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Autore Discussione: MIRIAM MAFAI.  (Letto 6672 volte)
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« inserito:: Dicembre 20, 2007, 10:04:25 pm »

CRONACA

L'ANALISI

Prima sconfitta per il Pd

di MIRIAM MAFAI


FORSE la stagione della laicità e dei diritti civili sta alle nostre spalle, motivo, per noi, di nostalgia e di rimpianto. Quasi quarant' anni fa, nel dicembre del 1970, a Montecitorio veniva approvata definitivamente, con una bella maggioranza (319 voti a favore e 286 contrari) la legge che consentiva, anche in Italia, il divorzio. Finiva l'epoca della indissolubilità del matrimonio, principio difeso per secoli, ed ancora oggi, dalla Chiesa Cattolica. Pochi anni dopo, nel 1978 veniva approvata la legge che aboliva il reato di aborto e consentiva, anche in Italia, l'interruzione della gravidanza.. In ambedue i casi, naturalmente, la Chiesa aveva chiamato i cattolici a raccolta perché si opponessero alla introduzione nel nostro ordinamento di norme, il divorzio e l'aborto, in contrasto con la dottrina e la morale cattolica. Ma le due leggi, dopo appassionato dibattito nel paese e in Parlamento, vennero approvate dalla maggioranza dei deputati e dei senatori, e poi confermate dalla maggioranza degli italiani chiamati ad esprimersi con i referendum del 1974 e del 1981. Nonostante la dura opposizione della Dc e del MSI, e i richiami della Chiesa al rispetto dei principi che avevano retto per secoli la vita delle nostre famiglie.

Sono passati da allora quarant' anni. La gente si sposa, divorzia, si risposa. Il divorzio e la legalizzazione dell'aborto non hanno distrutto la famiglia, come prevedevano e gridavano sulle piazze coloro che si erano autoproclamati difensori della famiglia e della religione cattolica. Oggi le stesse grida si levano contro l'ipotesi di una regolamentazione e tutela delle coppie di fatto, siano etero o omosessuali. Non ha importanza che queste coppie "di fatto" siano, anche nel nostro paese come in tutta l'Europa, sempre più numerose e spesso bisognose di tutela. In questo riconoscimento, in questa tutela pubblica di situazioni affettive e solidali, le gerarchie vaticane vedono una minaccia alla unità della famiglia ed alla morale pubblica.

E finora sono riuscite a impedire che le proposte di legge già elaborate in questa legislatura (prima i Dico e poi i Cus) venissero prese in esame. Lo schieramento dei laici appare, rispetto a quarant' anni fa, più incerto, debole e diviso. Sbarrata, dunque per ora, la strada della legge, i laici chiedono almeno che vengano istituiti presso i rispettivi municipi, dei "registri" delle unioni di fatto, dichiarazioni di convivenza dai quali far discendere alcuni elementari diritti (il subentro nell'affitto, il diritto di assistere il partner gravemente malato).

Registri di questo tipo sono già stati istituiti a Padova, ad Ancona e in numerosi comuni d' Italia senza grandi polemiche. Ma a Roma no. La possibilità che anche a Roma venga istituito un analogo registro viene considerata, dal Vaticano, una offesa al "carattere sacro" della nostra città. E dunque, alla vigilia del dibattito e del voto, che avrebbe dovuto aver luogo ieri in Campidoglio, il Vicariato ha richiamato i consiglieri comunali cattolici al dovere di opporsi e di "mostrare la propria coerenza e determinazione", votando contro ogni proposta, fosse anche la più modesta a favore del riconoscimento delle coppie di fatto.

L'appello era rivolto, naturalmente, a tutti i consiglieri comunali di Roma ma, in modo particolare, a quelli cattolici, che fanno parte del Partito Democratico. " I cattolici che siedono in Consiglio Comunale e tutti coloro che considerano la famiglia fondata sul matrimonio come la struttura portante della vita sociale, da non svuotare di significato attraverso la creazione di forme giuridiche alternative - dice la Chiesa - saranno presto chiamati a mostrare la propria coerenza e la propria determinazione" La famiglia tradizionale come "principio non negoziabile", e la Binetti indicata come esempio per i cattolici che, presenti in politica, vogliano essere in pace con la propria coscienza.

In Campidoglio ieri erano in discussione tre documenti. Due di questi, uno di iniziativa popolare l'altro di Rifondazione, i Verdi e la Rosa nel Pugno, proponevano la istituzione in Comune del registro dei conviventi. Un terzo documento, un ordine del giorno proposto dal Partito Democratico e che avrebbe voluto essere di mediazione, si limitava a raccomandare al governo un sollecito esame dei progetti che, già presentati, sono attualmente all'esame del Senato. Nessuno di questi tre documenti ha ottenuto, in Consiglio Comunale, la maggioranza. E' stato alla fine messo in votazione e respinto un quarto documento, proposto dalla Casa della Libertà e da AN con il quale si chiedeva la difesa rigorosa della famiglia tradizionale.

Niente di fatto, dunque. Dall'esito del voto in Campidoglio esce confermata, in modi di cui è difficile prevedere le conseguenze, la rottura dell'unità del Partito Democratico quando siano in discussione problemi che le gerarchie cattoliche ritengono "non negoziabili", quei probemi che vengono generalmente definiti "eticamente sensibili", ma che sarebbe più corretto definire con il termine di "diritti civili". Di qui, dice il risultato di ieri in Campidoglio, non si passa. Ogni tentativo, anche il più ragionevole, di mediazione è destinato al fallimento. Di qui non si passa. I cattolici presenti in politica sono bruscamente richiamati all'obbedienza.

Ma il Partito Democratico nasceva nell'intenzione di chi lo aveva fortemente voluto, sulla scommessa della possibile unità tra le culture laiche presenti nelle fila dei Democratici di Sinistra e della Margherita. Uno sforzo di mediazione doveva essere possibile, evitando l'irrigidirsi delle rispettive posizioni. La proposta dei Dico, elaborata insieme dalle ministre Pollastrini e Bindi andava esattamente in questa direzione. Ma è stata nei fatti prima ridimensionata e poi respinta. Una vittoria, senza dubbio, per le gerarchie cattoliche. Una sconfitta per chi aveva scommesso su una possibile convergenza e unità dei due diversi riformismi, uno di origine popolare l'altro di origine socialista.

Una sconfitta, per finire, per Walter Veltroni che di questo nuovo Partito Democratico è stato eletto segretario, e che ieri, certo non per caso, non ha nemmeno voluto essere presente nell'aula del Campidoglio, dove si è consumata la discussione e la sconfitta. No, eravamo più laici quarant' anni fa, quando il nostro Parlamento ha approvato, nell'oramai lontanissimo 1970 la legge sul divorzio.

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 03, 2008, 03:07:57 pm »

POLITICA - IL COMMENTO

Il diritto di parola

di MIRIAM MAFAI


Fossi stata ieri sera a Bologna, sarei stata dalla parte di Giuliano Ferrara, contro coloro che, con la violenza, gli hanno impedito di parlare.

FOSSI stata ieri sera a Bologna, avrei difeso il diritto di Giuliano Ferrara di esporre in pubblico le sue idee, che non condivido, che combatto e continuerò a combattere scrivendo su questo giornale e partecipando a incontri e manifestazioni in difesa della legge 194, della libertà delle donne e della laicità dello Stato. Fossi stata ieri sera a Bologna avrei difeso Giuliano Ferrara dalla insensata aggressione di cui è stato vittima perché non credo, non ho mai creduto, nemmeno in tempi assai più torbidi di quelli che attraversiamo, che sia lecito aggredire e togliere con la forza la parola a qualcuno di cui non condividiamo le posizioni.

