l'incapacità di costruire un sistema istituzionale aderente a un rapporto chiaro fra governanti e governati, fra controllori e controllati, fra elettori e politica, fra affari e istituzioni, fra cittadini e giustizia: e questo non è imputabile a una parte sola.

Quante volte Scalfaro, Ciampi e Napolitano hanno invocato riforme istituzionali ragionevoli? In aggiunta a questa tematica generale, che mette alla prova la sua vocazione a governare la modernizzazione del paese, il Pd ha l'obbligo di un esercizio radicale di onestà politica. Cioè di passare in rassegna regole interne, procedure, metodi di decisione. Per dire a se stesso se è effettivamente un'entità strutturata democraticamente, o se è piuttosto una somma di correnti autodefinite, di capi autonominati e di personalità cooptate.

Un buon esame di coscienza è il primo passo per correggere scarti e deviazioni. E poiché ci vuole poco a capire che i possibili effetti della propaganda berlusconiana sulla questione morale si intrecciano alle difficoltà evidenti di per sé sul terreno politico, sarebbe bene rendersi conto che in questo momento al Pd non serve la routine, e neppure le parole d'ordine. Ci vuole una seria mobilitazione, organizzativa e istituzionale, per definire con chiarezza i contorni effettivi di un'emergenza; e per decidere razionalmente le contromisure.


(8 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Commissario per il PD
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 03:34:53 pm
Edmondo Berselli

Commissario per il PD


La condizione del Partito democratico è di piena emergenza. E ora serve una soluzione eccezionale.

Il marasma in cui è precipitato il Pd è dovuto a varie ragioni, e la più seria deriva dalle ondate di sofferenza politica provenienti dalla sconfitta del 13-14 aprile, nonché dall'andamento schizofrenico del 'dialogo' con Silvio Berlusconi, che prima ha attirato Walter Veltroni in campo aperto, e poi lo ha colpito a freddo.

Ma è anche chiaro che nel Pd le linee di contrasto interno sono numerose. Innanzitutto c'è un'incertezza sulla strategia generale del partito: la problematica alleanza con il partito giustizialista di Antonio Di Pietro è stata data per sciolta un giorno sì e l'altro pure, ma agli annunci non sono seguiti i fatti, e l'ex pm trova continue occasioni per esercitare una concorrenza vistosa verso il Pd.

Nel quale in prospettiva si profilano almeno due ipotesi, se non proprio due progetti. Da un lato si vede la scia del progetto veltroniano fondato sulla "vocazione maggioritaria", che vede nel partito un potenziale di consenso ancora inesplorato, e quindi lo considera in grado di candidarsi a governare la nuova modernizzazione del paese, alleandosi eventualmente soltanto "con chi ci sta", cioè condivide il programma generale del Pd.

Questa sarebbe la direttrice ufficiale. Ma su un altro lato, quasi mai dichiarato ufficialmente, serpeggia l'idea che il Pd è, crocianamente, un 'ircocervo', cioè una chimera, un ibrido; e dunque occorre favorire la nascita di un'alleanza al centro, con l'Udc, e di un'altra a sinistra, con i partiti residui della Sinistra Arcobaleno. Se poi questa strategia dovesse portare alla disgregazione del Pd, con i centristi da una parte e gli ex comunisti dall'altra, niente paura: si riesuma il politicissimo 'centro-sinistra con il trattino', con tanti saluti al partito nuovo e il ritorno alla rassicurante coalizione tra realtà diverse, senza ubbíe uliviste o 'democrat'.

Quest'ultima scelta, modellata su schemi di realismo politico assoluto, sarebbe il riconoscimento che contro la destra attuale il Pd non ha chance, e quindi deve cambiare schema di gioco. Se poi si aggiunge che negli ultimi giorni si sono susseguite dichiarazioni di esponenti 'nordisti' come Sergio Chiamparino, Filippo Penati e Massimo Cacciari, i quali hanno riaperto la questione territoriale, rilanciando l'ipotesi del Partito del Nord (il sindaco di Torino alludendo anche a possibili evoluzioni nel rapporto con la Lega), ci si accorge che il Pd in questo momento è un partito davvero ipotetico: si alimenta di ipotesi conflittuali, senza che risulti chiara, e sottoscritta dagli organi dirigenti, un'idea complessiva.

Mettiamoci sopra, come suggello terminale, la crisi territoriale, con l'emergere di una questione di legalità che coinvolge diverse amministrazioni locali (vedi il numero scorso de 'L'espresso'), e non manca nulla alla constatazione di una piena emergenza. Con l'aggravante che l'emergenza non è riconosciuta; anzi, lo sforzo principale dei dirigenti consiste nel negare, ridimensionare, sottacere: insomma, il troncare e sopire di manzoniana memoria, che tuttavia non può occultare la profonda sfiducia che si è impadronita del partito, e il senso di delusione negli eletti, di frustrazione nella base e di disarmo morale nell'opinione pubblica vicina al riformismo del centrosinistra.

Basta sommare tutti gli elementi appena ricordati, e l'incapacità di svolgere un'opposizione convincente al governo di Silvio Berlusconi, modestissimo e gravemente insufficiente rispetto alla crisi, per rendersi conto che il Pd è in emergenza: anzi, oltre l'emergenza. E allora, se ci si trova in una condizione eccezionale, non serve a nulla far finta di niente, e pensare di risolvere i problemi con negoziati e accordicchi interni. A condizione eccezionale, soluzioni eccezionali. Non i coordinamenti, le riunioni burocratiche, le procedure standard. Ci vuole qualcosa di solenne, che mostri alla società italiana la percezione esatta di un problema straordinario. Occorre la mobilitazione di tutte le risorse personali, parlamentari e locali, per procedere a un esame della situazione fuori dai criteri ordinari e a uno 'stringiamci a coorte', proprio in senso patriottico, dei principali dirigenti.

Ci sono severe opposizioni a un'ipotesi del genere. Il rischio evocato è quello di un sostanziale commissariamento del Pd. Ma che dire? Meglio un commissariamento di fatto che una unità formale e fittizia, il retorico 'nessuno tocchi Veltroni', il patteggiamento fra le correnti alle spalle del segretario. Il Pd rischia l'asfissia da consenso domestico. Ma se la piaga rischia di essere cancrenosa, meglio, molto meglio allora il medico impietoso.

(12 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Se si spegne la fiducia
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:05:02 am
IL COMMENTO

Se si spegne la fiducia

di EDMONDO BERSELLI


NESSUNO a sinistra si faceva illusioni sul risultato delle elezioni regionali in Abruzzo. Ma, di fronte ai numeri che si profilano via via che affluiscono i dati, cresce la sensazione che il voto abruzzese non rappresenti un esito soltanto locale, e nemmeno solo il risultato fisiologico dello scandalo nella Sanità che ha coinvolto il presidente Ottaviano Del Turco e ha abbattuto il governo regionale di centrosinistra. Il primo e plateale dato da mettere in rilievo, infatti, è la caduta della partecipazione al 53 per cento, quasi trenta punti al di sotto delle ultime consultazioni politiche e quindici rispetto alle precedenti elezioni regionali.

Dunque occorre prendere atto che la sinistra vede profilarsi una rottura impressionante con il proprio elettorato. Giustificato in larga misura dalla vicenda giudiziaria in cui è rimasto implicato Del Turco: ma come dimenticare, allora, che anche in altre regioni a maggioranza di sinistra, come in Toscana e in Campania, la questione di legalità potrebbe incrinare il consenso più consolidato?

Ce ne sarebbe abbastanza per lanciare un allarme severo, se non fosse che il voto abruzzese mette in rilievo fattori stridenti soprattutto per il Pd. Il partito di Walter Veltroni perde in percentuale circa 11 punti (mettendo nel conto la lista territoriale dei Democratici per l'Abruzzo), rispetto alle politiche: si tratta di una caduta scontata, in cui si sommano ragioni locali e la perdita di velocità al livello nazionale, ma la cui ampiezza potrebbe avere ripercussioni anche al vertice del partito, a dispetto degli sforzi di compattamento sperimentati negli ultimi giorni.

Il fatto è che il voto in Abruzzo mette allo scoperto le numerose incertezze e tutti i possibili punti di crisi del Pd. In queste elezioni regionali infatti si era varata un'alleanza simile all'Unione, ossia estesa fino ai partiti della ex Sinistra Arcobaleno: una geometria variabile necessaria sul piano regionale, e consentita dalla separazione "consensuale" praticata prima delle elezioni di aprile della scelta più o meno solitaria di Veltroni, ma che comunque non apporta elementi di chiarezza nella strategia politica complessiva del centrosinistra.

A maggior ragione se l'alleato più scomodo, cioè l'Italia dei Valori di Antonio di Pietro, dopo avere ottenuto la guida della coalizione con Carlo Costantini, ha raddoppiato i propri voti rispetto alle elezioni di aprile (e quasi sestuplicato i consensi rispetto alle regionali del 2005). Si profila quindi l'esasperazione della partnership rivale fra Di Pietro e il Pd, al punto che, a partire dalla direzione dei Democratici del 19 dicembre, potrebbe porsi il dilemma di un'alleanza squilibrata, in cui l'Idv attacca a trecentosessanta gradi con la sua durezza giustizialista, e il Pd prende tutte le botte, anche quelle destinate più generalmente alla politica, all'illegalità, ai "corrotti".

Insomma all'interno dell'alleanza voluta da Veltroni l'asimmetria è assai forte. Se si prende nota di una piccola ripresa della sinistra antagonista, si ha la sensazione che nel prossimo futuro, cioè alle elezioni europee, il Pd sia attaccabile da troppi fronti. E non consola l'idea che l'altra opposizione, quella rappresentata dall'Udc, seppure in condizioni di grave tensione e sofferenza, nella sostanza abbia tenuto le posizioni.

Piuttosto, va messo agli atti che, a dispetto di condizioni ultrafavorevoli, il Pdl non sfonda come si poteva immaginare. Evidentemente, la crisi della politica, con il collasso della partecipazione dei cittadini, fa sentire i suoi effetti lungo tutto l'arco politico. Nessuno è esente dai contraccolpi della perdita di credibilità della politica. E questo, al di là della crisi del Pd, è l'elemento di maggiore spicco nel voto in Abruzzo, un dato che dovrebbe destare allarme anche nei vincitori: perché quel 53 per cento è il segnale di un distacco abissale, che dovrebbe portare a trattare con minore enfasi i consensi trionfali verso il governo: è una specie di ritiro della fiducia, e quando la fiducia si spegne, per la vita democratica cominciano i guai.

(16 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI I pornoscemi
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2008, 09:51:53 am
TELEVISIONE

I pornoscemi

di Edmondo Berselli


Che senso hanno questi programmi del satellite che mostrano scene di sesso edulcorato e inutile? Ce lo stiamo chiedendo in molti   Mentre il ciglio comincia a pesare, in certe ore della tarda serata, può capitare che il pollice si fermi su programmi come 'Sos Patata' o '69 cose sexy da fare prima di morire'. E allora io sarò stato colto da un attacco di bacchettonismo, ma devo dire che quando sento le voci di quelle di 'Sos Patata', doppiate come deficienti, che strillano e squittiscono, ho la tentazione di rinunciare al sesso, anche quello immaginario, per le prossime stagioni.

Quanto alle 69 cose che sarebbero da fare prima di morire, a parte l'esprit de finesse del titolo, e facendo i dovuti scongiuri, l'imbarazzo aumenta. Perché con 'Sos Patata' la faccenda si risolve semplicemente con un tocco sul telecomando, mentre le patate squittiscono. Ma se vi capita di restare qualche istante sulle 69 cose, qui l'affare si complica, perché cominciano a passare scene dove dei belloni fanno grugniti con delle bellone, simulano quelle cose lì, oppure le più light le fanno davvero, boh.

E allora, noi dovremmo sapere che la pornografia è una cosa onesta: uno vuole vedere sesso, e lo guarda. Fatti suoi. Ma il sesso contingentato della tv satellitare è una ciofeca di quelle burine, un soft porno piuttosto deprimente. E ci si chiede: ma li guarderà qualcuno, questi programmi? E perché? Insomma, perché ci dovrebbero essere telespettatori che invece di spararsi un dvd porno di quelli tosti, o almeno accedere alla parte 'hot' di Sky, dovrebbero guardarsi queste versioni edulcorate e sceme?

La risposta, naturalmente, non c'è. Personalmente, quando incrocio questi programmi, all'improvviso mi viene voglia di una fiction sui papi.


26 dicembre 2008
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI. Tutti i guai Alitalia-Cai
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:43:23 pm
Edmondo Berselli

Tutti i guai Alitalia-Cai


La vicenda mostra come il governo sia al di sotto degli standard necessari per salvare l'Italia dalla crisi e farla ripartire  Si dovrebbe sapere che una cattiva soluzione provoca continui problemi. E, in via subordinata, una cattiva soluzione è il sintomo di una mediocre qualità di governo. Sul caso Alitalia non vale neppure la pena di fare profezie. Si può prevedere che la compagnia di bandiera, sbandierata come grande successo berlusconiano, vessillo del governo di destra, gonfalone dei suoi trionfi, finirà smantellata, triturata, ceduta al prezzo di saldo, e il personale, per evitare disordini, deportato in una qualche Guantanamo.

Ma le previsioni catastrofiste servono solo ad aumentare la nevrosi. Intanto c'è da capire che cosa sta succedendo. Nel momento in cui 'la Repubblica' ha dato la notizia della probabile cessione del 25 per cento della società a Air France, è stato naturale per un riformista come Enrico Morando, senatore del Pd, lasciarsi cadere le braccia: "Siamo arrivati alla stessa conclusione (del governo Prodi, ndr), l'alleanza con Air France, ma facendo un lunghissimo giro, che ha solo peggiorato la situazione".

Secondo Morando, il peggioramento comprende il mancato salvataggio della Malpensa, costi sociali più alti, e tre miliardi di euro accollati al bilancio pubblico. Tutto questo per un'operazione di immagine, e con l'intento di costituire un circuito di imprese 'governativo'. Una classica operazione alla Berlusconi, una specie di periplo lunghissimo affibbiato allo Stato, una crociera di lusso pagata con i soldi altrui. Furbizie dell'aeroportino. Solo che nel frattempo i nordisti governativi e non governativi, dal sindaco di Milano Moratti al presidente della provincia Penati e al governatore della Lombardia Formigoni, con il supporto di Umberto Bossi e della Lega, sono insorti, spingendo per riprendere le trattative con Lufthansa, che potrebbe forse garantire alla Malpensa un futuro migliore. Forse. Tutto ciò mentre decollavano dichiarazioni bellicose, tipo 'il governo farà sentire il suo peso' e 'Berlusconi farà sentire la sua voce'.

Il partito tedesco è soltanto uno dei protagonisti di un gioco dei quattro cantoni a cui hanno partecipato tutti (il governo, l'opposizione, i sindacati, i partiti, le imprese, le lobby, le amministrazioni locali, nonché vari brasseur per conto di governi stranieri): tutti, tranne uno. Il grande assente si chiama mercato. Per chi se lo fosse dimenticato, il mercato è quell'idolo a cui Berlusconi e i suoi soci volevano fare sacrifici umani, con il ciglio umido di commozione mentre citavano Reagan e la Thatcher. Adesso, tutti zitti, la voce si alza soltanto per proteggere un presunto interesse nazionale, e poi un interesse locale, giù giù fin dove è possibile.

Come ha spiegato sulla 'Stampa' Giuseppe Berta, anziché scindere le sorti di Malpensa da quelle dell'Alitalia e di allestire le condizioni per radicarvi un grande operatore straniero, vale a dire, anziché puntare razionalmente su prospettive di mercato, "si è scelta la via italiana di cementare una combinazione di interessi sostanzialmente collusiva". Il risultato? Un capolavoro a rovescio, a suo modo magistrale, con un accordo societario, quello con Air France, che viene messo in discussione dai feudatari a pochi giorni dalla conclusione, mentre su tutto si stende l'ala intrusiva della politica: alcune modeste analisi empiriche su base europea mostrano che anche grazie al disprezzo per la concorrenza, e grazie ai salvataggi e ai favori, le tariffe interne italiane sono alte più o meno il doppio di quelle degli altri paesi dell'Ue (si dice tariffa perché si tratta in effetti di un prezzo imposto).

La vicenda Cai-Alitalia appare soltanto uno degli aspetti critici di un governo che è molto al di sotto degli standard necessari per progettare un'Italia in grado di resistere alla crisi e ripartire. Lo stile governativo mette insieme il caos tecnologico e paternalista della social card, con gli anziani che fanno la fila alle Poste per ritrovarsi la card scarica, la navigazione a vista sul fronte della recessione, il peggioramento dei conti pubblici, il livello penoso sul piano internazionale, dimostrato con i balbettii durante la crisi di Gaza.

Il consenso rimane altissimo, naturalmente, "bulgaro" e "imbarazzante" secondo il capo del governo, e quindi, si deduce, meritevole di una unzione presidenzialista. Forse tutto questo vuol dire che il paese si sta abituando, o rassegnando, a Berlusconi e al Pdl. Si capisce che questa è una conclusione disarmante. Induce a lasciar cadere le braccia, come Morando, e ad alzare sconsolatamente gli occhi al cielo: magari capiterà, uno di questi giorni, di vedere, nel sole ('soleil' in francese) o comunque nel cielo ('Himmel', in tedesco), un aeroplanino con una struggente bandierina tricolore.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Fallisce l'azienda simbolo della piastrella valley di Sassuolo
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2009, 01:03:30 am
ECONOMIA      Fallisce l'azienda simbolo della "piastrella valley" di Sassuolo

Si dissolve un'impresa modello. Senza posto 780 lavoratori

Iris, chiude un gioiello italiano strangolato dalla crisi globale

La recessione non ha sfumature e minaccia di spazzare via tutti, buoni e cattivi


di EDMONDO BERSELLI
 

QUESTA è la storia di come ti entra in casa la globalizzazione, e dopo la globalizzazione la crisi, e dopo la crisi chissà. A Sassuolo, quarantamila abitanti, una delle capitali mondiali della ceramica, la faccia cattiva della recessione si è affacciata senza bussare.
Erano anni che il settore della piastrella, quello descritto negli anni Sessanta dal giovane Prodi come il "modello di sviluppo di un settore in rapida crescita", lentamente scendeva nelle quote di mercato, limava il fatturato, perdeva addetti, ristrutturava, recuperava a fatica con la qualità e il prezzo ciò che perdeva in quantità. All'improvviso è arrivato lo schianto.

Il 5 gennaio l'assemblea sociale del gruppo Iris, fondato da Romano Minozzi, ha deciso l'autoscioglimento, la messa in liquidazione dei suoi tre stabilimenti, e la collocazione in mobilità, cioè sulla strada, dei 780 dipendenti. Un'impresa gioiello, leader sul piano internazionale, semplicemente si dissolve. Fatte le proporzioni, è all'incirca come se in provincia di Torino evaporasse da un giorno all'altro la Fiat, o nella Grande Milano fossero licenziati in un colpo solo 80 mila lavoratori.

Si chiude. Senza preavvisi, senza trattative. Mentre tutt'intorno la crisi genera incubi anche negli altri comparti industriali. Con il sindaco di Sassuolo, Graziano Pattuzzi (Pd), che sbarra gli occhi, le forze politiche che si appellano alla "responsabilità sociale" delle imprese, i sindacati sbigottiti che implorano negoziati e minacciano la mobilitazione dell'intero distretto ceramico, con le sue duecento imprese, quattro miliardi e mezzo di fatturato, 22 mila addetti distribuiti fra le province di Modena e Reggio Emilia (di cui adesso 8 mila in cassa integrazione ordinaria, praticamente una strage).

Il distretto di Sassuolo ha rappresentato nel tempo uno dei più classici miracoli italiani. Una produzione tradizionale che risale alle "majoliche" del Sei-Settecento ha visto il miracolo dentro il miracolo, quando le fornaci sono venute su da un giorno all'altro. Il boom rappresentò una produzione strepitosa di ricchezza nel cuore dell'Emilia rossa e migliorista, fra sindaci pragmatici e imprenditori disinibiti. Fu lo stesso Minozzi a sintetizzare gli anni d'oro: "Allora si diceva che, a Sassuolo, tra il fare un partita a briscola e fondare una ceramica non c'era differenza. Ma non era vero: si facevano molte più ceramiche che partite a briscola".

Il resto è storia. Invenzioni tecnologiche continue, una serie di crisi superate con ristrutturazioni sanguinose e con ripartenze brucianti. "Riducete i costi e investite, investite tutto", ammonivano i grandi vecchi della piastrella. Sono sempre stati presi sul serio. Infatti, se uno entra ora in una ceramica resta stupefatto dall'apparente assenza di addetti, mentre le fornaci a monocottura sfornano piastrelle a getto continuo e carrelli robotizzati si spostano mossi da comandi invisibili.

Sono aziende ad alta intensità di capitale, che richiedono investimenti pesanti, hanno tempi di ammortamento lunghi e una redditività moderata. Finora sono riuscite a restare competitive grazie a una impressionante flessibilità produttiva, che consente forniture praticamente personalizzate: "Un appartamento no, ma un condominio a Parigi riusciamo a servirlo". Alle aziende edili della capitale francese costa meno che una fornitura da Lione. Vent'anni fa un'azienda produceva fra i 30 e i 40 articoli, con le vendite che si concentravano su un segmento di tre o quattro prodotti. Oggi la stessa azienda realizza tremila tipologie. Tutto ciò grazie al contenuto tecnologico degli impianti, che incorporano design d'eccezione e spuntano altissimi coefficienti di qualità.

Ebbene, sotto il profilo teorico la decisione di un imprenditore storico come Minozzi di uscire dal settore, e di concentrare le risorse residue in comparti diversi, è un caso da manuale di "efficienza allocativa": si spostano gli investimenti dove le chance di profitto sono migliori. Fuori dal fumus oeconomicus, la scelta ha l'aspetto del rompete le righe. Perché è vero che negli ultimi tempi il gruppo Iris aveva conosciuto un vistoso calo del fatturato, oltre il 40 per cento nell'ultimo biennio. Ma sospendere l'attività non ha per nulla l'aspetto di una scelta aziendale; assomiglia piuttosto a una dichiarazione di resa. Come a dire: il distretto di Sassuolo è finito. Usciamo adesso e salviamo il salvabile, perché nel giro di due anni potrebbe non esserci più nulla: a recessione terminata, allorché l'economia mondiale riprenderà il suo ciclo, nel territorio fra Sassuolo, Maranello, Fiorano, Casalgrande, Scandiano potrebbero esserci soltanto relitti industriali. Un pezzo del miracolo emiliano trasformato in un cratere lunare.

"È cominciata l'era glaciale", ha scritto Minozzi nella relazione societaria. Colpa dell'iperproduzione e del dumping cinese. Colpa dell'euro troppo alto sul dollaro che schiaccia le esportazioni negli Stati Uniti. Colpa dei nuovi e vecchi produttori, dalla Spagna alla Turchia, dal Messico al Brasile, con la loro concorrenza senza quartiere. Colpa del Wto e dei cambiamenti nella divisione internazionale del lavoro. Colpa del mondo nuovo, insomma. Di un'economia senza barriere e senza limiti, che favorirà anche la "distruzione creatrice" di Schumpeter, ma per il momento, qui e ora, distrugge e basta.

E allora l'obiettivo inevitabilmente si allarga, l'inquadratura si amplia, da Sassuolo all'Emilia, dall'Emilia all'Italia produttiva della piccola e media impresa. A cerchi concentrici investe tutta l'Europa. E non solo. Perché se il distretto ceramico è davvero il possibile paradigma degli effetti della crisi, il problema non è soltanto economico. Diventa filosofico, si fa addirittura morale. Gli economisti che hanno dettato il dogma liberista negli ultimi trent'anni, e che hanno dileggiato il modello "renano" dell'economia sociale di mercato, proveranno a spiegare che gli shock di settore a cui assisteremo saranno semplicemente malattie adattative, a cui il mercato risponderà con le terapie migliori, cioè allocando in altri settori gli investimenti. "Nel lungo periodo" si ristabilirà l'equilibrio, riprenderà l'accumulazione di ricchezza, l'occupazione crescerà di nuovo. La "grande trasformazione" dell'Ottocento, descritta da Karl Polanyi come la nascita dell'economia moderna, conoscerà un nuovo capitolo.

Troppo facile rispondere, con il bignami keynesiano, che nel lungo periodo siamo tutti sottoterra. Ma c'è un elemento fattuale che andrebbe precisato: vale a dire che la crisi non conosce sfumature. Non si limita a ripulire le inefficienze. Non è l'igiene dell'economia. Perché minaccia di spazzare via tutti: i cattivi e i buoni, gli inefficienti e gli efficienti, i non competitivi e i competitivi.

Rischia insomma di annichilire tutte le qualità insite nel lavoro e nell'impresa. L'Emilia dei distretti industriali e l'Italia delle mille specializzazioni produttive intravedono un orizzonte spettrale, in cui la metamorfosi economica mondiale assume fattezze catastrofiche. E allora anche le domande si fanno incerte, perché toccano la sostanza stessa di un assetto sociale. Quale senso ha infatti un sistema economico che non contiene un principio di giustizia, che non distingue, che fa a pezzi sia gli acrobati della finanza illusionistica come il grande truffatore Bernard Madoff sia i protagonisti dell'intelligenza applicata alle tecniche di produzione e ai prodotti? Quale giustificazione razionale ha un sistema che si dimostra nei fatti privo di una moralità intrinseca?

Qui è consigliabile fermarsi, perché fra Sassuolo e la metafisica c'è solo un passo. Ma se uno guarda alla infinita megalopoli industriale nella pianura padana, se mette a fuoco i prodigi tecnologici di cui è disseminata, la qualità del lavoro che si è espressa nella manifattura italiana, non può fare a meno di pensare che non sappiamo che cosa potrà sopravvivere di tutto questo, della virtù tecnica delle centinaia di aziende intorno alla Ferrari di Maranello, nelle piccole cattedrali della meccanica e della meccatronica, nelle aziendine dell'ultratecnologia, nella produttività furibonda del Nordest.

Nel frattempo, guarda caso, sono praticamente ammutoliti i fautori della "mano invisibile". In attesa che si rifacciano vivi, non sarebbe il caso di ricominciare a discutere il mercato, la crescita, i fallimenti della capacità autoregolatrice del mercato? Magari anche soltanto per spiegare, a quel piccolo epicentro che è Sassuolo, cioè alla capitale di un cortocircuito autenticamente glocal, a una comunità che senza volerlo si ritrova in un punto cruciale di questa selvaggia "New Era", dove crisi mondiale e dramma locale si incrociano, che un giorno potrà andare orgogliosa di avere fatto da cavia alla nuova "grande trasformazione".

