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Autore Discussione: ELENA LOEWENTHAL  (Letto 26937 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Febbraio 22, 2013, 07:00:26 pm »

EDITORIALI
22/02/2013

Giannino, lo Zecchino di latta

ELENA LOEWENTHAL


Come un impassibile pupazzetto fatto di mattoncini colorati, Oscar Giannino si va smontando pezzo per pezzo.
 
L’ultima è che non solo gli mancano il master, due lauree e un concorso per entrare in magistratura, ma neanche allo Zecchino d’Oro ha mai cantato. Anche quella è una bugia pietosa, una mistificazione fine a se stessa, un modo bislacco per farci sognare o tornare bambini. Parola di Mago Zurlì, che si è portato con sé anche gli archivi del concorso canoro, oltre che un pezzo della nostra infanzia. Peccato, più per il povero Giannino che per noi. 
 
In questo strabiliante catalogo di menzogne paradossalmente accompagnate da una non meno stupefacente dose di candore - come diavolo ha fatto a pensare di farla franca in questo presente dove regna l’informazione globale, dove quasi ogni dato è disponibile? -, vi è una cosa che stupisce forse ancor di più.
 
Sbugiardato così platealmente, Giannino ha in fondo dimostrato di essere stato un dritto. Diciamo un furbastro. Comunque, uno che di strada ne ha fatta, senza tanti (autentici) titoli in tasca. S’è formato una cultura economica, ha imparato a scrivere e a parlare sul palco, qualche rudimento di pubbliche relazioni non può non averlo. Visto così, senza il disvalore aggiunto della frode e senza il corredo fosforescente di un abbigliamento un po’ sopra le righe, sembra (è?) un tipo in gamba. Anche se non ha studiato. Per l’appunto.
In fondo, avrebbe potuto rappresentare un modello ben più convincente, senza tutti quei titoli falsi e quei colori fin troppo veri addosso: il tipo self made man che in tempi di crisi come questi avrebbe avuto il suo notevole appeal. Non dimentichiamo il dato rilevante pubblicato quest’anno alla chiusura delle immatricolazioni universitarie: decine di migliaia di giovani in meno iscritti nelle università. Per sfiducia, per mancanza di quattrini, per un diverso orientamento sul mondo del lavoro. Perché Giannino non ha detto a quelle migliaia di giovani e a chissà quanti altri, più o meno giovani: guardate me, che non sono neanche laureato! Guardate che cosa succede, quando ci si rimbocca le maniche (magari un po’ meno sgargianti e broccate) e si prende la vita a testa bassa, per andare lontano. 
 
Che occasione sprecata, la sua, per offrire un modello e garantirsi una credibilità inossidabile, anche originale. Certo, in questa kermesse elettorale ben altri rivendicano una imprenditorialità fin troppo di successo, venuta su dal nulla. Ma nel caso di Giannino sarebbe stata un’impresa di se stesso - individualista, nuova, pregnante e facile da comunicare, nella sua freschezza. 
 
Invece lui ha scelto l’accidentata (ma neanche tanto, visto che da anni va avanti così) via della mistificazione, del costruirsi un’identità tutta artificiale e artificiosa, inevitabilmente destinata a crollare, prima o poi, sotto i colpi di diplomi inesistenti, ridicole contraddizioni, assurde giustificazioni. «Colpe gravi ma inoffensive», ha detto di sé quando ormai era troppo tardi, quando ormai il placcatore del declino si era trasformato in una macchietta. Non sono affatto inoffensive, quelle colpe: offendono tanto chi ha sudato sui libri per guadagnarsi anche solo una laurea e non le due che millantava lui, quanto chi la laurea non ce l’ha e mai l’avrà e avrebbe potuto riconoscersi in lui, nella sua intraprendenza, nel suo talento, nel consenso che avrebbe potuto guadagnare restando quello che era. 
 
loewenthal@tin.it 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/22/cultura/opinioni/editoriali/giannino-lo-zecchino-di-latta-khr8dOwyhvWOG4iV2PT0BO/pagina.html
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 10, 2015, 10:30:29 am »

Io non sono Charlie. Libertà è anche essere diversi

09/01/2015
Elena Loewenthal

Io non sono Charlie. Nessuno di noi lo è più, ormai. Se le manifestazioni di massa tanto sulla piazza reale quanto su quella della rete hanno unanimemente scandito questa identificazione, c’è qualcosa di profondo e profondamente ferito che stona in tutto questo. 

Io non sono Charlie perché fra chi è vivo e chi è morto ammazzato da una raffica di spari in nome di Allah c’è un abisso di differenza, e tutti noi vogliamo fermamente non essere Charlie. E c’è da scommettere che se Charlie potesse parlare, direbbe: «Guarda che fra voi che siete vivi e noi che siamo stati uccisi c’è una bella differenza!». E magari ci farebbe una vignetta. 

