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Autore Discussione: Federico Mereta. Cuore matto  (Letto 2468 volte)
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« inserito:: Dicembre 29, 2008, 05:12:01 pm »

Cuore matto

di Federico Mereta


Trent'anni di successi clamorosi. E le cardiopatie sono oggi un nemico che si può battere. Ma da qualche anno è lo stallo. E di infarto si muore ancora. Un grande medico spiega cosa resta da fare. Colloquio con Filippo Crea  Si chiama Murry Opatoski, ha 84 anni e la sua storia è stata raccontata sul 'Journal of American College of Cardiology' perché lui è il nuovo testimonial di un successo giacché ha potuto sperimentare sulla propria pelle tutte le novità che le terapie cardiovascolari hanno saputo offrire.
 
La storia di Murry comincia nel 1969, quando viene ricoverato a Cleveland per via di un dolore sordo al torace, costante che non si modifica coi movimenti del busto. E incontra Mason Sones, l'uomo che ha scoperto la coronarografia. Perché proprio un'ispezione delle coronarie rivela che Opatoski ha occluse due arterie coronariche, i vasi che portano sangue e ossigeno al cuore. Oggi basterebbe un by.pass, ma nel '69 non era stato ancora messo a punto. Allora, invece, il cardiochirurgo di Cleveland Arthur Vineberg provò su di lui un intervento chirurgico sperimentale, una sorta di deviazione di due arterie destinate a portare il sangue alle braccia verso il cuore. Andò bene. E va bene, fino al 2006, quando l'ormai anziano Opatoski torna a Cleveland perché se la vede di nuovo brutta. Ma una nuova tecnica, l'ecocardiografia transtoracica unita alla Tac spirale, permette ai medici di visualizzare il puzzle anatomico costruito dalle mani di Vineberg, e un eco-doppler dei vasi sopra l'aorta scopre un trombo che occlude quasi completamente una delle due arterie della carotide, che hanno il compito di irrorare il cervello dell'uomo. Nessun problema: i cardiochirurghi si mettono al lavoro, e con un intervento non invasivo fanno aderire la placca aterosclerotica alla parete del vaso e posizionano uno stent, che ha il compito di mantenere dilatata l'arteria, così da consentire un regolare passaggio del sangue.

Il signor Opatoski se l'è cavata sempre, perché la sua malattia è andata quasi di pari passo con la scoperta di molte tecniche, chirurgiche e diagnostiche, le stesse che in pochi decenni sono riuscite a prolungare la vita media dei pazienti colpiti da patologie cardiovascolari di sei anni e mezzo in media: un'enormità in medicina.

Ma dopo trent'anni di successi clamorosi, ora è la stasi. Gli scienziati tornano dai congressi internazionali con le mani in tasca e i musi lunghi: non c'è niente di nuovo, dicono sbuffando. E i risultati deludenti degli ultimi studi clinici internazionali dimostrano come spesso i farmaci più moderni hanno vantaggi solo marginali e scarsamente significativi, o più spesso ancora non ne hanno del tutto. E tra gli addetti ai lavori circola sempre più la deprimente convinzione che abbiamo raschiato il fondo del barile e che la cardiologia abbia dato tutto quello che poteva. Eppure, malati ce ne sono ancora e ancora le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte degli adulti. Nulla in cascina per loro? Lo abbiamo chiesto a Filippo Crea, direttore dell'Istituto di Cardiologia dell'Università Cattolica di Roma, uno fra gli otto centri d'eccellenza identificati in Europa per la cardiologia dalla rivista 'Circulation'.