La scena alla quale abbiamo assistito ieri sera a Bologna mi appare una sorta di grottesca replica di altre aggressioni che abbiamo visto in anni lontani contro militanti e manifestazioni di opposti schieramenti. Una replica grottesca, ma non per questo meno pericolosa. I ragazzi e le ragazze che lanciavano contro il palco e l'oratore insulti, pomodori e qualche corpo contundente avevano facce allegre, divertite.

Ne abbiamo viste facce così, altrettanto allegre e divertite, in altre manifestazioni e cortei, che hanno dato luogo poi, in breve volger di tempo, ad aggressioni e violenze di cui noi, e tutto il paese, abbiamo conosciuto le conseguenze.

Può essere infatti molto breve la strada che, dal gusto un po' infantile del dileggio, conduce al più robusto piacere della violenza con lo stesso obiettivo. Quello di costringere l'avversario politico, trasformato in nemico, prima all'umiliazione e poi al silenzio. E' intollerabile. Non solo in nome della famosa ed abusata massima volterriana che vuole che io difenda fino alla morte il diritto di un avversario a sostenere una tesi che non condivido, ma per una esperienza recente. Perché conosco, come tutti coloro che hanno attraversato la storia degli ultimi anni di questo paese, il pericolo di una esasperazione, non più controllabile, dei contrasti politici.

La democrazia, nella quale crediamo, è fatta - lo sappiamo tutti ma va forse ripetuto - di opinioni diverse, opposte, contrastanti e del diritto di ognuna di queste di esprimersi in pubblico, raccogliendo consensi e dissensi. Giuliano Ferrara incarna in questo momento una posizione politica e culturale che mi offende come donna e che rischia, se fosse vincente, di far tornare centinaia di migliaia di donne alla vergogna ed alla sofferenza degli aborti clandestini. Ma non saranno i pomodori e le uova o i corpi contundenti lanciati contro un palco e un oratore a sconfiggere quelle posizioni. La democrazia non viene messa in pericolo dalle posizioni di Ferrara, ma rischia di essere messa in pericolo da quei pomodori, da quelle uova, da quel dileggio esibito e feroce e da quella violenza.

(3 aprile 2008)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Agosto 21, 2008, 11:41:10 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 02, 2008, 09:08:02 am »

CRONACA IL COMMENTO

Una brutta giornata per il Pd

di MIRIAM MAFAI


DUNQUE la Camera ha votato. E ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale contro la decisione della Corte di Cassazione che aveva finalmente consentito alla richiesta del padre di Eluana Englaro di sospendere l'alimentazione e l'idratazione forzata della figlia in stato vegetativo permanente da ormai sedici anni.
La Camera ha votato e il pg di Milano ha fatto ricorso contro la sentenza, dunque la povera Eluana dovrà ancora restare attaccata a quel sondino, invecchiare così nel buio profondo di una morte non ancora ufficialmente certificata.

Da più di dieci anni giacciono di fronte alla nostre assemblee elettive proposte di legge intitolate dal cosiddetto "testamento biologico" grazie al quale ognuno di noi avrebbe il diritto di decidere della fine della sua vita, quando e come e perché staccare quel sondino e quelle macchine che possono tenerti immobilizzato, per anni, in quello spazio di morte che non è più la morte naturale di una volta, ma l'orrore di una zona intermedia in cui è una macchina che pompa il sangue, ti alimenta artificialmente per un tempo che può durare per anni. Per Eluana sono passati già sedici anni.

L'orrore di questa condizione inumana non conta nulla di fronte al voto dei nostri parlamentari. Non conta nulla nemmeno la sentenza della Cassazione che finalmente aveva acceduto alla richiesta del padre di Eluana.
Non conta nulla nemmeno il fatto che le nostre assemblee elettive, non siano riuscite nel corso degli anni passati a esaminare ed approvare una delle molte proposte di legge sul "testamento biologico" che metterebbero ognuno di noi al riparo da questa violenza esercitata sui nostri corpi alla fine delle nostra vita.

Ma quello che più mi ha colpito nella seduta di ieri della Camera dei deputati, di fronte a quel voto, è stata il silenzio dei parlamentari del Partito Democratico.
Il loro rifiuto di assumere una posizione e di esprimersi con un sì o con un no. Il loro ripiegare su un'astensione che appare una fuga dalle responsabilità.

Il caso Englaro è di fronte alla pubblica opinione e alle assemblee legislative da quasi dieci anni. Non è certamente colpa del Partito Democratico se una legge equilibrata sul testamento biologico non è stata ancora discussa e approvata. Basterebbe ricordare a questo proposito l'instancabile azione svolta da uno scienziato come Ignazio Marino, eletto senatore nelle file del Pd.
Questa battaglia continuerà, penso, al Senato, dove è stata recentemente presentata una proposta di legge sottoscritta da cento senatori del Pd, dell'Italia dei Valori e del Pdl.

Ma ieri, alla Camera, il Partito Democratico ha preferito non prendere parte alla votazione. Non mi convince la spiegazione che ne è stata fornita in aula. Sappiamo tutti che convivono nel Pd sentimenti e parlamentari laici e cattolici. Sappiamo tutti che una mediazione tra queste diverse culture richiede attenzione, intelligenza e prudenza. Ma ci sono casi e momenti in cui la prudenza rischia di apparire indifferenza o pavidità.

Attorno al caso di Eluana Englaro, alla sua tragedia e a quella del padre, attorno a un caso drammatico che investe la coscienza di tutti noi, era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata dei deputati del Partito Democratico. Non c'è stata. È una brutta giornata, questa, per chi crede nel Partito Democratico e nella laicità del nostro Stato.


(1 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 03, 2008, 12:25:00 pm »

Eluana, il Pd e la destra miope

Roberto Zaccaria


L’articolo di ieri di Miriam Mafai su Repubblica in merito alla drammatica vicenda di Eluana Englaro discussa giovedì alla Camera dei deputati deforma completamente la posizione del Partito Democratico.

Innanzitutto non c’è stato silenzio. Il Pd ha espresso formalmente la propria posizione all’inizio del dibattito in Aula attraverso il mio intervento, che tutti hanno potuto ascoltare e con grande attenzione. L’intervento è stato riportato dalle agenzie ed è facilmente leggibile come sempre nello stenografico immediato della Camera.

Non c’è stata astensione, perché il Partito Democratico, convinto che la proposizione del conflitto da parte del Pdl fosse una mossa tattica, manifestamente infondata dal punto di vista costituzionale e chiaramente strumentale ha scelto di non partecipare al voto, comportamento che si adotta, quando il provvedimento è del tutto estraneo alle regole parlamentari. Non è un caso del resto che un simile atteggiamento sia stato tenuto anche da un gruppo non trascurabile di liberali del centro destra (Della Vedova, Chiara Moroni, La Malfa ed altri).

Non c’è stata quindi nessuna “fuga del Pd” dall’esame del problema, come si legge nel titolo dell’articolo di ieri. È vero esattamente il contrario: è stata la maggioranza che attraverso la proposizione di un improbabile e rischiosissimo conflitto di attribuzioni ha messo in pratica una vera e propria “fuga dal Parlamento” dalla via maestra di una soluzione legislativa.

Su questi temi delicatissimi della disciplina della fine della vita c’è stato, soprattutto al Senato nel corso della XV legislatura, un ampio dibattito che aveva anche registrato positive convergenze. Un intervento legislativo equilibrato sarebbe oggi possibile sulla base, del divieto, da un lato, di praticare ogni forma di eutanasia e, dall’altro, dell’accanimento terapeutico, si potrebbe disciplinare al contempo l’alleanza nella terapia tra medico e paziente, l’equa distribuzione delle cure palliative e l'accompagnamento terapeutico. Questi concetti sono presenti, del resto, in un ordine del giorno presentato dal Pd al Senato su questa vicenda.

La strada del conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale è costellata di errori di grammatica e rischia di diventare un pericoloso boomerang.