(12 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Tutti i guai Alitalia-Cai
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2009, 11:46:37 pm
Edmondo Berselli.

Tutti i guai Alitalia-Cai


La vicenda mostra come il governo sia al di sotto degli standard necessari per salvare l'Italia dalla crisi e farla ripartire  Si dovrebbe sapere che una cattiva soluzione provoca continui problemi. E, in via subordinata, una cattiva soluzione è il sintomo di una mediocre qualità di governo. Sul caso Alitalia non vale neppure la pena di fare profezie. Si può prevedere che la compagnia di bandiera, sbandierata come grande successo berlusconiano, vessillo del governo di destra, gonfalone dei suoi trionfi, finirà smantellata, triturata, ceduta al prezzo di saldo, e il personale, per evitare disordini, deportato in una qualche Guantanamo.

Ma le previsioni catastrofiste servono solo ad aumentare la nevrosi. Intanto c'è da capire che cosa sta succedendo. Nel momento in cui 'la Repubblica' ha dato la notizia della probabile cessione del 25 per cento della società a Air France, è stato naturale per un riformista come Enrico Morando, senatore del Pd, lasciarsi cadere le braccia: "Siamo arrivati alla stessa conclusione (del governo Prodi, ndr), l'alleanza con Air France, ma facendo un lunghissimo giro, che ha solo peggiorato la situazione".

Secondo Morando, il peggioramento comprende il mancato salvataggio della Malpensa, costi sociali più alti, e tre miliardi di euro accollati al bilancio pubblico. Tutto questo per un'operazione di immagine, e con l'intento di costituire un circuito di imprese 'governativo'. Una classica operazione alla Berlusconi, una specie di periplo lunghissimo affibbiato allo Stato, una crociera di lusso pagata con i soldi altrui. Furbizie dell'aeroportino. Solo che nel frattempo i nordisti governativi e non governativi, dal sindaco di Milano Moratti al presidente della provincia Penati e al governatore della Lombardia Formigoni, con il supporto di Umberto Bossi e della Lega, sono insorti, spingendo per riprendere le trattative con Lufthansa, che potrebbe forse garantire alla Malpensa un futuro migliore. Forse. Tutto ciò mentre decollavano dichiarazioni bellicose, tipo 'il governo farà sentire il suo peso' e 'Berlusconi farà sentire la sua voce'.

Il partito tedesco è soltanto uno dei protagonisti di un gioco dei quattro cantoni a cui hanno partecipato tutti (il governo, l'opposizione, i sindacati, i partiti, le imprese, le lobby, le amministrazioni locali, nonché vari brasseur per conto di governi stranieri): tutti, tranne uno. Il grande assente si chiama mercato. Per chi se lo fosse dimenticato, il mercato è quell'idolo a cui Berlusconi e i suoi soci volevano fare sacrifici umani, con il ciglio umido di commozione mentre citavano Reagan e la Thatcher. Adesso, tutti zitti, la voce si alza soltanto per proteggere un presunto interesse nazionale, e poi un interesse locale, giù giù fin dove è possibile.

Come ha spiegato sulla 'Stampa' Giuseppe Berta, anziché scindere le sorti di Malpensa da quelle dell'Alitalia e di allestire le condizioni per radicarvi un grande operatore straniero, vale a dire, anziché puntare razionalmente su prospettive di mercato, "si è scelta la via italiana di cementare una combinazione di interessi sostanzialmente collusiva". Il risultato? Un capolavoro a rovescio, a suo modo magistrale, con un accordo societario, quello con Air France, che viene messo in discussione dai feudatari a pochi giorni dalla conclusione, mentre su tutto si stende l'ala intrusiva della politica: alcune modeste analisi empiriche su base europea mostrano che anche grazie al disprezzo per la concorrenza, e grazie ai salvataggi e ai favori, le tariffe interne italiane sono alte più o meno il doppio di quelle degli altri paesi dell'Ue (si dice tariffa perché si tratta in effetti di un prezzo imposto).

La vicenda Cai-Alitalia appare soltanto uno degli aspetti critici di un governo che è molto al di sotto degli standard necessari per progettare un'Italia in grado di resistere alla crisi e ripartire. Lo stile governativo mette insieme il caos tecnologico e paternalista della social card, con gli anziani che fanno la fila alle Poste per ritrovarsi la card scarica, la navigazione a vista sul fronte della recessione, il peggioramento dei conti pubblici, il livello penoso sul piano internazionale, dimostrato con i balbettii durante la crisi di Gaza.

Il consenso rimane altissimo, naturalmente, "bulgaro" e "imbarazzante" secondo il capo del governo, e quindi, si deduce, meritevole di una unzione presidenzialista. Forse tutto questo vuol dire che il paese si sta abituando, o rassegnando, a Berlusconi e al Pdl. Si capisce che questa è una conclusione disarmante. Induce a lasciar cadere le braccia, come Morando, e ad alzare sconsolatamente gli occhi al cielo: magari capiterà, uno di questi giorni, di vedere, nel sole ('soleil' in francese) o comunque nel cielo ('Himmel', in tedesco), un aeroplanino con una struggente bandierina tricolore.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI. Così il Pd va a pezzi
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 03:30:51 pm
Edmondo Berselli


Così il Pd va a pezzi


L'ultima invenzione della sinistra per non essere minoritaria a metà strada tra partito di massa e galassia d'opinione  Rosy BindiAltro che un cantiere. Il Partito democratico è in piena turbolenza. Alle componenti conosciute dell'"amalgama mal riuscito" (secondo la realistica definizione di Massimo D'Alema) si sommano di continuo elementi di ulteriore conflitto e disturbo. La vittoria inattesa di Matteo Renzi alle primarie per il Comune di Firenze (un boy scout, cattolico e margheritino, che batte un altro rampollo della filiera democristiana, Lapo Pistelli, con l'ala laico-socialista che sta a guardare), il risultato di Renato Soru in Sardegna, la confusa situazione di Bologna, dove il prodiano Delbono deve fronteggiare due candidati alternativi, nonché l'uovo di cuculo rappresentato dalla sinistra a naso arricciato di Gianfranco Pasquino. Mettiamoci anche la polemica anti-Pd del principe elettore Lorenzo Dellai in Trentino, e ci sono tutti gli ingredienti per fare impazzire la maionese.

Eppure la linea vera di divisione corre ancora fra laici e cattolici. O meglio, fra ex della Margherita ed ex Ds. A questo proposito, la vicenda di Eluana Englaro è stata più che significativa: a fronte della colossale strumentalizzazione berlusconiana, salvo rare eccezioni (come la laicità combattiva di Rosy Bindi) il Pd non è riuscito a fare sentire una parola, in quanto partito. Sono stati usati eufemismi, si sono visti eleganti volteggi, sono state pronunciate molte parole politiciste, ma sul caso in sé il Pd non è stato capace di allestire una discussione pubblica seria.

In sé, non è un problema se in una formazione politica esistono punti di vista diversi. Non viviamo più nell'epoca dei dogmi ideologici. Proprio per questo sarebbe stato giusto che le differenze di concezione emergessero, con chiarezza e civiltà. E invece si è avuto soltanto il silenzio. C'era anche l'occasione per chiarire davanti all'opinione pubblica che cos'è un partito moderno, che comprende visioni differenziate sui temi etici. Il mutismo ha rappresentato una specie di abdicazione politica e culturale. E il risultato è che le tensioni, rimaste compresse sottotraccia, vengono fuori con una valenza nuova. Circola senza troppi tabù la parola scissione. Un serpeggiare di sospetti avvelena l'ambiente: e tutto questo mentre il Pd si troverà ad affrontare fra poco la dura campagna elettorale per le elezioni europee.

Su questo sfondo, la candidatura di una figura come Pier Luigi Bersani alla guida del Pd, in alternativa a Walter Veltroni, ha un significato che forse non era stato messo in conto. Perché l'entrata in campo di Bersani è figlia di Massimo D'Alema e sorella di un rapporto a filo doppio con la Cgil di Guglielmo Epifani. Parlando del passato, Bersani ha definito "una cavolata" il suo ritiro all'epoca delle primarie veltroniane. È bene che se ne sia convinto. Ma, nello stesso tempo, 'il più prodiano dei Ds' dovrebbe avere ben chiaro che la sua scommessa politica non è una iniziativa indolore. Nei modi in cui la sua azione si sta sviluppando, ci sono serie probabilità che venga interpretata come un tentativo di caratterizzare nuovamente il Pd come erede del Pci; e questo può alimentare contrasti nei gruppi dirigenti e perfino ulteriori tentazioni scismatiche.

Queste cose succedono allorché le aggregazioni politiche non controllano la loro struttura operativa e 'istituzionale'. A questo punto, sono numerosi gli esponenti cattolici del Pd che guardano con diffidenza all'operazione Bersani-D'Alema e auspicano l'ingresso di un terzo incomodo che rappresenti gli ex della Margherita.

È possibile, e anzi molto probabile, che questi siano i contraccolpi di lungo periodo della sconfitta dell'aprile 2008 alle politiche. Nei mesi successivi alla batosta si è fatto il possibile per evitare il confronto, per sfuggire a un faccia a faccia risoluto. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Striscianti minacce di scissione, attriti fra esponenti di vertice, musi lunghi in periferia.

In politica si capisce sempre 'dopo' ciò che si doveva capire 'prima'. E soprattutto, nel caso del Pd, non si è compreso che nella febbrile modernità postpolitica del nostro tempo non c'è più spazio per le ritualità di partito, per le ampie riflessioni, i sottintesi e il dare tempo al tempo.

In realtà il Pd è a metà strada fra il tradizionale partito di massa, radicato nel territorio e strutturato nell'organizzazione, e una galassia d'opinione. L'azione di Bersani e D'Alema tende a riportare in auge il passato. Veltroni aveva scommesso sul futuribile. Il risultato, fra laici, cattolici, presente e passato, è una continua tensione, che potrebbe mandare a pezzi l'ultima invenzione per non avere una sinistra eternamente minoritaria.

(20 febbraio 2009)
da sepresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Scomodo reporter
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2009, 02:17:20 pm
Scomodo reporter

di Edmondo Berselli


Non a tutti piace Riccardo Iacona, l'autore di Presadiretta su Raitre.
Il giornalista, accusato spesso di faziosità, ha il pregio di puntare le telecamere su realtà che non si vogliono vedere. 
A qualcuno non piace il giornalismo di Riccardo Iacona. Troppo unilaterale, addirittura 'fazioso' (come di solito si dice a destra, dove la faziosità è un programma politico e sociale). Ma Iacona è un reporter che ha il pregio di puntare la telecamera sulle realtà che non si vogliono vedere. Da questa prospettiva, le otto puntate di 'Presadiretta' per Raitre (in cui i suoi reportage si alternano a quelli di giovani giornalisti e documentaristi) sono esemplari. Migranti, scuola, lavoro, zingari. Proprio di Rom e Sinti parlava la puntata del 22 febbraio, dedicata alla 'caccia' ai nomadi (che quasi sempre nomadi non sono), in seguito replicata su Raisat Extra.

Ciò che sorprendeva, dell'inchiesta di Iacona, era il confronto tra la situazione romana e le soluzioni di Barcellona. Qui un campo di prefabbricati in estrema periferia, senza nemmeno l'acqua potabile, là un quartiere dignitoso in città. Troppo facile l'accostamento? Può essere. Comunque 'Presadiretta' ha mostrato il caso dei Rom trasferiti dalla comunità in cui vivevano a Roma da decenni a un lager; mentre il servizio dalla Spagna mostrava una condizione civile (gli zingari sono 150 mila in Italia e 750 mila sotto Zapatero: ma se non si risolvono i problemi, qualsiasi numero è un problema).

Troppo facile, allora, fare questi paragoni? Ciò che veniva fuori dalla puntata di 'Presadiretta' era un insegnamento semplicissimo. Le realtà, anche le più controverse, vanno governate. Se si mettono i Rom in un campo all'estrema periferia della Capitale, se si lascia marcire la questione, ci si possono aspettare problemi continui. Per risolverli, si potrebbe abrogare Iacona. Ma non è una soluzione.


(09 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI L'illusione al potere
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 03:51:28 pm
Edmondo Berselli


L'illusione al potere


La forza del governo è l'assenza di linea politica. Sostituita da ricette e idee estemporanee. Adesso lo si è capito: Berlusconi e i suoi uomini non rappresentano nessuna ideologia o linea culturale  Sarà la consapevolezza per cui è lunghissimo il tempo necessario prima di avere a disposizione una rivincita elettorale. Sarà pure la sensazione che l'opposizione è in difficoltà permanente, perché nulla nuoce alle forze politiche, in questa tarda modernità dove si conta molto o non si conta nulla, più dello stare fuori dal circuito del potere. Ma il sospetto che circola è che la società italiana si stia abituando a Silvio Berlusconi, e al suo stile di governo, ciò che va sotto il nome di berlusconismo.

Adesso lo si è capito: Berlusconi e i suoi uomini non rappresentano nessuna ideologia o linea culturale. Il liberismo sbandierato a lungo è diventato un antiliberismo cauteloso, gestito soprattutto dall'abilità di Giulio Tremonti, un maestro nell'instillare negli altri, alleati e avversari, acuti complessi di inferiorità. In questi ultimi tempi, la statura politica di Tremonti è molto aumentata, la sua capacità di descrivere l'andamento della crisi lo ha reso più credibile, e anche alcuni suoi provvedimenti, come i Tremonti bond, nonostante alcuni limiti tecnici difficilmente comprensibili, legati a un tasso d'interesse troppo elevato per le banche, sono apparsi una risposta significativa alla crisi del credito.

Non conta che le doti predittive del ministro dell'Economia siano state contraddette dalle sue misure empiriche (tipo la tassazione sui sovraprofitti delle banche, la Robin Tax, che ora ha assunto un risvolto grottesco). In questo momento la forza del berlusconismo è rappresentata dalla sua sostanziale assenza di linea politica. Soltanto con sforzi analitici immani sarebbe possibile ricostruire la girandola di provvedimenti veri e presunti che dovrebbero avere movimentato risorse per reagire alla crisi economica.

Tanto per dire, la crisi è stata a lungo negata. Poi minimizzata. Attribuita ai processi "autoavverantisi" della comunicazione globale. Adesso, mentre tutto il mondo cerca soluzioni per fare riprendere la circolazione del sangue nel corpo irrigidito del capitalismo tardomoderno, qui da noi Berlusconi ha lanciato un progetto di sostanziale liberalizzazione dell'edilizia, basato sul principio di buon senso antico secondo cui "quando va bene l'edilizia va bene anche tutto il resto".


Se si tratti di un provvedimento salutare lo diranno gli economisti, e se si tratti di un rischio di totale cementificazione del Paese lo chiariranno gli ambientalisti e i tecnici. Nel frattempo però non può sfuggire l'idea che siamo in presenza di una vera e propria invenzione estemporanea: di quelle idee che si formulano di solito nei bar, dove c'è sempre qualcuno che possiede la formula per risolvere problemi estremamente complessi con soluzioni infinitamente semplici.

Semplici sono le soluzioni di Berlusconi, le formule della Gelmini, le ricette di Brunetta. È probabile che non ne funzionerà neanche una, così come non ha funzionato l'invenzione paternalistica della social card, fallita in una serie di traversie tecniche e demografiche. Ma nello stesso tempo si ha l'impressione che proprio la sostanziale mediocrità operativa del governo e dei ministri risulti ben accetta a una parte consistente dell'opinione pubblica.

Il governo usa infatti la tecnica manzoniana del 'troncare e sopire', addormenta i conflitti, li orienta verso obiettivi facilmente identificabili come la Cgil, rassicura a parole e con il controllo sempre più stretto della televisione. Trasmette un messaggio che dice: "Va tutto quasi bene". Il governo lavora, progetta riforme straordinarie, "e grazie alla deflazione gli italiani hanno nel portafogli qualche euro in più". Poi la crisi diventerà più acuta, le riforme straordinarie risulteranno un papocchio, e la crisi si farà sentire di brutto. Ma a meno di catastrofi sociali non augurabili, il consenso non ne risentirà, perché a Berlusconi è riuscita l'operazione di accorpare intorno al Pdl la vecchia Italia corporativa, che non desidera cambiamenti e anzi li teme.

Per scalzare il consenso del blocco berlusconiano ci vuole una fantasia e una forza politica che il Pd non ha. Detto con parole più ottimistiche: non ha ancora. Ma per risultare minimamente competitivo, il Pd deve formulare un progetto semplice e moderno, capace di mobilitare il consenso dei propri elettori (anche dei delusi, i senza patria, gli esuli, come li ha chiamati Ilvo Diamanti su 'Repubblica') e di parlare a tutto il Paese. Se il centrosinistra non riesce a offrire un'idea alternativa di società, e un'idea convincente, Berlusconi vincerà sempre a mani basse. Perché a sinistra si è sempre scommesso sull'esistenza possibile di un'Italia migliore. Mentre ogni giorno che passa Berlusconi dice agli italiani: "Lo vedete, sono uno di voi".

(12 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI S'io fossi Littizzetto
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 11:58:34 am
S'io fossi Littizzetto

di Edmondo Berselli


L'ex "material girl" nelle sue ultime apparizioni televisive ci è apparsa un po' ripetitiva. Urge un rinnovamento del suo repertorio  Vista la puntata di 'Che tempo che fa' dell'8 marzo, dedicata a Luciana Littizzetto. Per lo scrivente era quasi un obbligo, perché siamo stati noi de 'L'espresso' a sdoganare sul fronte culturale la madamina, ai tempi del primo libro che avrebbe dato il via alla coltivazione di titoli su sedani, cavoli e piselli.

Ebbene: noi abbiamo un'adorazione, e anche qualcosa di più audace, per lei; ma lei, madama Littizzetto, sta battendo in testa. È diventata ripetitiva. Tutta una puntata a ridire che gli uomini farebbero bene a lavarsi i piedi, che ce l'hanno corto o credono di averlo corto (il che è lo stesso), e via ribadendo.

Fabio Fazio aveva la faccia professionale di chi è costretto a risentire per l'ennesima volta la solfa. Quindi, dovremmo consigliare alla formidabile Littizzetto un certo rinnovamento del repertorio. Perché prima era una ragazzaccia sboccata, fisica, 'material girl' nel vero senso del termine, con una comicità davvero 'slapstick' (in Italia non c'è quasi nessuno capace di farla: solo lei e Corrado Guzzanti).

Adesso sembra la parodia di una suocerina. Triste, diventare suocere prima di essere state mogli. Tuttavia il programma è stato riscattato dall'irruzione finale di Daniele Liotti, Massimo Ghini e Riccardo Scamarcio, che hanno celebrato la Littizzetto reinterpretando il celeberrimo 'S'i' fosse foco' di Cecco Angiolieri.

Una performance tutta scritta, in crescendo, sempre al confine con la volgarità senza mai cadervi: "S'io fossi di Trapani... ti trapanerei! S'io fossi di Chiavari", pausa, e ancora pausa, "ti... sorprenderei!". Un pezzo di televisione da antologia, una di quelle prove d'autore e d'attore che avvengono sì e no ogni dieci anni.

(20 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Democrazia elettronica Un falso mito
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2009, 10:43:23 am
SPETTACOLI & CULTURA      L'ANALISI

Democrazia elettronica Un falso mito

di EDMONDO BERSELLI


Impossibile resistere al successo in tv sancito dall'unzione del popolo. Alla preferenza guadagnata a furor di messaggini. Alla vittoria guadagnata con il televoto. Cioè a qualcosa che perfeziona e intensifica i dati dell'Auditel: perché con gli sms e le telefonate, i protagonisti delle serate televisive diventano a tutti gli effetti figure pubbliche, anzi, "quasi politiche". Una volta, la gran fabbrica del surrogato elettorale era la lotteria di Capodanno, ai tempi di Canzonissima: "Votate, votate, votate". Adesso chi accende i dibattiti famigliari è l'ultimo erede dei Savoia, Emanuele Filiberto, che ottiene un plebiscito a Ballando con le stelle, riscattando a passi di danza il referendum del 1946.

Oppure si discute del piccolo tamburino sardo, Marco Carta, che sbanca Sanremo grazie al consenso telefonico delle platee giovanili, spazzando via così il vecchiume del Festival. Non sfuggono a questa logica i divi per una stagione del Grande Fratello, che trasformano la loro casa-reclusorio in una permanente violazione della privacy, e quindi portano nella dimensione pubblica, da sottoporre al giudizio degli spettatori, qualsiasi inezia privata, le piccole trame quotidiane, le antipatie personali, i flirt estemporanei. Volendo, si può aggiungere anche il caso vistoso della fiction di RaiUno su Giuseppe Di Vittorio, fatta a pezzi dalla critica e santificata dall'audience: con la conclusione obbligata che, se i numeri hanno sempre ragione, anche Di Vittorio può avere a posteriori una chance politica, e quindi bisognerà spiegarlo per bene a Epifani e a Franceschini.

E dire che in passato i dati del gradimento televisivo venivano considerati pura entropia del consenso: secondo il teorico dell'homo videns Giovanni Sartori, c'è una caduta tendenziale del saggio di intelletto, per cui la televisione deve continuamente abbassare la qualità per alzare la quantità di spettatori. Il dilemma democratico si fa allora cruciale: come potrebbe dire Luciano Canfora (vedi il suo ultimo libro, La natura del potere, edito da Laterza, secondo cui la democrazia elettorale potrebbe essere una finzione che traveste e mistifica i luoghi del potere vero), i soggetti pubblici che televotiamo sono pallidi fantasmi, irrilevanti silhouette della società dello spettacolo.

Ciò che conta è la complessa sacralità del Sistema televisivo, che produce a getto continuo figure e figuri da sottoporre alla prova del voto. Oppure, in modo meno totalizzante, l'essenza dell'iperdemocrazia televisiva risiede nella dichiarazione immediata di voto, con il consenso che si fissa per mezzo di operazioni elementari attraverso il cellulare.
Sono momenti assoluti, irripetibili quanto gratuiti, di una bruciante democrazia elettronica, non troppo diversa dai sondaggi elettorali o dalle indagini di mercato; e anzi forse più evoluta, perché affidata interamente all'iniziativa dei singoli, all'sms che si forma sul display, a un capriccioso clic sul computer.

Dovrebbe risultare chiaro che alla fine si tratta di tecniche per colmare il vuoto spalancatosi nello spazio pubblico, per abbattere l'ansia politica, e anche per cercare un'opportunità di partecipazione vicaria: qualcosa di simile all'iscriversi a un gruppo di discussione su Facebook, non importa se di adoratori della fiction su Di Vittorio o di pensosi cultori del Nero di Avola. Quel che conta è dichiarare qualcosa di sé, aderire, ma anche sabotare, dichiararsi pro o contro, comunque esserci e farsi vedere.

Per questo, anche Emanuele Filiberto, va preso sul serio. È vero che come potenziale candidato del centrodestra e in passato ideatore di ondivaghi partiti politici, ma soprattutto come colui che in solido con il padre chiese 260 milioni di euro come risarcimento alla Repubblica italiana per i 54 anni di esilio dei Savoia, era privo di qualsiasi credibilità; tuttavia ridiventa subito più che credibile, unto dal televoto, non appena l'audience lo designa protagonista di un'epica domestica, ballerino provetto, cocco di una commossa Milly Carlucci, irresistibile trait-d'union fra l'Europa sussiegosa dei clan d'affari e l'atmosfera sudata e allegra delle balere televisive.

Certo che passare dal filosofo Tocqueville, che paventava la tirannia della maggioranza, alla dittatura del televoto, rappresenta una transizione piuttosto radicale. Tuttavia l'evoluzione risulta anche essenziale per osservare come il consenso politico tende a secolarizzarsi e a trasformarsi in puro indice di gradimento. Con il televoto il gusto si esprime senza filtri. Si riconosce nei protagonisti che ballano, cantano, litigano. La società si mostra per quello che è.

E allora, se si presenta un filosofo o qualcuno della prima Repubblica che pretende di spiegare come la democrazia sia una faccenda di mediazioni, basta cambiare alla svelta canale, e passare al prossimo televoto.


(24 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI L'incognita referendum
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:03:24 am
Edmondo Berselli.

L'incognita referendum

Il voto sulla legge elettorale apre un varco nel neonato Pdl. E al Pd conviene far leva su questa divisione  Silvio BerlusconiSecondo Silvio Berlusconi, ormai il Pdl è un congegno perfetto. Anzi, più che perfetto, una macchina infallibile per creare consenso. Giunto all'ultimo giorno del congresso di fondazione, ha dichiarato che i sondaggi danno il nuovo partito ormai al 44, forse al 45 per cento. E che l'obiettivo della nuova formazione politica, "il partito degli italiani", consiste nel guardare con audacia, anzi con la "lucida follia erasmiana" che il Cavaliere si è intestato, alla soglia del 51 per cento, la maggioranza assoluta.

Forse queste dichiarazioni rappresentano una specie di guerra preventiva. Contro chi? Ma contro la Lega, naturalmente, nonostante tutte le rassicurazioni sull'amicizia con Umberto Bossi. Nel momento in cui con le parole del suo capo il Pdl si qualifica come "partito degli italiani", tutto ciò che resta fuori dal suo perimetro, quindi non soltanto il Pdl e la sinistra, sono ridotti a una preoccupante opacità.

Sono tutti problemi risolvibili con la solita politica delle pacche sulle spalle, delle dichiarazioni di amicizia sempiterna e delle pizze notturne insieme? Può essere, ma poi c'è una questione piuttosto seria, ufficiale, concreta, che si prospetta come un ostacolo difficilmente aggirabile: si tratta naturalmente del referendum Segni-Guzzetta (che comporta l'assegnazione del premio di maggioranza alla lista, non alla coalizione, che prende più voti). Perché mettiamo il caso che il referendum facesse il quorum, e venisse approvato; in questo caso il Pdl potrebbe diventare autosufficiente e rendere così superflua l'alleanza con la Lega. Se per evitare questa ipotesi Bossi decidesse di fare cadere il governo, come è già stato ventilato, Berlusconi potrebbe agitare davanti al popolo italiano il vessillo del 51 per cento e correre da solo.

