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7381  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Guido Olimpio Gli Usa lanciano l’allerta globale su tutti i voli per il ... inserito:: Novembre 24, 2015, 06:40:29 pm
Gli Usa lanciano l’allerta globale su tutti i voli per il pericolo terrorismo
I terroristi continuano a pianificare attacchi terroristici in diverse regioni.
Il Dipartimento di Stato dirama una nota per i cittadini americani


Di Guido Olimpio

WASHINGTON - Allarme su allarme. Il Dipartimento di Stato americano che lancia un avviso globale sui rischi di attacchi. La percezione è l’insicurezza totale. Ma come nascono queste situazioni di emergenza? All’origine due fattori. Il primo è la possibile raccolta di informazioni su possibili gesti terroristici. Ossia l’intelligence e la sicurezza intercettano segnali preoccupanti, di solito si tratta del “chatter”, le “chiacchiere” tra militanti che parlano di fare questo o quello. Non sono minacce specifiche ma potenziali. In certe situazioni — come in Belgio — c’è invece un pericolo immediato. Il secondo fattore di allerta è legato all’ambiente esterno e al momento: tensioni in un certo paese, rivolte, situazioni suscettibili di provocare violenze e dunque di coinvolgere anche turisti o viaggiatori. Doveroso consigliare di stare lontani. Il problema è che il ripetersi degli allarmi è controproducente.

Primo. È impossibile per una società vivere in queste condizioni per un periodo prolungato. Ora c’è il focus su Parigi-Bruxelles ed è naturale che sia così, ma come pensare di rimanere in stato d’assedio permanente?

Secondo. A volte alcuni dei dati raccolti sono generici. Nella loro nota gli americani hanno inserito Isis, al Qaeda, Boko Haram come potenziali assalitori. Tutti. Fazioni che hanno l’aspirazione a colpire in modo costante. Può essere oggi, domani o tra sei settimane.

Terzo. È necessario rendere consapevole l’opinione pubblica senza rincorrere ogni minimo episodio, non va data alcuna pubblicità alla miriade di segnalazioni, spesso infondate. Se c’è un fatto concreto le autorità e i media informino i cittadini, negli altri casi andiamo oltre.

Quarto. Suggerire che certi monumenti, siti e aree pubbliche possano essere dei target è inutile. Il terrorismo è una bestia antica, sappiamo che cerca attenzione prendendo di mira dei simboli. Cosa serve ricordarlo a meno che non esistono informazioni concrete? E’ più pericolosa la pizzeria vicino al rudere o il bar nei pressi dello stadio? Questo per dire che molti di questi moniti fanno il solo il gioco dei criminali e non aggiungono un briciolo di sicurezza. Siamo consapevoli del momento, non serve altro.

24 novembre 2015 (modifica il 24 novembre 2015 | 14:16)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_24/gli-usa-lanciano-l-allerta-globale-tutti-voli-il-pericolo-terrorismo-ba9f8200-929f-11e5-b7a6-66411f67f00e.shtml
7382  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Guido OLIMPIO. Distrutte le altre armi? o la versione data dalle forze ... inserito:: Novembre 24, 2015, 06:36:41 pm
Distrutte le altre armi? o la versione data dalle forze dell’ordine non È corretta?
Francia, il blitz dopo gli attentati e il mistero di quell’unica pistola
Rinvenuta solo una calibro 9 nell’appartamento di Saint Denis: eppure gli agenti che hanno preso parte al blitz hanno parlato di cinquemila colpi esplosi e di uno intenso conflitto a fuoco

Di Guido Olimpio

Senza cercare complotti o inseguire speculazioni, ma la domanda è legittima: i terroristi di Saint Denis hanno tenuto testa alla polizia con una sola pistola? Secondo le notizie trapelate sui media francesi gli investigatori hanno recuperato nell’appartamento solo una calibro 9. Non vi sarebbero tracce di Kalashnikov e munizioni di altro tipo. Sono andate distrutte a causa delle esplosioni? Per ora non c’è risposta precisa, anche se dopo così tanti giorni si doveva trovare qualcosa.

Cinquemila colpi esplosi
Le forze speciali, nella loro ricostruzione, hanno parlato di 5 mila colpi esplosi, hanno mostrato uno scudo segnato dalle pallottole, hanno raccontato che i militanti si erano protetti con una sorta di scudo mobile, una protezione definita «un sarcofago». Secondo la versione ufficiale gli agenti sono stati accolti da un tiro nutrito, tanto è vero che è stato ucciso anche uno dei loro cani, Diesel. La storia della pistola segue quella non meno confusa sulla fine di Hasna. Prima è stata presentata come una kamikaze, poi si è detto che è rimasta coinvolta dall’esplosione della carica attivata da un complice per ora non identificato.

Tre scenari
A questo punto restano tre scenari: 1) I fucili c’erano ma sono stati inceneriti dal blitz. 2) C’era solo la pistola e le autorità hanno fornito una versione non corretta. 3) La confusione è legata al caos del momento e alla situazione di grande tensione. O magari alla necessità di coprire aspetti investigativi. Speriamo che la polizia possa far chiarezza su un episodio importante.

23 novembre 2015 (modifica il 23 novembre 2015 | 23:03)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_23/francia-attentati-parigi-mistero-pistola-unica-26b7fbba-9229-11e5-98d3-3899a469cdf7.shtml
7383  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / ALDO CAZZULLO. Ribellarsi nel nome di Valeria inserito:: Novembre 24, 2015, 06:33:58 pm
Ribellarsi nel nome di Valeria

Di Aldo Cazzullo

All’inizio era solo la vittima italiana. Poi ha avuto un volto, un nome, una storia. Infine Valeria Solesin è diventata un simbolo. In cui si è riconosciuta una generazione, la sua, e anche le altre, la precedente e le successive, che hanno visto in lei una sorella più grande, una figlia, una nipote. Per questo il dolore privato è diventato un lutto pubblico, e oggi piazza San Marco ne sarà giusto scenario.

Come sia avvenuta questa immedesimazione, è difficile dire. A poco a poco si è scoperto che Valeria era davvero una bella persona. Una giovane donna. Una volontaria. Una ricercatrice. Attraverso di lei non solo abbiamo sentito ancora più vicina la strage di Parigi. Abbiamo in qualche modo esorcizzato il senso di colpa che proviamo verso i ragazzi della sua età; ma questo non può essere una consolazione, deve essere un impegno. Il Paese delle pensioni e delle corporazioni, più ricco di rendite che di opportunità, abituato a considerare la cultura e la ricerca un costo più che un investimento, è molto avaro con i suoi giovani.

Valeria Solesin non ha piagnucolato, non si è chiusa in un lamento sterile contro il mondo intero. Il mondo l’ha affrontato, è andata all’estero, ha trovato lavoro in un’università di grande prestigio. Se i kamikaze avessero attaccato la Parigi dei turisti, di venerdì sera, gli italiani colpiti sarebbero stati molti di più. Invece hanno attaccato la Parigi popolare frequentata da Valeria: «l’Italienne » come l’hanno chiamata le tv francesi, che hanno trasmesso immagini di solidarietà da molti Paesi, ma non dal nostro.

L’Italia è stata rappresentata dal sorriso di Valeria e dalle dichiarazioni - riviste decine di volte - della madre.

I genitori sono stati all’altezza della figlia. Hanno avuto l’intelligenza di capire che la loro pena interiore era diventata comune, sono riusciti a farvi fronte, e hanno trovato nella solidarietà un elemento di conforto. Oggi in piazza non vedranno solo il presidente della Repubblica e il sindaco, il patriarca e l’imam, gli amici e i concittadini. Vedranno l’avanguardia di un Paese a cui, come ha detto la signora Solesin, Valeria mancherà.

Piazza San Marco non è solo un pezzo importante dell’identità italiana, un luogo di incontro tra culture e civiltà. Fu anche il teatro della prima manifestazione di donne della storia unitaria. Le veneziane accolsero il nuovo re con un corteo che chiedeva diritto di voto e di cittadinanza nel nuovo Stato; Vittorio Emanuele non capì e credette di tacitarle con il dono di un anello bianco rosso e verde. Cominciò quel giorno ad accumularsi il debito storico del Paese nei confronti delle donne. In passato le vite interrotte dalla violenza hanno suscitato in quelli che restano sentimenti di rimpianto anche rabbioso per chi «è morto senza dire l’ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio».

Altre volte è prevalsa l’idea che «qualcosa restava; erano morti i suoi amici, morti i suoi vent’anni, ma qualcosa viveva, qualcosa che non si era ancora spezzato». Il messaggio oggi non potrebbe essere più chiaro: piangere è inevitabile ma non basta, il male va combattuto e il male non è soltanto il nemico, è anche l’ignavia, la rassegnazione, il ripiegamento su se stessi, la resa alla violenza o anche solo al destino. Se sapremo ribellarci a tutto questo, qualcosa di Valeria Solesin resterà.