Non si possono sollevare conflitti contro provvedimenti giurisdizionali non ancora definitivi e il ricorso di ieri del procuratore generale di Milano contro il provvedimento della Corte di appello ne è chiaramente la prova; non si può contestare attraverso il conflitto il diritto dovere dei giudici di pronunciarsi anche nel caso di incompletezza della norma legislativa, perché in mancanza di una legge più chiara è il giudice del caso concreto che deve bilanciare i principi fondamentali anche costituzionali (art.12 delle preleggi).

Non si può in ogni caso considerare una sentenza per quanto importante della Suprema Corte di Cassazione, alla stregua di un atto legislativo perché nel nostro ordinamento quella decisione vale solo per il caso concreto deciso e non ha alcun valore di precedente vincolante in altri casi.

Ma c’è un rischio ancora più pericoloso nel voler chiamare in causa la Corte Costituzionale come una sorta di Giudice di ultima istanza sulla vicenda Englaro.

Il rischio estremamente concreto è che la Corte rifiuti molto presto un conflitto di attribuzioni così inconsistente e finisca col porre inevitabilmente, nella lettura mediatica, un ancor più pesante sigillo su tutta questa vicenda.

Di fronte ad un atteggiamento della maggioranza così miope e così irrispettoso del ruolo proprio del Parlamento che è quello di fare le leggi e di non impedire ai giudici di fare il loro dovere, non partecipare a questa messa in scena, era il minimo che si potesse fare.

Il rispetto per le istituzioni di garanzia significa anche non cercare di coinvolgerle in riti chiaramente strumentali.

Vice Presidente Commissione Affari Costituzionali Camera dei Deputati



Pubblicato il: 02.08.08
Modificato il: 02.08.08 alle ore 12.49   
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 14, 2008, 04:05:01 pm »

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IL COMMENTO / L'intervento di Fini dopo le polemiche

"A Salò si combatteva dalla parte sbagliata"

Un nuovo leader


di MIRIAM MAFAI


LA nuova destra, che ancora non esiste ma che ieri Gianfranco Fini ha battezzato alla festa di Azione Giovani a Roma, è una destra diversa da quella che tradizionalmente si è raccolta prima attorno al Msi e poi, dopo il lavacro di Fiuggi, in An.

È una destra che, secondo Fini, dovrebbe riconoscersi senza nessuna esitazione nell'antifascismo, nei valori di libertà, eguaglianza e giustizia sociale contenuti nella nostra Costituzione. Una destra antifascista e moderna, insomma, alla Cameron o alla Sarkozy, senza nessuna nostalgia per la storia, gli uomini e i simboli del passato fascista.

Una destra come quella che Fini ha disegnato ieri, quando parla del fascismo non può cavarsela, come oggi normalmente accade, scegliendo cosa condannare (le leggi razziali) e cosa assolvere o condividere. È quanto ha fatto, a suo tempo lo stesso Fini che, prima riconobbe in Mussolini "il più grande statista del Novecento" e, qualche anno dopo, a Gerusalemme non esitò a definire il fascismo "male assoluto" soprattutto a causa delle leggi razziali.

Ora, dice Fini, questa oscillazione non è più possibile. Di quel regime insomma non si possono condannare solo le leggi sulla razza (indicate facilmente come "il male assoluto") dimenticando che, prima di quelle, il fascismo aveva già perseguitato, con leggi e un Tribunale Speciale, i suoi oppositori e soppresso brutalmente tutte le libertà politiche e civili.

La destra disegnata da Fini davanti ai suoi giovani non potrà dunque avere nessuna indulgenza nei confronti del passato fascista, tanto meno potrà esprimere affettuosa solidarietà nei confronti dei cosiddetti "ragazzi di Salò". "I resistenti" ha ripetuto ieri il presidente della Camera suscitando anche qualche prevedibile protesta "stavano dalla parte giusta, i repubblichini dalla parte sbagliata".

È un discorso senza dubbio apprezzabile se si tiene conto che solo pochi giorni fa, due esponenti di primo piano del suo partito, Gianni Alemanno, attuale sindaco di Roma, e Ignazio La Russa, attuale ministro della Difesa, in occasione della celebrazione dell'8 settembre e alla presenza del presidente della Repubblica, avevano reso incredibilmente omaggio non a coloro che a Porta S. Paolo erano caduti battendosi contro i nazisti, ma ai "patrioti di Salò".

Dichiarazioni, quelle di Alemanno e La Russa che hanno provocato sacrosante proteste e diffusa indignazione tra quanti quella storia hanno vissuto e studiato. (Siamo del resto l'unico paese in Europa in cui questa ferita, che risale ormai quasi a mezzo secolo fa, è ancora aperta. In Francia nessuna forza o leader politico oserebbe fare l'esaltazione degli uomini di Vichy e in Germania nessuno oserebbe giustificare l'operato delle SS in nome di un loro presunto amor di patria).

Quando Gianfranco Fini dice ai suoi giovani "i repubblichini stavano dalla parte sbagliata" non dice una ovvietà (come a noi appare) ma qualcosa che entra in contrasto con una storia e una memoria tramandata, un passato che ancora non passa, che condiziona le scelte del partito e di cui il partito deve liberarsi.

Questa operazione è tanto più urgente nella prospettiva della realizzazione e della strutturazione del partito unificato della destra. Il futuro dell'attuale presidente della Camera si giocherà lì, in quel nuovo partito di destra senza memoria e senza nostalgie. A questo appuntamento non solo Fini dovrà presentarsi del tutto libero dalle scorie del passato.

(14 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:22:13 am »

Il suo passaggio da un partito all'altro, da cui non ha mai tratto un vantaggio personale testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale

Addio Vittorio, un compagno che odiava il settarismo


di MIRIAM MAFAI


Da qualche anno Vittorio Foa si era rifugiato, con Sesa, a Formia dove lo raggiungevano spesso i suoi amici. Ricordo, qualche anno fa, un suo compleanno celebrato insieme. Occasione anche per discutere dell'ultimo libro. "Il silenzio dei comunisti" che portava la sua firma, assieme a quella di Alfredo Reichlin e della sottoscritta.

In quella occasione gli avevamo portato dei regali ed egli sembrò apprezzare in modo particolare la lunga sciarpa, di un rosso che volgeva all'albicocca, che gli aveva offerto Roberta. La serata era tiepida, ma Vittorio, prima di uscire se ne avvolse le spalle.
Per discutere del suo libro, la sezione dei Ds di Formia aveva convocato un'assemblea. La sala, quando arrivammo, era già piena. E noi rimanemmo stupiti, felicemente stupiti, del fatto che la maggioranza del pubblico fosse composta da giovani, ansiosi di prendere la parola e discutere con quel vecchio dirigente che avrebbe potuto essere il loro nonno o bisnonno.

"Ma succede dovunque così, quando c'è Foa" mi spiegarono altri amici. "Ci sono sempre molti giovani, si tratti di una sezione, di partito, o di un liceo". Me ne sono chiesta la ragione. E ho pensato che forse la simpatia che lo circonda (o, più correttamente lo circondava) nascesse dal fatto che l'uomo era difficilmente classificabile. Uomo di sinistra, senz'altro.
Ma di quale sinistra? Nel secolo tormentato che ci sta alle spalle, egli ha appartenuto a tutti i partiti che alla sinistra si sono richiamati, dal Partito d'Azione, di cui è stato dirigente nella Resistenza e nei primi anni della Repubblica, al Psi che per tre legislature ha rappresentato in Parlamento, allo Psiup nato anche per sua volontà da una scissione dei socialisti, fino allo Pdup e ad altre formazioni della estrema sinistra nei tumultuosi anni 70.

Questi partiti egli li ha amati, li ha criticati, li ha abbandonati. In tempi di disciplina e conformismo, il suo passaggio da un partito all'altro - un passaggio dal quale Foa non ha mai tratto un vantaggio personale - testimoniava per lo meno una singolare irrequietezza intellettuale.