Naturalmente questa è un'ipotesi ancora molto teorica, e da questo punto di vista ha avuto ragione
Dario Franceschini a insistere sull'election day del referendum con le europee e le amministrative: non soltanto per ragioni di risparmio, quei 400 milioni di euro che gridano vendetta in tempi di crisi economica, ma perché in questo modo il referendum sulla legge elettorale potrebbe diventare un inciampo sul cammino della coalizione di destra.

Il referendum diventerebbe infatti un affare molto spinoso per la maggioranza. In primo luogo per la semplice ragione che non si vede come gli ex esponenti di An potrebbero evitare di impegnarsi su un referendum che avevano promosso (Gianni Alemanno ha già spiegato che sarebbe sbagliato tirarsi indietro). Va da sé che ci sono infinite diplomazie possibili, ma c'è anche un limite al ridicolo e al numero delle facce da esibire a seconda delle stagioni: è difficile sostenere a lungo che il Porcellum è una legge elettorale sbagliata, dare appoggio all'iniziativa referendaria e poi ritirare le corna dentro il guscio come lumachine prudenti.

Insomma c'è di mezzo anche un po' di dignità politica. Sarà interessante vedere come la destra proverà a sciogliere questo nodo. Specialmente come lo affronteranno Berlusconi e gli uomini a lui più vicini. Nei momenti critici l'attuale premier è sempre riuscito a inventare soluzioni funamboliche. Questa volta, tuttavia, il compito è più difficile del preventivato. A impegnarsi per l'astensione entrerebbe in attrito con gli ex An; a cavalcare il referendum si scontrerebbe con la Lega; fare il pesce in barile non conviene al grande Conducator. E quindi è un compito dell'opposizione cercare di valorizzare le contraddizioni implicite nell'alleanza di destra.

Non è ben chiaro se il Pd abbia una vera convenienza a scegliere di appoggiare il referendum. Ma intanto ha un interesse serio a cercare di liquidare la legge Calderoli: la sconfitta diWalter Veltroni nel 2008 è avvenuta anche perché l'allora leader del Pd ha giocato concettualmente una partita con il maggioritario mentre gli avversari disputavano il match con il proporzionale.

Dunque conviene darci dentro. Il Pd non ha da perdere che le sue catene. Il dito nell'occhio alla sinistra antagonista l'ha già messo con l'approvazione dello sbarramento del 4 per cento nella formula elettorale per le europee. E allora tanto vale tirare un po' di peperoncino in un sistema elettorale approvato per avvelenare i pozzi alla fine della legislatura berlusconiana (2001-2006), per impedire all'Unione di governare, e che ha sempre favorito la destra. Altrimenti bisogna aspettare che la "stagione costituente" la apra Gianfranco Fini, e che arrivi in proposito il beneplacito di Berlusconi, che D'Alema convinca i diffidenti, e che Di Pietro non gridi all'inciucio. Troppe condizioni, troppe riserve mentali e politiche. Alla fine, meglio un bel calcio alla scacchiera.

(03 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il paese normale
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 10:07:02 am
Edmondo Berselli


Il paese normale


Il berlusconismo normalizzato mette ai margini tutti gli altri. Sono out quelli che si indignano, i fissati che vedono la mafia nella economia. L'irrealtà rischiamo di essere noi  Sarebbe meglio accorgersi alla svelta di un fenomeno insidioso, cioè di una fase diversa del berlusconismo. Complice l'emergenza, complice il terremoto, complice la crisi economica, complice la fragilità delle opposizioni a cominciare dal Pd, la società italiana si sta abituando a Berlusconi. Già. L'Italia 'normale' è quella di Berlusconi, azione di governo e decisioni rapide. Efficaci? Boh. Eppur presenzia. Andrà alla celebrazione del 25 aprile, per la prima volta. Critica con sufficienza padronale la lottizzazione patrimoniale dell'informazione Rai, alza le spalle davanti alle accuse di fare le nomine a casa sua ("Lo faccio per risparmiare allo Stato le telefonate private"; "E prima dove li facevano, questi vertici?"). Si propone come il vero depositario del buonsenso in un paese infestato da untori fanatici.

Insomma dopo il presidente donnino, il presidente operaio, l'unto del Signore, quello dell'amaro calice, ecco finalmente il Presidente Italiano, somma o meglio sintesi della medietà nazionale. Berlusconi iperbole dell'italiano medio, e anche dell'italiana media, per virtù seduttiva innata. "Avesse una puntina di tette", diceva infatti Enzo Biagi, "farebbe anche l'annunciatrice": la battuta è antica, ma quando una battuta diventa verità e rafforza ogni giorno se stessa diventa un dato genetico, una rivelazione, una totale verità.

Il fatto è che non siamo ancora all'appeasement con il capo del Pdl, dopo 15 anni di strattonamenti, a corpo a corpo, lotte e attacchi, risate e dissimulazioni, menzogne e ipocrisie. La pacificazione semmai l'hanno fatta gli establishment e le corporazioni, con l'Alitalia e i benefici fiscali via tolleranza all'evasione. Tuttavia la società nel suo complesso, anche se non ha fatto la pace, comincia ad abituarsi. Ad assuefarsi. Vabbè, non è un governo di prima classe, è fatto di personalità trovaticce, i risultati sono dubbi, le invenzioni estemporanee superano del tutto i progetti, c'è molto più potere che amministrazione, erano liberisti e sono diventati protezionisti o chissà che cosa, la politica sull'immigrazione è catastrofica e la sicurezza lasciamo perdere, erano liberali e sono diventati ratzingeriani.

Ma, si dà il caso, è l'unico governo che c'è. Le alternative non si vedono (l'ultima alternativa ce la siamo giocata con il biennio di governo caotico 2006-2008 e con la 'vocazione maggioritaria'). E quindi sarà bene capire che l'assuefazione generale a Berlusconi e al berlusconismo è una questione politicamente scivolosa. Non per confermare quelle certezze antropologiche dei grandi scettici e cinici alla Longanesi, quelli che hanno sempre sostenuto che il popolo italiano è una corte di conformisti e servi, pronti a seguire il padrone di turno. Tutte storie. Il paese si è addormentato per una quantità di motivi, dalla perdita delle culture, dal degrado della vita civile, dal disastro dei processi di formazione, fino alla sostanziale abdicazione civile della sua classe dirigente e dei suoi clan, come anche per l'ipnosi profonda prodotta dalle reti televisive Mediaset e controllate e quindi l'atomizzazione in una individualità implosa.

Sì, sarà la risposta, ma non è tutto così: al margine del berlusconismo e dei suoi officianti, fuori dalla pappa delle soubrette e dei terzini, delle rifatte e dei palestrati, dei cocainomani sociali e dei talent show, c'è ancora un'Italia civile e civica che tiene. Ancora piena di passioni, con accenni di impegno, rivolta a temi solidali. Non illudiamoci. È l'Italia dello spazio esterno. Fuori dai confini del reale. Fuori dalla foto. I famosi ceti medi riflessivi. Quelli che prima di consumare ci pensano, quelli biologici e ambientali. Quelli che credono ancora nei contratti collettivi. Quelli che si fermano con il giallo, che rispettano le regole, magari anche quelle non scritte, e che ancora pensano ci sia in prospettiva un'Italia moderna e ispirata a una simpatia per gli altri, i meno privilegiati, quelli che ce la fanno a stento o non ce la fanno più.

Ecco, potrebbe sembrare un moralismo babbione, e si potrebbe finire tutto questo con l'esecrazione dei telefonini e di Facebook. Ma non è questo il senso: il berlusconismo normalizzato mette ai margini tutti gli altri. Chi resta fuori è qualcuno che ulula alla luna. Sono out quelli che si indignano, i fissati che vedono le infliltrazioni mafiose nell'economia, coloro a cui continua a sembrare inconcepibile una democrazia che non sia contendibile, quelli che si attaccano alla Costituzione. In questo modo, la realtà è Berlusconi. L'irrealtà rischiamo di essere noi. Se non ce ne rendiamo conto, siamo destinati a danzare nel vuoto, pallide figure di un mondo che non c'è più.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Annozero voto zero
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 10:13:09 am
Edmondo Berselli.


Annozero voto zero


La trasmissione di Santoro inizia a perdere smalto: stucchevole il confronto tra l'avvocato Ghedini e Antonio Di Pietro nell'ultima puntata e deludente anche la performance di Sabina Guzzanti  Dunque, il re fa il mattocchio e cacciano il giullare. Secondo i critici di destra Santoro aggiunge danni al terremoto, e allora ostracizzano Vauro.
Quindi puntata di 'riparazione', con Michele che prende tutti in giro e vince l'auditel a mani basse.

Purtroppo 'Annozero' ha i suoi problemi. Bene Travaglio che recita pezzi di cronaca dedicati a Berlusconi marcando una tipica retorica da Ventennio; purtroppo in studio c'è l'avvocato Ghedini, un sofista, il quale si straccia le vesti perché così facendo si offendono Bertolaso e Letta, due monumenti che il mondo c'invidia, e questo non sta bene.

Filmati, crepe dall'Aquila, condomini fatti con materiali di scarto, donne amareggiate: ma il clou dovrebbe essere un confronto fra il suddetto avvocato Ghedini, difensore del piano casa di Berlusconi, e Antonio di Pietro. Ne viene fuori un minuto di orrore, con i due protagonisti che parlano insieme urlando senza che si capisca un benamato accidente. Alla fine il pubblico, non sapendo che fare, applaude.

Poi vignette di Vauro in diretta telefonica, le solite robe di giovani ad 'Annozero', e l'atteso show di Sabina Guzzanti che in veste di giudice meridionale conduce una requisitoria contro l'orrendo Vauro. La prestazione lascia raggelato il pubblico; non un applauso, non una risata in tutto il piccolo show.

Alla fine un tipo che ha guadagnato notorietà perché rifiuta i contributi di solidarietà agli abruzzesi, dato che paga le tasse e non ha colpa del cinquantennio precedente, conclude a urla: bisognerebbe sospendere per un anno lo stipendio ai parlamentari. Il civilissimo e progressista, nonché consapevole e antipopulista, pubblico di Santoro, erompe in un'ovazione.

Ma dai: voto zero.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Super Silvio show
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 11:45:09 pm
Super Silvio show

di Edmondo Berselli


Ci mancava il divorzio del Capo nel circo di Berluscolandia. Il clou di quello che è diventato il reality più amato dagli italiani. Che ha per protagonista assoluto il premier. E come spettatori un intero paese  Finisce, se poi finisce davvero, la storia estrema del berlusconismo punto 1: il computer italiano si resetta, e il nuovo codice di Matrix, opportunamente 'reloaded', proietta sulla Penisola un nuovo pirotecnico game show patrimoniale. Cioè il "sultanato", "la peggiore delle corti", come illustra nell'ultimo libro Giovanni Sartori, il politologo che dal canto suo si sarebbe accontentato di scorticare l'homo videns, cioè il golem sociale creato da Berlusconi. E una sorta di nuovo 'Truman Show' per la vittima designata, Veronica Lario, messa al centro di un reality lapidatorio. Platee immense e irriflesse per una Weltanschauung televisiva fatta di curve e Wonderbra, cioè più prosaicamente tette e culi, come ebbe a riscontrare nel 1994 lo scrittore cattolico Vittorio Messori a proposito delle reti Fininvest,'per cui Dio non è neanche un'ipotesi'.

Dietro questo epos scatenatosi nella politica e nella società post-italiana, c'è una narrazione totale, un'opera mondo che non è diventata romanzo autentico, rispecchiamento totale e ottocentesco di un'epoca, perché esisteva bensì il protagonista, figurarsi, addirittura il deus ex machina, ma non il narratore. C'era il balzacchismo, ma non c'è Balzac. I 'Demoni' senza Dostoëvskij. Proust senza madeleine e le nevi d'antan. E da anni nemmeno l'anarchismo borghese di Indro Montanelli, cronista ed esorcista di Sua Emittenza.

Il circo di Berluscolandia ha frullato dentro di sé ogni lembo di pelle della creati vità secolarizzata; e magari la sorpresa è che la Cei se ne sia accorta con quindici anni di ritardo, dopo le mille evoluzioni del pensiero "mettiamolo alla prova", fra i progettini culturali di Camillo Ruini e gli interessi di una gerarchia a storia azzerata, piena di unzione per l'Unto, e convinta di trarne benefici, sui soldi, sulle scuole cattoliche, addirittura sull'"etica" e i "valori". Adesso 'Avvenire' reclama sobrietà, cioè più o meno chiudere gli studi tv a vacche scappate. E il Cavaliere si preoccupa delle ricadute elettorali, perché un divorzio molto d'autore, spettacolare e mediatico, potrebbe scalfire il fantastico 75 per cento di popolarità, "tre italiani su quattro che mi approvano", e si identificano con la sua italianità al cubo.

'Non perderò il voto dei cattolici alle europee', giura a dispetto di tremolanti sondaggi laici e malumori vaticani, e per questo deve trascinare "la signora" in una pochade disordinata, in uno scambio di slealtà politiche e morali, dentro una macchinazione ordita da 'la Repubblica', e via alla caccia al "sobillatore", nonché dalla stampa di sinistra che non regge il suo trionfo travolgente. Lei, l'unicum Veronica, era emersa splendente 15 anni fa nella notte della reggia di Caserta, allorché Silvio ammicca alla luna, e a Bill e a Hillary Clinton, "attenzione che qui si aumenta la prole": la steineriana, la pacifista, la pannelliana, l'irenica, l'appenninica, la ragazza di sinistra, l'epicentro new age di un circuito femminile molto attento al 'genere' e ai suoi riti culturali, poteva soltanto inorridire davanti alla volgarità del piccoletto superdotato al meeting in formato 'world' (naturalmente non era ancora nato il Sarkoberlusconismo, con gli amori da Eliseo fra il leader francese e la diva Carlà, e un circuito erotico mondano assai più chic delle feste sarde, finti vulcani rinascimentali compresi).

D'altronde, era prevedibile che un tipo con l'energia mentale di Berlusconi fosse chiamato a squinternare un intero mondo. La 'robba' alle spalle, gli affari al sicuro a dispetto delle vecchie irrisioni di D'Alema, il tutor Confalonieri a presidiare il trust, e il Parlamento a tutelare il conflitto d'interessi. Davanti a sé una politica da inventare giorno per giorno, prima con i professori d'area, come i Pera, i Melograni, e poi con l'invenzione quotidiana e siderale, il cortocircuito postfascista, lo scoperchiamento del vaso di Pandora dell'anticomunismo, a comunismo liquidato, il meno tasse per tutti, il tremontismo, il brunettismo, i "socialisti di Forza Italia", il predellino in San Babila, il filo egemonico del 51 per cento per il Popolo della libertà. Già, ma non c'era traccia della Camelot di Kennedy e Jacqueline, fra Macherio e Arcore.

C'erano storie brianzole e napoleoniche di mausolei di famiglia: "Indro, vuoi favorire? Per me sarebbe un onore" (rapida toccata tombale di zebedei dell'altissimo giornalista), gli attentati carineria dello stalliere Mangano, "dal suo punto di vista un eroe", s'intende per i silenzi. E soprattutto divagazioni virili come lo storico jogging alle Bermuda, con la squadra di Dell'Utri e di Gianni Letta tutta schierata in ordine di corsa, e a Roma l'altro eroe Cesare Previti e i giudici sotto pressione, i circoli, l'Aniene, i Canottieri, via del Plebiscito, via dell'Anima, le vie di un potere che si fa metafisica. In questa realtà politica privatizzata, "la signora', forse già allora sventurata vittima di cattivi consigli e furbizie da sinistra, faticava a trovare una funzione. Non first lady, non Second Life, non interprete intellettuale, se non quando scrive di pace per 'Micro- Mega', e fino a quando si infuria e invade il giornale nemico 'la Repubblica' con la sua lettera lamento per essere divenuta "la metà di niente".

'Tendenza Veronica', scrive la sua amica Maria Latella, affidandola idealmente a un vettore di reincarnazioni, insomma un karma politico-esistenziale, che la seconda moglie del Cavaliere non sembra in grado di seguire, schiacciata dalle trovate mozzafiato di un vecchio istrione, che dopo i mignottismi con le starlet le si presenta in Marocco, bardato da beduino, a farsi perdonare con il brillante donato nel corso di una ondeggiante danza berbera, genere Silviò le Mokò.
Perché nel frattempo il marito, quello delle zie suore, il cattolico che si disanima perché la Chiesa non gli lascerebbe fare la comunione e partecipare all'Ecclesia, è decollato, ha dato del kapò a Martin Schultz all'Europarlamento, fra i "turisti della democrazia', ha inflitto le corna allo spagnolo nella photo opportunity, offende le ministre straniere a pranzo ghignando "ma perché non parliamo un po' di calcio e di donne?", e affonda: "Comincia tu, Schröder, che di matrimoni ne hai avuti".

L'impostatissimo cancelliere tedesco vacilla, così come aveva barcollato ignaro il Rasmussen eletto a miglior rivale di Massimo Cacciari, professione amante filosofico di Veronica ("Sapete quel che si dice, no, povera donna?"); così come aveva piegato il ginocchio la premier finlandese, 'corteggiata' per l'autorità alimentare europea, e quante proteste dallo staff di Helsinki, gente fredda, gente povera di spirito. Forse un tratto di umanità familiare e domestica poteva in effetti venire fuori dagli incontri internazionali di loisir, con Tony e Cherie Blair dopo il trapianto a Ferrara e con la bandana da 'Pirati' di Roman Polansky. Ma oltre alla filibusta si era profilato lo spettro della guerra in Iraq, con Wojtyla che gli aveva inveito contro. E non era stato di gran classe l'incontro con l'amico Putin e il Bagaglino reclutato per l'occasione, non la visione delle sequenze del 'Caimano' di Nanni Moretti ("Un film orrendo") con gli ultimi incendi che bruciano i resti di una democrazia istituzionalmente scalcagnata e ormai, nell'allegoria cinematografica, visibilmente eversiva.L'ultima curvatura della tendenza Veronica, a parte le faccende di avvocati e di soldi, consiste nel suo rifiuto a rivelarsi per quello che il Cavaliere ha confessato con i gesti da tempo: ossia che Lui evidentemente si credeva di avere la moglie giovane, e si è ritrovato fra le ville una suocera, inselvatichita dal risentimento, insofferente delle zingarate notturne ed elettorali del vecchio complice. Figurarsi, lui due ore in discoteca alle tre di notte per dimostrare ai giovani di essere in tiro. L'irruzione nella vecchia sezione romana ex Pci per vedere dal vivo le mummie del comunismo capitolino diventate democratiche.

Il "ciarpame senza pudore" delle candidature velinonze alle elezioni europee, secondo'la solita trappola della sinistra e lei c'è cascata, e adesso dovrà ammettere l'errore'. La nottata a Casoria di 'Papi' con Noemi, "sia chiaro che non frequento minorenni', però fra un raid e l'altro nel sottosviluppo metropolitano, con relativa dispersione psicologica negli ambigui hinterland del consenso? Ma era già successo tutto già da qualche settimana, e da qualche anno: il mondo di Berlusconi era esploso in un fuoco artificiale di quelli da festa a Porto Cervo. Dopo il tragico esordio del G8 di Genova, più tardi la sindrome diplomatica di Pratica di Mare, ballon d'essai della politica estera fatta con il compensato, era diventata ammirazione compunta per i muscoletti afro di Condoleezza Rice e i bianchi glutei palestrati di George Bush. Il suo consigliere Giuliano Ferrara, con il giornale finanziato da Veronica, ha sempre sostenuto che Berlusconi è un singolare misto di buonsenso esplosivo e di esasperazioni pop. Che sia un'icona a scoppio, è indubbio.

Che Veronica abbia avuto la desolante sensazione di essere ormai fuori dalla realtà vivibile, nello spazio esterno dominato dalle cyberpassioni di un misirizzi atomico, l'atletico sciancato di Vicenza, il tarantolato del sisma, il "tumorato di Dio" come lo chiamò Gianni Baget Bozzo, il 'teghnico' del Milan a due punte, anche questa è una certezza. E ci mancava, dopo il presidente operaio, e il presidente spazzino a Napoli, ci mancava, per lo sfondamento finale, il terremoto e il presidente partigiano, con le insegne della brigata Maiella. Ma no, neppure questo bastava: si era dovuta vedere la scena da italiano vero con Angela Merkel, l'indice puntato sul cellulare per segnalare la telefonata ultimativa al premier turco Erdogan, fino alla stoccata vociante al cospetto della regina Elisabetta,'Mr Obamaaa? I'm Mr Berlusconi?".

Adesso succederà l'inevitabile, come annunciato nelle intervistine confidenziali del premier ai direttori del 'Corriere' e della 'Stampa', Ferruccio de Bortoli e Mario Calabresi, con storielle e moniti che attengono al campo delle solidarietà virili e alle avvocatesche minacciosità matrimoniali, ribadite a Bruno Vespa. "Veronica dovrà chiedere scusa".

Va da sé che questa Dynasty incattivita non terminerà come nella 'Guerra dei Roses'. Ma comunque finisca, c'è poco da fare, il Berlusconi-Lario 'reloaded', storia privata esposta clamorosamente in pubblico con tecniche da Partido rivolucionario institucional, ha tutta l'aria di avere fatto girare random il software nazionale e l'aria italiana, facendo risuonare nei cieli armoniche e amori di contrabbando: in un clima da faccia triste dell'America, di uno strazio firmato Enzo Jannacci che inevitabilmente si chiama e si chiamerà per sempre, nel nome di un kitsch tutto latino e casinista, 'Messico e nuvole'.

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Berlusconi modello Haider
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:02:48 am
Edmondo Berselli


Berlusconi modello Haider


Il suo no alla società multietnica rilancia pulsioni prepolitiche per un consenso egemonico sul terreno culturale 

L?annuncio di Silvio Berlusconi «No alla società multietnica» rischia di essere un autentico manifesto culturale per l?Italia di destra. Il capo del Popolo della libertà non fa nulla per nulla. Ogni sua misura politica è funzionale a un disegno di ricomposizione sociale e ideologica. E oggi si ha l?impressione che l?intento berlusconiano sia quello di rendere più compatta la fusione tra le componenti della destra.

Ha scarse possibilità di venire a patti con le frange finiane di An, in cui il presidente della Camera raccoglie sensibilità radicalconservatrici e nello stesso tempo modernizzanti, secondo una prospettiva ispirata a moduli di ispirazione all?incirca francese. Berlusconi invece ha bisogno di riunire in un quadro concettuale pulsioni esplicitamente italiane, nazionali, domestiche, con l?obiettivo di realizzare davvero il Partito degli italiani, quello del 51 per cento.

Per riuscirci, non ha bisogno affatto di modernità. Nel Centro del paese ha più che altro la necessità di stringere i bulloni del potere con i suoi uomini, assicurando l?opinione pubblica che non tanto il governo conta (il governo è in realtà una tellurica parata di annunci e di presenzialismi), quanto l?amministrazione del potere, attraverso la fitta genia dei Martusciello locali.

Nel Sud, conta la capacità di stringere cartelli di clientele, sempre sismici organizzativamente, sottoposti alle manovre di uomini come Raffaele Lombardo, ma comunque gestibili perché anche i ?clientes? sono sensibili agli assetti di lungo periodo, soprattutto dove il territorio politico e il consenso sono presidiati con efficace pressione persuasiva. La questione, come sempre, nasce al Nord, perché nelle regioni settentrionali il faccia a faccia con la Lega è evidente: Bossi e Berlusconi sono nello stesso tempo alleati e rivali, competitivi su elettorati analoghi, gelosi della propria qualificazione identitaria.


Per questo il proclama di Berlusconi, con quel ?no? così enfatico alla società multietnica, ha dettato il senso di un implicito manifesto ideologico. È presto per definire una sorta di ? heiderizzazione? del premier. Ma non è affatto prematuro vedere nell?azione berlusconiana le premesse per una svolta netta. Lo hanno colto segmenti del mondo ecclesiastico, le organizzazioni di volontariato, frange vaticane, i cattolici con la barba e il mal di pancia politico. La popolarità di Berlusconi, tutta da verificare sul piano empirico-elettorale, e sul terreno dell?efficienza governativa, è tuttavia impressionante nella capacità di fabbricare un composto di consenso egemonico sul terreno culturale.

Vale a dire che in questo momento il centrodestra sembra potersi permettere quasi tutto. È vero che non ha più una cultura politica ed economica, dato che il suo tardoliberismo da cortile si è inabissato con la crisi globale e le ricette caotiche del governo (vedi il penoso fallimento anche morale di Robin tax e social card, nonché i decantati incentivi agli straordinari, favola bella della recessione che ieri illuse anche i confindustriali). Ma nello stesso tempo sembra in grado di rilanciare una serie di pulsioni prepolitiche, che si rivolgono alla pancia del Nord. Allarmi securitari, revanscismi imprenditoriali, sostanziale indifferenza, se non proprio diffidenza esplicita dal basso, verso le proiezioni internazionali di un gruppo come la Fiat.

In un contesto simile, Berlusconi ha bisogno di chiamare a raccolta proprio il suo «popolo »: gli occorre una specie di sfondamento che non può avvenire sui numeri dell?economia (ma andiamo, con le imprese attaccate all?ossigeno alla cassa integrazione), ma può invece verificarsi nella composizione di un blocco sociale in grado di occupare le regioni del Nord. Non è detto che l?operazione riesca in modo integrale, anche se ci sono buone possibilità, e Berlusconi ha cominciato a ricordarle con insistenza, di omologare le ultime province in mano alla sinistra alla filiera della destra.

Purtroppo tutto ciò sta avvenendo mentre dà segni evidenti di sfaldamento e di decrepitezza l?establishment del Pci trasbordato nel Pd. E quindi la resistenza è smorta. I segnali di smobilitazione, se non di vero degrado, si diffondono. Berlusconi intravede quindi la possibilità di una svolta anche emotiva: basta con le complicazioni sociologiche, avanti con l?azione di contrasto sulla sicurezza e i clandestini, reale o figurativa che sia, procedere all?occupazione completa degli spazi civili e soprattutto corporativi del Nord.

Con Bossi e Maroni la «quadra» si trova, a dispetto del referendum. Con il paese Italia, e la sua complessità multietnica, potrebbe per il momento essere sufficiente procedere a forza di proclami.