24 novembre 2015 (modifica il 24 novembre 2015 | 07:21)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_24/ribellarsi-nome-valeria-b23c6e52-9272-11e5-b7a6-66411f67f00e.shtml
7384  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Ernesto GALLI DELLA LOGGIA Attentati a Parigi, la battaglia culturale che ... inserito:: Novembre 24, 2015, 06:33:06 pm
Attentati a Parigi, la battaglia culturale che dobbiamo lanciare (senza le solite ipocrisie)
Se i moderati hanno le mani legate, bisogna stanare gli autoinganni e le falsità storiche che nutrono l’estremismo radicale


Di Ernesto Galli della Loggia

Come faccia il terrorismo che tutti, ma proprio tutti, definiscono islamista a non avere nulla a che fare con l’Islam, è qualcosa che dovrebbe, mi pare, richiedere una spiegazione. Che invece non ci viene mai data dai tanti che pure ci ammoniscono con severità a tenere separate le due cose. L’unica spiegazione talvolta offertaci circa l’obbligo di tale separazione starebbe nel fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo suddetto - a Bagdad per esempio, o a Beirut o ad Aleppo o al Cairo - sarebbero in realtà proprio degli islamici. Il che è vero: peccato però che nessuno dei mille attentati commessi in quei luoghi sia mai stato rivendicato, che si sappia, con proclami a base di citazioni di «sure» del Corano e di relative maledizioni contro gli «infedeli»: come invece è la regola quando nel mirino è ieri Parigi o in genere l’Occidente. In realtà, a Bagdad o a Beirut, l’impiego del tritolo o del kalashnikov corrisponde semplicemente al modo oggi più comune da quelle parti di regolare i conflitti politici con gli avversari. L’impiego ad uso bellico dei testi sacri, insomma, è riservato soltanto a noi. Dunque, smettiamola di nasconderci dietro un dito: la religione c’entra eccome. Innanzi tutto perché islamici ferventi e religiosamente motivati sono i terroristi, e poi per un’altra importante ragione.

Perché ciò che lega le mani all’islamismo moderato - che senz’altro esiste ed è maggioritario - impedendogli regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è per l’appunto il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro. Ciò che a propria volta vincola in misura determinante anche l’azione dei governi di quei Paesi.

Ma se le cose stanno così, se per l’esistenza del terrorismo è decisiva l’esistenza di questo ampio retroterra costituito e cementato dal fortissimo ruolo identitario della religione, non è forse qui, allora, a proposito di questo ruolo, che l’Occidente dovrebbe impegnarsi in uno scontro, lanciare una sfida? Certe guerre non si vincono solo militarmente grazie alle armi (che pure sono importanti e vanno impiegate fino in fondo) ma anche con altri strumenti.

Non si tratta di dichiarare né una guerra tra civiltà né una guerra tra religioni. Bensì di iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri se necessario, sugli effetti che ha avuto per l’appunto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa storicamente è stata egemone, una discussione su che cosa sono queste società, e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione. Un confronto-scontro con quel mondo di carattere eminentemente culturale. In sostanza lo stesso confronto-scontro che la cultura laico-illuministica occidentale ha avuto per almeno due secoli con il Cristianesimo e con la sua influenza storico-sociale, ma che viceversa si mostra quanto mai restia ad avere oggi con l’Islam. Riducendosi così a menare scandalo, magari, per il mancato matrimonio dei gay a Roma ma in pratica a non dire nulla sulla loro impiccagione a Teheran, o sulla lapidazione delle adultere a Islamabad.
Il modo migliore per aiutare l’Islam moderato a liberarsi del ricatto religioso, delle sue paure di lesa solidarietà comunitaria, è proprio quello di incalzarlo a un confronto senza mezzi termini con un punto di vista diverso che non abbia paura della verità. Un punto di vista fatto proprio dai media, dagli scrittori, dagli intellettuali occidentali, che quindi chieda conto di continuo a quell’Islam del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro (tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion , con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo. Un confronto che chieda il suo giudizio su ognuna di queste cose, e crei l’occasione per ascoltarlo e discuterne. Dare per scontata l’esistenza di un Islam moderato ma poi non cercare un confronto con esso non ha senso.

Un simile confronto potrebbe anche servire a dissipare l’unilateralità vittimistica con cui troppo spesso l’opinione pubblica islamica, anche quella moderata, è portata a vedere il rapporto storico tra il mondo islamico stesso e quello cristiano. Potrebbe servire a ricordare, per esempio, che le Crociate furono soprattutto una debole e caduca risposta (per giunta limitata alla Palestina e poco più) alle immani conquiste militari realizzate dall’Islam nei tre secoli precedenti di territori in parte cristiani come il Nord Africa. O ricordare, per fare un altro esempio, che i massacri compiuti nel 1945 e in seguito dal colonialismo francese in Algeria non hanno avuto certo nulla da invidiare a quelli, ancora più efferati, commessi dalla Turchia mussulmana ai danni dei cristiani in Bulgaria a fine Ottocento.

Il terrorismo islamista e il suo richiamo religioso si nutrono in misura notevole degli autoinganni, dell’ignoranza della realtà storica, delle vere e proprie falsificazioni, che hanno più o meno largo corso nelle società che gli stanno dietro, e che da lì arrivano anche alle comunità islamiche in Europa. È di questi succhi velenosi che si nutre la formazione elementare di molti dei suoi adepti. Se a costoro si riuscisse a svuotare un poco l’acqua in cui nuotano, o a chiarirgli appena un po’ le idee prima che imbraccino un mitra, non sarebbe un risultato da poco.

16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 17:45)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_16/battaglia-culturale-db4528e2-8c29-11e5-b416-f5d909246274.shtml
7385  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / SERGIO RIZZO Il sindacato vince i ricordi e fa perdere la fiducia inserito:: Novembre 24, 2015, 06:31:29 pm
Il corsivo del giorno
Il sindacato vince i ricordi e fa perdere la fiducia
Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole

Di Sergio Rizzo

Si potrebbe tirare in ballo anche in questo caso la facilità con cui in Italia i Tribunali del Lavoro danno sempre ragione ai dipendenti. E di sicuro la storia raccontata da Ernesto Menicucci sul Corriere di giovedì scorso ne offrirebbe una facile occasione. Accade infatti che il suddetto Tribunale annulli il sacrosanto obbligo alla rotazione delle zone di competenza imposto ai vigili urbani di Roma dall’ex sindaco Ignazio Marino. Obbligo, peraltro, al quale si era arrivati anche in seguito a un pronunciamento dell’autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone.

La ragione della rotazione è intuitiva: un vigile che presta servizio per troppo tempo nello stesso territorio può essere più facilmente indotto in tentazione. Si tratta dunque di una misura tesa non solo a ostacolare la corruzione spicciola ma anche a tutelare l’onorabilità degli stessi vigili urbani, preservando i valori etici. La cosa però non è piaciuta ai sindacati. I quali, non potendo per evidenti ragioni eccepire nel merito, si sono appigliati alla forma. E il giudice ha dato loro ragione condannando il Comune per «comportamento antisindacale»: non aveva informato il sindacato prima di approvare il Piano anticorruzione nel quale era prevista la rotazione dei vigili, ma soltanto il giorno dopo. Non fa una grinza.

Così ora si può festeggiare: per le vecchie e rassicuranti rendite di posizione il pericolo è cessato. Complimenti dunque al Tribunale. Ma complimenti anche a chi al Comune ha alzato il pallonetto ai sindacati, non rispettando per filo e per segno le procedure: un comportamento tanto maldestro da far pensare a una mossa studiata. Soprattutto, però, complimenti alla Uil che ha promosso il ricorso. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole.

21 novembre 2015 (modifica il 21 novembre 2015 | 09:33)
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Da - http://www.corriere.it/cronache/15_novembre_21/sindacato-vince-ricordi-fa-perdere-fiducia-738c9326-9029-11e5-ac55-c4604cf0fb92.shtml
7386  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Pier Luigi BATTISTA Valori da riconoscere Ora parole chiare dall’Islam inserito:: Novembre 24, 2015, 06:30:12 pm
Valori da riconoscere
Ora parole chiare dall’Islam

Di Pierluigi Battista

Scalda il cuore l’immagine dei musulmani delle comunità italiane che scendono in piazza per gridare «no al terrorismo» e per contrastare apertamente chi uccide in nome dell’Islam. Ed è ammirevole il coraggio degli imam francesi che si sono spinti a dirsi disgustati per gli «attentati criminali commessi in nome della nostra religione». Sono passi importanti, il risveglio di una battaglia culturale nel mondo islamico che vive in Europa e in Occidente in cui finalmente si pronunciano parole chiare e non ambigue sullo stragismo jihadista.

Ma con altrettanta chiarezza bisogna aggiungere che sono solo i primi passi. Che ce ne vogliono altri in cui si riconosca senza riserve l’accettazione di valori per noi imprescindibili come la tolleranza religiosa, la libertà dell’arte e della cultura, il pluralismo delle idee, la laicità dello Stato, l’eguaglianza tra uomo e donna e dunque il rifiuto netto, intransigente, assoluto di ogni consuetudine e di ogni comportamento sociale e familiare in cui la donna sia discriminata, minacciata, privata dei suoi diritti fondamentali.

Non è solo il terrorismo che deve essere isolato, ma ogni attacco alla libertà condotto nel nome della religione. Ognuno preghi e onori senza limitazioni il suo Dio. Ma tutti, senza eccezioni, rispettino la stessa cornice di valori che è l’ossigeno di una società aperta e tollerante. Ancora una volta: senza eccezioni.

Quindi le comunità musulmane inglesi non devono sentirsi offese se finalmente in Gran Bretagna il governo di David Cameron mette fine all’eccezione scandalosa dei tribunali islamici che pretendono di applicare un loro diritto ispirato alla Sharia su matrimoni, divorzi ed eredità, compreso il «talaq» ossia il ripudio della donna che è prerogativa esclusiva dell’uomo. Non devono pretendere che la diseguaglianza radicale tra i generi sia formalizzata in una forma di diritto parallelo a quello comune a tutti gli altri cittadini e cittadine. Non devono sentirsi offese perché in uno Stato libero e aconfessionale i diritti sono di tutti, l’eguaglianza di fronte alla legge non è un principio negoziabile e le donne non sono considerate proprietà degli uomini.

C’è un luogo comune molto diffuso secondo cui le forme di intolleranza e di integralismo religioso, e anche una pratica consuetudinaria in cui alla donna viene assegnato un rango inferiore, hanno caratterizzato in passato anche le società ispirate ai valori giudaico-cristiani. E che dunque bisogna aspettare fiduciosamente il futuro, quando le ombre del Medioevo saranno dissipate anche nel mondo islamico.