Una volta, in polemica con le critiche di alcuni dirigenti comunisti, mi spiegò cosa dovesse intendersi per coerenza.

"Vedi" mi disse "la coerenza dei comunisti è in primo luogo la fedeltà a un'organizzazione, una sorta di feticismo di partito. Il mio tipo di coerenza, o se vogliamo di fedeltà è quello della ricerca di un obiettivo, sempre lo stesso ma attraverso diversi percorsi. Io ho sempre cercato la verità in modo trasversale, al di là degli steccati".

Così all'amico Carlo Ginzburg che una volta gli faceva notare come avesse cambiato idee importanti nel corso di pochi anni, rispondeva: "Le mie non sono contraddizioni ma compresenze di posizioni diverse". Aveva ragione.

In un'epoca nella quale la fedeltà a un partito poteva tradursi in autosufficienza e chiusura alle ragioni degli altri, in un'epoca nella quale la militanza politica poteva spegnere ogni spirito critico ed umiliare le coscienze dei singoli, Vittorio Foa ha sempre coltivato le proprie contraddizioni o "compresenze di posizioni" come un antidoto al settarismo, quasi un gusto e sapore di libertà.

Fu certamente uno degli uomini più liberi che io abbia conosciuto, disinteressato nei comportamenti e sempre appassionato e curioso delle ragioni degli altri. Dentro di lui convivevano spinte diverse: la tensione etica tipica degli azionisti, la passione del sindacalista (per più di venti anni era stato un dirigente di primo piano della Cgil), la capacità dello studioso di indagare sulla storia e le trasformazioni della società, e, infine la fiducia nella possibilità degli uomini di battersi con successo contro l'ingiustizia, le disuguaglianze, l'esclusione.

I vecchi, sia nella vita privata che nella vita politica, di solito si rivolgono al passato con nostalgia, sono scettici o pessimisti sul presente. Vittorio Foa faceva eccezione a questa regola. Era un ottimista. Una volta venne accusato, da sinistra, di guardare con troppa ingenuità e fiducia alla proclamata trasformazione di An. "Ma lei si fida delle parole di Fini?" gli venne chiesto.

"L'appartenenza politica" rispose Foa "è un dato culturale non genetico. Se uno dichiara di volersi liberare dal mito fascista, io sono contento. Se mi fido? Nella storia della sinistra italiana l'espressione non mi fido è stata una delle regole più perverse".

Pensava che la sinistra, liberatasi dagli ideologismi del passato, avesse non solo il diritto ma il dovere di governare il nostro paese. A condizione di superare i suoi tradizionali feticci, a condizione di far leva sui nuovi ceti sociali emersi dalle trasformazioni economiche, a condizione di darsi nuove strutture unitarie. L'Ulivo, secondo lui, avrebbe dovuto essere non solo una somma di partiti, ma una forza nuova che andasse oltre i singoli alleati.

Lo ha sperato, anche di fronte a sconfitte e delusioni. E ha continuato fino alla fine, a invitare gli uomini e le donne di sinistra a non rinchiudersi in se stessi, a "parlare agli altri, a quelli che hanno sbagliato scegliendo la destra di Berlusconi... Ma aprire gli occhi agli altri" ci ripeteva "vuol dire anche in qualche modo rispettarli, avere con loro un rapporto umano, cercare di capirli".

E a chi gli chiedeva cosa dovesse fare la sinistra, quale dovesse essere il suo programma, rispondeva "E' una perdita di tempo e di senso cercare di definire una identità della sinistra. Bisogna fare quello che è giusto e necessario per il Paese, i posteri diranno se era di destra o di sinistra".

(21 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 06, 2008, 09:51:57 am »

SCUOLA & GIOVANI    IL COMMENTO

Costituzione dimenticata

di MIRIAMA MAFAI


Giulio Tremonti era noto fino ad oggi come il più rigoroso, persino spietato ministro dell'Economia, tanto da essere soprannominato "signor no".
Qualcuno, non solo dell'opposizione ma anche della maggioranza, gli chiedeva di allargare i cordoni della borsa a vantaggio dei pensionati, o dei licenziati, o dei precari? No, non si possono purtroppo sforare le cifre del bilancio, rispondeva il nostro ministro. La riposta fino a ieri era sempre la stessa: no. "Tagliare, tagliare le spese" era il suo mantra. Crolla il soffitto di una scuola a Rivoli e si scopre che molte altre scuole sono a rischio?

Occorrono fondi per mettere le nostre scuole a norma? No, la risposta è sempre no. Il bilancio dello Stato non lo consente.

Eppure ieri, finalmente il ministro Tremonti ha detto sì. Nel giro di un paio d'ore ha trovato i soldi per soddisfare la richiesta che gli è venuta dal Vaticano di aumentare lo stanziamento già fissato in bilancio per le scuole cattoliche. Contro il taglio originario di circa 130 milioni di euro aveva tuonato monsignor Stenco, direttore dell'Ufficio Nazionale della Cei per l'educazione, minacciando una mobilitazione nazionale delle scuole cattoliche contro il governo Berlusconi e il suo ministro delle Finanze.

La minaccia ha avuto ragione delle preoccupazioni del ministro.
Nel giro di poche ore il sottosegretario all'economia Giuseppe Vegas, a margine dei lavori della Commissione Bilancio del Senato sulla Finanziaria, rassicurava il rappresentante delle scuole cattoliche. "Abbiamo presentato un emendamento che ripristina il livello originario di finanziamento.

Potete stare tranquilli. Dormire non su due ma su quattro cuscini?" . Dunque il taglio previsto in finanziaria non ci sarà.
E non ci sarà la minacciata mobilitazione delle scuole cattoliche contro Berlusconi e Tremonti. Soddisfatti, ma solo per ora, i vescovi italiani. Soddisfatto, per ora, il Pontefice che però alza il prezzo e chiede nuove misure "a favore dei genitori per aiutarli nel loro diritto inalienabile di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose".

In parole più semplici, c'è qui la richiesta rivolta allo Stato italiano di smantellare il nostro sistema scolastico a favore della adozione del principio del "bonus" da assegnare ad ogni famiglia, da spendere, a seconda delle preferenze, nella scuola pubblica o nella scuola privata.

Naturalmente nessuno contesta il diritto "inalienabile" delle famiglie di educare i figli secondo le proprie convinzioni etiche e religiose.
E non ci risulta che nella nostra scuola pubblica si faccia professione di ateismo. E l'insegnamento della religione non è affidato a docenti scelti dai rispettivi Vescovi? Cosa si vuole dunque di più?

Anche a costo di essere indicati come "laicisti" vale la pena di ricordare che l'articolo 33 della nostra Costituzione, ancora in vigore, afferma che "enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione senza oneri per lo Stato". E che nel lontano 1964 un governo presieduto da Aldo Moro, venne battuto alla Camera e messo in crisi proprio per aver proposto un modesto finanziamento alle scuole materne private.
Bisognerà dunque aspettare quasi quarant'anni perché un governo e una maggioranza parlamentare prendano in esame la questione delle scuole private e della loro possibile regolamentazione e finanziamento.

E saranno il governo D'Alema e il suo ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer a volere, e far approvare, una legge sulla parità scolastica che prevede, ma a precise condizioni, un finanziamento non a tutte le scuole private ma a quelle che verranno riconosciute come "paritarie". Tutta la materia in realtà, nonostante alcuni provvedimenti presi nel frattempo, è ancora da regolare (non tutte le scuole private, ad esempio, possono essere riconosciute come "paritarie").