(15 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Beppe Grillo e il re nudo
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 04:54:31 pm
Beppe Grillo e il re nudo

di Edmondo Berselli


La candidatura del comico genovese - amatissimo dal popolo del web - alla guida del Pd, avrebbe offerto al centrosinistra una chiara opportunità di riavvicinarsi al suo elettorato  Beppe GrilloÈ un'ottima notizia che Beppe Grillo si sia candidato, con le sue maniere scandalistiche, alle primarie del Pd. Così com'era apparsa un'altra eccellente notizia la candidatura del 'terzo uomo' Ignazio Marino. Questo perché il Partito democratico, di qui a ottobre e comunque per il futuro, ha un disperato bisogno di rientrare dalla realtà virtuale alla realtà reale. Finché Marino parla di laicità, nessuno può misurarne lo spessore effettivamente politico e la capacità reale di aggregare consenso. Si tratta di un fenomeno etico-mediatico.

Così come quando parlano i 'giovani' del Pd, nessuno è in grado di valutare l'effettiva qualità politica delle loro posizioni. Le parole di Debora Serracchiani e la prosa dell'emergente Giuseppe Civati, a un esame disincantato, sono ancora intrisi di politichese, e in ogni caso rappresentano il segnale che la preoccupazione fondamentale del Pd, fra giovani e vecchi, è la costituzione del partito: tradotto in termini volgari, l'occupazione e l'organizzazione di spazi di potere.

Niente di male, la politica è anche questo. Ma ogni posizione va portata dentro la realtà vera. Cioè va misurata. Altrimenti rimane un bluff. La candidatura di Beppe Grillo inserisce un primo elemento di verità perché costringe a rivelare il bizantinismo dello statuto del Pd; ne inserisce un secondo, molto più forte, perché se effettivamente colui che i telegiornali di regime chiamano "il comico genovese" parteciperà alle primarie di ottobre, avremo la possibilità di conoscere la sua consistenza effettiva, numerica, quantificabile, tutta al di là dell'alone mediatico dei blog, dei Vaffa Day, del facile consenso degli 'indignati'.

Fra i molti problemi della sinistra c'è quello di trascinarsi dietro una scia di rancori che assumono un rilevo emotivo molto intenso, ma non sembrano in grado di trasformarsi in una posizione politica razionale. Rabbie, proteste, frustrazioni animano "un volgo disperso che nome non ha", per citare il Manzoni, senza che questo vortice di antagonismi trovi una sintesi. Grillo, per dire, gliela offre.


Bisogna vedere se avrà il coraggio di andare fino in fondo, accettando il responso del giudizio popolare alle primarie; oppure se invece approfitterà del palcoscenico offerto da "una sinistra del nulla" per urlare le sue idee eco-antagoniste, movimentare le piazze con il giustizialismo e poi tirarsi indietro, come talvolta fa, senza accettare il confronto e tornando al calore rassicurante e politicamente inutilizzabile del suo quasi-movimento.

Insomma, c'è qualcuno che deve sbattere il grugno contro la verità, e vedere come ne viene fuori. Ne è venuto fuori malissimo, praticamente alla prima uscita, Marino, anzi, è uscito in modo grottesco con la storia della questione morale a proposito dello stupratore seriale responsabile di un circolo democratico romano. Si può non amare Massimo D'Alema, ma come si fa a ignorare ciò che ha detto in una memorabile intervista pubblica con Antonio Polito al Democratic Party di Roma? D'Alema dixit: si scagliano tutti contro gli apparati, ma io per le ultime elezioni ho fatto 130 manifestazioni nel Sud e quelli che parlano con disprezzo degli apparati non hanno mosso un dito. A Crotone, ha aggiunto D'Alema, provincia rossa, con 25 comuni su 27 amministrati dalla sinistra, siamo riusciti a presentare sei candidati di centrosinistra, di cui due del Pd, e siamo riusciti a perdere.

Il senso del discorso dalemiano è indiscutibile. Qui non è in gioco il partito 'bocciofila' di Pier Luigi Bersani (ma che cosa avrà voluto dire?) e neanche la dislocazione di potere fra le varie stalattiti di potere che vengono dal passato del Pd e dalle furbizie e dagli opportunismi odierni dei vari leader, veri e presunti. È in gioco una prospettiva di sopravvivenza per la sinistra, e non soltanto quella riformista. C'è qualcuno che ha sentito parlare di una cultura? Di indizi di una politica? Grandi discussioni, molto ispirate, su come il Pd deve essere, e balbettii pensosi su che cosa deve fare politicamente.

Per questo non ci si può permettere di esorcizzare Grillo come ha fatto Piero Fassino, segnalando il rischio 'Helzapoppin''. La politica è la politica, chiunque entri in campo. Dopo di che, chi ha qualcosa da dire, ma di reale e oggettivo, parli, discuta, convinca. Altrimenti c'è solo conformismo, convenzioni, politica politicante. E Grillo non vincerà le primarie, ma se è appena capace mostrerà la nudità del re.

(17 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La marcia del cattolico libertino tra squillo, Vaticano e ...
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 06:48:08 pm
27/7/2009


La marcia del cattolico libertino tra squillo, Vaticano e Padre Pio

di Edmondo Berselli - da La Repubblica


Secondo il cinismo della cultura prevalente nel circuito di potere berlusconiano, il cattolicesimo italiano è sufficientemente adulto per saper distinguere fra i comportamenti personali, eventualmente deplorevoli, e la funzione pubblica praticata da un leader politico.

Quindi la prostituzione di regime messa in piedi a Palazzo Grazioli apparterrebbe a uno stile di vita "folk", da considerare con un sorriso di complicità. Si tratterebbe in questo senso di un tocco sovrano di eccentricità, il "Berlusconi's Touch", in cui il "presidente puttaniere", come il Sultano si è definito, costituisce un gustoso tratto personale, a cui anche i cattolici convenzionali guardano con una sottaciuta simpatia.

Sono bugie, finzioni, mitologie. È la cortina di menzogne che i principali collaboratori del presidente del consiglio, a cominciare dall'avvocato Ghedini, hanno cercato di alzare intorno al capo del governo. Una volta chiesero a Bettino Craxi, rifugiatosi a Hammamet, un giudizio su uno dei suoi numeri due, Giuliano Amato: "Un professionista a contratto", rispose con tutta la malevolenza possibile Craxi. Ora Berlusconi di professionisti a contratto ne ha molti. Ma il suo stile e le sue notti di fiaba sono difficilmente neutralizzabili dai professionisti al suo servizio: e non vengono stigmatizzate ieri soltanto dall'Observer ("un governo marcio") e dal Daily Telegraph ("premier libidinoso"): la stampa inglese mette in rilievo il tentativo berlusconiano di riguadagnare consenso nei confronti del mondo cattolico meno mondano e più tradizionale, per quel "popolo" ancora convinto delle verità contenute nel sesto e nel nono comandamento.

Ma non sarà il progetto di visitare il sacrario di Padre Pio a sanare la ferita, vera, che si è aperta nella psicologia del cattolicesimo qualunque. Per almeno due terzi dei cattolici italiani, abituati da decenni a trovare un'ancora nella Democrazia cristiana, Forza Italia e il Pdl erano rimasti una garanzia ideologica e "spirituale", anche contro nemici invisibili, "i comunisti" continuamente evocati dallo spirito quarantottesco del Cavaliere. Scoprire la vera qualità dei comportamenti del Capo è stato un trauma.

Perché un conto è conoscere l'impronta culturale delle tv berlusconiane, nate e cresciute cullando il consumismo, l'edonismo, il culto del corpo, tutti i totem di una religione alternativa al magistero della Chiesa, Al massimo i cattolici vecchio stampo, di fronte allo spettacolo di centinaia di centimetri quadrati di epidermide, si vergognano un po', e si consolano con la versione ufficiale esibita in ogni occasione dai leader di Forza Italia: tutti specializzati nel manifestare un cattolicesimo conformista e pronti a ogni pratica da baciapile per assicurare la loro fedeltà, laica e devota insieme, alla gerarchia.

Per strappare il velo di questa ipocrisia, e rivelare l'insostenibilità di queste acrobazie fra la bigotteria e la spregiudicatezza politica, ci voleva qualche gesto vistoso. Non il pronunciamento di un settimanale assai critico verso il berlusconismo come "Famiglia cristiana" o di altri organi e personalità del cattolicesino conciliare, dossettiano e più meno di sinistra, Ci voleva l'intervento del quotidiano della Cei, "Avvenire", e del suo direttore Dino Boffo. Si può capirne l'importanza e lo spessore anche ex contrario, valutando il silenzio praticamente tombale (e non si tratta di ridicole tombe fenicie) con cui è stato accolto dall'informazione italiana. Boffo ha pubblicato tre lettere, in cui i lettori mettono in rilievo alcuni aspetti critici particolari, Il primo aspetto investe la "sfrontatezza" del premier e l'incongruenza tra vizi privati e pubbliche virtù. Subito dopo viene la critica alla riluttanza della gerarchia a prendere una posizione netta verso lo stile di vita di Berlusconi, cioè riguardo a "comportamenti improponibili per un uomo con due mogli, cinque figli, responsabilità pubbliche enormi e un'età ragguardevole".

II direttore di "Avvenire" non si è tirato indietro. Il Berlusconi licenzioso induce a parlare di "desolazione". Esiste, anzi dovrebbe esistere, un a priori etico che ha valore prima delle strategie politiche e delle dichiarazioni formali, Il "sondaggismo", cioè il consenso volatile costruito dalle indagini demoscopiche ben orientate, non assolve nulla, Ecco, la fiducia che premierebbe comunque il buon cattolico, "il padre di famiglia", che ammette ridendo "non sono un santo" è un'invenzione della scaltrezza dei professionisti a contratto del giro berlusconiano.

In realtà c'è un'Italia cattolica sicuramente moderata ma forse non ancora istupidita dai giochi di prestigio dei maghi della destra. È un pezzo di società poco conosciuto, che non si fa sentire, difficilmente voterà a sinistra, ma è perfettamente in grado di togliere la fiducia a un leader politico, e di sgretolarne la base di compenso, Per questa base cattolica, il pellegrinaggio a Pietrelcina e nei luoghi di Padre Pio contiene una strumentalità talmente plateale da generare addirittura un'insofferenza ulteriore. Il paese, come scrive Boffo a proposito della sfasatura fra il Berlusconi politico e il Berlusconi più ludico, potrebbe sentirsi "raggirato".

Ebbene, la Chiesa è un organismo complesso, e la realtà cattolica non è identificabile con gli stereotipi. Forse in questa occasione i berluscones hanno scherzato troppo con un mondo che in genere conoscono poco, e che negli anni ha dovuto imparare a cambiare ripetutamente l'orientamento del proprio consenso. Il ritiro della fiducia avviene di solito in modo silenzioso. Questa volta potrebbe essere già cominciato, all'insaputa del mondo berlusconiano.

da democraticidavvero.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Gran Premio Formula Pd
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:41:36 pm
Gran Premio Formula Pd

di Edmondo Berselli


Bersani che vuole essere un nuovo Prodi. Il partito identitario di Franceschini. L'outsider Marino. E D'Alema scatenato a sostegno del suo candidato.

Protagonisti e scenari della battaglia per la leadership del Pd

Per cortesia, prendete nota che voi lo chiamate congresso, mentre i democratici la chiamano convenzione. Tuttavia, convenzione o congresso, com'è la battaglia per la leadership del Pd? Ma quale battaglia. È una guerra. Combattuta per mare e per terra, in trincea e in assalti alla baionetta, ora leale, talvolta invece sotterranea e incarognita, una guerra asimmetrica alla al Qaeda con un ampio repertorio di manovre canaglia.

Scommettere su chi vince è un azzardo. Anche se "vince Bersani", dicono tutti. Perché ha l'appoggio delle regioni rosse, dei segretari locali, dei sindaci, degli assessori, degli 'apparati' del vecchio Pci. Perché è nato lo stesso giorno di Silvio Berlusconi, 15 anni dopo, "seduto in quel caffè", cioè il 29 settembre. Secondo Enrico Letta, entrato a far parte del club degli emiliani, è piuttosto interessante osservare la dislocazione del sindacato: "Mentre il capo della Cisl Raffaele Bonanni si è subito schierato per Franceschini, la Cgil è spaccata in due, con esponenti importanti del suo circuito di dirigenti attuali e passati, come Cofferati e Nerozzi, che hanno scelto Franceschini, mentre Guglielmo Epifani e, credo, una parte consistente della base, sembra favorevole a Bersani".

A questa realtà piuttosto omogenea culturalmente e politicamente si aggiungono quei cattolici come Rosy Bindi e lo stesso Letta, nonché i cristiano-sociali, che vedono con favore l'idea di un partito 'secondo Bersani', radicato nel territorio e vicino al tessuto di imprese grandi e piccole (soprattutto piccole, come nel sistema del Nord-est e in Emilia). E su questi punti c'è l'endorsement implicito di Romano Prodi, che non ha lanciato squilli di tromba, ma non perde occasione per lasciar capire qual è la preferenza del padre nobile.

D'altra parte il piacentino Bersani, grazie al consenso dell'asse che va da Prodi a Vasco Errani, governatore dell'Emilia-Romagna, sta facendo un autentico sforzo culturale, cercando in modo esplicito di presentarsi come un punto di sintesi fra culture, in pratica suggerendo un'immagine di sé simile a un nuovo Prodi: "Noi

del Pd non veniamo dal nulla e neppure dall'ultimo mezzo secolo", ha detto e ripetuto in ogni occasione recente: "Rappresentiamo una traiettoria iscritta in 150 anni di storia, e che riassume vicende diverse ma complementari: quella delle società di mutuo soccorso, del mondo cooperativo, del movimento operaio e del sindacato, delle associazioni cattoliche e socialiste". Traduzione: non siamo semplicemente gli eredi del Pci e di qualche frangia della sinistra democristiana. 'Bersani09', la sigla della sua mozione, richiama nello slogan un verso di Vasco Rossi: "Un senso a questa storia", forse dimenticando che Vasco ha sempre simpatizzato per Marco Pannella. Sul piano concreto, la mozione di Bersani rappresenta la riproposizione del 'modello' emiliano, cioè quel sistema di economia sociale di mercato che ha creato e redistribuito ricchezza dal Dopoguerra in poi.

Si vince, con questa specie di ritorno al passato? "La vittoria non è scritta a priori, e non è detto che sia così immediata e facile", risponde uno dei prodiani di lungo corso, Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma nei due faticosi anni dell'Unione, e oggi sostenitore di Bersani. "La Convenzione dell'11 ottobre probabilmente si concluderà con l'affermazione di Bersani, ma c'è da considerare che in seguito le primarie del 25 ottobre sono aperte, non limitate agli iscritti. È esemplare in questo senso la provocazione di Francesco Storace, che ha annunciato la sua partecipazione e ha invitato i suoi elettori a votare Bersani. E quindi la situazione diventa molto più incerta, perché le strategie dei cosiddetti apparati, con la concentrazione di blocchi di tessere, conteranno molto meno". Secondo Santagata voteranno alle primarie un milione e mezzo, forse due milioni di elettori, a seconda della temperatura dell'antiberlusconismo, e quindi fare previsioni è un esercizio sterile: "Il partito è contendibile, e molto dipenderà dalla velocità con cui i candidati usciranno dal congresso. È come la partenza in Formula Uno: conta lo scatto al via, ma conta soprattutto la velocità con cui si esce dalla prima curva".

Sulla griglia di partenza restano gli altri due candidati, Dario Franceschini e Ignazio Marino. Franceschini sta puntando molto su un partito 'identitario'. Si dimostra preoccupatissimo riguardo a questioni sistemiche come il bipolarismo. Può darsi che, come sostiene Massimo Cacciari, sia ancora legato allo schema di Walter Veltroni, per cui il Pd si giocherebbe ogni volta la sua partita in un faccia a faccia con il Pdl; ma si tratta di vedere quale sia il gradimento di queste posizioni e specialmente se l'opinione pubblica sia ancora motivata da argomenti relativi all'impianto del sistema politico e della legge elettorale.

Per certi versi è curioso il sostegno all'attuale segretario di alcuni pezzi di nomenklatura e di figure storiche della sinistra, come Cofferati, parlamentare europeo e probabile prossimo segretario della Federazione ligure. Si tratta di un'occupazione preventiva di spazi di potere dentro il Pd? Anche la starlet generazionale Debora Serracchiani si è sistemata alle spalle del segretario Franceschini. E con il cinquantenne segretario ferrarese si sono schierati gli ambientalisti di Ermete Realacci. Mentre sembra gravato da troppe zavorre il terzo uomo Ignazio Marino, portavoce di un principio laico che viene giudicato insufficiente per raccogliere consenso in sede congressuale. Inoltre dentro il partito ha risuonato in modo sgradevole la vicenda dei rimborsi truccati con l'Università di Pittsburg, e le solidarietà espresse nei suoi confronti sono apparse di tipo diplomatico, quindi poco significative sul piano del riconoscimento formale della sua correttezza amministrativa.

Un siluro non da poco per il candidato che aveva evocato una questione morale ingente nel partito, dopo l'arresto di Luca Bianchini, presunto stupratore seriale e responsabile di un circolo democratico romano.

Anche per Marco Follini, Bersani è il candidato favorito: "Ma occorrerà vedere se al congresso riuscirà convincente. Se Bersani ce la farà ad apparire un leader ragionevolmente capace di creare mescolamento, ci sono poche possibilità che venga battuto. Ma anche lui, in questi due mesi e mezzo, vive sotto un incubo, o una spada di Damocle". Che sarebbe la tutela di Massimo D'Alema. Si scrive Bersani e si legge Líder Máximo. Qualcuno a Bologna, molto in alto fra le figure di riferimento del Pd, sostiene che basterà una frase di D'Alema, un'intervista o una battuta, per incenerire la candidatura di Bersani e ridurlo a un burattino nelle mani del 'vecchio bolscevico' Baffino.

Tuttavia non c'è soltanto questo aspetto: secondo Antonio La Forgia, esponente bolognese dell''école parisienne', cioè del magistero di Arturo Parisi, il limite della candidatura di Bersani è proprio di matrice ideologica e culturale: "Pier Luigi è il portatore di un recupero del compromesso socialdemocratico, cioè la vecchia strada emiliana, fra la via Emilia e il welfare. Ma i punti di forza di questo schema politico hanno esaurito il loro potenziale, nel senso che possono essere utilizzati anche  a destra, senza caratterizzazioni politiche specifiche. Quindi alla fine il discorso di Bersani davanti all'opinione pubblica potrebbe essere convincente, ma non è detto che sfondi".

Invece per Letta la competizione è comunque un elemento positivo perché provoca un rimescolamento: "Io mi sono schierato per Bersani in una chiave liberale e ulivista. Perché sono convinto che occorre ritrovare radici e convinzioni che ridiano spinta al centrosinistra. Ma aggiungerei che anche la candidatura di Marino, voluta e appoggiata da Goffredo Bettini, suscita energie nascoste e richiama in primo piano idee e posizioni che altrimenti avrebbero una rappresentanza minore nella politica italiana". In conclusione, giochi aperti. Si assisterà a uno scontro campale, e a un'estate rovente. "Ma alla fine", dice Letta, "con tutti i limiti dello statuto, e la possibile sfasatura tra il risultato della convenzione e le primarie, questo sarà un congresso pulito. E per la nostra politica questo sarà un risultato di eccezionale importanza".

(31 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Un governo sotto ricatto
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2009, 07:07:40 pm
Un governo sotto ricatto

di Edmondo Berselli


È un vizietto del centrodestra dilatare la spesa senza che si sappia dove i soldi vadano a finire

Con le elezioni del 2008 era stata molto sottovalutata la formazione dell'alleanza di centrodestra. Silvio Berlusconi aveva messo insieme, intorno ai due partiti nucleo del Popolo della libertà, Forza Italia e An, due forze territoriali in chiara opposizione reciproca: al Nord la Lega di Bossi, e in Sicilia il Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo. Pochi avevano valutato l'intrinseca contraddizione di questa coalizione. Sarebbe dovuto risultare evidente che era bizzarro avere nella stessa alleanza politica un movimento come la Lega, che in nome del federalismo richiedeva che le risorse degli elettori restassero al Nord, e un'altra che pretendeva fiscalità di vantaggio e trasferimenti pubblici al Sud.

Probabilmente la sottovalutazione era determinata dalle dimensioni ridotte del movimento siciliano. Ma anche mettendo a bilancio questo aspetto, si doveva capire che per evitare conflitti politici interni alla compagine di centrodestra la compresenza di queste due forze politiche poteva essere trattata dal governo Berlusconi soltanto in un modo. Vale a dire con l'erogazione di spesa pubblica. Un classico della prima Repubblica. Destinato a divenire un metodo della Seconda, o comunque si chiami il sistema istituzionale in cui ci troviamo, se la spregiudicatezza degli attori locali poteva decidere di giocare la partita dei veti e dei ricatti.

Va interpretata in questo modo la mancata nascita, o quasi nascita, o nascita abortita, del 'Partito del Sud'. Una iniziativa politica che certamente per il momento non ha messo in tensione estrema il centrodestra, ma ha chiarito le innumerevoli possibilità di ricatto politico implicite in una situazione che invece sembrava stabilizzata dai numeri parlamentari del Pdl. Eugenio Scalfari su 'Repubblica', in proposito, ha parlato di "secessione silenziosa". Il termine è forte ma mette in luce l'assenza di un disegno generale per il Paese, e gli interessi che possono essere giocati da un'area territoriale contro l'altra, nella più completa indifferenza per un disegno comune e per un equilibrio che rispetti le compatibilità sociali e territoriali. Altro che 'dualismo', storica condanna dell'Italia alle prese con territori sottosviluppati e con politiche di sostegno via via fallimentari: oggi potremmo essere in presenza di una dissoluzione potenziale della configurazione nazionale.

Il governo di centrodestra ha risolto, almeno per ora, la questione impegnando 4 miliardi di euro, e sostenendo con le parole del ministro Claudio Scajola che queste risorse serviranno a rimettere in moto l'economia reale della Sicilia. I protagonisti della 'piccola secessione' come Lombardo e Micciché possono vantare un risultato politico evidente. Ma intanto si tratta di vedere se questo ammontare verrà effettivamente utilizzato nel rilancio del sistema produttivo siciliano, o finirà nel calderone della spesa corrente e della cattiva ordinaria amministrazione. Già: è un vizietto del centrodestra dilatare la spesa pubblica senza che si sappia dove i soldi vadano a finire.

Anche in questa legislatura, lo ha segnalato ancora Scalfari nel più completo silenzio dell'esecutivo, l'incremento è scappato di mano (per un totale che tocca i 35 miliardi, una superfinanziaria) senza che nessuno sia stato in grado o abbia voluto indicare a che cosa siano serviti. È un problema che riguarda anche la situazione locale. E nel futuro potrebbe concernere anche la grande corsa e il grande assalto alla diligenza, non appena i governi regionali e le classi politiche locali si renderanno conto che per nutrire le loro nuove clientele potranno muovere all'assalto del governo centrale.

Tutto questo non sembra preoccupare l'opinione pubblica, che pure dovrebbe guardare con inquietudine all'andamento dei conti pubblici. Ma, oltre alle questioni finanziarie, l'elemento centrale, anzi cruciale, è la perdita di un orientamento comune. Il pensiero che la tenuta del Paese è assicurata soltanto dalla capacità di mediazione fra rivendicazioni localistiche e mediazione 'dorotea' del governo centrale getta una luce sconfortante sulla capacità del Sud, cioè del Paese, di crescere e svilupparsi. Ci sono le premesse per assistere a un hobbesiano 'bellum omnium contra omnes', ossia a una competizione famelica per sottrarre risorse senza innescare processi adeguati di sviluppo. A una balcanizzazione di un terzo del paese. Già adesso, come da qualche anno segnala la Svimez, tutti gli indici del Sud sono più deboli rispetto al Nord (non solo quelli economici e produttivi, anche quelli civili, scuole, biblioteche, ecc.). Pensare di risolvere questa situazione con le trovate finanziarie equivale a pensare a un Mezzogiorno che si illude di salvarsi ai danni della nazione.

(06 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La falsa verità del nonno superman
Inserito da: Admin - Agosto 20, 2009, 05:20:49 pm
L'ANALISI

La falsa verità del nonno superman

di EDMONDO BERSELLI


Ancora una volta Silvio Berlusconi tenta il gioco di prestigio: con un colpo di magia prova a fare scomparire la realtà. O almeno a colorarla con la vernice dei sogni.
Sogni italiani, sogni casalinghi, sogni isolani. Da Villa Certosa, circondato da figli e nipotini, si mostra in una serie di foto ritoccate che gli tolgono dieci anni, e rilascia agli italiani la sua versione.

C'è una strategia ben precisa: ribattere il chiodo con sicurezza, in modo che l'Italia berlusconiana, e anche l'opinione pubblica più o meno neutrale, si rafforzi nell'idea che il premier è puro come un giglio. Naturalmente ciò che ha detto nell'intervista rilasciata a Chi, settimanale di proprietà, è stato studiato e calcolato con attenzione certosina. Il premier sostiene di non avere mai intrecciato ""relazioni" con minorenni" e di non avere mai "organizzato "festini"". Le sue cene, "simpatiche" erano "ineccepibili sul piano della moralità e dell'eleganza". Infine, spiega Berlusconi, "non ho mai invitato consapevolmente a casa mia persone poco serie".

Si tratterebbe innanzitutto di capire che cosa significa quell'avverbio "consapevolmente". Vuol dire che "inconsapevolmente" persone poco serie sono state ospiti di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa? È un'ammissione involontaria? In ogni caso va messo agli atti che il premier insiste con la strategia delle verità distorte.

Indifferente a tutto, alle registrazioni con le escort e alle conversazioni telefoniche con il procacciatore Giampaolo Tarantini, Berlusconi modella il proprio racconto accusando i suoi nemici di avere montato un castello di "calunnie". Questa sottrazione di realtà gli viene facile perché da quando è emerso lo scandalo della prostituzione di regime i media televisivi controllati politicamente hanno fatto il possibile per imboscarlo. Il Cavaliere può raccontare a cuor leggero che anche la Cei e il suo organo di stampa, Avvenire, sono caduti nella trappola allestita dai suoi avversari, e che l'intero mondo cattolico è stato ingannato da un cumulo di bugie e di notizie false ai suoi danni.