Professore, perché i cardiologi non riescono a fare altri passi avanti?
Dobbiamo spostare la ricerca lungo nuove direttrici. I motivi principali dell'attuale stallo sono due. Il primo è che questa scienza ha davvero realizzato un percorso eccezionale negli ultimi decenni. Basta prendere il caso dell'infarto acuto: la mortalità era di circa il 50 per cento negli anni '60, ovviamente tra quanti giungevano vivi in ospedale. Poi, in successione, sono arrivate le unità coronariche, in seguito i farmaci trombolitici che consentono di sciogliere il coagulo che blocca l'afflusso di sangue nelle coronarie e l'angioplastica in urgenza, con il palloncino che dilata il vaso occluso. Il risultato è che oggi in Italia la mortalità per infarto acuto è inferiore al 10 per cento. Ci sono esperienze particolarmente felici, come quella dell'Emilia-Romagna, che ha strutturato un sistema assistenziale in grado di favorire un più rapido ricorso all'emodinamica (cioè a strutture in grado di effettuare immediatamente l'angioplastica, ndr), con la mortalità acuta che si attesta intorno al 5 per cento. Ridurre ulteriormente il tasso di decessi non è certo agevole".

Questa è la cronaca dei successi. Lo stallo è dovuto al troppo successo?
"C'è un secondo elemento da considerare: non ci sono novità significative sui veri motivi che portano all'infarto, e quindi mancano le conoscenze di base. O meglio: sappiamo che l'infarto miocardico acuto è causato da un trombo che si forma improvvisamente. Ma nessuno sa ancora perché questo avvenga. La trombosi acuta, che ancora oggi si manifesta nel 20 per cento dei casi con la morte improvvisa, in particolare, rimane un fenomeno ancora imprevedibile. Insomma, non sappiamo perché si formino i trombi".

Ma non è l'aterosclerosi la causa?
"La semplice aterosclerosi, cioè l'indurimento delle arterie, non basta a spiegare tutto. Questa condizione è frequentissima, tuttavia ci sono persone che pur soffrendo di aterosclerosi non sviluppano alcun problema cardiaco, altre a cui capita di avere un infarto una volta nella vita e poi non hanno più problemi, e altre ancora che sviluppano diverse crisi cardiache in rapida successione. Ed è possibile che tutte queste persone presentino una condizione anatomica dei vasi simile".

Una volta comprese le cause del trombo, si potrà aumentare ancora la sopravvivenza?
"Proprio così. Ma soprattutto si potrà arrivare ad un obiettivo che oggi appare utopistico: l'aterosclerosi zero. È certo che se non c'è questa condizione patologica non si forma la trombosi. E per evitare che si crei un trombo oggi la farmacologia offre il meglio in termini di rischio-beneficio. Ma l'obiettivo aterosclerosi zero, che potrà essere raggiunto solo tra due generazioni, passa attraverso un controllo costante e completo dei nove fattori di rischio principali che oggi sono responsabili dell'infarto nel 90 per cento dei casi: alcuni non modificabili come il fatto di essere maschi o l'età, altri, invece, si possono correggere come sovrappeso, stress, sedentarietà, fumo, ipertensione, ipercolesterolemia, diabete".

Due generazioni non sono poi tante per azzerare una causa di morte così importante?
"Esiste un margine di miglioramento, che potrà essere colmato grazie alla ricerca di base e alle sue applicazioni in clinica. Nel caso dell'infarto, ad esempio, sarà utilissimo comprendere il ruolo dell'infiammazione come elemento che favorisce la variazione di stato della placca che dà origine al trombo. Ma più in generale occorre conoscere i meccanismi molecolari che guidano questo processo, per poter arrivare a trattamenti davvero innovativi. Altrimenti si rischia di rimanere a lungo senza novità significative, e non solo per l'infarto, ma anche per lo scompenso cardiaco, che è l'altro dilemma".

Ovvero?
"Lo scompenso rappresenta spesso una conseguenza di questa situazione. Ci sono persone che dopo l'infarto non hanno problemi per decenni e altre che, a parità di lesione del miocardio, sviluppano lo scompenso entro pochissimi anni. Anche questa differenza rimane oscura. Un ruolo significativo potrebbe essere giocato dalle cellule staminali, che sono diverse da individuo a individuo, ma è solo un'ipotesi di lavoro. C'è ancora molta strada da fare per giungere a una soluzione di questi enigmi".

(26 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it
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