Anche per questo, per una certa incertezza della materia, ho trovato per lo meno singolare l'intervento di due autorevoli esponenti del Partito Democratico, a sostegno della richiesta delle gerarchie. Maria Pia Garavaglia, ministro dell'istruzione del governo ombra del Pd, e Antonio Rusconi, capogruppo del Pd in Commissione Istruzione al Senato hanno subito e con calore dichiarato di apprezzare le rassicurazioni fornite, a nome di Tremonti, dal sottosegretario Vegas. Ma non ne sono ancora soddisfatti.
Chiedono di più. Sempre per le private. Chiedono cioè che vengano garantiti "pari diritti agli studenti e alle famiglie"
È, quasi con le stesse parole, la rivendicazione già avanzata dalle gerarchie.

Ma è davvero questa, in materia scolastica, la posizione alla quale è giunto il Pd? E se sì, in quale sede è stata presa questa decisione?
È giusto chiederselo, è indispensabile saperlo. Anche perché ha ragione chi, come don Macrì, presidente della Federazione che riunisce la scuole cattoliche, lamenta che la strada che porta al bonus trova un ostacolo "nell'articolo 33 della Costituzione che sancisce che le scuole private possono esistere senza oneri per lo Stato".

E allora, che facciamo? Per rispondere alle esigenze delle scuole cattoliche butteremo alle ortiche l'articolo 33 della Costituzione?

(6 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 03, 2009, 04:24:47 pm »

IL COMMENTO

Il testamento biologico e l'ondata neoguelfa

di MIRIAM MAFAI


ERA il dicembre 1967 quando il chirurgo Christian Barnard si trovò di fronte una giovane donna vittima di un grave incidente, nel quale aveva riportato un grave trauma encefalico. Non era morta, ma Christian Barnard, decise di certificarne la "morte imminente". Solo così poté procedere all'espianto del cuore ancora battente per trapiantarlo in un paziente cardiopatico ricoverato nello stesso ospedale. Aveva inizio una nuova epoca per la medicina, l'epoca dei trapianti. Solo l'anno successivo, nell'agosto del 1968, un rapporto della Harvard Medical School definirà il coma irreversibile come nuovo criterio di certificazione della morte. È la definizione di morte ormai dovunque accettata.

Era il 1978 quando vide la luce, in Inghilterra, Louise Brown il primo essere umano concepito, anziché in utero, in provetta. Oggi ha più di trent'anni e un figlio, Cameron, di diciotto mesi. Non sappiamo quanti sono oggi nel mondo i "bambini della provetta", certamente molte decine e decine di migliaia. E, dopo i "bambini della provetta" sono stati messi a punto, con la fecondazione assistita, altri sistemi e metodi, fino allora inconcepibili, di gravidanza e maternità.
Fino al 1968 insomma si veniva dichiarati morti solo quando il cuore cessava di battere. Fino al 1978 i bambini venivano concepiti, nel matrimonio (o fuori del matrimonio) solo in virtù di un rapporto sessuale.

Sono passati, da allora solo quarant'anni, pochi nella vita di una persona, quasi nulla nella storia dell'umanità. Ma le due date possono essere ricordate come l'inizio di una storia nuova per l'umanità, una storia di cui ci è difficile immaginare oggi tutti i possibili sviluppi. La nascita e la morte, per dirla con un recente intervento di Aldo Schiavone, "stanno svanendo come eventi "naturali" e si stanno trasformando in eventi "artificiali", dominati dalla cultura e dalla tecnica". E, come tali, ci propongono nuovi problemi e interrogativi, scientifici e morali.

C'è chi saluta questo intervento della scienze e della tecnica come uno straordinario progresso, un annuncio di benessere e persino di felicità, c'è chi di fronte a questa pervasività della scienza e della tecnica si ritrae spaventato o inorridito. C'è chi ancora oggi è contrario alla pratica degli espianti, che infatti deve essere esplicitamente prevista dal paziente o autorizzata dai parenti. C'è la donna che, per avere un figlio è disposta a sottoporsi ad una serie di procedimenti e pratiche mediche spesso dolorose e sempre invasive, e quella che preferisce rinunciare ad una maternità biologica e scegliere, invece, la strada dell'adozione.

Di tutto questo, delle possibilità che ci vengono offerte dalla medicina e dalla ricerca scientifica ancora in corso, non solo si può, ma si deve poter discutere. E si discute infatti, in tutti i paesi prima di giungere a soluzioni legislativa. È bene discuterne anche nel nostro paese senza preconcetti e chiusure. Senza arroganze né faziosità. Ma, soprattutto, senza timidezze o subalternità nei confronti delle gerarchie, quasi si ritenesse la Chiesa Cattolica l'unica o la più autorevole depositaria di quei principi etici di cui tutti riconosciamo l'importanza e la necessità ma che non tutti decliniamo nello stesso modo.

Basti ricordare a questo proposito il caso di Eluana Englaro, che ci propone in maniera drammatica, un quesito, quello della disponibilità della vita, anche della propria, sul quale la Chiesa appare assolutamente intransigente, ma che è già stato risolto in modo diverso non solo nella coscienza del padre della fanciulla (e nella opinione della maggioranza degli italiani, stando ai più recenti sondaggi), ma anche da una serie di sentenze dei tribunali italiani. Com'è possibile che la esecuzione di queste sentenze venga impedita dalla opinione di un pur autorevole vescovo?

La questione della disponibilità della propria vita è delicata e controversa. La Chiesa cattolica vi si oppone fermamente. Ma il tema viene affrontato in modo diverso da autorevoli pensatori cattolici, come Vittorio Possenti, che recentemente sosteneva che "sul piano razionale il criterio di una indisponibilità della propria vita non è fondato". Ieri su queste pagine Luca e Francesco Cavalli Sforza hanno proposto di sottoporre a referendum popolare l'ipotesi del cosiddetto "testamento biologico", il diritto di ognuno di noi di decidere se e fino a quando essere tenuto in vita artificialmente.

Il caso di Eluana Englaro ha aperto drammaticamente il dibattito su questo tema: se ognuno di noi può decidere quali cure accettare e quali rifiutare. La questione in realtà dovrebbe considerarsi già risolta in virtù dell'art. 32 della nostra Costituzione che afferma che nessuno può essere obbligato a un qualsivoglia trattamento sanitario. La nostra vita ci appartiene, dunque, siamo noi che ne disponiamo. Il rifiuto delle cure, secondo la nostra Costituzione, è legittimo anche quando dovesse comportare la morte del soggetto.

L'ultimo caso si è verificato, come tutti ricordiamo, solo qualche giorno fa, quando una paziente gravemente ustionata e ricoverata in ospedale ha rifiutato l'amputazione di una gamba, pur sapendo che questo rifiuto ne avrebbe provocato la morte. I medici, dopo averla interpellata e informata delle conseguenze della sua decisione, si sono limitati a rispettarne la volontà, liberamente e ripetutamente espressa.

Si tratta certamente di una materia delicata, che sarà presto presa in esame dal Senato, dove già sono state presentate in tema di testamento biologico o disposizioni di fine vita, numerose proposte di legge. A differenza di Schiavone però, io non ho percepito finora nessun vero, serio, segnale di disponibilità in questa materia da parte delle gerarchie. E mi chiedo anche perché nel nostro paese, e solo nel nostro paese, l'attività del legislatore debba essere condizionata in ultima istanza dal giudizio del Vaticano.

Si parla meno, ma anche questa materia andrebbe meglio approfondita, della zona grigia che attiene al diritto della donna al controllo della sessualità e della maternità. Anche qui c'è un costante, tenace intervento delle gerarchie. C'è stato nel corso del dibattito sulla legge 40 sulla fecondazione assistita. Ma molte norme di quella legge, in particolare quella che obbliga all'impianto in utero di tutti gli embrioni prodotti e quella che vieta l'esame preimpianto sono state giudicate illegittime da molti nostri Tribunali su ricorso di coppie affette da malattie trasmissibili.