Purtroppo non è così. L’intolleranza, la violenza, l’integralismo, l’illibertà non sono nel mondo musulmano il residuo del passato, ma sono la novità, catturano i giovani, promettono una radicalizzazione fanatica come rimedio alla fede tiepida della tradizione. La predicazione violenta e fanatica, il bacino ideologico e culturale da cui trae alimento il terrorismo apocalittico di chi vede nello sterminio degli infedeli santificato dal proprio martirio l’unica via che porta al Paradiso, fa breccia principalmente tra i giovani, gli islamici dell’oggi e del domani.

A Istanbul, basta leggere i romanzi di Orhan Pamuk per capirlo, si infittisce la schiera delle donne giovani che indossano il velo e provano disprezzo per gli abiti «occidentali», considerati abominevoli e perversi, come la musica «satanica» suonata nel Bataclan di Parigi. Le fotografie dell’epoca raccontano come a Teheran, al Cairo e persino a Kabul, negli anni Sessanta e Settanta le donne non si distinguessero nel modo di vestire da una donna di Roma o di Parigi. Il radicalismo jihadista è il frutto del risveglio islamista, non di un Medioevo non ancora smaltito.

Le comunità islamiche dell’Occidente devono dire all’Europa laica e tollerante se considerano giusto, degno di esempio, il tumulto cruento, l’assalto alle ambasciate, le violenze, le bandiere bruciate che infiammarono le piazze musulmane quando papa Ratzinger tenne la sua lezione a Ratisbona contestatissima dall’Islam radicale, ma anche da quello moderato. Devono dire se sono preoccupate per la violenza antisemita che colpisce gli ebrei d’Europa con la scusa di un antisionismo amplificato anche nei Paesi islamici «moderati» da serie tv tratte dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, un testo classico dell’antisemitismo idolatrato da Hitler e dai nazisti di ogni tempo e di ogni luogo. E che cosa pensano della persecuzione anticristiana nel mondo islamico (anche nell’Afghanistan «liberato» dai talebani, purtroppo): quella che in Arabia Saudita, non nei territori dell’Isis, comporta la condanna a morte se un cristiano viene scoperto in possesso di un crocefisso o di un rosario nascosti nel cassetto. Cosa pensano dei blogger che da Teheran a Riad, nell’islamismo sciita come in quello sunnita, vengono frustati se in dissenso con i loro governi. E se pensano che sia giusto che Ayaan Hirsi Ali, l’apostata, l’autrice di un libro bellissimo come Eretica , debba vivere blindata, bersaglio dell’odio dei fanatici jihadisti.

Passi necessari, che segnino una lunga durata della dissociazione dalla violenza omicida, e l’avvio di una battaglia culturale che prosciughi il campo dell’intolleranza e del fanatismo.

22 novembre 2015 (modifica il 22 novembre 2015 | 07:43)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_22/islam-parole-chiare-editoriale-battista-e17c55aa-90e3-11e5-bbc6-e0fb630b6ac3.shtml
7387  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / ILVO DIAMANTI - L'incertezza congela la politica. M5s vera alternativa a Renzi inserito:: Novembre 24, 2015, 06:29:04 pm
L'incertezza congela la politica. M5s vera alternativa a Renzi
Atlante politico, sondaggio Demos. La distanza tra il partito del premier e i pentastellati si sta riducendo a meno di 4 punti.
Per il presidente del Consiglio invece la partita sarebbe in discesa in caso di scontro con il centrodestra.
Spunta anche Diego Della Valle con una popolarità al 33 per cento. Controsorpasso della Lega su FI. SI al 5,5

di ILVO DIAMANTI
22 novembre 2015

I tragici avvenimenti di Parigi hanno "congelato" il clima d'opinione - politica - in Italia. Come se l'esigenza di "unità" avesse, in parte, stemperato le tensioni interne. Le polemiche fra leader e partiti, al proposito, sono apparse meno violente che in altre occasioni. Anche così si spiegano gli orientamenti emersi nel sondaggio dell'Atlante Politico di Demos, condotto nei giorni scorsi, in ambito nazionale. L'indice di gradimento del governo: sale al 46%, 4 punti più di un mese fa. Anche la fiducia personale nei confronti di Matteo Renzi risale al 48%. In entrambi i casi, un grado di consenso che non si osservava dalla scorsa primavera. Tuttavia, la richiesta di " tregua politica", nell'opinione pubblica, non favorisce solo il premier e il governo.

La fiducia nei confronti dei leader politici, infatti, fa osservare un miglioramento generalizzato. Tutti, infatti, rafforzano la loro immagine, agli occhi dei cittadini. Ad eccezione di Giorgia Meloni, il cui gradimento scende al 33%: 3 punti in meno, rispetto a un mese fa. Quando, però, aveva beneficiato del dibattito seguito alle polemiche "romane". Fra gli altri, risulta interessante la crescita di fiducia verso Salvini. Trainato, probabilmente, dalle polemiche sugli stranieri. E sul pericolo generato dai profughi in arrivo dal mare. Salvini, infatti, raggiunge il 38%: 5 punti più di un mese fa. Dietro di lui - e a Renzi - incontriamo i due leader del M5s: Grillo e Di Maio. Insieme a Bersani e, appunto, a Giorgia Meloni, compresi fra 32 e 34%. Unica novità: Diego Della Valle. L'ultimo arrivato sulla scena politica, insieme a un nuovo marchio: " Noi italiani". L'imprenditore marchigiano - presidente della Fiorentina - ottiene un buon grado di consensi: 35%. Meno di Salvini. Molto meno di Renzi. Ma (poco) più di Grillo, Di Maio e tutti gli altri. Tuttavia, come si è visto in passato, il vantaggio competitivo delle figure " nuove", provenienti dall'esterno, tende a sfumare quando " si scende in campo" e la novità finisce.

Così, in attesa che il clima internazionale si raffreddi - oppure, malauguratamente, si riscaldi ulteriormente - gli italiani guardano alle vicende e ai personaggi della scena politica interna con un certo distacco. Comprensibilmente. Le stime di voto lo confermano. E riproducono un profilo con pochi (anche se significativi) scostamenti, rispetto al mese scorso. Davanti a tutti, il PD di Matteo Renzi. Quindi, il M5s. Il PD: 31,6%, appena sotto un mese fa. Il M5s appena sopra: 27,4. La distanza fra i due partiti, dunque, si consolida, intorno a 4 punti. L'arretramento del PD di Renzi, peraltro, si spiega anche con l'avvio della Sinistra Italiana (SI), a cui hanno aderito SEL e altri gruppi, insieme agli esponenti della sinistra del PD usciti dal partito. SI, infatti, potrebbe intercettare una quota di elettori dalla base del PD. Non è detto che si tratti di un prezzo eccessivo, per Renzi. Il quale mira ad attrarre maggiormente gli elettori moderati. E, quindi, a distinguersi dalle posizioni di Sinistra più marcate. Ora interpretate ed espresse dalla SI.

Tuttavia, è interessante osservare come una maggioranza - limitata - di elettori del PD (53%) sosterrebbe l'ipotesi di un'intesa, in vista delle prossime elezioni politiche. Si tratta, tuttavia, di un consenso assai più ridotto rispetto a quello espresso dalla base elettorale di Sel-SI. La cui " sopravvivenza", senza il traino del PD, verrebbe messa seriamente in discussione dalla nuova legge elettorale. Un motivo in più, probabilmente, per spingere il premier a non tornare indietro. E ad " allontanare" il nuovo soggetto politico dal (sempre più) suo Pd(R).

Riprendendo le stime elettorali, l'unica vera novità appare la risalita della Lega di Salvini, oltre il 14%. E il parallelo arretramento di FI, sotto il 13%. Da ciò, il ri-sorpasso della Lega, che ri-supera, anche se di poco, FI. Da ciò, anche il consenso, largamente maggioritario, per una lista comune, che unisca Lega e FI. Una prospettiva sostenuta da circa 8 elettori su 10, in entrambi i partiti. Per necessità. Ma se il percorso unitario, a destra, appare con-diviso, le idee su chi lo debba guidare appaiono divise. Prevale, fra gli altri, Matteo Salvini. Oltre un terzo degli elettori di Centrodestra lo vorrebbe leader di una lista unitaria. Ma il 27% preferirebbe Silvio Berlusconi. Mentre il 17% punta su Giorgia Meloni. Le opinioni, al proposito, sono ovviamente influenzate dagli orientamenti di partito. E ciò potrebbe, al momento della scelta, complicare la confluenza degli elettorati dentro a un unico collettore politico. Dietro a un'unica bandiera. Per ora, osserviamo che, in caso di ballottaggio (come prevede la nuova legge elettorale, se nessuna lista superasse il 40%), il PdR prevarrebbe senza troppi problemi contro i soggetti di Centrodestra. Di larga misura (20 punti) contro la Lega - da sola. Ma in modo netto (più di 11 punti) anche contro una lista unitaria, che associasse la Lega di Salvini e il partito di Berlusconi.

Così, l'unica sfida veramente incerta appare (e sarebbe) quella fra il PdR e il M5s. Come si era già osservato un mese fa. Ma oggi l'incertezza appare ancora maggiore. Una distanza di poco più di 4 punti, 52% a 48%, si traduce, infatti, in una differenza di 2 punti. Perché ogni punto in più per una lista è sottratto, automaticamente, all'altra. In altri termini: ogni esito pare possibile. Anche perché il M5s non sembra più condannato al ruolo dell'opposizione " non alternativa". Certo, due terzi degli elettori pensano che non sarebbe in grado di governare, a livello nazionale. Ma quasi metà lo ritiene, al contrario, adeguato, in caso di vittoria, ad amministrare le grandi città dove si vota l'anno prossimo. Come Roma, Milano, Torino. Un'idea condivisa da quasi tutti gli elettori del M5s. Due anni fa non era così. Il M5s era " solo" un voto di protesta. Per quasi tutti gli elettori italiani. E per gran parte degli elettori del M5s. Ma i tempi cambiano. E il clima di insicurezza, alimentato dal terrorismo, vicino e lontano, contribuisce a modificare, ancora, e profondamente, il nostro sentimento politico. Anzi: i nostri sentimenti.