Fin qui non c'è da stupirsi. Sono settimane che il premier si aggrappa ostinatamente alla sua versione, sicuro che la gente si convincerà che tutte le chiacchiere su di lui sono semplicemente gossip, pettegolezzo, calunnia, un caso di malevolenza politica organizzata. Ma forse per capire meglio la tattica berlusconiana è opportuno mettere a fuoco anche gli strumenti mediatici a cui è ricorso. Le foto famigliari pubblicate da Chi sono di impressionante chiarezza nelle intenzioni: si rilascia un'intervista a un settimanale popolare, per comunicare all'Italia del popolo e al Popolo della libertà che Berlusconi è un'immagine sacrale, un politico senza macchia. Le immagini con il nipotino di 22 mesi, o quella pensosa nello studio privato di Villa Certosa, intendono rappresentare il profilo di una figura esemplare e incorrotta, legatissimo alla famiglia nonostante le pratiche del divorzio da Veronica Lario, dopo "una vera storia d'amore" durata trent'anni.

Il "Nonno Superman", come lo chiamano in modo impegnativo i nipoti, non esita a proporsi come una figura insieme ricchissima e popolare, una guest star del suo giornale, del suo impero economico, di un'estate da favola. Non ci sono tabù estetici nello stile di un protagonista che impone la sua presenza dichiarandola insostituibile. Lo si riscontra osservandolo accanto a una fontana dal curioso stile assiro-nuragico, ma ciò che colpisce è il contesto di contenuto e di immagini del giornale domestico. Basta girare qualche pagina, infatti, e la figura del premier cede il passo alle specialità di un settimanale di pettegolezzi: gli spettacolari tatuaggi del macho Fabrizio Corona, le confessioni dell'ex tronista Costantino Vitagliano, le carezze hot tra Federica Pellegrini e il suo fidanzato Luca Marin.

Tutto questo potrebbe apparire una caduta nel trash, ma il giudizio sarebbe impreciso. Come sempre quando si trova in difficoltà, Berlusconi inventa la sua realtà virtuale, e cerca di uscire dalla trappola con un volteggio da acrobata. Inventa un mondo a colori che sorprende il pubblico, genera ammirazione, suscita solidarietà nei fan. Il berlusconismo non è semplicemente una patina di glamour su una modalità di vita. È una filosofia: una visione che mescola bugie, propaganda politica, interessi privati, fascino della ricchezza, costruzione dell'immagine, manipolazione delle opinioni. Con l'idea che in fondo, e in genere, Berlusconi siamo noi. O che dovremmo essere con lui. Che la società italiana deve accettare la mitologia creata da un capo benevolo e ferito dalla perfidia dei nemici. Di nuovo è "una storia italiana", come si intitolava l'epopea illustrata del berlusconismo. E anche questa volta smontare l'inganno non è facile, in un paese dominato dal conformismo e dalla sicurezza tracotante con cui i media padronali e di Stato si sono impegnati a occultare la realtà.

(20 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La vertigine da sogno ad occhi aperti
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 03:57:01 pm
IL CASO.

Il cuore che produce aritmie. Come riscuoterli, questi soldi?

Le precauzioni: la schedina nella cassaforte mai usata prima d'ora

La vertigine da sogno ad occhi aperti

di EDMONDO BERSELLI

 

E SE avessi vinto io? Sogno o son desto? È il caso di chiederselo. Scusate, ho il cuore che si diverte a produrre aritmie, fibrillazioni, extrasistoli. Respiro profondamente e mi dico: sarebbe comico, o tragico, avere un infarto adesso.

Continuo a guardare la scheda del Superenalotto, controllo i numeri usciti, ma non ci sono più dubbi: ho vinto. Io, miserabile individuo inconsapevole, ho sbancato il più alto jackpot della storia.

Centoquarantasette milioni di euro, una cifra assurda. Convoco la famiglia e lì per lì naturalmente nessuno ci crede. Ragazzi, dico irritato, pensatela come volete: ma ho vinto. Se vi comportate bene, con gentilezza, se avete compassione per il mio povero sistema nervoso e per il mio cuore matto, posso anche dire "abbiamo vinto". Adesso ci credete? Ci credono. Mia moglie si mette a piangere. Chissà se per la soddisfazione della vincita o per l'oppressione di tutto quel denaro.

Centoquarantasette milioni di euro. Una fila di zeri impressionante. Roba da fare spavento. Terrore e tremore. Un'esperienza onirica, un abisso di paura, un vuoto nell'anima. Per precauzione mi butto sul divano del salotto, aspettando che il cuore riprenda un andamento quasi normale. Non so neanche come si fa a riscuoterli, quei soldi. In banca, probabilmente. O dal notaio, chissà.

Intanto però ci vogliono precauzioni. La prima e più urgente consiste nell'assumere l'atteggiamento di quello che non ha vinto proprio un bel niente e non sa nemmeno di che cosa stanno parlando i telegiornali. D'accordo che ho giocato in trasferta, lontano da casa, ma la regola numero uno è e rimane: depistaggio.

Mettere su un'espressione tra l'indifferente e il sofferente. Se qualcuno cita il Superenalotto, esibire un'aria di superiorità dolorosa: ma che cosa volete che m'interessi questo oppio dei popoli, una truffa collettiva che promette illusioni, una fiera delle vanità che porta soldi al governo, rito borbonico che genera soltanto frustrazioni.

Per giocare avevo dovuto addirittura chiedere spiegazioni al gestore della ricevitoria, che mi aveva guardato come se fossi un alieno. L'ultimo essere umano, nella penisola e dintorni, che non conosce il meccanismo della superlotteria. Vero che in passato giocavo al Totocalcio. Ma la schedina settimanale implicava una conoscenza del campionato, e quindi si poteva nutrire la convinzione che l'eventuale "tredici" potesse dipendere dalla competenza calcistica e non dalla fortuna dei numeri. Infatti, mai compilato un "sistema". Impegnavo piccole somme, e poche colonne della schedina, per misurare la mia capacità nel pronostico. Mai andato oltre il dieci, perché per fortuna anche nel calcio esiste l'imponderabile.

Mentre il Superenalotto è un gioco brutale: il jackpot aumenta di valore ogni settimana, a ogni estrazione fallita, e poi è solo una feroce questione di numeri. Lo schiaffo di una combinazione solitaria su sei o settecento milioni possibili. Se i tuoi sei numeri escono vuol dire che una divinità insensata ha deciso di scegliere proprio te, che durante un viaggio hai investito due euro. Domani, per sicurezza, occorrerà prepararsi uno schema di risposte plausibili: no, guardi, non gioco mai, figuriamoci. Quindi aria scettica, espressione disincantata, dissimulazione. Ma, sotto sotto, un pensiero che non vuole andarsene via: che me ne faccio di tutti questi soldi?

Vedi la gente intervistata per televisione che dice: farei beneficenza, estinguerei i mutui per la casa dei figli, farei un viaggio. D'accordo ma queste sono bazzecole. Quisquilie. Pinzillacchere. Dopo queste spesucce infatti rimane il problema della paccata di milioni rimanenti. Devo trovare un consulente.

Onesto. Un professionista. E se poi non è onesto e mi fa sparire tutti i soldi? Eccola, la crisi di panico. Meglio spezzettare, dividere, diversificare. Lascia perdere la Borsa, ti ricordi le fregature della new economy? Il mattone, il mattone è sempre una sicurezza. Conviene comprare a Parigi, a Londra, a New York. E poi che ce ne facciamo di questi appartamenti globalizzati? Chi si occupa delle questioni fiscali? E come la mettiamo con la linea ereditaria?

Ma per il momento occorre certificare l'esistenza del tagliando vincitore. Lo fotografo con il cellulare, domani farò autenticare la foto, intanto lo metto nella cassaforte domestica che non abbiamo mai usato. Con il timore che vengano i ladri a rubare la scheda. Fra paure assurde che finora non avevo mai provato. Perché la verità è una sola, semplice e terrificante: il Jackpot è un incubo. Chissà se da questo sogno cattivo mi risveglierò, se da un sogno assurdo ci risveglieremo mai.


(23 agosto 2009)


Titolo: EDMONDO BERSELLI Dove è finita l'informazione
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 11:12:25 am
LA POLEMICA

Dove è finita l'informazione

di EDMONDO BERSELLI


Esploso in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di "Repubblica", un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l'intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all'oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese.

A tutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l'azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l'escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui. La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana.

In quest'ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l'apice del conflitto d'interessi, l'anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l'occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo.
Berlusconi voleva un'anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari "scese in campo" contro i problemi nazionali. L'immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l'unica a essere diffusa e ascoltata.

Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l'opinione pubblica, e il bastone, per impedire l'esercizio di un'informazione libera.

Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al "sistema" dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un'informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime. Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell'intimidazione. L'aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l'informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso.

Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema. Ossia una ferita gravissima a uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell'astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati?

Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l'attacco del Giornale a Boffo, "disgustoso" per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto "di straordinario valore cristiano"). Oltretutto, risulta insopportabile l'idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall'informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.

(31 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Se manca la riserva
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 10:25:30 pm
Se manca la riserva

di Edmondo Berselli


Al di là del Capo dello Stato c'è un grande vuoto di personalità cui chiedere il sacrificio dell'impegno pubblico
 
Le ultime rivelazioni sulla dipendenza sessuale del premier (vedi la nuova edizione del libro di Maria Latella 'Tendenza Veronica') avvalorano la sensazione che la parabola di Silvio Berlusconi sia arrivata vicina alla fase di caduta: certo l'uomo di Arcore, e di Villa Certosa, ha una forza spaventosa, e prima di cedere il potere organizzerà spettacoli impressionanti. Ma il beckettiano finale di partita di Berlusconi, tutto giocato su uno scenario virtualmente catastrofico, rischia di essere ulteriormente complicato da un fattore chiave, che investe la struttura morale e istituzionale dell'Italia contemporanea: l'assenza di riserve credibili, cioè la mancanza di uomini simbolo, in grado quando è necessario di fare da argine al degrado e da supplenza alla politica.

In passato abbiamo avuto la possibilità di ricorrere a uomini come Carlo Azeglio Ciampi, al quale venne richiesto un compito difficilissimo prima come capo di un governo di transizione, poi come ministro del Tesoro, e infine come presidente della Repubblica. Non si può dimenticare il ruolo preziosissimo ricoperto nella vicenda dell'ingresso nell'area della moneta unica, quando il suo prestigio in campo europeo contribuì a superare i dubbi dei partner sulla capacità di tenuta dei conti pubblici italiani, gravati da un debito fuori dai parametri di Maastricht. Così come oggi, nel momento di un attacco squinternato all'unità nazionale, non è possibile trascurare il sottile e fitto lavoro di cucitura eseguito nei suoi sette anni al Quirinale, con la valorizzazione dei simboli (la bandiera e l'inno nazionale) e soprattutto con i cento viaggi nelle province italiane, alla ricerca di una società più unita e solidale di quanto non mostrasse la politica.

Oggi stiamo assistendo a un solerte lavoro da parte di Giorgio Napolitano
, nel tentativo di tenere sotto controllo un'azione legislativa spesso scombinata, e animata da intenzioni sbagliate o dalla voglia di slabbrare strumentalmente l'architettura istituzionale del sistema. Ma ci si rende conto facilmente che al di là del capo dello Stato c'è un grandissimo vuoto, uno spazio che difficilmente può essere riempito. Dopo il mandato di Napolitano si può immaginare un'occupazione 'manu militari' del Colle, con effetti purtroppo immaginabili sugli equilibri istituzionali (anche se grazie al cielo, e ai sofisticati microfoni utilizzati dalla escort Patrizia D'Addario, si direbbe che è evaporata dall'orizzonte politico l'ipotesi di Berlusconi al Quirinale).

Può sembrare piuttosto bizzarro che in tempi di crisi della politica (crisi culturale soprattutto, crisi di idee complessive e di progetti) si possa assistere in prospettiva a una superpoliticizzazione dei poteri neutri dello Stato. Ma si tratta di un fenomeno facilmente spiegabile: quando non sono in gioco valori supremi, la politica è anche gestione, amministrazione, spartizione. Cambia tutto, nella scena, se dovessimo affrontare un periodo di crisi conclamata, come sarebbe possibile ad esempio con la caduta di Berlusconi e con un autunno disastroso per l'economia e l'occupazione.

Tutta la politica italiana, infatti, di governo e di opposizione, dipende dalla figura del Cavaliere, dal gioco di attrazione e repulsione che ha innescato negli anni e che condiziona ormai l'intero sistema politico. Il suo ritiro, o autoeliminazione, rappresenterebbe potenzialmente la catastrofe finale di una Repubblica mai compiuta, e quindi fragilissima nei suoi meccanismi, nonché vulnerabilissima socialmente in seguito al prevedibile colpo di coda della recessione.

È in queste condizioni che verrebbero utili, e anzi essenziali, quelle figure di alta credibilità biografica e intellettuale a cui chiedere il sacrificio personale dell'impegno pubblico nel momento della massima tensione politica e istituzionale. Ma ormai le riserve della Repubblica sono esaurite. Dovesse effettivamente crollare il berlusconismo, si può intravedere in controluce l'eventualità di un governo Fini, grazie anche all'asse con il Quirinale.

Curiosa ipotesi, anche questa, di una felice coabitazione e di un 'idem sentire' fra un ex comunista e un ex fascista: ma anche in questo caso si tratterebbe, e in parte già si tratta, di un esemplare combinazione realizzata da una politica che non ha saputo trovare niente di nuovo, e quindi deve affidarsi al vecchio. Nella speranza che il 'patriottismo della Costituzione', secondo la storica definizione di Habermas, sia sufficiente a reggere gli equilibri di un sistema che sta già cedendo.

(28 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il problema Bersani
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 12:09:51 am
Il problema Bersani

di Edmondo Berselli


Se l'ex ministro vincerà le primarie del Pd dovrà usare il meno possibile la parola sinistra  Pierluigi BersaniCircola la sensazione che Pier Luigi Bersani vincerà agevolmente le primarie del Partito democratico. Ma probabilmente Bersani non è la soluzione, è il problema. Perché la conquista della leadership del Pd da parte sua rappresenta la riproposizione del modello socialdemocratico di ispirazione emiliana, che appare in grado di mobilitare larghi settori della sinistra classica, ma che nello stesso tempo configurerebbe il Pd, partito ancora relativamente nuovo, come l'erede diretto del Pci e delle sue filiazioni post Ottantanove.

Di questo apparente salto all'indietro, Bersani non ha colpa. Da mesi sta elaborando una 'narrazione' culturale che cerca di tenere insieme culture diverse, appellandosi ai centocinquant'anni di storia che accomunano il movimento operaio e socialista, l'associazionismo cattolico, il mutualismo cooperativo rosso e bianco. Tutto questo proprio per cercare di superare i confini storici della sinistra, le spaccature e gli steccati del Novecento, i conflitti ideologici e civili che hanno diviso comunisti e cattolici.

Sembrerebbe un compito tutto sommato facile, se non fosse che la frattura tra gli eredi del Pci e i democristiani memori del degasperiano "partito di centro che guarda a sinistra" fa ancora sentire i suoi effetti. Sostengono i cattolici che hanno scelto la mozione Bersani, in particolare Enrico Letta e Rosy Bindi, che il rimescolamento fra le culture è già in corso, e se si completerà, il Pd avrà raggiunto il suo scopo. Tuttavia siamo sempre nel discorso ipotetico. E i contraccolpi sono sempre possibili, come si è visto con le sortite di Francesco Rutelli agli stati generali dell'Udc, dove il candidato antiberlusconiano del 2001, fondatore del Partito democratico, ha prefigurato lo scioglimento del patto da cui nacque il Pd, e una possibile confluenza centrista.

Se con il successo di Bersani dovesse verificarsi un contraccolpo nel Pd, con la diaspora di esponenti cattolici, è probabile che dal punto di vista quantitativo ciò non sia un fenomeno politico rilevante. Sarebbero segmenti di nomenklatura a spostarsi nella mappa politica, mentre gli effetti sull'elettorato, almeno nel breve periodo, sarebbero tutti da verificare. Di certo, o almeno probabile, c'è che un rafforzamento dell'area centrista, al momento presidiata dall'Udc, appare nell'ordine delle cose. Verso il centro convergono in questo momento frange cattoliche rese inquiete dalle rivelazioni sulla vita privata e pubblica di Silvio Berlusconi, preoccupate dalla violenza mediatica rivoltasi verso il direttore di 'Avvenire', nonché fasce moderate che non gradiscono l'egemonia esercitata dalla Lega sulla coalizione di destra.

Al contorno di tutto questo c'è la convinzione di nuclei forti di potere, a cominciare dall'establishment economico-finanziario e dai vertici confindustriali e di categoria, che la destra è una coalizione tenuta insieme dalla figura di Berlusconi. Ma nel dopo? C'è un protagonista in grado di assumersi la leadership del Pdl e di gestire utilmente il rapporto di coalizione con la Lega? E di trattare con chiarezza di obiettivi l'arco delle riforme necessarie? Oppure quando verrà il momento della successione occorrerà un ridisegno complessivo del sistema politico, fino a configurare il 'modello Kadima', partito della nazione, luogo di una politica consensuale?

Va da sé che il ridisegno centrista, connesso esplicitamente alle élite economiche (vedi l'attivismo trasversale di Luca Cordero di Montezemolo) e nello stesso tempo legato alle sensibilità moderate del cattolicesimo diffuso, appare irresistibile per molti ambienti che si sono stancati del 'primato della politica'. UnGrande Centro, magari anche piccolo, un Centrino, che fosse in grado numericamente di condizionare la formazione delle alleanze elettorali e delle maggioranze parlamentari, sembra uno strumento irresistibilmente attraente per relativizzare la politica.

Non è un caso che Dario Franceschini si aggrappi alla difesa del bipolarismo. Il progetto del Centro implica la sconfessione del modello politico su cui il centrosinistra ha scommesso negli ultimi quindici anni, e un rimescolamento delle carte da cui potrebbe uscire una democrazia negoziale, basata sulla trattativa continua tra partiti alleati, e su un fitto tessuto di mediazioni con i settori economici. A occhio, Bersani dovrebbe fare tutto il possibile per disinnescare questo progetto. Ma per farlo sarebbe opportuno che non sbandierasse troppo spesso la parola 'sinistra', anche se fa parte della sua identità. La sinistra è meglio farla con i programmi, anziché con gli slogan.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il problema Bersani
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 11:05:36 am
Il problema Bersani

di Edmondo Berselli


Se l'ex ministro vincerà le primarie del Pd dovrà usare il meno possibile la parola sinistra. Circola la sensazione che Pier Luigi Bersani vincerà agevolmente le primarie del Partito democratico. Ma probabilmente Bersani non è la soluzione, è il problema. Perché la conquista della leadership del Pd da parte sua rappresenta la riproposizione del modello socialdemocratico di ispirazione emiliana, che appare in grado di mobilitare larghi settori della sinistra classica, ma che nello stesso tempo configurerebbe il Pd, partito ancora relativamente nuovo, come l'erede diretto del Pci e delle sue filiazioni post Ottantanove.

Di questo apparente salto all'indietro, Bersani non ha colpa. Da mesi sta elaborando una 'narrazione' culturale che cerca di tenere insieme culture diverse, appellandosi ai centocinquant'anni di storia che accomunano il movimento operaio e socialista, l'associazionismo cattolico, il mutualismo cooperativo rosso e bianco. Tutto questo proprio per cercare di superare i confini storici della sinistra, le spaccature e gli steccati del Novecento, i conflitti ideologici e civili che hanno diviso comunisti e cattolici.

Sembrerebbe un compito tutto sommato facile, se non fosse che la frattura tra gli eredi del Pci e i democristiani memori del degasperiano "partito di centro che guarda a sinistra" fa ancora sentire i suoi effetti. Sostengono i cattolici che hanno scelto la mozione Bersani, in particolare Enrico Letta e Rosy Bindi, che il rimescolamento fra le culture è già in corso, e se si completerà, il Pd avrà raggiunto il suo scopo. Tuttavia siamo sempre nel discorso ipotetico. E i contraccolpi sono sempre possibili, come si è visto con le sortite di Francesco Rutelli agli stati generali dell'Udc, dove il candidato antiberlusconiano del 2001, fondatore del Partito democratico, ha prefigurato lo scioglimento del patto da cui nacque il Pd, e una possibile confluenza centrista.

Se con il successo di Bersani dovesse verificarsi un contraccolpo nel Pd, con la diaspora di esponenti cattolici, è probabile che dal punto di vista quantitativo ciò non sia un fenomeno politico rilevante. Sarebbero segmenti di nomenklatura a spostarsi nella mappa politica, mentre gli effetti sull'elettorato, almeno nel breve periodo, sarebbero tutti da verificare. Di certo, o almeno probabile, c'è che un rafforzamento dell'area centrista, al momento presidiata dall'Udc, appare nell'ordine delle cose. Verso il centro convergono in questo momento frange cattoliche rese inquiete dalle rivelazioni sulla vita privata e pubblica di Silvio Berlusconi, preoccupate dalla violenza mediatica rivoltasi verso il direttore di 'Avvenire', nonché fasce moderate che non gradiscono l'egemonia esercitata dalla Lega sulla coalizione di destra.

Al contorno di tutto questo c'è la convinzione di nuclei forti di potere, a cominciare dall'establishment economico-finanziario e dai vertici confindustriali e di categoria, che la destra è una coalizione tenuta insieme dalla figura di Berlusconi. Ma nel dopo? C'è un protagonista in grado di assumersi la leadership del Pdl e di gestire utilmente il rapporto di coalizione con la Lega? E di trattare con chiarezza di obiettivi l'arco delle riforme necessarie? Oppure quando verrà il momento della successione occorrerà un ridisegno complessivo del sistema politico, fino a configurare il 'modello Kadima', partito della nazione, luogo di una politica consensuale?

Va da sé che il ridisegno centrista, connesso esplicitamente alle élite economiche (vedi l'attivismo trasversale di Luca Cordero di Montezemolo) e nello stesso tempo legato alle sensibilità moderate del cattolicesimo diffuso, appare irresistibile per molti ambienti che si sono stancati del 'primato della politica'. UnGrande Centro, magari anche piccolo, un Centrino, che fosse in grado numericamente di condizionare la formazione delle alleanze elettorali e delle maggioranze parlamentari, sembra uno strumento irresistibilmente attraente per relativizzare la politica.

Non è un caso che Dario Franceschini si aggrappi alla difesa del bipolarismo. Il progetto del Centro implica la sconfessione del modello politico su cui il centrosinistra ha scommesso negli ultimi quindici anni, e un rimescolamento delle carte da cui potrebbe uscire una democrazia negoziale, basata sulla trattativa continua tra partiti alleati, e su un fitto tessuto di mediazioni con i settori economici. A occhio, Bersani dovrebbe fare tutto il possibile per disinnescare questo progetto. Ma per farlo sarebbe opportuno che non sbandierasse troppo spesso la parola 'sinistra', anche se fa parte della sua identità. La sinistra è meglio farla con i programmi, anziché con gli slogan.

(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Dopo il Lodo, la piazza
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:56:18 pm
Dopo il Lodo, la piazza

di Edmondo Berselli


È stata una sentenza durissima. E adesso Silvio Berlusconi è pronto a scatenare i suoi. Per continuare con ogni mezzo la sfida alle istituzioni
 
È stata una sentenza durissima, praticamente spietata. La nettissima bocciatura a cui la Corte costituzionale ha sottoposto il Lodo Alfano è la prima vera e grande sconfitta politica di Silvio Berlusconi. Al confronto, sbiadisce persino la caduta del suo governo nel 1994, dopo solo sette mesi. La sentenza della Consulta è stata motivata nitidamente in punto di diritto, e non è possibile attribuirle una intenzione strumentale o politica. Indica un riferimento all'articolo 3, cioè al principio di uguaglianza dei cittadini, oltreché una sciatta violazione dell'articolo 138 della Carta costituzionale, nel senso che una legge di quella portata implicava un iter di modificazione costituzionale, e non una legge ordinaria.

Bocciatura senza appello, dunque. Tuttavia, anche se la politica è rimasta fuori dal palazzo della Consulta, gli effetti del verdetto sul Lodo configurano una situazione potenzialmente distruttiva per il premier e per l'alleanza di destra, e quindi colpi di coda a non finire. Verrebbe anzi da dire: chi è causa del suo mal pianga se stesso, oppure: chi semina vento raccoglie tempesta, dato che i vertici del centrodestra e lo staff di avvocati del Cavaliere hanno contribuito in modo addirittura stravagante a drammatizzare la decisione sulla legge Alfano. Per dire, ancora nel pomeriggio della sentenza, Umberto Bossi aveva minacciato di "trascinare il popolo" nelle piazze in caso di bocciatura del Lodo, esercitando una pressione inaudita sulla Corte. A sua volta la pancia del Pdl si scatenava nei blog e nei siti del centrodestra sostenendo più o meno che "quindici parrucconi non fermeranno il popolo". Ma l'aspetto più inquietante sul piano istituzionale era stata l'offensiva messa in campo dagli avvocati che sostenevano la causa di Berlusconi e dell'immunità per il premier e le principali cariche pubbliche: lasciamo pur perdere la posizione dell'avvocatura dello Stato, che aveva offerto motivazioni di puro realismo politico, preferendo nelle proprie argomentazioni le opportunità della politica spicciola, e favorevole al capo del governo, al rigore giuridico (anche questa è una sconfitta nella sconfitta, e una sostanziale scalfittura nella credibilità per quell'alto ufficio).

Ciò che invece è risultata sorprendente, fino ai limiti dell'incredibile, è stata la strategia di Niccolò Ghedini e Gaetano Pecorella, i due super professionisti che assistevano Berlusconi nell'affaire del Lodo. Ghedini e Pecorella hanno sostenuto che la Costituzione materiale aveva modificato, praticamente fino a travolgerla, la Costituzione formale. Ghedini si è spinto fino ad argomentare il sofisma secondo cui la legge è effettivamente uguale per tutti, ma può essere diseguale la sua applicazione, a seconda del soggetto che ne è coinvolto. Più ?ad personam? di così si muore. Con maggiore sofisticazione giuridica, ma con esiti virtualmente travolgenti per l'assetto istituzionale, Pecorella ha sostenuto che, in seguito alla legge elettorale universalmente conosciuta come ?Porcellum?, il premier viene "eletto " dal popolo, senza mediazioni parlamentari, e quindi la sua diventa una funzione apicale, superiore a quella degli altri ministri: il primo ministro diventa, secondo Pecorella, non più un "primus inter pares", bensì un "primus super pares", meritevole quindi di un trattamento particolare nell'ordinamento generale. La tesi era insostenibile, proprio in quanto investiva la natura e la fisionomia stesse della Repubblica, che resta di tipo parlamentare, in cui il premier deve ricevere l'incarico dal Quirinale, e raccogliere la fiducia in Parlamento. Ma il ?lodo Pecorella?, se possiamo chiamarlo così, rivelava l'intento di forzare i limiti e i confini dell'apparato costituzionale, ?sfondando? in modo plebiscitario l'impianto della Carta. Può essere proprio questa tesi a far inclinare il giudizio della Corte verso la bocciatura. E dovrebbe essere evidente che questa strategia preparava lo sfondo per il conflitto prossimo venturo.