Queste sentenze tuttavia non sono state sufficienti per consigliare una revisione di quelle norme di legge. E che non poche coppie affette da gravi malattie trasmissibili, preferiscono "emigrare" in altri paesi europei e lì procedere alla fecondazione assistita. (Paradossi della nostra storia: una volta, prima del 1978 si emigrava per poter abortire, oggi si emigra per avere un figlio esente da gravi malattie?). E ancora: è di questi giorni la feroce opposizione del sottosegretario Eugenia Roccella alla introduzione in Italia della pillola RU486, che consente il cosiddetto "aborto farmacologico". Anche qui, in materia di aborto e maternità, la scienza propone e la Chiesa si oppone. Ed anche in questa materia non registro finora, a differenza di Aldo Schiavone, nessuna nuova disponibilità della Chiesa. Ma vedo invece avanzare, anche per le incertezze e le debolezze della cultura laica, una pericolosa "ondata neoguelfa".

(3 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:06:20 am »

L'ANALISI

La cultura della violenza


di MIRIAM MAFAI


Ancora una violenza razzista, ma non soltanto. Si cerca di uccidere per divertimento, un tragico réfrain. "Nel 2009 ce sarà da divertisse...", dice Davide Franceschini, un normale ragazzo romano, in un'intervista alla televisione la sera di Capodanno.

Qualche ora dopo passa dalle parole ai fatti, e "per divertisse" violenta ripetutamente una ragazza conosciuta nel corso di una festa alla Fiera di Roma. "Avevamo bevuto, avevamo deciso che ci saremmo divertiti: uno di noi l'ha violentata due volte quella ragazza. Ci avevamo già provato quella sera, con un'altra coppietta ma ci era andata male": così Mirel, un rumeno di 21 anni, il più giovane del branco degli stupratori di Guidonia, ha confessato di aver partecipato alla violenza.

Ieri notte un immigrato indiano, mentre dormiva
nell'atrio della stazione ferroviaria di Nettuno, è stato cosparso di benzina e bruciato da un gruppo di ragazzi italiani tra cui un minorenne. Un episodio di razzismo? Pare proprio di no. I tre ragazzi, tutti incensurati, tra cui un minorenne, hanno confessato. Avevano bevuto, forse avevano fatto uso di qualche droga e, alla fine della nottata, volevano "fare un gesto eclatante, provare una forte emozione". E così, tanto per divertirsi, hanno dato fuoco al barbone.

È un divertimento dunque stuprare una ragazza appena conosciuta ad una festa, è un divertimento aggredire una coppia, chiudere nel bagagliaio l'uomo e violentare la giovane, è per provare una emozione che si può dare fuoco a un poveretto che, quale che sia il colore della sua pelle, dorme nell'atrio di una stazione.

Questo non è razzismo. Forse, se possibile, è ancora peggio. È puro e semplice culto della violenza. E non si corrono rischi quando la violenza non si esercita tra bande rivali ma nei confronti di chi è del tutto indifeso. La vittima allora può essere una donna che torna a casa, da sola, una sera, o una coppia appartata nella sua macchina, o un barbone italiano o straniero che dorme per terra appena protetto da una coperta o da un paio di cartoni. Un divertimento? Pare proprio di sì, un divertimento o una emozione, esaltata dai pianti della donna violentata o dalle grida di un barbone cui viene dato fuoco, dalla sofferenza di un debole che non può reagire.

Avevamo bevuto, eravamo un po' fatti, volevamo divertirci...
Non c'è la disperazione, la miseria, il degrado (banale e consueta spiegazione sociologica) dietro gli autori di questi reati. Non c'è, dietro l'aggressione di Nettuno, nemmeno la spiegazione, se tale si possa chiamare, del razzismo. No. Nella violenza di questi ragazzi, italiani o stranieri, c'è soltanto un cieco desiderio di sopraffazione, il piacere di infliggere sofferenza e così sentirsi più forti, padroni del corpo dell'altro. Questa è l'emozione. Questo il divertimento, che l'uso della droga, quando c'è, rende finalmente possibile.

Se le cose stanno così, allora siamo tutti chiamati ad un serio esame di coscienza. Dobbiamo intanto riconoscere che il nostro è un mondo intriso di violenza. Non solo per i conflitti e le guerre che lo sconvolgono, e da cui giungono immagini di orrende sopraffazioni, di umiliazioni che i più forti infliggono ai più deboli e indifesi. Non solo per le violenze che si consumano negli stadi. Non solo per i sempre più frequenti episodi di bullismo che si consumano, impuniti, nelle nostre scuole. Ma anche per la cultura di cui la nostra società si nutre. Una cultura che promuove a vincente colui, o colei che, anche violando le regole, conquista la ricchezza o il successo. E che, comunque, di fronte a chi conquista la ricchezza o il successo non ritiene opportuno chiedere come lo ha raggiunto. Ed anzi dà per scontato che per raggiungerlo abbia fatto uso, abbia dovuto far uso, anche di metodi illegali e violenti. Nel nostro mondo, insomma, l'aggressività, la violenza, la forza, o per lo meno una certa dose di aggressività, di violenza, di forza vengono generalmente considerate necessarie, indispensabili per avere successo.

I ragazzi di Nettuno che hanno dato fuoco a un barbone, i giovani rumeni che hanno aggredito una coppietta, chiuso l'uomo nel bagagliaio della macchina e violentato la sua ragazza, il giovane romano figlio di una famiglia di lavoratori che "per divertisse" ha violentato una ragazza conosciuta a Capodanno, ci fanno paura, ma sono figli di questa cultura. È la nostra cultura, quella che caratterizza la nostra società, che in qualche modo abbiamo costruita, che disprezza e irride alla mitezza, alla pazienza, alla solidarietà, alla debolezza, alla sobrietà.

(2 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:05:25 pm »

IL COMMENTO

Arma antica, paura moderna

di MIRIAM MAFAI


UN'ARMA antica, primitiva, impugnata dai popolani cantati dal Belli e disegnati dal Piranesi, è riapparsa da qualche tempo in mano ai romani. Con un coltello è stato ucciso pochi giorni fa a Roma un padre di famiglia nel corso di una banale lite per un parcheggio. Qualche giorno prima un ragazzo di diciannove anni è stato accoltellato, a Roma, al Testaccio, da un ragazzo di due anni più giovane. Il sabato, a Roma, è la giornata tradizionalmente dedicata allo "struscio", alla passeggiata in centro. Gruppi di giovani e di ragazze arrivano in centro, occupano i pochi chilometri che vanno da Piazza Venezia a Piazza del Popolo per stare assieme, in gruppo, guardare e commentare le vetrine, mangiare gelati, spintonarsi. Sabato scorso, tra due gruppi di minorenni è scoppiata una rissa con parolacce e spintoni. Apparentemente niente di grave. Per fortuna prima che passassero a vie di fatto sono stati bloccati da un paio di poliziotti. I due ragazzi, "di buona famiglia" osserva la polizia (ma cosa significa esattamente "di buona famiglia"? ) che si stavano fronteggiando nascondevano sotto il giubbotto un coltello a serramanico con la lama di una decina di centimetri. Capace di ferire e di uccidere.

E' passato esattamente un anno da quando la coalizione di centrodestra si è insediata in Campidoglio. Ricordiamo tutti quella campagna elettorale, l'accusa irridente di "buonismo" che veniva rivolta alla precedente amministrazione e personalmente all'allora sindaco Veltroni. "Buonista", quindi pavido, incapace di combattere e sconfiggere la delinquenza dilagante in città.