© Riproduzione riservata
22 novembre 2015

DA - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/22/news/ora_nell_incertezza_i_cinquestelle_sono_la_vera_alternativa_a_renzi-127895859/?ref=HREC1-8
7388  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Ernesto GALLI DELLA LOGGIA La violenza e noi europei smarriti inserito:: Novembre 24, 2015, 06:26:33 pm
Saperla riconoscere
La violenza e noi europei smarriti


L’editoriale del Corriere della Sera del 23 novembre 2015

Di Ernesto Galli della Loggia

C i sono molti modi con i quali una società può consolarsi dei mali che le piombano addosso. Uno dei più ovvi è la mistificazione: cambiare il segno di ciò che le è capitato, piegarne il significato specialmente idealizzandone alcuni tratti, accentuandone altri, sorvolando su altri ancora. Un’operazione nella quale, come si capisce, una parte decisiva oggi l’hanno i media. I quali diventano specchio ma anche fabbricanti della coscienza sociale.

È quanto è accaduto a proposito della strage di Parigi. Il senso del lutto è stato sublimato in un autocompiacimento al limite di un’insulsa arroganza culturale. L’obiettivo dei terroristi - uccidere il maggior numero possibile di persone: pertanto colpire nei luoghi pubblici (e dove se no?) - è stato trasformato in un attacco «al nostro modo di vivere», alla «nostra possibilità di uscire la sera per andare a un concerto, a un ristorante, a divertirci»: come se queste medesime cose non facciano parte della vita quotidiana di quasi tutto il mondo, Paesi islamici inclusi (e infatti in tutto il mondo, dall’Iraq alle Filippine, il terrorismo predilige esattamente gli stessi bersagli che ha colpito a Parigi). È seguito l’impegno roboante a base di «non ci farete cambiare le nostre abitudini»: nel momento stesso in cui nelle comunicazioni, per esempio, si restauravano barriere e controlli abbandonati da anni; in cui perfino un viaggio in treno stava diventando come attraversare un tempo la Cortina di ferro. Nel momento stesso in cui ritornava all’ordine del giorno delle società europee una quisquilia come lo «stato d’emergenza».

E poi i giovani, i giovani... Anche qui una trasfigurazione idealizzante del tutto irreale e autoconsolatoria. Una società di vegliardi, la quale vede la natalità cadere a picco, e che è di fatto organizzata tutta per sfavorire in ogni modo le classi giovanili, si è d’improvviso riconosciuta simbolicamente proprio nei giovani - vittime ovvie, ma certo casuali di sparatorie avvenute all’interno di locali pubblici in una sera di weekend -. Un’enfatizzazione simbolica che forse è servita a nascondere qualcos’altro da tenere nascosto: e cioè il nostro oscuro senso di colpa per il modo in cui trattiamo i giovani, da rovesciare nell’attribuzione di una responsabilità ben maggiore all’efferatezza jihadista; o forse, chissà, la consapevolezza angosciosa che ogni giovane vita sottrattaci costituisce una perdita irreparabile.

E ancora le parole di quel poveretto a cui hanno ucciso la moglie ed è rimasto solo con una figlia in tenerissima età, che i media ci additano mielosamente come esemplari, quasi il prototipo obbligatorio della reazione politicamente corretta: «Non vi farò il dono di odiarvi», «rispondere all’odio con la collera sarebbe cedere alla stessa ignoranza che vi ha reso ciò che siete».

Se s’intende che non bisogna scendere in strada a organizzare pogrom antislamici, non mi pare proprio che siano cose di cui fortunatamente (ripeto per chi non voglia capire: fortunatamente) esista la minima avvisaglia. Ma di fronte a certi crimini non esiste, non deve esistere, non è moralmente degna, una collera della giustizia? Non era forse giusto odiare i kapò dei campi di sterminio, i carnefici di Nanchino o gli organizzatori della carestia artificiale in Ucraina? E non si parla forse nella Bibbia di una collera di Dio contro i malvagi?

In realtà l’intera rappresentazione mediatica di quanto è accaduto e sta accadendo in Francia e altrove sembra avere soprattutto una funzione più o meno consapevolmente esorcistica del nostro smarrimento, di noi europei occidentali, di fronte a quello che è diventato per noi l’enigma della violenza. La nostra estraneità alla violenza - non a quella che, camuffata in mille modi, esiste pure da noi, bensì alla violenza in quanto uso della forza volontariamente accolto da una cultura nei suoi valori - è ormai tale che non riusciamo neppure a immaginare una società, una religione, che una simile estraneità non la condividano. Che non siano istituzionalmente favorevoli sempre e comunque alla «pace». Il solo pensare che invece esistano lo consideriamo, già in quanto tale, un fatto di violenza. Supporre o suggerire, ad esempio, che su questo punto cruciale della violenza le società islamiche non abbiano la nostra stessa sensibilità, anzi ne abbiano una assai diversa, viene stigmatizzato, già solo questo, come l’anticamera dell’«islamofobia».

Siamo, vogliamo sentirci, così «buoni», che non riusciamo a credere che qualcuno nel mondo possa invece considerarci «cattivi» . Fino al punto che ce la voglia far pagare ricorrendo a quella cosa che si chiama guerra: una cosa che al mainstream del pensiero che si dice democratico appare talmente inconcepibile da essere sottoposta, almeno qui in Italia, a un vero e proprio tabù semantico. Da noi la parola «guerra», come ha capito benissimo il nostro presidente del Consiglio, è diventata una parola impronunciabile. E se no del resto come potremmo sentirci così buoni?

Ma perché di guerra si tratti non è necessario essere in due. Basta che uno decida di spararti addosso. Certo, non è detto che ogni colpo di fucile debba rappresentare di per sé l’inizio di una guerra. Ammettiamo però che qualche migliaia di colpi e centotrenta morti possono far sorgere qualche ragionevole sospetto.

23 novembre 2015 (modifica il 23 novembre 2015 | 07:57)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_23/violenza-noi-europei-smarriti-08238b1c-91aa-11e5-98d3-3899a469cdf7.shtml
7389  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / SERGIO ROMANO. I rischi dei poteri speciali inserito:: Novembre 24, 2015, 06:24:51 pm
IL COMMENTO

I rischi dei poteri speciali
La legislazione francese sullo stato d’urgenza conferisce al governo e ai prefetti poteri eccezionali.

Di Sergio Romano

Lo stato d’urgenza, proclamato dal presidente francese la sera del 13 novembre e confermato nel suo discorso al Congresso di fronte alle Camere riunite, non è il Patriot Act voluto da George W. Bush dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. La legge americana conteneva misure repressive e inquisitive che l’apparato poliziesco degli Stati Uniti chiedeva da tempo; e fu l’occasione per la più brusca svolta illiberale del sistema di sicurezza americano dai primi anni della Guerra fredda. La legislazione francese sullo stato d’urgenza, invece, conferisce al governo e ai prefetti poteri eccezionali.

Sono previsti tra l’altro il coprifuoco, l’interdizione di soggiorno, le perquisizioni domiciliari senza autorizzazione giudiziaria e il coinvolgimento della giustizia militare; ma è un provvedimento eccezionale destinato a durare, probabilmente, non più di tre mesi e già adottato per i disordini nelle banlieue parigine durante la presidenza di Jacques Chirac nel novembre del 2005. È probabile che François Hollande non potesse fare diversamente. Un presidente scolorito, frequentemente punito dai sondaggi e alla vigilia di importanti scadenze elettorali doveva rappresentare se stesso al Paese come un uomo forte e deciso, capace di fare fronte alla minaccia islamista.

Mi chiedo tuttavia se sia altrettanto consapevole dei rischi che si nascondono nella proclamazione dello stato d’urgenza. L’Isis è certamente il più barbaro e crudele dei movimenti jihadisti degli ultimi decenni. Ma non è privo di una strategia. La sua principale esigenza, non meno importante delle armi e del denaro, è il reclutamento. Negli ultimi quindici mesi, secondo alcuni analisti, avrebbe perduto, insieme a una parte del territorio conquistato, non meno di 20.000 combattenti, fra cui parecchi ufficiali. Può continuare a reclutare soltanto se riesce a infiammare l’immaginazione dei suoi giovani «martiri» con lo spettacolo e la narrazione delle sue gesta più audaci e crudeli. Ha colpito Parigi perché nella capitale francese esiste il più grande serbatoio europeo di potenziali volontari. Ha agito spietatamente perché una tale sfida, lanciata al nemico nel suo territorio, suscita ammirazione in molti giovani che vanno alla ricerca di una causa in cui affogare la rabbia e le frustrazioni accumulate nei ghetti delle banlieue di Parigi. La proclamazione dello stato d’urgenza punta il dito inevitabilmente contro le comunità musulmane e i loro quartieri, fa di ogni maghrebino, in molte circostanze e in alcune ore della giornata, l’individuo sospetto che sarà legale fermare, interrogare, perquisire, trattenere.

Non tutti hanno dimenticato la caccia all’uomo nelle strade di Parigi il 17 ottobre 1961 quando alcune migliaia di algerini erano scesi in piazza per protestare contro un decreto del prefetto di polizia che «sconsigliava» ai francesi musulmani di Algeria (come erano chiamati allora) di circolare nelle strade di Parigi fra le 20.30 e le 5.30. La violenza con cui furono trattati dalla polizia e da molti parigini rese la loro indipendenza, un anno dopo, ancora più inevitabile.

La guerra, comunque, si vince soltanto in Siria e in Iraq. L’Isis non è uno Stato, secondo le regole e le convenzioni dell’Occidente, ma ha un territorio, caserme, banche, uffici pubblici, e soprattutto sudditi che attendono con ansia la loro liberazione e che diverranno verosimilmente, il giorno dopo, i migliori alleati dei loro liberatori.