Perché è chiaro che Berlusconi e le sue truppe si stanno preparando alla guerra, e che la guerra comincerà immediatamente. Il Cavaliere è sotto attacco da parte della magistratura milanese, per il processo Mills (corruzione in atti giudiziari) e per i fondi neri nella compravendita di diritti cinematografici e tv; a Roma per il tentativo di acquisire il voto di alcuni senatori per far cadere il governo Prodi. Per la prima volta il premier rischia, soprattutto nel caso Mills, una condanna penale che potrebbe risultare devastante per la sua immagine, sul piano interno e sul piano internazionale. Che cosa farà quindi Berlusconi? A quanto si capisce, dopo avere dichiarato che nella Corte costituzionale "undici giudici sono di sinistra", è pronto ad andare ?à la guerre comme à la guerre? e a "sbugiardare " i suoi nemici. "Vado avanti": aveva già cominciato ad agitare i sondaggi di Euromedia, che gli assicurano un consenso mai visto, garantito dalla sua cappa mediatica.

E quindi il suo piano bellico è facilmente descrivibile. Un uomo solo, ricco, amato e odiato, ma unto dalla "doccia di schede elettorali" si sente in grado di sfidare istituzioni e convenzioni della Repubblica. È un progetto iper-populista, con modalità ed esiti virtualmente peronisti. Berlusconi è come sempre pronto a sfidare l'universo mondo, la sinistra, i comunisti, i magistrati rossi, la stampa di sinistra, la televisione che fa opposizione, senza curarsi minimamente dei danni pubblici che la sua azione può provocare. Va da sé, allora, che lo scenario che si presenta davanti ai cittadini è un panorama di rovine, potenzialmente catastrofico. Ridiventano fin troppo evocative le immagini finali del ?Caimano? di Nanni Moretti, con i fuochi appiccati dai supporter del protagonista.

Certo non c'è da confondere la finzione con la realtà; ma per evitare sovrapposizioni disastrose fra i due livelli occorre una eccezionale saldezza degli apparati istituzionali e dell'establishment nazionale. Mentre sulla tenuta delle istituzioni si può nutrire una certa fiducia, visto che la stessa sentenza della Consulta testimonia positivamente in questo senso, e che comunque sull'ultimo Colle la presenza e la coerenza di Giorgio Napolitano offrono garanzie, il problema principale riguarda l'atteggiamento delle élite. In una condizione di paese normale, il premier si dimetterebbe e affronterebbe i processi che lo attendono. Sarebbe legittimo da parte sua cercare di mobilitare i suoi fan e tuffarsi nel grande gioco delle elezioni anticipate. Ma ci sono troppi vincoli, istituzionali e comportamentali, che coinvolgono il ruolo dei presidenti delle Camere e la funzione attiva del capo dello Stato. Tuttavia tocca soprattutto ai circuiti formali e informali del potere, a tutti i livelli, cercare di stabilizzare una situazione fortemente critica. Se l'establishment italiano accettasse di schierarsi secondo il modulo berlusconiano, dividendosi in modo cruento e sposando la causa dello scontro totale, si potrebbe anche chiudere bottega, in attesa della fine della bufera.

Conviene augurarsi che per una volta la vischiosità del potere in Italia rappresenti un freno alla guerra civile ideologica che Silvio Berlusconi ha già dichiarato. Sembrerà stravagante appellarsi all'anima andreottiana o dorotea della nostra società; ma quando la situazione si colora di drammaticità è naturale aggrapparsi a tutto, anche alla prudenza e alle cautele che in passato hanno impedito un cambiamento fruttuoso. Qui e ora, probabilmente, c'è soltanto da provare a salvare un paese.

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Leghisti per fiction
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:16:45 pm
Leghisti per fiction

di Edmondo Berselli


Il Barbarossa caro a Bossi fa flop. E ora la politica stia alla larga dall'intrattenimento
 
Per fortuna, a quanto pare, secondo la critica più sfiziosa il film di Renzo Martinelli 'Barbarossa' è venuto maluccio, e quindi è improbabile che possa trasformarsi in un 'Braveheart' della Lega Nord. Il regista ha parlato di un Medioevo "sporchiccio, dove si lavavano poco", e l'opera dovrebbe rappresentare proprio questo senso immanente di sporcizia. Una schifezza, insomma. Cosicché, nonostante le attese spasmodiche di Umberto Bossi, e l'impegno profuso da Silvio Berlusconi con Agostino Saccà, nonché i venti milioni di euro di budget (soldi in gran parte pubblici), il film non è riuscito. Flop. Adesso si tratta di aspettare il responso del botteghino, per vedere se l'elettorato leghista si mobiliterà dalle valli al risuonare del sacro nome di Alberto da Giussano.

"Milanesi, fratelli, popol mio! Vi sovvien, dice Alberto di Giussano, calen di marzo? I consoli sparuti cavalcarono a Lodi, e con le spade nude in man gli giurâr l'obedienza".

Nessuno ricorda più i versi della 'Canzone di Legnano' di Carducci, e non vale neanche la pena di segnalare che il Poeta, attraverso la figura leggendaria di Alberto da Giussano, intendeva svolgere un tema fieramente patriottico, a sostegno dell'Italia unita e solidale. Ma che importa: gran parte dell'ideologia storica della Lega è una tipica "invenzione della tradizione", secondo la formula dello storico Eric Hobsbawm, più o meno come il kilt e le cornamuse scozzesi. Quindi non c'è bisogno di precisione storiografica: ciò che conta, semmai, è esaltare l'autonomia dei Comuni contro il centralismo del Sacro romano impero e se si può contro Roma ladrona.

E come a suo tempo fu inventata la radice 'celtica' dei popoli padani, con i riti pagani dell'acqua raccolta in un'ampolla alla sorgente del Po sul Monviso, a Pian del Re, adesso si tratterebbe di creare una tradizione a partire più o meno dall'anno Mille; mentre fra poco potrebbe venire il momento di una fiction su Marco d'Aviano, nuovo idolo di Bossi. Chi era costui? Era un frate assai carismatico, ascoltatissimo consigliere spirituale e politico dell'imperatore Leopoldo d'Asburgo, che fu incaricato dal papa Innocenzo XI di riunire i sovrani europei contro la minaccia militare, politica e religiosa ottomana. Era la classica missione impossibile, a causa delle gelosie fra i monarchi, ma il frate realizzò il miracolo, e i turchi furono sconfitti dall'esercito cristiano alle porte di Vienna nel 1683, dopo battaglie furibonde, in una delle prime guerre moderne, con cannoni e mine, morti e feriti, stragi ed epos.

Come si vede ci sarebbe materia, eccome, e purtroppo, per la fiction di regime. Ecco la sconfitta dei turchi a Vienna come una forma di respingimento verso quei clandestini della Mezza luna, così aggressivi e feroci (vedi la splendida ricostruzione di John Stoye, 'L'assedio di Vienna', appena tradotto dal Mulino). Ma se prendesse piede la mitologizzazione della politica contemporanea, non ci sarebbe salvezza per il popolo televisivo. Immaginiamoci che cosa comporterebbe una fiction sulla nascita di Forza Italia, con la santificazione della luminosa figura di Marcello Dell'Utri. Oppure un film sul prodigio berlusconiano della spazzatura a Napoli, o sui miracoli edilizi dell'Aquila.

Proprio per questo il sostanziale fallimento estetico e narrativo del 'Barbarossa' è di buon auspicio per la salute mentale degli spettatori di tutta la penisola. Dopo i critici cinematografici e televisivi, i politologi faranno il loro dovere deontologico, andranno a vedere il film (distribuito in 250 copie, quindi con aspettative alte), ed emetteranno il loro giudizio. Noi ci auguriamo che le ragioni della critica prevalgano sui motivi dell'ideologia. Se il film è brutto, è brutto. Senza se e senza ma. Le cronache dal Castello sforzesco hanno raccontato di risposte a grugnito: anche il ministro Maroni non sarebbe riuscito a emettere suoni che noi umani potessimo capire, a proposito del film, tuffando subito dopo la testa nel piatto per evitare approfondimenti pericolosi.

Ci eravamo già avvicinati insidiosamente alla cronaca politica, con le fiction su Alcide De Gasperi e sui papi come Giovanni XXIII o Albino Luciani. Adesso è il caso che si ritorni a film televisivi di intrattenimento, senza troppe intenzioni politiche. Anche inventare la tradizione è un mestiere difficile, e non è il caso di metterlo al servizio della politica politicante. Quindi 'Barbarossa' addio, grazie al cielo. Qualche volta, anche i fallimenti aiutano.

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI L'antipolitica del rancore
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:16:49 am
IL COMMENTO

L'antipolitica del rancore

di EDMONDO BERSELLI


Nel social network Facebook, il gruppo "Uccidiamo Berlusconi", inaugurato nel settembre del 2008, è ancora attivo. Ieri sera alle 20 contava 12.333 iscritti; dopo poco più di un'ora se n'erano iscritti altri 600. Secondo l'"amministratore" del gruppo, si tratta di una iniziativa goliardica, che pubblica "affermazioni bizzarre".

In realtà, basta scorrere i messaggi "postati" dagli iscritti per capire che è un catalogo di odio. Succede, nella Rete. Il web consente l'anonimato, e con l'anonimato il manifestarsi gratuito delle pulsioni più elementari e scandalose. Un incidente serio era già accaduto qualche giorno fa, allorché un giovane impegnato nel Pd di Vignola si era chiesto perché nessuno assoldasse un killer per togliere di mezzo il capo del governo. Adesso, la scoperta che 12 mila sciagurati si sono iscritti a un gruppo intitolato all'uccisione del premier peggiora gravemente la situazione. Perché è l'espressione collettiva di un'avversione totale, senza scampo, irriflessa: una specie di autismo espressivo, l'indizio di una malattia psicologica priva di antidoti culturali.

Barbarie, insomma. Barbarie modernissima e arcaica insieme, come se tra i frequentatori del web, cioè nella parte più aggiornata della società italiana, allignasse un virus capace di spegnere l'intelligenza e di liberare gli istinti più insidiosi. Certo, basta un clic, cioè un gesto quasi automatico, per aderire ai gruppi d'interesse più inquietanti. Si può anche immaginare che, presi uno per uno, gli iscritti al gruppo "Uccidiamo Berlusconi" giustificherebbero facilmente e scioccamente la loro iscrizione e i messaggi inviati, magari con un'alzata di spalle: leggerezze senza importanza. Tanto è vero che su Facebook ci sono circa 500 siti con un titolo che comincia con "Uccidiamo...". E che nel frattempo è stato fondato un altro gruppo, simmetrico, intitolato "Uccidiamo chi vuole uccidere Berlusconi".

Questioni di revanscismo. Ma si può anche legittimamente pensare che alcuni individui, fra le migliaia di antiberlusconiani iscritti al gruppo, siano davvero convinti che la politica italiana possa cambiare soltanto con un colpo violento. Oppure che, più semplicemente, affidino a una violenza figurata la loro frustrazione politica: "Un anonimo autocarro alle quattro di mattina, il prelievo, e poi nulla", come in un film di spionaggio, come i rapimenti e le vendette in un regime dittatoriale.

Tutto questo ha effetti penosi sul clima politico, e non soltanto perché consente alla destra più animosa di alimentare polemiche che ogni volta alludono a una presunta simpatia della sinistra verso gli estremismi; ma perché contribuisce in primo luogo ad alimentare un clima di avversione di cui per molte stagioni proprio la sinistra ("i comunisti") è stata ed è il bersaglio principale. Non è facile oggi, anzi è praticamente impossibile, immaginare atti reali di violenza politica ai danni di Berlusconi o altri uomini di governo. Anche il vecchio episodio del treppiede scagliato contro il Cavaliere, qualcuno lo ricorderà, apparteneva al genere degli atti folli quanto innocui. Ma le espressioni più o meno goliardiche, più o meno bizzarre, si collocano inevitabilmente a fianco delle lettere minatorie firmate da sigle terroristiche minacciose quanto sconosciute, e danno il loro contributo a illividire l'atmosfera politica.

Se è possibile, tuttavia, "Uccidiamo Berlusconi" ha un significato profondo ancora più disarmante, in quanto testimonia una specie di abdicazione dalla politica. Certo minoritaria, legata a ispirazioni dettate dalla solitudine rancorosa della Rete, e tuttavia a suo modo significativa. Perché rappresenta una rinuncia implicita ai metodi e alle procedure della politica, come se fossero inutili. È una specie di antipolitica rovesciata, che mostra un profilo speculare all'antipolitica stessa, di cui Berlusconi è stato un maestro. E che sicuramente si sottrae al perimetro delle convenzioni che regolano la polis. Sembra quasi di assistere a una secessione silenziosa, a un esodo muto e rancoroso, accompagnato da una scia di risentimenti che si sottraggono a ogni norma politica e a ogni codice di civiltà. Probabilmente è in questa rinuncia, in questa secessione irresponsabile, il messaggio più preoccupante che proviene silenziosamente del web.

© Riproduzione riservata (22 ottobre 2009)
da corriere.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Pagheremo tutto
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:18:25 am
Pagheremo tutto

di Edmondo Berselli


Berlusconi è passato dal liberismo allo statalismo versione Tremonti. Per approdare alla non-politica economica  Berlusconi e PutinAi tempi dei tempi, il centrodestra italiano era una fotocopia su scala minore del reaganismo. Nella campagna elettorale del 2001, Silvio Berlusconi appariva sui cartelloni sei per tre con lo slogan 'Meno tasse per tutti': era una variante italica dell'economia 'supply side', secondo cui abbassando le aliquote il gettito sarebbe aumentato (una trovata neoliberista che non è mai stata dimostrata empiricamente ma che ha goduto di molto successo a partire dagli anni Ottanta). Inoltre la coalizione elettorale di Berlusconi si presentava con una ideologia tutta legata a principi liberisti, a cominciare dalla liberalizzazione del mercato del lavoro: qualcuno ricorderà la battaglia sull'articolo 18, la libertà di licenziare presentata come 'libertà di assumere'.

Era tutto un imbroglio. Il governo Berlusconi di quel quinquennio non ha mai rispettato i criteri neoliberisti a cui diceva di ispirarsi. La caduta e la sostituzione del ministro dell'economia Giulio Tremonti rappresentò il fallimento integrale della legislatura di centrodestra. Il Contratto con gli italiani stipulato a 'Porta a Porta', con dotazione di stilografica e scrivania di ciliegio, non venne rispettato. Berlusconi si preparava ad andare incontro a una nuova sconfitta elettorale contro l'Unione di Romano Prodi.

Il Cavaliere, va pure detto, non è granché fortunato. Riconquistato Palazzo Chigi nel 2008, si è trovato davanti a una crisi economica acuta. Non sapeva come affrontarla, e per mesi ha pigiato il tasto delle aspettative. Nei suoi slogan, la recessione era il frutto di atteggiamenti psicologici che deprimevano i consumi; occorreva ottimismo, propensione alla spesa, un'euforia artificiale. A un certo punto, tutti gli esponenti del governo hanno cominciato a sostenere la tesi, infondata, secondo cui 'il peggio era alle spalle'. E si è proseguito così, con proclami e annunci, mentre anche il clima culturale cambiava radicalmente. Anziché il neoliberismo dei primordi, cominciava a diventare moneta corrente lo statalismo colbertista di Tremonti.


Il cambio di rotta non doveva dispiacere a certi ambienti della maggioranza, soprattutto agli ex An confluiti nel Popolo della libertà. Ma si trattava di una specie di metamorfosi: con un cambiamento a rovescio, dal male al peggio: la farfalla liberista diventava il bruco dirigista. E il risultato finale, dopo scontri, manfrine, bufere di neve inventate a San Pietroburgo per far saltare un consiglio dei ministri, incontri privati ad Arcore, era la decisione di non fare niente. Nulla. Dopo il solito annuncio dell'abolizione dell'Irap si è deciso di rinviare tutto a tempi migliori.

Di fatto, siamo passati alla non-politica economica. Evocazione di carrozzoni come la Banca del Sud. E la famosa 'exit strategy' per uscire dalla crisi? I ministri e i viceministri che compaiono come ospiti nei talk show televisivi continuano a ricordare le risorse impegnate negli ammortizzatori sociali: ma c'è voluto un operaio ad 'Annozero' (non un economista di grido, un semplice operaio!), a ricordare polemicamente che dalla crisi economica non si esce con la cassa integrazione, ma con misure di sistema. I giornali hanno dato ampio spazio al Forum della piccola impresa a Mantova, in cui è stato dato l'allarme su un milione di piccole imprese a rischio di chiusura. Ma non sembra che sia stato segnalato che cosa implica tutto questo: cioè milioni, diconsi milioni, di disoccupati potenziali. Nel frattempo il governo è impegnato a progettare riforme costituzionali, sulla giustizia e sulla forma di governo.

Forse non c'è una buona conoscenza della situazione economica reale. D'altronde, quando l'ingegner Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, ad 'Annozero' sostiene a gran voce che dall'inizio della crisi gli Stati Uniti sono calati nel Pil del 13 per cento e il Regno Unito del 12, mentre "noi stiamo resistendo", che si può dire? 'La voce.info' ha smentito rapidamente il viceministro leghista (gli Usa calano del 3,6 per cento, il Regno Unito del 5,5, e noi non stiamo resistendo affatto). Ma nel frattempo noi, cioè l'opinione pubblica, siamo bombardati dalla propaganda del Pdl. Tanto che si perde di vista qualcosa di clamoroso: in pochi anni, la destra è passata da una politica economica neoliberista a una statalista, per finire a nessuna politica economica.

Tremonti cadrà o non cadrà, Umberto Bossi lo salverà o no. Ma nel frattempo si può già constatare, di nuovo, il fallimento del partito berlusconiano sull'economia. Conti pubblici allo sfascio, la spesa inarrestabile, il deficit al 5 per cento, il debito come nei primi anni Novanta. Intere stagioni di sacrifici buttati via. Con qualche conseguenza: alla fine pagheremo caro, pagheremo tutto.

(30 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La partita di Bersani
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 03:59:18 pm
La partita di Bersani

di Edmondo Berselli


Il neosegretario del Pd deve trovare la formula per smascherare le favole di regime  Il neosegretario del Pd Pier Luigi BersaniCon una certa sorpresa si è visto che il Partito democratico cresce nei sondaggi e si avvicina al 30 per cento. Miracolo? Le spiegazioni ufficiali appaiono incerte, e investono soprattutto la mobilitazione provocata dalle primarie. Ma l'effetto della scelta del segretario dovrebbe essere ormai in archivio, e quindi sarebbe meglio cercare altre indicazioni. Tanto più che in capo al Pd si preparano difficoltà fortissime, che sarà bene tenere presenti.

In primo luogo la leadership del partito è ancora debole. Pier Luigi Bersani sta cercando un ruolo e una visione, ma deve ancora incardinarsi nella sua funzione. L'impegno a definire la scacchiera interna, cioè il sistema di rapporti e di poteri dentro il Pd, rende più difficile l'esercizio pubblico, e anche la polemica contro il governo e la maggioranza. Bersani al momento non è in grado di promuovere il dibattito frenetico che Dario Franceschini praticava contro Silvio Berlusconi, e forse non lo vuole nemmeno. Questo si vede nella discussione quotidiana, specialmente sul caso della giustizia e del processo breve, dove il comando della sacrosanta guerriglia è affidato di fatto al ruolo istituzionale di Anna Finocchiaro.

Ma il problema principale del Pd, in questo momento, è ancora la sopravvivenza come alternativa credibile. La risalita nei sondaggi infatti può essere più razionalmente attribuita alla sensazione, da parte dell'opinione pubblica, della necessità di un'opposizione efficiente. Un partito che si avvicina a un terzo dell'elettorato comincia a essere un'opportunità politica. Certo, c'è da fare attenzione, perché si tratta probabilmente di un consenso volatile. In questo momento il Pd è una entità politica ancora molto fragile, e sottoposta a tensioni che per il momento riguardano segmenti di classe dirigente, ma in futuro potrebbero impattare la fisionomia stessa del partito, la sua composizione ideologica, il suo statuto pubblico. Bersani infatti è il portatore di una
visione tradizionale del Pd. Il suo schema in fondo è ancora quello del compromesso socialdemocratico all'emiliana, derivante dai 'ceti medi ed Emilia rossa' di togliattiana memoria, aggiornato secondo schemi che assomigliano ancora a quelli di Romano Prodi. Tessuto industriale, piccola e media impresa, cooperazione, collaborazione fra capitale e lavoro.

La crisi economica, che si farà sentire pesantemente nei prossimi mesi nella manifattura, reca insidie velenose al modello. Ed è per questo che assume peso e importanza anche la piccola diaspora cominciata con l'esodo di Francesco Rutelli, e con abbandoni annunciati come quello del sindaco di Venezia, Massimo Cacciari. Perché ciò che viene messo in discussione da queste fuoruscite è proprio il progetto stesso del Pd. Roba da intellettuali e da politici di lungo corso come Rutelli, che potrebbero interessare pochissimo militanti e simpatizzanti del partito, e di sicuro quasi niente gli elettori che guardano al Pd semplicemente come un'ancora antiregime, quale che sia il suo disegno politico e culturale. Ma il veleno è sottile. Apre varchi nel sistema bipolare, e riporta il centrosinistra a un metodo di alleanze che potrebbe diventare complicatissimo. Ritorna il trattino, con l'illusione della coalizione con l'Udc, mentre qualcuno sogna l'invenzione di Kadima, il nuovo partito della nazione, un centro capace di condizionare spregiudicatamente l'intero arco politico, facendo di nuovo riscaldare i due forni di italica memoria.

Il punto critico fondamentale, comunque, concerne le prossime elezioni regionali. Una sconfitta grave, con il mantenimento soltanto delle regioni rosse, non sarebbe facilmente assimilabile dal partito. Il segretario Bersani deve quindi concentrarsi su candidature e alleanze, tenendo presenti le difficoltà fondamentali, dallaCampania di Bassolino alla Puglia di Vendola. L'obiettivo, ancora una volta, è la resistenza. Se il Pd supera onorevolmente la prova delle elezioni regionali, le prospettive diventano progressivamente migliori.

Per ottenere questo risultato, per il partito 'bocciofila' occorre un pancia a terra senza sconti. A cominciare da un forcing sull'economia reale, per uscire dal concerto di bugie e falsi ottimismi della destra. A Bersani occorre trovare un buco nel sistema di consenso berlusconiano. Come è possibile infatti che crisi e disoccupazione determinino acquiescenza verso il governo, e passività politica di massa nei confronti della destra? Se il segretario trova la formula per smascherare le favole di regime, forse la partita politica si può ancora giocare.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Cosa manca ancora al Pd
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 11:10:37 am
Cosa manca ancora al Pd

di Edmondo Berselli

Con quale proposta politica e culturale Bersani si prepara allo scontro con la destra?
 

Negli ipermercati delle Coop i clienti vanno a caccia di sconti e di prodotti sotto costo. Questo dato commerciale, non appaia un paradosso, è un primo indizio che ci sono due o tre cose da sapere sul Partito democratico, sulla sua condizione sociale, sul suo elettorato. E in questo senso aiuta molto l'indagine svolta nei primi giorni di dicembre da Ipsos per 'Il Sole 24 Ore'. I dati disponibili risultano impressionanti rispetto alla tradizione: perché dimostrano che il berlusconiano Popolo della libertà ha costruito un blocco sociale apparentemente inscalfibile, e dalle caratteristiche addirittura impensabili. L'alleanza con la Lega rende maggioritaria la destra fra gli operai, i pensionati, i disoccupati, le casalinghe, oltre che ovviamente fra gli imprenditori, i professionisti e i commercianti, e territorialmente nel Sud del Paese.

Non è una novità. La classe operaia era passata a destra già alle elezioni del 2001, sfiorando il 60 per cento. Invece l'insediamento del Pd è molto più circoscritto. Nel Triveneto i consensi fra Pdl, Lega e Pd sono divisi esattamente per tre. Il che significa banalmente che il Pd è pesantemente minoritario in una delle aree trainanti dell'Italia attuale, recessione permettendo. Se in passato Ilvo Diamanti aveva discusso del rischio che il centrosinistra si confinasse in una specie di "Lega centro", isolata nelle solite regioni postcomuniste, oggi sembra cristallizzarsi anche la stratificazione sociale, con l'aggravante che l'insediamento sociale del Pd tende a fissarsi sui settori tradizionali dell'impiego pubblico, cioè proprio sugli apparati sottoposti al forcing di ministri come Renato Brunetta e di Mariastella Gelmini.

In sostanza, Pier Luigi Bersani deve trovare una formula politica per spezzare l'accerchiamento del Pd. In questo senso, le elezioni regionali di marzo potrebbero essere un appuntamento decisivo. Una disfatta rappresenterebbe il fallimento di un progetto. Una tenuta, anche faticosa, costituirebbe un nuovo punto di partenza.Tuttavia il problema del Pd non è dato soltanto dalle percentuali elettorali e dalla conquista eventuale di una regione in più rispetto alle previsioni più pessimiste. I dati dell'Ipsos mostrano fra l'altro un numero alto di incerti (oltre un terzo del campione), ma offrono anche l'indicazione di un'opportunità politica.

Ma qui c'è il busillis: con quale progetto, proposta politica, programma culturale il Pd bersaniano si prepara allo scontro con la destra? Per ora la diaspora aperta da Francesco Rutelli, con l'accompagnamento di personalità riformiste come Linda Lanzillotta, non sembra avere provocato danni seri; e nello stesso tempo il Pd cresce nei sondaggi anche perché cannibalizza la sinistra antagonista, dai resti di Rifondazione comunista e i Comunisti italiani a Sinistra e libertà. Dunque rimangono a Bersani e al suo pacchetto di mischia (la presidente Rosy Bindi e il vicesegretario Enrico Letta, autore di una dubbia uscita sulla legittimità di Berlusconi di difendersi 'dal' processo, giustificata a quanto si dice da un presunto suggerimento del Quirinale di mantenere aperto il dialogo sulle riforme) le urgenze più forti. Vale a dire: come si fa a infrangere il gioco di prestigio che ha indotto i poveri e gli impoveriti, cioè le casalinghe da hard discount, i precari licenziati, i cassintegrati, coloro che subiscono gli effetti della crisi economica, all'acquiescenza, alla passività verso il governo Berlusconi.