E adesso? Quale il consuntivo del sindaco Alemanno dopo un anno di amministrazione? Nella nostra città la violenza non è diminuita. Al contrario. Sembra esplodere in continui episodi di aggressività contro gli immigrati (si vedano gli ultimi episodi a Tor Bellamonaca e in altre periferie). Non solo. Sembra evolvere verso forme di aggressività sempre più primitive e gratuite, improntate al gusto della irrisione e del divertimento a danno dei più deboli. E coinvolge uomini sempre più giovani, che sembrano voler scaricare così un rozzo, elementare primitivo bisogno di sfida. Il coltello, facile da comperare, facile da usare, è diventato in qualche modo il simbolo di questo desiderio di sopraffazione.

Nessuno di noi pensa, naturalmente, di dare ad Alemanno e alla sua amministrazione la responsabilità di questo inasprirsi e diffondersi della violenza. Ma credo che dovremmo non sottovalutare il fenomeno, individuarne le cause, e cercare insieme le misure idonee a combattere un fenomeno che rischia di infettare la nostra città, senza esclusione di quartieri, di ceti sociali o di gruppi di età.

Forse lo abbiamo sottovalutato. Ricordo a questo proposito la giustificazione esibita con disinvoltura da alcuni giovanotti autori, a Roma, di un paio di stupri all'inizio di quest'anno. "Volevamo divertirci" hanno detto. Certamente volevano "divertirsi" anche i ragazzi di buona famiglia che sabato cercavano la rissa al Corso nascondendo nei giubbotti i loro preziosi coltelli a serramanico.

Viviamo in una società che riconosce come vincente il più aggressivo, il più violento, che irride al più debole, al più mite, al più fragile. Abbiamo bisogno di un'altra cultura. Le misure più severe recentemente adottate contro le violenze alle donne e lo stalking vanno già in questa direzione. Ma abbiamo bisogno anche di genitori che non siano pronti, come spesso oggi accade, a giustificare gli errori le colpe le violenze piccole o grandi dei loro ragazzi. Abbiamo bisogno di una scuola che funzioni, che non liquidi come "ragazzate" gli atti di bullismo a danno dei più deboli.

Abbiamo bisogno insomma di una cultura della mitezza, della pazienza, persino delle buone maniere. Se non vogliamo essere costretti a mettere il metal detector all'ingresso delle nostre scuole, se non vogliamo che siano a rischio anche le nostre passeggiate del sabato pomeriggio per le strade della e città.

(22 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:45:13 pm »

LA POLEMICA

Le donne e la libertà ai tempi del Cavaliere

di MIRIAM MAFAI


E se tutto questo scialo di donne, convocate a Roma da uno spregiudicato affarista di Bari, e messe a disposizione del nostro presidente del Consiglio, avesse provocato, non la simpatia, l'invidia e il consenso di cui parlano i suoi più fedeli collaboratori, ma, soprattutto tra le donne, irritazione, e persino un po' di vergogna?

E non è possibile che sia stato proprio questo sentimento di una parte dell'elettorato femminile ad aver provocato un sia pur tardivo atteggiamento di critica da parte della stampa e delle gerarchie cattoliche?

Una velina, una escort, una prostituta è una donna che dispone del suo corpo come crede. O come può. Il mestiere più antico del mondo, si diceva una volta. Esercitato in modi diversi, con maggiore o minore eleganza, riservatezza e sobrietà. Un mestiere che si sceglie o al quale si può forse essere costrette. Ma non è lecito pensare che siccome esistono le veline, tutte le donne italiane sarebbero classificabili come aspiranti veline. E la prova di questa latente aspirazione starebbe nel fatto che le donne italiane, giovani e meno giovani, dedicano ormai una cura ossessiva al proprio corpo, sperando di farne strumento non solo di piacere ma anche, se possibile, di guadagno e di successo.

Ha ragione Michela Marzano quando, su queste pagine, qualche giorno fa, denunciava il fatto che questo sia l'unico modello di riuscita e di comportamento che il potere in carica oggi propone alle donne. E' questo, nei fatti, il modello vincente insistentemente proposto alle donne dalla nostra tv. Donne esibite come merce, donne spogliate, donne in vendita offerte al miglior acquirente: una proposta umiliante che non viene avanzata solo dalla tv berlusconiana, ma anche purtroppo da quella pubblica.

Ma le donne italiane sono davvero tutte, o nella loro maggioranza, disponibili a questa subalternità al desiderio maschile? Io non lo credo. Penso, al contrario, che in maggioranza le donne italiane stiano da tempo perseguendo un'altra strada. Quella della propria realizzazione come individui liberi e responsabili, attraverso una faticosa combinazione tra studio, organizzazione della vita familiare, maternità e lavoro. E questo mi pare il senso dell'interpellanza su Berlusconi presentata la scorsa settimana in Parlamento dalle donne e dalle ex ministre del Pd. E questo mi pare anche il messaggio di quelle 15 mila donne italiane che hanno firmato l'appello della professoressa Chiara Volpato: "il comportamento del premier offende le donne".

Il 1968 ci perseguita. É sempre a quella data che facciamo riferimento per ricordarne le conquiste o lamentarne le sconfitte e le delusioni. Quello che si è convenuto chiamare il 1968 è un processo lungo e tumultuoso che nel nostro paese è durato almeno dieci anni. Ci stanno dentro le occupazioni delle Università e l'autunno caldo operaio, la legge sul divorzio (e il successivo referendum) e lo Statuto dei Lavoratori, il nuovo diritto di famiglia e la legge sull'aborto, la chiusura dei manicomi e la riforma sanitaria, Piazza Fontana e il delitto Moro. Quello che chiamiamo il 1968 è uno spartiacque. C'è un prima e un dopo. E oggi, a distanza di quarant'anni molti di noi continuano a misurarsi con quelle speranze, quei successi e le successive delusioni.

Cosa ne è, si chiede Michela Marzano (che all'epoca, beata lei, non era nemmeno nata) della rivoluzione sessuale di quegli anni, che dava finalmente alle donne la libertà di disporre del proprio corpo, che prometteva a tutti di diventare autonomi soggetti della propria vita? Cosa ne è, di tutto questo, "ai tempi del cavaliere" in un paese in cui il presidente del Consiglio può dichiarare, senza vergogna, che "chi scopa bene governa bene"?

Tutto questo, le veline e le escort, le Noemi Letizia e le Patrizie D'Addario, le feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli, le barzellette da trivio e le volgarità di Berlusconi ("un uomo che non sta bene" come lo ha definito, correttamente e sobriamente, la moglie Veronica Lario), tutto questo rappresenta senza dubbio un pezzo, il più sgradevole e avvilente del nostro paese, ma non può essere assunto a simbolo dell'Italia, del nostro costume, delle aspirazioni, delle ambizioni, dello stile di vita delle donne italiane di oggi.
Al contrario: sono convinta che il femminismo o comunque si voglia chiamarlo, quel movimento cioè che rivendicava la fine di ogni forma di discriminazione tra uomini e donne, la uguaglianza di diritti e la possibilità, quel movimento nel corso degli anni ha certamente cambiato faccia, stile, modo di esprimersi ma ha messo radici profonde nella nostra cultura e nella nostra vita quotidiana. La rivoluzione femminista, nata negli anni lontani che chiamiamo " il 68", resa possibile anche dal processo di secolarizzazione che allora percorse il nostro paese (coinvolgendo una parte notevole del mondo cattolico), quella rivoluzione si scontrerà negli anni successivi con movimenti e culture che ne tenteranno un ridimensionamento. Parlo di movimenti e culture che esaltano la violenza e il successo, comunque conseguito, che irridono ai deboli o ai meno dotati, e che tentano di riportare la donna a un ruolo subalterno contestandone il diritto alla propria autonoma capacità di decisione anche nel campo delicatissimo della procreazione. (Basti ricordare la vicenda della legge sulla fecondazione assistita, i ripetuti tentativi di rivedere la legge 194, e, in questi giorni la posizione del Vaticano sulla pillola Ru487 e la relativa minaccia di scomunica rivolta ai medici che dovessero prescriverla).