18 novembre 2015 (modifica il 18 novembre 2015 | 08:16)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_18/i-rischi-poteri-speciali-c96afd8a-8dbf-11e5-ae73-6fe562d02cba.shtml
7390  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Bernard-Henri Lévy. I musulmani delle nostre città ora ci dicano con chi stanno inserito:: Novembre 17, 2015, 07:08:28 pm
Dopo Parigi
I musulmani delle nostre città ora ci dicano con chi stanno
Quello che è successo nella capitale francese è guerra, una nuova guerra.
E il primo modo per rispondere è: dare un nome ai veri responsabili

Di Bernard-Henri Lévy

Ebbene, la guerra. Una guerra di nuovo tipo. Una guerra con e senza frontiere, con e senza Stato, una guerra due volte nuova perché mescola il modello deterritorializzato di Al Qaeda e il vecchio paradigma territoriale al quale l’Isis è tornato. Ma comunque una guerra.
Di fronte a una guerra che né gli Stati Uniti né l’Egitto né il Libano né la Turchia né oggi la Francia hanno voluto, una sola domanda è valida: che fare? Come rispondere e vincere, quando questo tipo di guerra vi cade addosso?

Prima legge. Dare un nome. Dire pane al pane, vino al vino. E osare formulare la terribile parola «guerra» che ha la vocazione, quasi la proprietà e, in fondo, la nobiltà e al tempo stesso la debolezza di essere respinta dalle democrazie oltre i limiti delle loro facoltà, dei loro punti di riferimento immaginari, simbolici e reali.

Siamo a questo punto. Pensare l’impensabile della guerra. Accettare quell’ossimoro che è l’idea di una Repubblica moderna costretta a combattere per salvarsi. E pensarlo con tanta più pena in quanto nessuna fra le regole stabilite, da Tucidide a Clausewitz ai teorici della guerra, sembra applicarsi a questo Stato fantoccio che porta il conflitto tanto più lontano in quanto i suoi fronti sono incerti e i suoi combattenti hanno il vantaggio strategico di non fare alcuna differenza fra ciò che noi chiamiamo vita e ciò che loro chiamano morte.

Le autorità francesi l’hanno capito, al livello più alto. La classe politica, unanime, ha avallato il loro gesto. Restiamo noi, il corpo sociale nel suo insieme e nel suo dettaglio: ciascuno di noi che, ogni volta, è un bersaglio, un fronte, un soldato senza saperlo, un focolaio di resistenza, un punto di mobilitazione e di fragilità biopolitica. È sconfortante, è atroce, ma è così e occorre urgentemente prenderne atto.

Secondo principio. Il nemico. Chi dice guerra dice nemico. E il nemico bisogna trattarlo non solo come tale, cioè (lezione di Carl Schmitt) come una figura con cui si può, secondo la tattica adottata, giocare d’astuzia, fingere di dialogare, lottare senza parlare, in nessun caso transigere, ma soprattutto (lezione di Sant’Agostino, di San Tommaso e di tutti i teorici della guerra giusta) bisogna dargli il suo nome vero e preciso.


Questo nome non è il «terrorismo». Non è una dispersione di «lupi solitari» o di «squilibrati». Quanto all’eterna cultura della giustificazione che ci presenta gli squadroni della morte come gente umiliata, ridotta allo stremo da una società iniqua e costretta dalla miseria a uccidere dei giovani il cui unico crimine è di aver amato il rock, il football o la frescura di una notte autunnale in un bar, è un insulto alla miseria non meno che alle vittime.

No. Gli uomini che ce l’hanno con il dolce vivere e con la libertà di comportamento cara alle grandi metropoli, i mascalzoni che odiano lo spirito delle città come - è infatti la stessa cosa - lo spirito delle leggi, del diritto e della gradevole autonomia degli individui liberati dalle vecchie sudditanze, gli incolti cui bisognerebbe contrapporre, se non fossero loro estranee, le così belle parole di Victor Hugo quando gridava, durante i massacri della Comune, che prendersela con Parigi è più che prendersela con la Francia, perché significa distruggere il mondo: costoro conviene chiamarli fascisti. O meglio: islamo-fascisti. Meglio ancora: il frutto di un punto di incrocio che un altro scrittore, Paul Claudel, vede prospettarsi quando il 21 maggio 1935 nel suo Diario scrive, in uno di quei lampi di genio di cui solo i grandissimi hanno il segreto: «Discorso di Hitler? Si sta creando al centro dell’Europa una sorta di islamismo...».

Il vantaggio dell’atto di nominare? Mettere il cursore dove conviene. Ricordare che con questo tipo di avversario la guerra deve essere senza tregua e senza pietà. Poi, costringere ciascuno, dappertutto, cioè nel mondo arabo-musulmano come nel resto del pianeta, a dire perché combatte, con chi, contro chi.

Questo non significa naturalmente che l’Islam abbia, più di altre formazioni discorsive, una qualche affinità con il peggio. E l’urgenza di questa lotta non deve distrarci dalla seconda battaglia, essenziale, anche vitale, che è quella per l’altro Islam, per l’Islam dei Lumi, per l’Islam in cui si riconoscono gli eredi di Massud, di Izetbegovic, del bengalese Mujibur Rahman, dei nazionalisti curdi o di un sultano del Marocco che fece l’eroica scelta di salvare, contro il regime di Vichy, gli ebrei del suo regno.

Ma ciò vuol dire due cose, o piuttosto tre. Innanzitutto, che le terre dell’Islam sono le uniche al mondo dove - poiché si reputa che la tormenta fascista degli anni Trenta non abbia oltrepassato il perimetro dell’Europa - ci si è dispensati dal fare il lavoro di memoria e di lutto che hanno compiuto i tedeschi, i francesi, gli europei in generale, i giapponesi.

In seguito, che bisogna far apparire nettamente la separazione decisiva, primordiale, che contrappone le due visioni dell’Islam impegnate in una guerra mortale e che è, tutto considerato, e se si vuole mantenere assolutamente l’uso della formula, la sola guerra di civiltà che valga la pena.

Infine, che la linea lungo la quale si affrontano gli affiliati di un Tariq Ramadan e gli amici del grande Abdelhawahb Meddeb, la verifica su ciò che, da un lato, può in effetti alimentare il «Viva la muerte» dei nuovi nichilisti e, dall’altro, del tipo di lavoro ideologico, testuale e spirituale che basterebbe a scongiurare il ritorno o l’entrata dei fantasmi, tutto questo deve essere prioritariamente opera degli stessi musulmani.

Conosco l’obiezione. Sento già i benpensanti gridare che il fatto di invitare bravi cittadini a dissociarsi da un crimine che non hanno commesso significa supporli complici e, dunque, stigmatizzarli. Invece no. Infatti, quel «non in nostro nome» che aspettiamo dai nostri concittadini musulmani era quello degli israeliani che si dissociavano, quindici anni fa, dalla politica in Cisgiordania del loro governo. Era quello delle folle di americani che nel 2003 rifiutavano l’assurda guerra in Iraq. Era il grido, più recentemente, di tutti i britannici, fedeli o semplici lettori del Corano, i quali si addossarono la responsabilità di proclamare che esiste un altro Islam - dolce, misericordioso, amante di tolleranza e di pace - rispetto a quello nel cui nome si poteva pugnalare un militare in mezzo a una strada.

È un bel grido. È un bel gesto. Ma soprattutto è il gesto semplice, di una buona guerra, che consiste nell’isolare il nemico, staccarlo dalle sue retrovie e far sì che non si senta più come un pesce nell’acqua in una comunità di cui, in realtà, egli è la vergogna.

Infatti, chi dice guerra dice ancora, inevitabilmente, identificazione, emarginazione e, se possibile, neutralizzazione di quella parte del campo avverso che opera sul suolo nazionale.
È quel che fa Churchill mettendo in prigione, quando la Gran Bretagna entra in guerra, oltre duemila persone, talvolta molto vicine a lui, come un suo cugino, numero due del partito fascista inglese, Geo Pitt-Rivers, che egli considera nemici interni.

Ed è, fatte le debite proporzioni, quello che bisogna decidersi a fare bloccando, per esempio, i predicatori di odio; sorvegliando ancora più da vicino le migliaia di individui schedati «S», cioè sospetti di jihadismo; o convincendo i social network americani a non lasciare che gli appelli all’omicidio kamikaze prosperino all’ombra del primo emendamento.

Il gesto è delicato. È sempre sull’orlo della legislazione d’eccezione. Per questo è essenziale non cedere né sul diritto né sul dovere di ospitalità che si impone, più che mai, di fronte all’ondata di rifugiati siriani in fuga, giustamente, dal terrore islamo-fascista.


Continuare a ricevere i migranti e nello stesso tempo rendere inoffensivo il più gran numero di cellule pronte a uccidere... Accogliere a braccia aperte chi fugge dall’Isis e contemporaneamente essere implacabili con quelli fra loro che traessero vantaggio dalla nostra fedeltà ai nostri principi per infiltrarsi in terra di missione e commettervi i loro misfatti...

Non è contraddittorio. È l’unico modo, innanzitutto, per non offrire al nemico la vittoria che si aspetta, cioè di vederci rinunciare al modo di vivere insieme, aperto, generoso, che caratterizza le nostre democrazie. Ed è, lo ripeto, il modo di procedere inerente a ogni guerra giusta che consiste nel non lasciare amalgamare ciò che ha vocazione ad essere diviso; e nella circostanza mostrare alla grande maggioranza dei musulmani di Francia che non solo sono nostri alleati, ma fratelli concittadini.