Ma io non sono Charlie soprattutto perché non siamo tutti vignettisti irriverenti come Wolinski, non siamo tutti economisti terzomondisti come Bernard Maris, non siamo tutti poliziotti come Ahmed Merabet. Il fondamento della libertà, quella di essere e quella di esprimersi, sta nel riconoscere che il mondo non è tutto uguale e noi nemmeno, anzi. L’uguaglianza non è un valore, lo è invece la parità: di essere e di esprimersi nella diversità che ci caratterizza in quanto individui. E’ proprio il fanatismo che propugna invece l’eguaglianza assoluta: come scrive Amos Oz, il fanatico è così generoso che, dopo aver scoperto dove sta la giustizia, vorrebbe portarci tutti. Vuole, anzi, che tu sia come lui che sta dalla parte giusta ed è disposto a ucciderti, pur di renderti uguale a lui. 

Per il fanatico, siamo tutti Charlie. Ma non è così, perché forse il più grande valore di questa nostra cultura colpita al cuore sta proprio nel riconoscimento che il mondo è vario. E’ persino bello, perché è vario. La nostra cultura è fatta di volti e opinioni diverse, si definisce nella sua multiformità e nella libertà di essere tutti gli uni diversi dagli altri. Io non sono Charlie. Non sono un vignettista. E magari neanche apprezzo l’irriverenza di Charlie. Ma rivendico il diritto di Charlie ad essere Charlie e per quello devo battermi, scendere in piazza, gridare sulla rete. 

Così, le matite alzate in piazza e gli hashtag virali, al di là delle buone e doverose intenzioni, tradiscono una specie di equivoco. E’ semplice, diretto, identificarsi nelle vittime. Ha una grande energia comunicativa. Ma è un cammino rischioso. Quanti di coloro che l’hanno scandito sarebbero stati disposti a fare lo stesso il giorno prima, quando Charlie era ancora vivo e disegnava? Dobbiamo imparare a tracciare i confini della nostra identità e a dare alla libertà il peso che merita non soltanto per i morti, anche per i vivi. Non per un demagogico scatto d’orgoglio in stile scontro di civiltà, ma per una questione morale più profonda. Quella che ci riguarda tutti in quanto individui di una società che trova il suo valore principale nella diversità di ciascuno e nel rispetto di questa diversità, non in un amalgama uniforme incapace di distinguere i morti dai vivi. Se per il fanatismo siamo tutti uguali – morti o vivi, vignettisti o poliziotti, proprio perché non siamo Charlie dobbiamo difendere strenuamente il diritto di Charlie alla sua libertà, che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui. 

loewenthal@tin.it 

Da - http://www.lastampa.it/2015/01/09/cultura/opinioni/editoriali/io-non-sono-charlie-libert-anche-essere-diversi-19FVFHstLk2068OgCIn4QL/pagina.html
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« Risposta #47 inserito:: Ottobre 28, 2016, 06:31:43 pm »

Una colonna sonora contro il silenzio del tumore
In un libro il racconto del giornalista Paolo Colonnello. Dalla malattia alla guarigione, un percorso contro la paura

26/10/2016
Elena Loewenthal

La prima cosa che arriva è la paura. Una paura cieca e scura, tutta nuova, una paura che non è ferma ma ti gira intorno veloce, come un giovane pianeta intorno a una stella nera e pesantissima. È la paura il primo, invadente inquilino della tua vita quando il cancro ti entra in casa. È una paura che prima non esisteva e non capisci se è per te o per gli altri, se ti isola dal resto del mondo o al contrario travolge tutto quello che trova intorno a te, insieme a te.

Quando arriva il cancro, subito dopo la nuova paura comincia una vita, tutta nuova anch’essa. La vita con il cancro è tutta diversa da quella di prima. Non è fatta solo di paura, ovviamente. E nemmeno solo di disperazione o di attesa. È una vita tutta diversa innanzitutto perché tutto comincia a ruotare intorno al cancro, ai suoi confini, ai suoi tempi, ai suoi ritmi. La prima cosa che il cancro ti dice, quando entra in casa, è che lui sta in centro. Nel nuovo silenzio che scende a volte, negli orari delle terapie, nel pensiero sul futuro quello lontano ma anche e forse soprattutto quello vicino, del primo domani che viene.