La libertà della donna è certamente a rischio. Ma resta tuttora un elemento fondante della nostra società. Ormai padrone del proprio corpo, le donne se ne possono servire, se vogliono, per fare le veline o per fare carriera, ma anche per scegliere se e come e quando fare un figlio, o per vincere una gara sportiva come le nostre splendide Federica Pellegrini e Alessia Filippi. Si possono servire dalla loro intelligenza per affrontare percorsi di studio e ricerca sempre più complessi, per dare la scalata a posti di sempre maggiore responsabilità. Il fatto è che, purtroppo, non ci vengono mai proposte come modello. Tutti conosciamo la faccia di Patrizia D'Addario. Ma nessuna tv ci propone la faccia di Cristina Battaglia, a 35 anni vicepresidente dell'Enea, o quella di Amalia Ercoli Finzi che al Politecnico di Milano insegna come volare nello spazio, o quella di Sandra Bavaglio, giovane astronoma cui Time ha già dedicato una copertina.
Insomma, il 1968, la sua cultura dell'uguaglianza e dei diritti è ancora tra noi. Quali che siano i messaggi che ci invia una tv sempre più volgare o quelli proposti dal patetico machismo del nostro presidente del Consiglio.

(4 agosto 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:16:55 am »

LA STORIA

Dal 77 al caso Moro Una vita di intrighi

di MIRIAM MAFAI


HO conosciuto Francesco Cossiga a Montecitorio nell'ormai lontanissimo 1962, nelle convulse settimane che portarono al Quirinale Antonio Segni. I due passeggiavano lentamente in uno dei corridoi laterali del palazzo mentre nell'aula si votava

il più giovane accompagnando e quasi sostenendo il più anziano. Era gentile, elegante. Il giovane deputato che conobbi allora, orgoglioso della sua origine sarda e, come ebbe modo di raccontarmi più tardi, di una sua sia pur lontana parentela con Enrico Berlinguer, sarebbe diventato in seguito uno degli uomini più importanti e controversi della nostra Repubblica.

Aveva una vera e propria passione, e non lo nascondeva per gli intrighi, i complotti, i servizi segreti. E quando, ad appena cinquant'anni, entra al Viminale come ministro dell'Interno, si dedica in primo luogo ad una ristrutturazione dei nostri servizi. Siamo nel 1977: il nostro paese, stretto tra un disordinato movimento studentesco e le prime manifestazioni brigatiste all'insegna della P.38, vive uno dei momenti più pericolosi della sua storia. Due drammatici episodi battezzano l'esordio del nuovo ministro dell'Interno: a Bologna davanti all'Università uno studente, Francesco Lorusso, è ucciso da un colpo di fucile sparato da un carabiniere; a Roma, poche settimane dopo, nel corso di una manifestazione convocata per ricordare la vittoria nel referendum sul divorzio, la polizia spara e uccide una ragazza di diciannove anni, Giorgiana Masi.

Cossiga ha avuto il suo battesimo del fuoco. Da allora il suo nome, Cossiga, verrà scritto, su tutti i muri raggiungibili, con la K iniziale e il segno delle SS naziste.

Il giovane ministro dell'Interno procede alacremente nella riorganizzazione dei servizi, istituendo i reparti speciali della polizia e dei carabinieri. Ma quando, il 16 marzo del 1978, a Via Fani un commando brigatista rapisce Aldo Moro, presidente della Dc e uccide gli uomini della sua scorta, tutto il sistema di sicurezza targato Cossiga va in tilt. La banda di brigatisti attraversa tutta Roma con il prigioniero che riuscirà a tenere segregato finché vorrà, per restituirlo, alla fine, estremo dileggio, a poca distanza da Piazza del Gesù, sede della Dc e da Via Botteghe Oscure, sede del Pci.

Ero lì, in Via Caetani, vicino alla Renault nel cui bagagliaio era rinchiuso il cadavere di Moro, quando arrivò il ministro Cossiga. Stravolto. Notai, per la prima volta, i suoi capelli bianchi e alcune strane macchie sul viso. (Era a lui che Moro aveva inviato la sua prima, dolente, lettera dal carcere, per chiedere aiuto) . Lo stesso giorno Cossiga darà le dimissioni da ministro.

Ma la sua carriera politica è tutt'altro che finita. Dopo un anno circa, nell'agosto del 1979 assumerà la presidenza di un governo che chiude definitivamente la fase della solidarietà nazionale del quale fanno parte, oltre ai democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti. Ministro del lavoro è Claudio Donat Cattin, vicesegretario della Dc, uno dei leader storici del partito. Siamo nei mesi di un drammatica intensificazione delle attività terroristiche. Sono già caduti, tra gli altri Vittorio Bachelet, Giancarlo Galli, Emilio Alessandrini. Uno dei centri del terrorismo ora è Torino. Un giovane brigatista, Roberto Sandalo, arrestato confesserà al giudice Caselli che uno dei capi dei killer è Marco Donat Cattin, figlio del ministro del lavoro. E aggiunge che sarebbe riuscito a fuggire grazie all'aiuto del padre, messo sull'avviso dal presidente del Consiglio, Francesco Cossiga.

Quando la notizia trapela lo scandalo è enorme e il Pci chiede la messa in stato d'accusa del presidente del Consiglio e del suo ministro. Il dibattito parlamentare conosce momenti drammatici, ma alla fine l'Inquirente approva la proposta di archiviazione che eviterà a Cossiga il rinvio a giudizio di fronte alla Corte Costituzionale. (Ricordo che, fuori dall'aula, un deputato democristiano, soddisfatto, commentò "Non siamo mica a Sparta, qui..."). Pure assolto, Francesco Cossiga, uscì, da questa vicenda ancora una volta duramente provato.
Ma pochi anni dopo, il 24 giugno del 1985, verrà eletto, al primo scrutinio Presidente della Repubblica, con i voti anche del Pci, reduce dalla sconfitta subita al referendum sulla scala mobile. Francesco Cossiga entrerà al Quirinale in punta di piedi, preannunciando una presidenza rispettosa dei poteri delle due Camere, del governo, della Corte Costituzionale, e particolarmente sensibile ai problemi della gente comune e delle sue sofferenze. Sembrava preannunciarsi, dopo tanto travaglio, una presidenza tranquilla, quasi incolore. Poi, all'improvviso, qualcosa cambiò. Il presidente annunciò di volersi togliere "molti sassolini" dalle scarpe, e se ne tolse, fino a tramutarsi in quello che venne definito "il picconatore". Il punto culminante dell'attività picconatrice al Quirinale si ebbe sulla vicenda Gladio. Cossiga non esitò a svelare la genesi dell'operazione "Stay behind", destinata a prendere in mano le armi se i comunisti avessero conquistato il potere.
Nel corso degli ultimi anni, Francesco Cossiga, ormai senatore a vita, attraversò periodi di vera e propria euforia alternati a periodi di depressione, denunciò complotti, indicò, spesso contraddicendosi, gli autori delle più oscure tragedie che hanno insanguinato la nostra storia (dalla strage di Ustica alle bombe alla stazione di Bologna)

Ancora una volta, tuttavia, intervenne, con un ruolo decisivo, nella vita politica italiana quando, nell'autunno del 1998, il piccolo gruppo di parlamentari da lui creato, i cosiddetti "straccioni di Valmy" votarono, dopo la caduta di Prodi per opera di Bertinotti, a favore di Massimo D'Alema, consentendo così per la prima volta a un ex comunista di andare a Palazzo Chigi. E di fare la guerra del Kossovo che "Prodi" scriverà lo stesso Cossiga "non avrebbe mai fatto. Il disegno di Prodi è la realizzazione dei sogni di Dossetti. E ricordiamoci che Dossetti votò contro l'adesione dell'Italia alla Nato...".

(18 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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