Poi, l’essenziale. La vera fonte di questo orrore dilagante. Lo Stato islamico che occupa un terzo abbondante della Siria e dell’Iraq e che offre agli artificieri dei possibili, futuri teatri Bataclan le retrovie, i centri di comando, i campi di addestramento. È come un tempo a Sarajevo, come all’epoca in cui i sedicenti esperti agitavano lo spettro di centinaia di migliaia di soldati che si sarebbero dovuti impiegare sul terreno per impedire la pulizia etnica, mentre in realtà basteranno, giunto il momento, poche forze speciali e qualche attacco aereo: sono convinto che le orde dell’Isis siano molto più coraggiose quando si tratta di far saltare il cervello a giovani parigini inermi rispetto a quando bisogna affrontare veri soldati della libertà, e penso dunque che la comunità internazionale si trovi di fronte a una minaccia che, se lo vuole, ha tutti i mezzi per fermare.

Perché non lo fa? Perché dosare tanto meschinamente il nostro aiuto agli alleati curdi? E quale è la strana guerra che l’America di Barack Obama per ora non sembra voler davvero vincere? Lo ignoro. Ma so che la chiave del problema è qui. E che l’alternativa è chiara: «no boots on their ground» equivale a «more blood on our ground».

(Traduzione di Daniela Maggioni)
16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 07:19)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_16/i-musulmani-nostre-citta-ora-ci-dicano-chi-stanno-0ae45f02-8c28-11e5-b416-f5d909246274.shtml
7391  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Antonio POLITO Quelle idee appassite essere pacifisti in un mondo così bellicoso inserito:: Novembre 17, 2015, 07:06:31 pm
Novecento
Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicoso
La cultura progressista deve ripensare se stessa. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno»

Di Antonio Polito

Con le idee del Novecento non comprendiamo più ciò che sta accadendo, e non capiamo come reagire. Perfino la ragazza del secolo scorso per antonomasia, Rossana Rossanda, ha confessato al Corriere che stavolta «una linea non ce l’ho». Il problema è che gran parte delle idee democratiche, delle idee progressiste, delle idee di sinistra, sono del Novecento. E che gran parte della nostra élite si è formata su quelle idee, e oggi dispone di una cassetta degli attrezzi inutilizzabile, fatta di classi sociali e di divisione internazionale del lavoro, mentre il mondo di oggi sembra fatto apposta per stupirci, e si spacca su linee di frattura che avevamo date per spacciate, sepolte dalla Storia, come la religione. Sfogliamo il dizionario delle parole d’ordine che hanno rassicurato tante generazioni dal dopoguerra a oggi. Il pacifismo resta una nobile opzione morale, ma non è più una risposta realistica di fronte a chi ci dichiara guerra, o a chi ci chiede, come il socialista Hollande, di aiutarlo in guerra. Lo dice il Vangelo di porgere l’altra guancia, ma perfino Francesco ci ha informato che «se uno offende mia madre gli do’ un pugno». E se ammazzano i nostri cugini francesi? Essere pacifisti in un mondo così bellicoso, mentre sono in corso una cinquantina di conflitti e mentre le vittime di molti di quei conflitti sbarcano ogni giorno sulle nostre spiagge, non è una opzione politica. Quando la guerra era un metodo di risoluzione delle controversie internazionali, l’abbiamo ripudiata. Ma che facciamo se diventa una necessità di autodifesa, se abbiamo bisogno come oggi di qualcuno che contempli l’uso, proporzionato e legittimo quanto si vuole, della forza militare contro chi arma gli uomini-bomba?

Oppure prendiamo l’internazionalismo, vero discrimine tra sinistra e destra fin dal loro sorgere nel fuoco della Rivoluzione francese, valore poi sconfinato in un sogno irenico di cosmopolitismo, nell’utopia di società europee così multiculturali da non rendere più distinguibile la cultura degli indigeni. Onestamente, non è discorso proponibile a opinioni pubbliche sconvolte dalla paura, scioccate dalle proporzioni delle migrazioni, preoccupate di veder sparire le loro radici e il loro stile di vita in un magma indistinto di relativismo culturale, nel quale anche esporre un crocifisso può diventare offensivo. Emblematica, da questo punto di vista, è la polemica in corso sul Giubileo, che pure dovrebbe essere l’apoteosi dell’universalismo cattolico, ma che tanti vorrebbero rinviare per quieto vivere, anche se non penserebbero mai di rinviare una partita di calcio della Nazionale o un concerto di musica rock solo perché sono stati obiettivi dei terroristi a Parigi.
E infine soffre la retorica del ponte sul Mediterraneo, verso l’Africa e il Medio Oriente, tra Nord e Sud del mondo, del ruolo che tante volte ci è stato indicato come vocazione storica per il nostro Paese e tanto più per il nostro Mezzogiorno. Che fare, come scrive Paolo Macry sul Corriere del Mezzogiorno, quando invece «dal Sud del mondo viene la guerra», e non richieste di dialogo, di apertura culturale, di comprensione reciproca?

Di fronte alla vetustà di questo armamentario ideale, è facile gioco per le idee di destra apparire più moderne, più calzanti al mondo di oggi, e soprattutto più popolari. Anche quando non sono praticabili, o non sono accettabili, o non sono risolutive. Nazionalismo, nostalgia dei muri e delle frontiere, rifiuto del diverso, egoismo al posto del solidarismo; possono, di fronte alla doppia minaccia delle migrazioni di massa e del terrorismo islamista, provocare un vero e proprio riallineamento verso destra delle opinioni pubbliche europee, come accadde negli Usa dopo la frattura del Sessantotto. Il pensiero democratico che teme questo sviluppo non può dunque limitarsi a deplorarlo, quando non a irriderlo, o ad attribuirlo a pura ignoranza manipolata. È la cultura progressista che deve piuttosto ripensare se stessa, adeguarsi alla realtà del mondo così com’è; a partire dal binomio pace-guerra, perché pace non è lavarsene le mani, per continuare sul crinale laicità-religione, perché c’è religione e religione, fino alla riscoperta di un concetto di sovranità nazionale compatibile con un nuovo internazionalismo. Altrimenti avrà perso la guerra culturale scatenata nell’Occidente dall’offensiva islamista, dall’11 settembre del 2001 al 13 novembre del 2015.

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 08:04)
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Da - http://www.corriere.it/cultura/15_novembre_17/quelle-idee-appassite-essere-pacifisti-un-mondo-cosi-bellicoso-65386c3a-8cf2-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml
7392  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Gian Antonio STELLA - SPIEGARE IL TERRORISMO AI BAMBINI inserito:: Novembre 17, 2015, 07:03:59 pm
SPIEGARE IL TERRORISMO AI BAMBINI
Gli sguardi smarriti dei bimbi «Ma Isis viene qui a scuola?»
Mentre i jihadisti dello Stato Islamico addestrano i bambini per combattere all’istituto «Leonardo da Vinci» di Parigi gli alunni si interrogano sulla carneficina di Parigi

Di Gian Antonio Stella

Gabriele e i tre bambini che in un terrificante video dell’Isis sparano alla nuca a dei prigionieri hanno una cosa in comune. L’età. Anzi, i tre piccoli addestrati a uccidere dai macellai dello Stato Islamico hanno forse uno o due anni di meno. E così anche il figlioletto di Khaled Sharrouf, il jihadista australiano che dopo aver trascinato tutta la sua famiglia in Siria ha postato sul web la foto del bambino che, col berrettino da baseball, una maglietta e un orologio di plastica al polso regge a due mani la testa di un uomo decapitato.

Nulla dà l’idea dell’abisso tra i mondi lontanissimi di questi ragazzini quanto la reazione di Gabriele e degli altri alunni delle elementari e delle medie della scuola «Leonardo da Vinci» a Parigi alla mattanza di venerdì sera. «Per due giorni, dopo il massacro al Bataclan e negli altri locali e localini presi d’assalto non c’è stato verso di portarlo fuori di casa - racconta Stefania, la madre -. Sulle prime avevo pensato fosse meglio che non vedesse, non sapesse. Poi ho capito. Era inutile. Sapeva già. Ne abbiamo parlato a lungo, a casa. Se vuoi educarlo alla vita un figlio lo devi anche mettere davanti al tema della morte. Dell’ingiustizia. Della violenza. Ma come lo spieghi, a un bambino, quello che è successo? Domenica gli ho detto: “Ci facciamo un giro in bici?” Macché, neppure il giro in bici».

Federico quella sera, a dieci anni, «è rimasto su fino alle due di notte a guardare i telegiornali - racconta Laura -. Era choccato. La prima cosa che mi ha detto è stata: “Mamma, torniamo in Italia. Ti prego, torniamo in Italia”. Domenica abbiamo fatto una merenda con un po’ dei suoi amici. Abbiamo parlato e parlato. Cercando di far loro riassorbire il colpo». «Sabato sera, con un gruppo di genitori, siamo usciti a prendere una pizza. Proprio perché i bambini non elaborassero da soli tutte le notizie e le paure da cui erano bombardati - spiega Elisabetta Zardini, che dell’Associazione Genitori è la presidente -. Mio figlio Nicolò, a dieci anni, è molto “presente”. Ieri, dopo i bombardamenti, voleva sapere: “Ma adesso vengono e ci bombardano loro?” Abbiamo cercato di fare quello che potevamo: spiegare ai bambini che devono stare attenti a questo e a quello. Ma senza far loro venire gli incubi notturni. Sarebbe peggio».

Per aiutare i padri e le madri in questi giorni complicatissimi, dove devono tenere insieme l’obbligo di mettere i figli in allarme e insieme alleggerire le loro paure, l’Associazione ha invitato tutti a procurarsi tre giornalini: Le petit quotidien per i piccoli, Mon quotidien per i ragazzini e L’Actu (sta per «l’attualità») per gli adolescenti. Parlano della mattanza, ma con le parole giuste. Maestri e maestre delle elementari della sede di Avenue de Villars, tornati a scuola ieri, raccontano di essersi trovati davanti bambini smarriti. Alcuni sotto choc. Altri quasi ignari di quanto era successo. «Qualche raro genitore ci aveva anzi raccomandato di non affrontare il tema - spiega Giuseppe, uno degli ultimi maestri maschi (ricordate lo straordinario maestro di Cuore o Giovanni Mosca che conquista la classe abbattendo con la fionda un moscone?) di un’antica e gloriosa specie -. Ma come puoi isolare i bimbi in un mondo perfetto?».