C'è un problema di alleanze, reso complicato dalla sostanziale incompatibilità fra l'Udc di Casini e l'Idv di Di Pietro. Esiste come problema il rapporto con la piazza 'viola', emerso con la manifestazione romana del No-Berlusconi Day. Ci sono anche questioni chissà quanto gestibili sulla bioetica, la pillola abortiva, il testamento biologico, il fine vita. Ma si avverte specialmente l'assenza di un cuneo politico-culturale che sia in grado di esorcizzare la magia mondana del berlusconismo: non in quanto ideologia secolare e modaiola, happy hour, movida milanese o romana, bensì agglutinamento di interessi non sempre ben identificati ma integrati in una collosità inscindibile.

Con il tempo, il Pd ha smarrito anche una parte consistente del rapporto con il mondo cattolico. Meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per il centrosinistra, mentre fra Pdl e Lega, fra i praticanti assidui o saltuari, le preferenze superano di buona lena il 50 per cento. Si è persa insomma la sintesi prodiana, politica, economica, culturale e religiosa. Che possa essere recuperata, è forse la vera e ultima chance del socialdemocratico Bersani.

(10 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La pubblicità del Cavaliere
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2009, 10:37:49 am
IL COMMENTO

La pubblicità del Cavaliere

di EDMONDO BERSELLI


Gli ultimi sondaggi sembrano attestare una significativa crescita di consenso di Silvio Berlusconi dopo l'aggressione di Piazza del Duomo (l'indice sarebbe cresciuto di sei-sette punti). I numeri sono la prova provata del successo propagandistico ottenuto dalla campagna del Pdl.

In sintesi, secondo Fabrizio Cicchitto e soci: i nemici del Cavaliere hanno creato un clima di odio, e in questa atmosfera livida si è scatenata la violenza di Massimo Tartaglia. Uno "psicolabile", che però ha riassunto nel suo gesto l'avversione antropologica verso il premier, un sentimento che secondo il sondaggista Renato Mannheimer accomuna il 20-25 per cento del centrosinistra.

L'aspetto pubblicitario di questo argomento è stato immediatamente raccolto ieri nella telefonata del premier ai giovani del Pdl radunati a Verona. Il ragionamento di Berlusconi è stato di una semplicità assoluta. Quando si racconta che il capo del governo non soltanto frequenta minorenni (e prostitute), ma viene additato anche come corruttore, mafioso e stragista, non c'è da stupirsi se certe menti deboli si fanno prendere la mano. Fin qui l'inversione dei fatti e delle responsabilità è vistosa. Le accuse, o almeno le critiche, a Berlusconi non derivano da un "cervello unico della sinistra"; a parlare di minorenni è stata Veronica Lario; di escort un'inchiesta giudiziaria barese; di corruzione di testimoni (il caso Mills) la sentenza di un tribunale, di mafia un pentito nel corso di un processo regolarmente istruito.

Ma ignorare la realtà è una delle migliori specializzazioni del Pdl. Di fronte a ogni contestazione sui fatti, in base a notizie circostanziate, i portavoce della destra rispondono strillando contro i fomentatori di odio e i celebri mandanti morali. Quando in realtà, di fronte a ciò che dicono, che so, Marco Travaglio o Antonio Di Pietro, si tratterebbe solo di capire se è vero o se è falso. Al di là della loro aggressività possono essere smentiti o no? Da parte dei "combattenti" della destra, come Maurizio Lupi e Fabrizio Cicchitto, non si è mai ascoltata una contestazione seria su fatti ed episodi concreti. In questo modo la retorica nazionale sull'odio è diventata un dato di fatto, una specie di incontestata realtà ambientale. E Berlusconi, che ha fabbricato una carriera politica proprio dividendo in due la società italiana e separando i nemici, "i comunisti", dai cittadini per bene, oggi può consentirsi di fare il benevolo padre della patria, augurandosi che "da un male nasca un bene" e che l'odio svanisca dalla politica.
Sarebbe tuttavia un fraintendimento, e grave, pensare che il premier sia cambiato. E che sia cambiata la sua concezione della politica. Vero è che dalla convalescenza di Arcore sfoggia formule di tolleranza volterriana ("Da quest'ultima esperienza dobbiamo essere ancora più convinti di quanto abbiamo praticato fino ad oggi e cioè che sia giusto il nostro modo di considerare gli avversari come persone che la pensano in modo diverso da noi, ma che hanno il diritto di dire tutto ciò che pensano, che noi dobbiamo difenderli per far sì che lo possano dire e che non sono nemici o persone da combattere in ogni modo, ma sono persone da rispettare. Lo facciamo noi con gli altri e ci piacerebbe che lo facessero gli altri nei nostri confronti").

Tuttavia queste sono parole. Dietro ci sono le idee. E le idee di Berlusconi sulla democrazia liberale sono a dir poco singolari. Perché il premier e i suoi uomini sono convinti di poter imporre la loro agenda politica anche all'opposizione. Sarebbe utile formulare un programma di riforme istituzionali per rendere più efficiente lo Stato e più giusta la giustizia? Già, ma per avviare un riforma condivisa il Pd faccia il piacere di liberarsi dall'alleato più ingombrante e vocale, cioè Antonio Di Pietro, ormai demonizzato senza pietà come un eversore. E Pier Luigi Bersani si tolga dai piedi le ultime cianfrusaglie movimentiste, rinunci alle idee "socialiste", e se è il caso abbandoni al loro destino anche gli esponenti più combattivi, i "bolscevichi bianchi" irriducibili al "consenso organizzato" (di brezneviana memoria) come la pasionaria Rosy Bindi.

A suo modo la concezione di Berlusconi è talentuosa, anche se lontana da ogni concezione moderna della democrazia. Il premier sta rivelando ciò che ha sempre pensato, nella sua ormai lunga carriera pubblica. La politica è unica, senza distinzioni fra maggioranza e minoranze. Senza articolazioni culturali, ideologiche e neppure organizzative. Si tratta semplicemente di annettere per corporazioni, o per "caste", i blocchi politici dell'intero spettro rappresentativo. Il resto viene di conseguenza: riforme concesse dall'alto, come le costituzioni nell'Ottocento, per ritagliare giochi di ruolo da attribuire a partiti-simulacro. Una società d'ordini come nell'ancien régime. Retorica epocale su federalismi e autonomie, in modo da nascondere la realtà del comando unificato e dell'opposizione ridotta a flebile strumento di sua Maestà. Una Costituzione aziendale per assecondare il decisionismo post-democratico. E sullo sfondo, insieme con il perdono di Stato per il premier-sovrano da attuare con leggina ad personam, o con inciucio kolossal, ecco infine l'immagine che incombe sul sistema democratico: quella del "partito unico", approvato con elevati sondaggi e un senso di liberazione dall'odio dalla democraticissima e disincantata Italia contemporanea.

© Riproduzione riservata (21 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Cosa manca ancora al Pd
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2010, 03:59:52 pm
Cosa manca ancora al Pd

di Edmondo Berselli

Con quale proposta politica e culturale Bersani si prepara allo scontro con la destra?
 

Negli ipermercati delle Coop i clienti vanno a caccia di sconti e di prodotti sotto costo. Questo dato commerciale, non appaia un paradosso, è un primo indizio che ci sono due o tre cose da sapere sul Partito democratico, sulla sua condizione sociale, sul suo elettorato.
E in questo senso aiuta molto l'indagine svolta nei primi giorni di dicembre da Ipsos per 'Il Sole 24 Ore'. I dati disponibili risultano impressionanti rispetto alla tradizione: perché dimostrano che il berlusconiano Popolo della libertà ha costruito un blocco sociale apparentemente inscalfibile, e dalle caratteristiche addirittura impensabili. L'alleanza con la Lega rende maggioritaria la destra fra gli operai, i pensionati, i disoccupati, le casalinghe, oltre che ovviamente fra gli imprenditori, i professionisti e i commercianti, e territorialmente nel Sud del Paese.

Non è una novità. La classe operaia era passata a destra già alle elezioni del 2001, sfiorando il 60 per cento. Invece l'insediamento del Pd è molto più circoscritto. Nel Triveneto i consensi fra Pdl, Lega e Pd sono divisi esattamente per tre. Il che significa banalmente che il Pd è pesantemente minoritario in una delle aree trainanti dell'Italia attuale, recessione permettendo.

Se in passato Ilvo Diamanti aveva discusso del rischio che il centrosinistra si confinasse in una specie di "Lega centro", isolata nelle solite regioni postcomuniste, oggi sembra cristallizzarsi anche la stratificazione sociale, con l'aggravante che l'insediamento sociale del Pd tende a fissarsi sui settori tradizionali dell'impiego pubblico, cioè proprio sugli apparati sottoposti al forcing di ministri come Renato Brunetta e di Mariastella Gelmini.

In sostanza, Pier Luigi Bersani deve trovare una formula politica per spezzare l'accerchiamento del Pd. In questo senso, le elezioni regionali di marzo potrebbero essere un appuntamento decisivo. Una disfatta rappresenterebbe il fallimento di un progetto. Una tenuta, anche faticosa, costituirebbe un nuovo punto di partenza.Tuttavia il problema del Pd non è dato soltanto dalle percentuali elettorali e dalla conquista eventuale di una regione in più rispetto alle previsioni più pessimiste. I dati dell'Ipsos mostrano fra l'altro un numero alto di incerti (oltre un terzo del campione), ma offrono anche l'indicazione di un'opportunità politica.

Ma qui c'è il busillis: con quale progetto, proposta politica, programma culturale il Pd bersaniano si prepara allo scontro con la destra? Per ora la diaspora aperta da Francesco Rutelli, con l'accompagnamento di personalità riformiste come Linda Lanzillotta, non sembra avere provocato danni seri; e nello stesso tempo il Pd cresce nei sondaggi anche perché cannibalizza la sinistra antagonista, dai resti di Rifondazione comunista e i Comunisti italiani a Sinistra e libertà. Dunque rimangono a Bersani e al suo pacchetto di mischia (la presidente Rosy Bindi e il vicesegretario Enrico Letta, autore di una dubbia uscita sulla legittimità di Berlusconi di difendersi 'dal' processo, giustificata a quanto si dice da un presunto suggerimento del Quirinale di mantenere aperto il dialogo sulle riforme) le urgenze più forti. Vale a dire: come si fa a infrangere il gioco di prestigio che ha indotto i poveri e gli impoveriti, cioè le casalinghe da hard discount, i precari licenziati, i cassintegrati, coloro che subiscono gli effetti della crisi economica, all'acquiescenza, alla passività verso il governo Berlusconi.

C'è un problema di alleanze, reso complicato dalla sostanziale incompatibilità fra l'Udc di Casini e l'Idv di Di Pietro. Esiste come problema il rapporto con la piazza 'viola', emerso con la manifestazione romana del No-Berlusconi Day. Ci sono anche questioni chissà quanto gestibili sulla bioetica, la pillola abortiva, il testamento biologico, il fine vita. Ma si avverte specialmente l'assenza di un cuneo politico-culturale che sia in grado di esorcizzare la magia mondana del berlusconismo: non in quanto ideologia secolare e modaiola, happy hour, movida milanese o romana, bensì agglutinamento di interessi non sempre ben identificati ma integrati in una collosità inscindibile.

Con il tempo, il Pd ha smarrito anche una parte consistente del rapporto con il mondo cattolico. Meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per il centrosinistra, mentre fra Pdl e Lega, fra i praticanti assidui o saltuari, le preferenze superano di buona lena il 50 per cento. Si è persa insomma la sintesi prodiana, politica, economica, culturale e religiosa. Che possa essere recuperata, è forse la vera e ultima chance del socialdemocratico Bersani.

(11 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Il peso del voto cattolico
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:52:43 am
Il peso del voto cattolico

di Edmondo Berselli

Il confronto fra la Bonino e la Polverini in realtà è molto laico, e molto moderno perché coinvolge due donne
 
Come si poteva facilmente immaginare, il malpancismo nel Partito democratico si è manifestato piuttosto alla svelta e investe soprattutto il rapporto con il mondo cattolico. Finora ha riguardato soprattutto segmenti di classe dirigente, fin dal momento in cui Francesco Rutelli (con Lorenzo Dellai e altri) si è staccato dal Pd, "partito mai nato" a suo giudizio, per fondare l'Alleanza per l'Italia, movimentino centrista che ha l'ambizione di spostare gli equilibri politici nazionali.

Ma non ci sono soltanto gli spostamenti nella classe dirigente. Il problema del rapporto con il mondo cattolico investe in realtà tutto l'elettorato, come dimostra la candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio. E qui casca l'asino: cioè si comincia a ragionare effettivamente sul peso del voto cattolico e sul suo rapporto con i cittadini nel loro insieme.

Secondo una visione vecchio stampo, la scelta di una figura laica come quella della Bonino porterebbe a un elemento di disaffezione, con la caduta di una parte del consenso cattolico verso il Pd. Ci sarebbe in sostanza ancora un legame di rito antico, che connette il mondo cattolico alla politica, e che si manifesterebbe con atteggiamenti più o meno classici nei confronti dei protagonisti politici e delle loro culture. In questo senso la scelta di una figura laica, se non proprio laicista, come quella della Bonino potrebbe generare un disagio netto fra gli elettori cattolici.

Può essere. Ma negli ultimi anni l'atteggiamento dei cattolici verso la politica sembra essere cambiato, e notevolmente. Mentre le classi dirigenti continuano a ragionare secondo i vecchi schemi, l'opinione pubblica genericamente cattolica sembra essersi notevolmente secolarizzata. Tende in sostanza a valutare la politica e i protagonisti politici come un mondo a sé stante, che risponde a proprie logiche, senza essere condizionato da principi supremi di carattere etico.

Questo principio di secolarizzazione investe tutto l'arco del cattolicesimo italiano. Può essere deprecato, ma è un fenomeno visibile e registrabile anche in termini sociologici. Ci sono in sostanza ormai due cattolicesimi: uno è quello delle classi dirigenti, che porta con sé il mondo dei valori tradizionali applicabili in politica, e l'altro è il cattolicesimo secolarizzato, convenzionale, che difficilmente trova riferimenti espliciti nella politica.

Per quest'ultimo elettorato, è difficile individuare un chiaro legame fra una cultura di carattere religioso e il comportamento politico-elettorale. Si identifica più facilmente un atteggiamento che è quello dell'elettore generico, che giudica e vota in base alle sue preferenze, scegliendo molto in seguito alle proprie aspettative e ai propri desideri.

Proprio per questo, il confronto fra la Bonino e la Polverini in realtà è molto laico; anzi, molto moderno perché mediatico, in quanto coinvolge due donne. Quindi l'aspetto 'cattolico' risulta piuttosto secondario rispetto al conflitto politico, che al di là del fair play femminile degli inizi, alla fine risulterà piuttosto aspro.

Bene o male che vada, alla fine anche nel Lazio, come in tutta Italia, si voterà infatti scegliendo fra destra e sinistra, fra chi ama Berlusconi e chi lo detesta. In un contesto simile, il laicismo della Bonino è un fattore secondario (sempre ammesso che Emma non la butti sull'abortismo spinto o cose del genere). Il Lazio, come altre regioni strategiche, costituisce una prova politica che può influenzare l'intera tornata elettorale delle regionali. La scelta della Bonino, sempre ammesso che il Pd nel frattempo non cambi idea, è prima di tutto una decisione politica, con il tentativo di trovare una personalità forte, da contrapporre a una candidata attraente su vari fronti come la Polverini.

Quindi il cattolicesimo c'entra poco. Riguarda semmai quegli spezzoni di politica, come l'Udc e i frammenti centristi, che pensano di trarre vantaggio dal legame ideologico e morale con il mondo cattolico. Ma bisogna vedere se questo è un calcolo credibile e realistico. Perché la politica è sempre più laica, secolarizzata, priva di valori ultimi. Vincere in queste condizioni implica una competizione ultra-laica.

(21 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Nel mondo delle favole
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:01:19 pm
Nel mondo delle favole

di Edmondo Berselli


Dire sonore bugie: è la tecnica da talk show inventata dagli spin doctor del centrodestra. Che funziona
 

Una delle tecniche da talk show inventate dagli spin doctor del centrodestra è semplice e irresistibile: dire sonore bugie. E poi ripeterle. Le bugie sono inconfutabili, anche perché ammutoliscono gli interlocutori; richiederebbero verifiche d'archivio, e in studio non c'è ovviamente né modo né tempo.

Poche settimane fa, all''Infedele' di Gad Lerner, una giovane esponente del Pdl, Francesca Pascale, consigliere provinciale a Napoli dopo una carriera in televisioni locali, ha aperto il suo discorso accusando esplicitamente Rosa Russo Jervolino di avere compiuto brogli alle elezioni comunali di Napoli. Qualche voce si è levata a contestare questa affermazione, priva di ogni prova, Lerner ha puntualizzato, ma dopo qualche minuto la discussione ha naturalmente cambiato segno, e dei brogli della Jervolino non si è più parlato. Per la cronaca, la Jervolino ha querelato, ma prima di una sentenza definitiva passeranno alcuni anni e intanto la signorina Pascale avrà ottenuto il suo scopo. Perché in casi come questo ciò che interessa ai protagonisti non è rivelare qualcosa, uno scandalo, una verità nascosta, ma semplicemente far vibrare un elemento emotivo. Poco importa della verità: importa che l'intera audience venga coinvolta in una vera o falsa entità semantica, che metta nella memoria quella dichiarazione, in modo che al momento buono risuoni ancora nell'intelletto. L'equazione Jervolino uguale brogli. Vera, falsa, mah. Per dire, circola un video della consigliera Pascale in cui quattro ragazze in costume cantano "Se abbassi la mutanda si alza l'auditelle", ma a noi non interessa, ciò che conta sono gli argomenti politici della pidiellina Pascale, se ne ha, a patto che non ripeta a pappagallo la propaganda del centrodestra.

A proposito, basta ascoltare due o tre esponenti del
Pdl per accorgersi che le bugie sono pianificate e costruite con perfetta sapienza. Per fare qualche esempio: "Gli italiani hanno fatto capire che vogliono una giustizia che funzioni". Figurarsi, gli italiani. Diffidare di qualsiasi politico che attribuisce "agli italiani" una volontà generale indiscutibile, e un 'mandato' degli elettori alla politica.

Ancora: "Il peggio è alle spalle. Stiamo uscendo dalla crisi, e in modo migliore rispetto agli altri paesi europei". Questo è uno dei mantra della destra, ma basta controllare con un po' di assiduità i dati de 'la voce.info' per vedere che si tratta di barzellette. Ma, intanto, si è riusciti per esempio a far diventare la giustizia una questione nazionale. In realtà il sistema giudiziario ha soltanto due problemi: uno, la posizione di Silvio Berlusconi; due, l'inefficienza di sistema. Il primo problema è praticamente irrisolvibile perché implica il coinvolgimento della politica, e quindi il dibattito sul legittimo impedimento e il processo breve, con l'opposizione che viene considerata 'giustizialista' se si oppone a stravolgimenti costituzionali. Il secondo, l'inefficienza del sistema giudiziario, coinvolge la funzione dei magistrati, il loro ruolo, le ore lavorate, l'efficacia delle indagini, e non ultimo la gerarchizzazione del lavoro: quindi non si risolve con leggine o provvedimenti parziali. Ma nei talk show conviene raccontare bugie. All'unisono, gli esponenti del Pdl, ripeteranno le loro fole, concordate come sulle veline del Minculpop.

Ma la verità ha l'antipatica tendenza a farsi viva a dispetto delle falsità ufficiali. È sufficiente guardare la realtà dell'andamento industriale per capire che l'ottimismo concordato da ministri e viceministri è una visione di facciata. Le ore di cassa integrazione sono lì a dimostrarlo; le indagini dellaBanca d'Italia dicono che la produzione industriale è in arretrato oggi di cento trimestri; i dati sulla disoccupazione preoccupano, e inquieta la possibilità che la crisi produca altri senza lavoro. Che importa. Ciò che conta è trasmettere visioni ottimistiche. Bugie. Ripeterle con sicurezza, sulla giustizia, sulla Costituzione, sull'economia. Signori, questo è il panglossiano migliore dei mondi possibili. Va tutto per il meglio, anzi, andrebbe tutto per il meglio se non ci fosse un'opposizione irresponsabile, ancora condizionata dai comunisti e dai giustizialisti, e incapace di collaborare. Quindi niente musi lunghi.

Il primo comandamento dice: io credo nelle favole. I restanti comandamenti sono accessori. Credo in ciò che dice il ministro Alfano, il ministro Castelli, in ciò che dicono tutti i bugiardi professionisti che partecipano a 'Ballarò' o a 'Annozero'. Amen.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Emma che impresa
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:38:05 am
Emma che impresa

di Edmondo Berselli

Quello della Bonino è un salto mortale triplo: mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura
 

Per capire che cos'è il berlusconiano Pdl bisogna guardare al formidabile pasticcio combinato a Roma con la mancata presentazione delle liste. Ma anche la campagna elettorale di Renata Polverini non sembra proprio decollata. La sindacalista dell'Ugl è una creatura di Gianfranco Fini, e sembra più che altro un cuneo infilato dentro il Popolo della libertà per recare fastidio intellettuale ai berluscones.

Tutto questo comunque non basta a dare una vera spinta alla candidata di centrosinistra Emma Bonino, che presenta seri problemi e seri problemi potrà avere con il suo elettorato di riferimento. La Bonino è un politico abituato, salvo casi eccezionali, a cifre percentuali fra l'1 e il 2,5 per cento. È una radicale purissima, oro colato, e lo si è visto nel metodo con cui ha aperto la sua campagna pubblica, inaugurando uno sciopero della fame e della sete praticamente inspiegabile ma di pretto stampo radicale: senza aggiungere poi che sullo sfondo politico romano gli elettori del Pd vedevano profilarsi la figura ormai nosferatiana di Marco Pannella, padre padrone dei radicali e sostanziale spauracchio per l'elettorato moderato, che in parte ne apprezzerà teoricamente le battaglie legalitarie molto più di quanto sarà disposto a votare per una coalizione segnata da ombre radicali.

Figurarsi poi, come si è accennato, all'impatto con la Roma più scettica, con il ventre tiepido dell'elettorato tiberino. La Bonino rischia di apparire come una fanatica, una signora un po' fissata con battaglie d'altri tempi, anche se qualcuno forse ricorderà benevolmente le sue buone prove in Europa come commissario. Ma è sufficiente l'allure europea di Emma per darle competitività a Roma?

Il fatto è che per riuscire ad avere qualche chance contro la Polverini, che unisce fighettismo di borgata e coattismo di città, la Bonino dovrebbe abbandonare per qualche settimana le modalità tipicamente radicali del fare politica. Uscire cioè dalla sindrome minoritaria e diventare effettivamente il candidato di tutto il centrosinistra. Si tratta di un'impresa non facile, data anche la struttura della cultura politica dei radicali, che quasi sempre appare inscalfibile. Tuttavia occorre che la Bonino capisca che deve conquistare voti 'generici', non soltanto di tendenza. E quindi presentarsi davvero come il candidato di tutti. Oltretutto Roma è una città difficile, anche senza dire una sola parola sul caso
Marrazzo, e quindi la 'reconquista' si presenta estremamente difficile: un governatore super laico, forse addirittura anticlericale, nella capitale del cattolicesimo, nella città del papa! C'è da immaginare tutta l'ostilità del 'partito romano', cioè della vecchia Roma cinica e baciapile. Non è, questo, un elemento da trascurare. La politica romana è molle e rocciosa, come la vecchia Dc, apparentemente malleabile ma alla lunga resistentissima.

Come si fa allora a scalfire il successo mondano della Polverini e del centrodestra (ammesso che un centrodestra ci sia a Roma)? L'impresa è tutt'altro che facile. In pochi mesi la Polverini ha guadagnato una sua credibilità, quasi tutta basata su fattori extrapolitici: la scollatura, un filo di distanza esibita dalla politica ufficiale, la capacità dialettica di rovesciare la frittata, la partecipazione ai talk show, dove serve soprattutto presenza scenica. Per la Bonino la strada è in salita perché come figura pubblica è più 'vecchia', e rappresenta una politica già vista, molto stagionata. Tuttavia ha qualche possibilità di presentarsi con un'immagine di freschezza, perché non è logorata dalla permanenza nella politica. Eventualmente sono logori i suoi metodi, ma forse non la sua figura. Pier Luigi Bersani sa benissimo che la conquista del Lazio è una delle condizioni strategiche per definire il successo della sua segreteria al Pd. Quindi anche la scelta della Bonino è stata una decisione in parte politica e in parte mediatica.

C'è da augurarsi insomma che la Bonino sappia mobilitare gli elettori laici senza scoraggiare gli elettori cattolici. Deve avvenire una specie di miracolo politico, a questo scopo. D'altra parte il centrosinistra, se vuole proporsi davvero come alternativa politica a Berlusconi, deve coagulare un elettorato molto diversificato. L'esperimento Bonino dovrebbe essere la prova di come si possono mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura. È un salto mortale triplo, avvitato e carpiato. Molto dipende da come si comporterà Emma. Ma, come si dice, chi non risica non rosica.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Emma che impresa
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 11:43:41 pm
Emma che impresa

di Edmondo Berselli

Quello della Bonino è un salto mortale triplo: mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura
 

Per capire che cos'è il berlusconiano Pdl bisogna guardare al formidabile pasticcio combinato a Roma con la mancata presentazione delle liste. Ma anche la campagna elettorale di Renata Polverini non sembra proprio decollata. La sindacalista dell'Ugl è una creatura di Gianfranco Fini, e sembra più che altro un cuneo infilato dentro il Popolo della libertà per recare fastidio intellettuale ai berluscones.