Paolo Colonnello queste cose le sa bene perché un giorno una cosa che sembrava essere una stupida cisti nella pancia si rivela invece un sarcoma di quelli «rari e stravaganti», come li chiama lui, e così inizia per lui un anno di corpo a corpo con il cancro, la chemioterapia, la chirurgia «distruttiva», le Tac di controllo. E insieme alla vita, comincia il racconto: «Il senso del tumore per la vita» (Centauria editore, pp. 224, € 16,90). Non è un diario, non è nemmeno un reportage. È proprio un racconto, perché in fondo la malattia è prima di tutto narrazione, perché per scendere a patti con il cancro bisogna trovare le parole per dirlo, per ascoltare quello che ti succede, scriverlo dentro il libro della tua vita. E così ha fatto lui, che è un giornalista e sa come trovare le parole, in più è anche un musicista e così questo racconto ha anche la melodia giusta - la sua e del suo sassofono - che scandisce le giornate e i mesi, trova la nota per raccontare le interminabili ore di chemioterapia, l’ansia abissale che prende prima di entrare in sala operatoria, il sapore acido dell’attesa prima che arrivino gli esiti degli esami. 

(In libreria dal 6 ottobre, «Il senso del tumore per la vita», edizioni Centauria) 

 

«Non c’è nulla di permanente», scrive Colonnello. Insomma, la malattia ti insegna prima di tutto quella destabilizzazione, quella provvisorietà che è cifra autentica della vita - per i malati così come per i sani. Non è una trita questione morale, è una cosa che tocchi con mano quando arriva la malattia e ti trovi subito a fare i conti con il tempo - non soltanto come un confine che sul momento sembra venirti incontro a passi da gigante, chiudersi tutto intorno a te. Anche con il tempo più banale: i programmi per l’estate, la serata con gli amici, l’impegno di lavoro. Tutto viene catapultato subito dentro il tempo della malattia, e così capisci che la vita è fatta anche, forse soprattutto di imprevisti, di momenti che vanno e vengono. In questo e in tanti altri sensi la malattia è un’esperienza cognitiva come poche altre. Impari subito parole nuove, e parole vecchie assumono nuove accezioni. I referti degli esami, ad esempio, hanno un lessico e una sintassi tutta loro.

La malattia, e forse il cancro più di ogni altra, perché il cancro non è una malattia soltanto, non è soltanto un iter terapeutico bensì un universo intero di malattie, terapie, prospettive, la malattia è un insieme di esperienze, parole, emozioni di cui prima non immaginavi l’esistenza. Colonnello racconta tutto questo con forza e delicatezza, sempre al ritmo della sua amata musica che parte dalla pancia e arriva un giorno sino al tetto dell’ospedale. Ci parla delle sue paure e di quelle dei suoi affetti, della musica che salva.

Ma questo è soprattutto, come dice anche il titolo, un libro sulla vita. Perché la malattia è vita, anche se a volte sembra e a volte diventa il suo contrario. Senza falsi ottimismi, senza cedimenti alla retorica, senza mai perdere il ritmo del racconto, quando parla della sua malattia Colonnello parla della vita, di quella di prima, di quella che attraversa durante l’anno di malattia e di quella che viene dopo, quando «dopo la risonanza anche la Tac era perfetta. Ci siamo, sei a posto. Adesso dovrai tornare qua solo per i controlli!».

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Da - http://www.lastampa.it/2016/10/26/societa/una-colonna-sonora-contro-il-silenzio-del-tumore-ty368cruPVZ4zokrSiTWoI/pagina.html
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« Risposta #48 inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:51:16 pm »

Pio IX e i predatori del bambino perduto   
La storia di Edgardo Mortara, il piccolo ebreo bolognese battezzato in segreto e sottratto alla famiglia per volontà del Papa, diventerà un film di Spielberg. Nell’800 originò una battaglia politica e culturale che divise l’Italia e l’Europa

Pubblicato il 04/01/2017
Elena Loewenthal

È una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c’è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell’aggettivo: l’assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata. Chissà se in questo magnifico e tragico dipinto troverà ispirazione Steven Spielberg, che fra poche settimane inizierà in Italia le riprese del film basato su questa storia da cui è rimasto folgorato appena l’ha letta.

Ordinato prete a 23 anni 
Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. È ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l’Inquisizione di Bologna, città che all’epoca si trovava ancora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell’accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni - istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche - così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica.

Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all’insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo.
Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio - lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa.

«Non possumus» 
Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l’uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall’altra le forze politiche e intellettuali - compresa una parte di clero - che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo. 

Uno scontro di civiltà 
E poi c’era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell’ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all’indomani del 20 settembre 1870 - presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio - ne avrebbe avuto facoltà. 

Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d’Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell’eco di dolore e rabbia ch’essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c’è lui, quel bambino e quell’uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell’animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto. 

Elena.loewenthal@gmail.com 

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