Radunati in palestra, gli scolaretti del «Leonardo da Vinci» hanno parlato a lungo di quanto era successo la sera di venerdì. «Certo, abbiamo cercato di usare il linguaggio giusto ma era impossibile far finta di nulla - spiega Nicoletta -. Tanto più che una bambina che abita vicino all’Opera, quella sera, era stata evacuata con tutta la famiglia. Insomma, una cosa è vedere certe scene in televisione, un’altra viverle. E lei l’aveva vissuta direttamente, la paura».
Certo è che nei temi in classe fatti ieri mattina su quella sera di spari e sirene e televisioni accese sulle edizioni speciali dei telegiornali, ogni bambino ha elaborato la storia a modo suo. «C’è chi è rimasto colpito soprattutto dalla donna aggrappata alla finestra al Bataclan, chi è andato oltre le immagini tivù ricostruendo nella sua immaginazione anche cose mai viste - spiega la maestra Maia -. Un bambino ha scritto di essersi impressionato vedendo “tutti morti dentro al Bataclan”. Cosa impossibile perché quell’immagine non è mai uscita».

Maestri e maestre spiegano di aver recuperato per i piccoli, ad esempio, alcune frasi di Tiziano Terzani sul rischio in certi momenti di «risvegliare i nostri istinti più bassi» e di «aizzare la bestia dell’odio che dorme in ognuno di noi e a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto». O una di Socrate tratta dai Dialoghi di Platone: «Non bisogna restituire ingiustizia né bisogna far del male ad alcuno degli uomini neppure se, per opera loro, si patisca qualsiasi cosa» . A farla corta: guai allo spirito di vendetta? «Noi parliamo coi bambini e non possiamo che spingerli, come maestri, a credere nella forza della parola - risponde Francesca -. Ma direi le stesse cose anche a mio nipote, a un amico, a un estraneo che la pensa diversamente». Reazione? «Sulle prime i bambini erano attentissimi. Poi hanno cominciato a essere insofferenti. Volevano parlare d’altro, avevano bisogno di parlare d’altro». Il minuto di silenzio, però, l’hanno vissuto con la consapevolezza solenne di un adulto: «Erano molto colpiti dal fare parte di una cosa corale di tutti i francesi. L’attesa è stata molto densa. Il nostro minuto di silenzio è stato lungo lungo».

Fabio ha dieci anni e la sera di sabato sua madre, Carola, ha deciso che la famiglia doveva uscire con degli amici come preventivato proprio perché «era necessario tagliare subito l’aria. Non possiamo vivere nel terrore. Dieci mesi fa eravamo andati insieme alla manifestazione dopo Charlie Hebdo. Dopo quello che è successo mi ha chiesto: ma come, mamma, ancora? Ancora?». Ieri, a scuola, ha fatto un disegno: un kalashnikov con una croce sopra. Basta .

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 10:27)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_17/gli-sguardi-smarriti-bimbi-ma-isis-viene-qui-scuola-42f454f0-8d05-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml
7393  Forum Pubblico / ESTERO fino al 18 agosto 2022. / Andrea Purgatori. Intelligence belga incapace o il paese è troppo "accogliente" inserito:: Novembre 17, 2015, 07:02:17 pm
Attentato di Parigi: i dubbi sull'atteggiamento dell'intelligence belga, ma è davvero così incapace?

Andrea Purgatori, l'Huffington Post
Pubblicato: 17/11/2015 16:51 CET Aggiornato: 1 ora fa

La prima domanda: perché Abdeslam Salah è stato l’unico sopravvissuto del commando alla notte di fuoco di venerdì 13? La seconda domanda: perché i servizi segreti belgi hanno lasciato crescere indisturbata per mesi, forse per anni la cellula della Jihad nel quartiere di Molenbeek?

Non ci sono dubbi che quella organizzata per colpire Parigi e il cuore dell’Europa fosse una missione suicida. Tutti i terroristi hanno agito con giubbetti o cinture imbottiti di perossido di acetone (Tatp). E qui le possibilità sono due. Abdeslam Salah non aveva addosso l’esplosivo, perché era già previsto che non dovesse sacrificarsi come gli altri, come suo fratello.

Oppure all’ultimo istante forse non ha avuto il coraggio di farsi saltare in aria. Nel primo caso, la sua sopravvivenza sarebbe giustificabile solo con un ruolo di primaria importanza all’interno dell’organizzazione. Ma c’è anche quella seconda eventualità? No.

I precedenti aiutano a capire. Negli attentati a Charlie Hebdo e al supermercato Kosher, i fratelli Said e Cherif Kouachi e Amedy Coulibaly non si erano suicidati durante o subito dopo l’azione ma avevano messo nel conto una fuga disperata ed equivalente a un suicidio. E così è stato. Per Abdeslam Salah invece non c’è stata né la fuga disperata, né una coda autolesionista. E’ fuggito e basta. E al momento è sicuramente nascosto dalla rete della Jihad in Belgio, che peraltro sta mostrando di avere tentacoli anche in Olanda e Germania.

Per lui, per le ore successive all’attacco di venerdì 13, hanno parlato Mohamed Amri e Hamza Attou, arrestati e indicati forse con troppa approssimazione gli artificieri del gruppo perché nelle loro abitazioni sono state trovare abbondanti dosi di nitrato d’ammonio (ma il Tatp è un composto che non ne contiene). Amri ha raccontato di essere andato a Parigi a prelevare Abdeslam nella notte della carneficina al Bataclan e di averlo riportato a Bruxelles, scaricandolo nei pressi dello stadio. Naturalmente, siamo dentro una nebulosa di bugie e depistaggi. E Amri è ancora sotto interrogatorio.

Sta di fatto che Abdeslam è l’uomo che ha affittato le due stanze d’albergo servite al gruppo per attendere l’ordine di attacco. Ed è lì (lo confermano aghi e tubicini di plastica) che l’artificiere, quello vero, deve aver preparato giubbetti e cinture con quella miscela talmente instabile che avrebbe reso assolutamente proibitivo uno spostamento con l’esplosivo a bordo di una macchina da Bruxelles a Parigi. Nelle stanze 311 e 312 del City Apartment di Alfortville, nella banlieu parigina, i terroristi hanno mangiato la pizza, hanno caricato le armi, si sono guardati in faccia. C’è da immaginare che a quel punto tutti sapessero che Abdeslam avrebbe partecipato all’azione senza suicidarsi. Il perché lo scopriremo forse tra qualche ora o qualche giorno, o forse mai.

Ma adesso? L’antiterrorismo belga sta marciando al ritmo di decine di blitz al giorno. Soprattutto nel quartiere di Molenbeek. Ma questo non basterà ad evitare che una nuova tempesta investa la Surete de l’Etat (SdE), i servizi segreti che da Charlie Hebdo (le armi dei terroristi procurate da una cellula in Belgio) al treno Amsterdam-Parigi (l’attentatore in arrivo dal Belgio), fino al massacro di venerdì 13 a Parigi si sono visti passare sotto il naso non uno ma decine di jihadisti, senza muovere un dito se non a posteriori.

Per il poliziotto e criminologo Jaak Raes, che della SdE è il capo dal 2014, non sarà una passeggiata spiegare come accidenti sia stato possibile a una intera rete di terroristi nascere, proliferare e muoversi indisturbata all’interno di un quartiere a forte componente islamica e certamente difficile da penetrare, ma a anche due passi dai palazzi dell’Unione Europea. Mentre i media del Paese cominciano ad avanzare dubbi e interrogativi tutt’altro che campati in aria.

Anche qui i precedenti qualcosa insegnano. Nel 1996, il ministro dell’Interno francese Charles Pasqua accusò senza giri di parole la SdE e il governo belga di aver stretto un patto di neutralità reciproca con i terroristi del Gia algerino, che il 25 luglio 1995 avevano fatto 7 morti e 117 feriti nella stazione della metro di Saint Michel. Anzi, per la verità era stato proprio il Gia a rivelare nel comunicato di rivendicazione l’accordo coi servizi segreti. Accordo che prevedeva che la SdE chiudesse gli occhi sulla presenza di cellule del Gia a Bruxelles, in cambio della promessa da parte dei terroristi di non compiere azioni sul territorio belga.

Non finisce qui. Nel 2008, nonostante un sistema di videosorveglianza 24 ore su 24 e addirittura 32 uomini dei servizi dislocati intorno alla casa, Fehriye Erdal, terrorista del DHKP-C turco condannata per l’assassinio di un industriale a Istanbul, riuscì a fuggire prima in macchina e poi in autobus trascinando alle dimissioni l’allora capo della SdE, Koen Dassen. Insomma, ce ne è abbastanza per sospettare che l’atteggiamento dell’intelligence belga nei confronti delle cellule della Jihad sia stato quanto meno superficiale, per non dire accondiscendente.

Il risultato è questo, al momento: Adeslam Salah è irreperibile e i reparti speciali dell’antiterrorismo consumano blitz su blitz mostrando i muscoli giorno e notte. Se l’avessero fatto prima del venerdì nero, forse oggi non si piangerebbero morti innocenti e non ci si interrogherebbe su quello che ancora ci aspetta dal mostro jihadista cresciuto a dismisura tra le strade, le case e le moschee di Molenbeek.