Tutto questo comunque non basta a dare una vera spinta alla candidata di centrosinistra Emma Bonino, che presenta seri problemi e seri problemi potrà avere con il suo elettorato di riferimento. La Bonino è un politico abituato, salvo casi eccezionali, a cifre percentuali fra l'1 e il 2,5 per cento. È una radicale purissima, oro colato, e lo si è visto nel metodo con cui ha aperto la sua campagna pubblica, inaugurando uno sciopero della fame e della sete praticamente inspiegabile ma di pretto stampo radicale: senza aggiungere poi che sullo sfondo politico romano gli elettori del Pd vedevano profilarsi la figura ormai nosferatiana di Marco Pannella, padre padrone dei radicali e sostanziale spauracchio per l'elettorato moderato, che in parte ne apprezzerà teoricamente le battaglie legalitarie molto più di quanto sarà disposto a votare per una coalizione segnata da ombre radicali.

Figurarsi poi, come si è accennato, all'impatto con la Roma più scettica, con il ventre tiepido dell'elettorato tiberino. La Bonino rischia di apparire come una fanatica, una signora un po' fissata con battaglie d'altri tempi, anche se qualcuno forse ricorderà benevolmente le sue buone prove in Europa come commissario. Ma è sufficiente l'allure europea di Emma per darle competitività a Roma?

Il fatto è che per riuscire ad avere qualche chance contro la Polverini, che unisce fighettismo di borgata e coattismo di città, la Bonino dovrebbe abbandonare per qualche settimana le modalità tipicamente radicali del fare politica. Uscire cioè dalla sindrome minoritaria e diventare effettivamente il candidato di tutto il centrosinistra. Si tratta di un'impresa non facile, data anche la struttura della cultura politica dei radicali, che quasi sempre appare inscalfibile. Tuttavia occorre che la Bonino capisca che deve conquistare voti 'generici', non soltanto di tendenza. E quindi presentarsi davvero come il candidato di tutti. Oltretutto Roma è una città difficile, anche senza dire una sola parola sul caso
Marrazzo, e quindi la 'reconquista' si presenta estremamente difficile: un governatore super laico, forse addirittura anticlericale, nella capitale del cattolicesimo, nella città del papa! C'è da immaginare tutta l'ostilità del 'partito romano', cioè della vecchia Roma cinica e baciapile. Non è, questo, un elemento da trascurare. La politica romana è molle e rocciosa, come la vecchia Dc, apparentemente malleabile ma alla lunga resistentissima.

Come si fa allora a scalfire il successo mondano della Polverini e del centrodestra (ammesso che un centrodestra ci sia a Roma)? L'impresa è tutt'altro che facile. In pochi mesi la Polverini ha guadagnato una sua credibilità, quasi tutta basata su fattori extrapolitici: la scollatura, un filo di distanza esibita dalla politica ufficiale, la capacità dialettica di rovesciare la frittata, la partecipazione ai talk show, dove serve soprattutto presenza scenica. Per la Bonino la strada è in salita perché come figura pubblica è più 'vecchia', e rappresenta una politica già vista, molto stagionata. Tuttavia ha qualche possibilità di presentarsi con un'immagine di freschezza, perché non è logorata dalla permanenza nella politica. Eventualmente sono logori i suoi metodi, ma forse non la sua figura. Pier Luigi Bersani sa benissimo che la conquista del Lazio è una delle condizioni strategiche per definire il successo della sua segreteria al Pd. Quindi anche la scelta della Bonino è stata una decisione in parte politica e in parte mediatica.

C'è da augurarsi insomma che la Bonino sappia mobilitare gli elettori laici senza scoraggiare gli elettori cattolici. Deve avvenire una specie di miracolo politico, a questo scopo. D'altra parte il centrosinistra, se vuole proporsi davvero come alternativa politica a Berlusconi, deve coagulare un elettorato molto diversificato. L'esperimento Bonino dovrebbe essere la prova di come si possono mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura. È un salto mortale triplo, avvitato e carpiato. Molto dipende da come si comporterà Emma. Ma, come si dice, chi non risica non rosica.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Senza più regole
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 03:23:46 pm
Senza più regole

di Edmondo Berselli


Impone le sue leggi. Si scontra con il Quirinale. Travolge le istituzioni. Insulta gli avversari. Lascia dietro di sé scandali e problemi insoluti. Con il risultato di portare il Paese nel caos
 
C'è un particolare tipo di milanese, che nei caffè e nei trani a gogò, quando c'erano ancora, chiamano 'il veneziano'. È l'equivalente lombardo del 'fasso tutto mi': un uomo che si sente capace di tutto, di qualsiasi impresa, di qualunque avventura. Nel nostro caso, come si capisce, si chiama Silvio Berlusconi, è nato nel quartiere milanese dell'Isola, e nella vita ha fatto effettivamente di tutto. Ha suonato e cantato sulle navi da crociera con il suo sodale Fedele Confalonieri, ha intonato al pianoforte 'La vie en rose' davanti a un allibito Mitterrand, ha costruito dal niente due città satelliti a Milano, si è arricchito e ha creato la televisione commerciale in Italia, formando un impero editoriale che poi gli è venuto utile strumentalmente quando ha deciso di entrare in politica.

Nel frattempo, ha deciso che nessuna regola poteva fermare la sua corsa, e per questo ha slabbrato il tessuto istituzionale, distruggendo sostanzialmente l'impianto di pesi e contrappesi su cui si reggeva l'architettura del sistema italiano. Lo ha fatto sempre sorridendo, sempre convinto delle proprie capacità e sorretto dal cinismo dell'imprenditore, che sa fin dove può spingersi e quando ritirarsi, senza alcuna remora etica. Gli affari sono affari, e la politica è un affare. L'ultima prova si è avuta sul pasticcio delle liste a Roma e a Milano. Berlusconi sonnecchiava non si sa dove, indifferente alla crisi, alla politica economica, alle urgenze del governo: quando si è accorto che il caso stava per scoppiare, con evidenti problemi per la tenuta della maggioranza e del Pdl. Allora si è precipitato nella capitale, imponendo di fatto a Giorgio Napolitano l'emanazione di un decreto legge 'interpretativo' (ma in realtà innovativo), che interveniva sulla legge elettorale cambiandola in modo da riammettere Renata Polverini a Roma e Roberto Formigoni a Milano.

Lo stile di Berlusconi è stato pari alla sua personalità. Materializzatosi con un gioco di prestigio a palazzo Grazioli, ha costretto il presidente della Repubblica, con un confronto molto acceso, ad accettare il decreto legge del governo, appellandosi al fatto che la suprema legge della democrazia è quella che consente ai cittadini di votare per il partito e il candidato prescelto. Già il presidente del Senato Schifani, con un'ardita interpretazione che rovesciava tutta l'impostazione giuridica di un maestro del Novecento come Kelsen, aveva suggerito che in certi casi la sostanza conta più della forma. L'argomento era risibile, e intendeva sostenere che se le firme non c'erano o erano farlocche si poteva farne a meno, secondo un'interpretazione modernista o futurista della legge.

Purtroppo l'argomento era irresistibile, e Berlusconi se n'è appropriato, facendolo diventare la parola d'ordine di tutto il Pdl. In questo modo è riuscito di nuovo ad apparire quello che gli piace essere: il Caimano, o il Sultano. È il 'solutore di problemi' di Quentin Tarantino, l'uomo che sposta con pochi sguardi tutta l'immondizia di Napoli, il datore di lavoro di Guido Bertolaso. Dietro di lui, vacche sacre che speculano sugli appalti pubblici, fornitori di raccomandazioni, cognati, cricche, tesoretti, diamanti. Ma per Berlusconi non ci sono regole che possano fermarne l'azione: una volta individuato l'obiettivo, 'Silvio' non ha remore: i giudici, i pm, i sindacalisti, i politici dell'opposizione, tutti i dipendenti pubblici diventano "comunisti", gente che non ha mai lavorato un giorno nella vita, da spostare ai margini dell'elettorato e da battere sonoramente nel nome della libertà.

Con tutto questo, nel nome del pensiero liberale e dell'anticomunismo, Berlusconi ha potuto fare tutto: attrarre strumentalmente l'opposizione in trappola e poi denigrarla dicendo che era pur sempre comunista, capace unicamente di dire dei no, mentre "noi siamo il partito del fare". Alla fine si tratterà di stilare un bilancio, e valutare l'attivo e il passivo della gestione Berlusconi. All'attivo metteremo, paradossalmente, il fatto che abbia governato poco, lasciando l'iniziativa economica nelle mani di Giulio Tremonti e i problemi del welfare in quelle di Maurizio Sacconi, che non hanno fatto danni eccessivi.

Al passivo invece metteremo tutte le invenzioni sulla giustizia, a cominciare dalla pagliacciata sul processo breve, sul legittimo impedimento, su tutti i lodi a venire e sulle leggi ad personam per evitare i processi che lo riguardano. Intanto, Berlusconi si gode la formula 'pijo tutto', e i sondaggi favorevoli, sia pure appannati negli ultimi giorni, nonostante la depressione economica. Già la crisi: ancora non s'è capito come un capo del governo che gestisce a fatica e senza fantasia l'impoverimento del Paese possa godere di un consenso comunque alto, sbandierato ogni giorno davanti all'opinione pubblica. Qualcuno, per favore, può suggerire a Pier Luigi Bersani che occorre infilare il dito, o il cacciavite, in questa sindrome, e spezzare la 'contraddizion che nol consente': declino economico, declino civile, da una parte, e dall'altra acquiescenza verso il governo, con poche manifestazioni di protesta contro i casi più gravi sotto il profilo della disoccupazione.

Intanto Berlusconi prosegue nella sua partita ideologica. Ha plasmato la società italiana facendole capire che leggi e regole non sono niente (proprio come il marchese del Grillo, "io so' io e voi nun siete un cazzo"). E ha mostrato con l'esempio che cosa sia una 'politica di sviluppo': evasione fiscale, elusione delle norme, tangenti, appalti teleguidati. Il risultato è che mezza Italia si è convinta di essere dentro una seconda Tangentopoli, e l'altra metà sta pensando a come approfittarne.

Il clima, grazie al 'fasso tuto mi', è più o meno boliviano. 'Silvio' ricorre di nuovo alla piazza e minaccia risultati elettorali spaventosi per l'opposizione. Basteranno alcune settimane per capire se 'il veneziano', l'uomo del fare, avrà sfondato del tutto, alle elezioni regionali. E in quel momento capiremo anche qualcosa in più sulla società nazionale, sulla rottura delle convenzioni divenuta
regola generale, grazie al formidabile 'fasso tuto mi' di Silvio.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI La sindrome del padrone
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2010, 10:14:29 am
L'EDITORIALE

La sindrome del padrone

di EDMONDO BERSELLI

La questione politica, e ormai anche strutturale e storica del rapporto fra Silvio Berlusconi e la giustizia, è diventata una questione di sistema, perché fra il premier e le articolazioni della magistratura è scattata la guerra totale.

Ormai Berlusconi sta accentuando il suo ruolo proprietario, in quanto il premier tratta da padrone le istituzioni giudiziarie e le autorità neutrali. Lo si vede con l'atteggiamento assunto verso la procura di Trani, trattata come un tassello del complotto che si starebbe sviluppando contro la presidenza del Consiglio, con una funzione schiettamente politica, e con le parole rivolte verso l'AgCom, considerata semplicemente come un pezzo dell'immensa manomorta berlusconiana.

Sotto questa luce, è l'intera Italia a essere di proprietà del capo del governo. Nel silenzio dell'opinione pubblica, e nella sostanziale acquiescenza delle opposizioni, Berlusconi ha aumentato a dismisura il suo potere, anzi, le sue proprietà. Si è sentito autorizzato a intervenire sull'Agenzia per le comunicazioni con l'atteggiamento e con le parole del padrone, insofferente di norme e convenzioni, e incapace di trattenersi: "Ma non riuscite neppure a chiudere Annozero?". "È una questione di dignità", dice al commissario Giancarlo Innocenzi, "Ti ho messo io in quel posto". Quindi regolati di conseguenza. Il che dimostra la sua intuizione di essere, più che un politico, un imprenditore senza limiti etici, cioè con la possibilità di conquistare tutto, con la violenza di una funzione anti-istituzionale che si esercita giorno per giorno.

Si instaura così un nuovo triangolo delle mille sfortune, tra la presidenza del Consiglio, la magistratura e l'Agenzia per le comunicazioni. Al centro del triangolo si è collocato, con la sua consueta forza strategica, il premier Berlusconi. Ormai da anni sta insistendo che in Italia c'è un problema da risolvere, ed è quello del rapporto fra la politica e la magistratura. "Alcune procure", secondo il premier, che non ne ha mai citata una, composte da "toghe rosse", da "giudici comunisti", stanno conducendo una battaglia "contro la democrazia", nel tentativo di liquidare per via giudiziaria il capo del governo.

In queste condizioni, il "padrone" Berlusconi tenta di frenare il funzionamento dei processi che lo riguardano, come quello contro l'avvocato inglese Mills e i processi All Iberian e i diritti televisivi. Ma dal sistema penale spuntano casi giudiziari a iosa, in modo anche casuale come quello di Trani, per cui a suo modo, nella sua logica proprietaria, Berlusconi ha ragione: come è possibile che, possedendo tutto, gli sia impossibile controllare tutto ciò che possiede o crede di possedere in virtù del voto popolare, compresi i processi e le inchieste giudiziarie? E come mai non è possibile, da parte sua, padrone assoluto dei media, controllare il sistema televisivo e i programmi politici di approfondimento e di dibattito? Che ci sta a fare l'Agenzia per le comunicazioni, se non esegue i comandi che vengono dall'alto? Naturalmente Berlusconi ignora, volutamente, la complessità del sistema della comunicazione pubblica. Ai suoi occhi basterebbe una telefonata all'Innocenzi di turno per stroncare un programma come quello di Michele Santoro (o come il salotto di Floris o della Dandini), considerato da mesi una delle "fabbriche di odio" nei confronti del premier e del Popolo della libertà.

È una situazione disperata, quella di Berlusconi, che lo induce a gesti disperati, o almeno terribilmente disinibiti, nel senso che fanno a pezzi il tessuto generale delle istituzioni del nostro Paese. Il "padrone" non riesce più a comandare, il suo partito si sta sfaldando, e i vari cacicchi cercano un'area di autonomia personale e politica. Berlusconi teme una "sindrome francese" e una sostanziale non vittoria alle elezioni regionali. Paradossale situazione del padrone che non riesce a spadroneggiare fino in fondo, pur cercando di farlo in tutti i modi. C'è una contraddizione intrinseca nell'azione di Berlusconi, e la formula proprietaria o "padronale" la riassume tutta, senza risolverla. Ma la questione è: in una democrazia può il capo del governo rivolgersi come un padrone alle autorità di garanzia?
 

© Riproduzione riservata (17 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI Dove porta la svolta di Fini
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2010, 04:39:18 pm
Dove porta la svolta di Fini

di Edmondo Berselli

L'esperimento del presidente della Camera è al momento più culturale che politico.

E non è chiaro come possa evolvere
 

I partiti cambiano in genere in due modi: dall'alto e dal basso. Dall'alto stiamo assistendo alla secessione silenziosa del 'partito' di Gianfranco Fini rispetto al Pdl: segmenti di classe dirigente cercano di trovare occasioni di potere, in una fase che appariva bloccata, e invece si è mossa sulla iniziativa del presidente della Camera, che non ha perso una sola opportunità per differenziarsi dal berlusconismo. Evidentemente Fini aveva legittimi interessi personali, un'età che gli consente di proporsi come un leader, e un'idea di destra che poteva sembrare più moderna e istituzionale di quella rappresentata dal populismo berlusconiano.

L'esperimento di Fini è culturalmente interessante quanto di respiro poco ampio. Il respiro corto non riguarda l'assetto culturale, voluto dal presidente della Camera, quanto la forza reale messa in campo. Un ennesimo partitino avrebbe poca fortuna. I migliori progetti possono avere destini poco brillanti se non c'è dietro l'intendenza, e Fini non sembra avere dietro di sé grandi masse al seguito; la sua operazione finora ha tutta l'idea di una esperienza culturale, legata alla sua fondazione. È servita soprattutto a differenziare la fazione finiana in modo da intralciare il potere di Berlusconi, ma non è chiaro come possa evolversi in futuro.

D'altronde Fini è un politico puro, di quelli che Berlusconi detesta e ha sempre detestato. Lo si è visto in ogni occasione pubblica, a cominciare dalle posizioni assunte da Fini sull'immigrazione, o sul rapporto fra le istituzioni, a cominciare dalla difficile relazione con il Quirinale. Quindi la manovra di Fini, sempre ammesso che sia ancora in piedi e operante, è esplicitamente politica: tende a spostare equilibri, a creare nuovi aggregati e soprattutto a formare la leadership politica del presidente della Camera. Si tratta di una tipica operazione di trasformismo politico, che dovrebbe mettere in crisi il Pdl e soprattutto il 'patronage' dispotico di Berlusconi, che in questo momento sembra essersi concesso l'autorizzazione a spadroneggiare (come si è visto con la manifestazione a Roma conclusasi in piazza San Giovanni).

Molto più complicata è la situazione 'dal basso', dal momento che è la Lega, un movimento che acquista forza ogni giorno, a condurre le danze. Stando a ciò che spiegano i politologi e i sondaggisti, potrebbe darsi che in tutto il Nord, Emilia-Romagna per ora esclusa, la Lega di Bossi potesse sopravanzare il Pdl. Tutto ciò movimenterebbe gli equilibri politici nel centrodestra, tenuto conto che la Lega non è soltanto un movimento di destra, o non lo è su alcune tematiche di governo e in relazione alle società del Nord. Forse può risultare sorprendente che la parte più sviluppata del Paese abbia deciso di affidarsi al movimento più folclorico della nostra politica, ma va considerato che la Lega ormai è un partito di governo ed esercita con orgoglio la propria funzione.

Berlusconi in questo momento dovrebbe forse essere preoccupato più dal travolgente successo leghista che non dalle manovre di Fini. Ciò che si agita nel cuore del Nord, e sembra in grado di tracimare oltre il Po, in tutta l'Emilia e la Romagna, si presenta come un movimento confuso ma efficiente sul territorio. La sua leadership è saldissima, i suoi ministri a Roma si sono fatti vedere con chiarezza, a cominciare da Roberto Maroni. Rozza ma efficace, la Lega sembrava un movimento residuale, destinato a essere fagocitato dalle frange berlusconiane; è accaduto esattamente il contrario, e ciò mette in luce la fragilità implicita nel blocco di centrodestra.

Spetterebbe alla sinistra riformista mettere in luce, si sarebbe detto una volta, le contraddizioni del centrodestra; ma per ora non si riesce a vedere una strategia chiara. Pier Luigi Bersani e i dirigenti del Partito democratico sono tutti impegnati nella campagna elettorale delle regionali. È vero che quel risultato influenzerà molto, in termini strategici, i destini del Pd, e anzi è probabile che un esito meno sfavorevole del previsto darà un po' di spinta ai democratici; ma in questo momento si tratta in primo luogo di interpretare i nuovi schemi politici che si stanno creando: l'impoverimento con acquiescenza, cioè senza opposizione, e i fenomeni di perdita del lavoro legati alla globalizzazione. In entrambi i casi la lotta politica con la Lega sarà a coltello. E quindi converrà prepararsi.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EDMONDO BERSELLI, GRAZIE!
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2010, 11:39:32 pm
Aveva 59 anni, fino all'ultimo ha scritto per Repubblica ed Espresso non solo politica: era un grande appassionato di calcio e televisione

Addio a Edmondo Berselli ha raccontato la società italiana


di ANGELO MELONE


E' morto a Modena, dopo una lunga malattia, Edmondo Berselli. Aveva 59 anni. Scompare una delle figure più eclettiche dell'editoria e del giornalismo italiano. Editorialista di politica per Repubblica e collaboratore de l'Espresso, osservatore attento della società italiana, fustigatore - se necessario - delle sue debolezze e delle contraddizioni della politica con l'occhio dello spirito libero e, senza tentennamenti, laico e repubblicano. E, insieme, narratore - negli articoli e nei libri - delle passioni ( e delle cadute di stile) dell'Italia della musica, dello sport, del mondo culturale e dei suoi salotti. Fino alla gastronomia. Forse un titolo - Quel gran pezzo dell'Emilia. Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe - sembra metterle insieme tutte mostrando un osservatore poliedrico e senza paraocchi della società italiana.

La stessa vena che ha messo nei suoi libri di analisi della politica - che è riuscito sempre a trasformare in analisi della società - e nei tanti articoli scritti via via per diversi giornali fino all'approdo a Repubblica. Un metodo che nel 2003, con Post-italiani, lo fece considerare come un analista quasi profetico di questa nostra società. Compresa la sua analisi disincantata, e forse per questo ancor più incalzante, del fenomeno Berlusconi nei tanti editoriali per Repubblica. Fino al fondo sul "padrone Berlusconi" del 17 marzo scorso, e alla puntura "La Vacanza" del 3 aprile. Gli ultimi.

Tutte passioni, a partire dalla critica della politica, che Berselli coltiva nel laboratorio bolognese del Mulino dove si incrociano - ma questa è storia della politica italiana - da Andreatta a Scoppola, a Giugni, a Pasquino a Panebianco. Esperienza che diverrà il crogiolo culturale anche dell'impegno diretto in politica di Romano Prodi.

Inizia alla fine degli anni '70 come correttore di bozze della casa editrice, della quale diverrà il direttore editoriale, e lega la sua vita culturale e lavorativa all'editrice e alla rivista bolognese di cui diverrà direttore modificandola profondamente. Intanto collabora alla Gazzetta di Modena, il primo passo del rapporto con numerosi giornali fino al suo arrivo a Repubblica nel 2003. Con il suo stile e le sue analisi - spesso ironiche e divertenti - a tutto campo.

Modi diversi di raccontare l'Italia che costruiscono l'analisi della società e della politica con la sensibilità di un intellettuale che vuole farlo suonando più tasti possibile. Basta mettere in fila solo alcuni dei suoi libri. C'è il best-seller Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica con l'ironico commento della sconfitta del Pd nel 2008. Ma anni prima c'era l'altrettanto noto Canzoni, un ritratto della società italiana dagli anni '50 ad oggi attraverso la musica leggera. E ancora Il più mancino dei tiri, dedicato a Mariolino Corso e attraverso lui al fenomeno calcio. Per arrivare al ritratto dissacrante del mondo culturale italiano con Venerati maestri, operetta morale sugli intelligenti d'Italia.

L'ultima fatica, personalissima e toccante, lo scorso anno con Liù. Biografia morale di un cane. Quasi un addio.

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da repubblica.it


Titolo: “Liù. Biografia morale di un cane”
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2010, 04:22:52 pm
“Liù. Biografia morale di un cane”

di Alessandra Stoppini il 25 novembre 2009
 

“Non solo non avevo mai avuto un cane, ma non avevo nessuna voglia di averne uno“. È l’inizio del libro “Liù. Biografia morale di un cane” (Mondadori, 2009) di Edmondo Berselli . Ed invece l’autore si affeziona al labrador femmina di colore nero, ed assiste alla metamorfosi della propria vita da quando Liù vive insieme a lui ed alla moglie Marzia, che lo ha convinto ad acquistare il cane.

Fin da subito lo scrittore si rende conto che il labrador ha una sua precisa identità, carattere, gusti e disgusti, quindi incomincia a vedere la vita attraverso gli occhi di Liù, «cotechino baffuto» vista a poche ore dalla nascita in un allevamento di Cermenate. Forse è proprio da quel momento che è nato l’amore di Berselli, riservato e fine intellettuale che nella sua vita letteraria ha scritto di sport, televisione, politica e cultura, per la cagnolina. Ma siamo proprio convinti che i coniugi Berselli abbiano scelto Liù e che non sia avvenuto l’esatto contrario, come accade sempre in questi casi? Ecco dunque come la quotidianeità venga rivoluzionata dall’arrivo del labrador, quindi scorrono pagina dopo pagina le albe nebbiose trascorse passeggiando nel parco mentre Liù si azzuffa con gli altri cani, la scoperta di vederla crescere, il ticchettio delle sue zampe sul parquet, la coda che ignara travolge qualsiasi soprammobile. Vuoi vedere che il cane, entrato in relazione con l’uomo lo cambia rendendolo paradossalmente umano?

Il prologo del saggio è dedicato «poi è venuto il tempo degli annunci». Con timore e nervosismo comunica all’allora Direttore de L’Espresso Giulio Anselmi che sta per prendersi un cane. «Un cane?». Si stupisce il grande giornalista. Poi è la volta di Giovanni Evangelisti, vecchio capo di Berselli alla rivista Il Mulino. Alla notizia il buon emiliano scoppia in una risata tipica di quella parte d’Italia esclamando «E poi, chi lo porta fuori a fare la pipì, tu?».

Ma il libro non è solo questo. Se da un lato vengono narrate le gesta della «bestiolona» che ha cambiato le abitudini di questa progressista coppia senza figli modenese, dall’altro il politologo cerca di capire le ragioni profonde del perché la novità dell’arrivo di Liù ha ribaltato la sua visione finora razionale dell’esistenza, andando a scoprire una nuova filosofia di vita utile per comprendere ciò che accade nell’Italia attuale. L’anima sensibile del labrador Liù «produttore di affetti, generatore di sentimenti», sarà in grado di far comprendere al lettore molte cose tra le quali l’amore disinteressato, la fedeltà e le elementari regole per una civile convivenza che non sono solo quelle in voga tra animale e padrone.

Edmondo Berselli è nato il 2 Febbraio del 1951 a Campogalliano in provincia di Modena. Giornalista e scrittore. È editorialista de La Repubblica e L”Espresso, ha diretto fino al 2008, per sei anni, la rivista Il Mulino. Tra i tanti libri pubblicati ricordiamo Il più mancino dei tiri (Mondadori 2006), dedicato a Mariolino Corso, Quel gran pezzo dell’Emilia. Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe (Mondadori 2004), Venerati maestri. Operetta morale sugli intelligenti d’Italia (Mondadori 2006), dove Berselli traccia un divertente e spietato ritratto del decadente mondo culturale italiano, Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ‘68 (Mondadori 2007), Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica (Mondadori 2008) nel quale viene commentata ironicamente la sconfitta del Partito Democratico e della sinistra contro il Partito delle Libertà.

Autore: Edmondo Berselli
Titolo: Liù. Biografia morale di un cane
Editore: Mondadori
Anno di pubblicazione: 2009
Prezzo: 18 euro
Pagine: 160

http://www.ilrecensore.com/wp2/2009/11/storia-di-liu-raccontata-da-edmondo-berselli/