DA - http://www.huffingtonpost.it/2015/11/17/attentato-parigi-intelligence_n_8582486.html?utm_hp_ref=italy
7394  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / ALDO CAZZULLO. Parigi: Le vittime devono trovare un nome inserito:: Novembre 17, 2015, 06:58:57 pm
Dopo gli attacchi

Le vittime devono trovare un nome
I parenti entrano per il riconoscimento dei cadaveri.
Escono barcollando, in lacrime, cercando l’aria con la bocca spalancata.
Ma dopo il dolore, c’è la dignità ferita e l’orgoglio

Di Aldo Cazzullo, inviato a Parigi

In riva alla Senna, tra la Gare de Lyon e la colonna della Bastiglia, c’è la Morgue. L’istituto di medicina legale, dove sono custoditi i corpi dei morti di Parigi. Tutti dovranno subire l’autopsia. Sono stati riconosciuti in 103. Ventisei restano da identificare. All’ingresso ci sono tre poliziotti e tre psicologi, tutti sulla sessantina, due donne dai capelli bianchi e un uomo calvo. Sono coetanei dei genitori delle vittime. Li accolgono. Li preparano. Offrono un tè caldo o un’arancia. Spiegano come dovranno comportarsi all’interno. Non hanno l’aria grave ma comprensiva, a volte tentano di sorridere. I familiari dei morti si abbandonano a loro completamente. Stanno vivendo un momento che ricorderanno per sempre, i pochi minuti trascorsi con gli psicologi creano un rapporto molto intenso. Poi entrano nell’edificio di mattoni rossi, salgono al primo piano, un unico enorme ambiente illuminato da finestroni ad arco, e attendono in un angolo, seduti su sedie di plastica, di essere chiamati. Escono barcollando, in lacrime, cercando l’aria con la bocca spalancata.

Dopo lo strazio la dignità ferita
Ma va detto che, dopo la prima reazione di strazio, viene fuori in molti un misto di dignità ferita e di fierezza, insomma di rabbia e di orgoglio, che in effetti sono i sentimenti popolari che all’evidenza prevalgono in questi casi. Ci sono i figli dell’immigrazione, neri e maghrebini, che non hanno pudore di piangere, e le tradizionali famiglie francesi, più trattenute. Chi non ce la fa viene portato sotto una tenda bianca, dov’è stato allestito un pronto soccorso. Tirano dritto il padre, la madre e il fratello minore di Ludovic Boumbas, ucciso mentre cenava con gli amici al ristorante «La Belle Equipe», la bella squadra. Sono arrivati da Lilla, hanno salutato Ludovic, ora aspettano un taxi. All’immenso dolore privato si unisce il peso del dolore pubblico. In queste occasioni c’è chi si chiude, e chi invece sente il bisogno di parlare. La madre è inebetita, il fratello piange, il padre - capelli brizzolati, cappotto blu, occhiali, quasi identico all’attore americano James Earl Jones, quello che interpreta Alex Haley in Radici - invece tiene a raccontare del figlio. «Noi siamo del Congo. Ludovic lavorava alla Federal Express, per vivere, ma gli piacevano molto i libri e la musica. Disegnava. Era un ragazzo molto buono». Buono? Il Daily Mail scrive che è stato un eroe, che si è gettato addosso ai terroristi, che ha salvato una ragazza facendole scudo con il suo corpo. «Questo non lo so. Non so se era un eroe. Per me era molto di più. Era mio figlio». Il taxi è arrivato, il padre di Ludovic Boumbas deve andare. I poliziotti lo salutano militarmente.

16 novembre 2015 (modifica il 16 novembre 2015 | 16:00)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_16/attentati-parigi-dolore-vittime-morgue-parenti-06003d22-8c6d-11e5-b416-f5d909246274.shtml
7395  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Angelo PANEBIANCO. Gli attentati a Parigi e l’occidente disunito inserito:: Novembre 17, 2015, 06:56:34 pm
EDITORIALE

Gli attentati a Parigi e l’occidente disunito
La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva

Di Angelo Panebianco

Due domande ritornano in molti commenti angosciati dopo la strage di Parigi. La prima riguarda il futuro delle libertà nell’Europa aggredita. Ci diciamo che sono proprio le nostre libertà, levatrici di un modo di vivere che dal loro punto di vista è corrotto e blasfemo, che i terroristi islamici vogliono distruggere, e anche per questo dobbiamo difenderle. È giusto ma, purtroppo, ciò che è vero in linea di principio fatica ad esserlo anche in pratica. Nessuno sa come conciliare libertà e sicurezza nel momento in cui la sicurezza subisca un vulnus così pesante. Nelle guerre convenzionali del passato anche le democrazie erano costrette a ridurre l’area delle libertà (censura, controllo degli spostamenti e della corrispondenza, coprifuoco). Solo quando la guerra finiva si poteva invertire la tendenza.

Le leggi antiterrorismo approvate in Francia e quelle in via di approvazione in molti Paesi europei, ci dicono che andiamo verso restrizioni sensibili della libertà. Dopo Parigi, è difficile che questo processo possa essere bloccato: l’Europa dell’età del terrorismo sarà purtroppo meno libera di quella che abbiamo conosciuto.
Si spera almeno che alla limitazione delle libertà imposta dai governi non si affianchino anche movimenti «spontanei» nella stessa direzione. La paura fa brutti scherzi, spinge al conformismo. Dopo il dolore e lo sgomento dei primi momenti, c’è il rischio che mass media, intellettuali, educatori, scelgano di imporre il silenzio sui temi che più scottano: il contrario di quella battaglia culturale che, giustamente, Ernesto Galli della Loggia (sul Corriere di ieri) ritiene indispensabile per contrastare le menzogne dell’estremismo islamico. La Francia, d’altra parte, prima della strage, aveva già dato prove di disponibilità al conformismo (i processi per islamofobia ne sono un esempio). La combinazione di pensiero politicamente corretto e di paura è una miscela micidiale (non solo in Francia, in tutta Europa), può spingere verso l’imposizione di una censura più implacabile di quella che sarebbe in grado di attuare un governo: alimentata soprattutto dalla paura collettiva.

La seconda domanda è collegata alla prima. Avremo la coesione necessaria per fronteggiare coloro che ci hanno dichiarato guerra? Di «guerra» ha parlato il presidente Hollande dopo la strage. Prima di allora (anche dopo l’attentato di Charlie Hebdo ) nessun leader europeo si era arrischiato a usare quella parola.
Guardiamo ai fatti. Ci si rallegra giustamente perché al vertice del G20 in Turchia, americani e russi sembrano avere trovato un accordo per contrastare lo Stato Islamico. E anche perché nei colloqui di Vienna fra le parti interessate sia iniziato un percorso - che tutti sanno comunque in salita - per trovare una soluzione diplomatica alla questione siriana.

In tempi di disperazione è giusto aggrapparsi a qualunque cosa. Ma non si possono nascondere le difficoltà. Sulla carta, la posizione di Obama è giusta: lo Stato Islamico (sunnita) deve essere sconfitto soprattutto dai sunniti. Se fossero le potenze occidentali più la Russia, più l’Iran sciita, a distruggerlo, sarebbe difficile non antagonizzare i sunniti, che sono maggioranza nel mondo islamico. In pratica, è però difficile, ad esempio, che l’Iran accetti di svolgere un ruolo secondario. Altrettanto difficile è che certi Stati sunniti (come la Turchia, nemica di quei curdi che, unici sul terreno, combattono il Califfato) si impegnino a fondo in questa guerra.

La coalizione militare è troppo ampia e troppo diversificati sono gli interessi. Forte resta anche, come sempre nelle coalizioni ampie, la tentazione dello «scaricabarile» (spostare su altri il peso della guerra). Senza contare che oggi lo Stato Islamico è, grazie a un’inerzia durata troppo a lungo, molto più forte di ieri. E la sua gramigna si è diffusa in molti luoghi.

Se la grande coalizione anti Stato Islamico resta più fragile di come la si vorrebbe, che dire poi di quel vaso di coccio che è l’Europa? Hollande, consapevole che Obama non è disposto a fare molto più di quello che sta facendo, con una mossa a sorpresa, anziché appellarsi all’articolo 5 della Nato (che impone ai membri dell’alleanza di soccorrere militarmente l’aggredito) ha richiamato per la prima volta una norma europea (l’articolo 42 del Trattato) chiedendo l’aiuto (militare) dei partner dell’Unione. È difficile pensare che ciò possa avere un seguito. Ad esempio, né la Germania né l’Italia, verosimilmente, sono pronte a un impegno di quella portata. Prima di pensare a una cosa del genere, occorrerebbe ottenere (ma è assai difficile) una maggiore coesione non solo fra gli Stati europei ma anche all’interno di ciascuno di essi.

È più probabile che l’Europa, in breve tempo, sia di nuovo pronta a dividersi fra due fronti ugualmente insensati; da un lato, il fronte di chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, prendersela con tutti i musulmani (sarebbe un favore allo Stato Islamico, getterebbe fra le sue braccia anche gente che avrebbe fatto altro) e, dall’altro lato, il fronte di chi pretende di trattare l’estremismo terrorista come un fatto estraneo all’islam e comunque isolato. Come la prima, anche questa seconda posizione si risolve in un favore per gli estremisti: impedisce di mettere a nudo, e combattere, le affinità cultural-ideologiche fra la minoranza jihadista e settori più ampi del mondo musulmano. Se quelle affinità non ci fossero, ad esempio, non ci sarebbero stati (come osservava Giles Kepel sul Corriere di ieri), i tanti consensi registrati a suo tempo nel mondo islamico per l’azione contro Charlie Hebdo . Né certi giornali del mondo arabo avrebbero potuto permettersi in questi giorni di pubblicare vignette satiriche contro la Francia aggredita.

Dallo scontro fra due insensatezze non nasce nulla di sensato. L’Europa, se non vuole essere sconfitta, deve imparare ad essere più intelligente di così.

17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 08:22)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_17/occidente-disunito-4454ffa4-8cef-11e5-a51e-5844305cc7f9.shtml
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