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Autore Discussione: Vi racconto il Mahatma Gandhi: per me era solo un nonno molto speciale  (Letto 3609 volte)
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« inserito:: Ottobre 03, 2010, 12:13:48 pm »

«Vi racconto il Mahatma Gandhi: per me era solo un nonno molto speciale»
                     
 di Rebecca Papa

ROMA (2 ottobre) - Il 2 ottobre 1869 nasceva Mohandas Karamchand Gandhi. Oggi il mondo lo ricorda come la “grande anima”, lo “scienziato della non-violenza”, il “portavoce della coscienza dell’umanità”. Ma Ghandi era anche un uomo, un figlio, un marito, un genitore, un nonno. Come deve essere stata la “normalità” di un uomo straordinario?
Solo le persone che gli hanno vissuto accanto possono raccontare il lato più quotidiano della sua vita. Tara è una di quelle. E’ una delle nipoti di Ghandi, figlia del figlio minore del Mahatma. Attraverso le sue parole abbiamo cercato di ricordare suo nonno, riscoprendolo “uomo di ogni giorno”.

Tara chi era per lei Mahatma Ghandi?
«Conoscevo mio nonno nel modo in cui tutti i bambini conoscono i loro nonni. Ho vissuto i miei primi 14 anni accanto ai suoi ultimi 14 anni di vita. Io ero una bambina come tante. Ghandi però non era un nonno come tanti. Il tempo vissuto con lui era diverso rispetto a quello che le altre mie amiche trascorrevano con i loro nonni. In quegli anni l’India attraversava un periodo di transizione, stava emergendo come nazione ed era allo stesso tempo travagliata dall’occupazione inglese. Il clima culturale nel nostro paese però era molto fervido. Anche prima di mio nonno erano molti i pensatori, scrittori, artisti e poeti che hanno segnato la storia dell’India. Ghandi nascerà in questo ambiente. La sua storia e la sua saggezza saranno il frutto di quel fermento culturale. Per il mondo Ghandi è il piccolo grande pensatore che ha insegnato agli uomini il principio della non-violenza, il valore della pace, il potere della verità. Questo è per voi Mahatma Ghandi. Lo spirito saggio, l’uomo straordinario che ha cambiato la storia dell’India e dell’umanità. Per me Ghandi era soprattutto Mohandas Karamchand Ghandi. Quello era il suo nome di origine prima che diventasse Mahatma, “la Grande Anima”. Quelli trascorsi con mio nonno per me erano anni normali in un tempo straordinario. Ero testimone del tempo. Ma non mi rendevo conto di essere accanto ad un uomo che stava riscrivendo la storia dell’India e dell’umanità. Ero solo una bambina che seguiva e ammirava suo nonno».

Ci racconti qualche ricordo legato a suo nonno.
«I miei ricordi sono legati soprattutto alle nostre vacanze, alle visite che gli facevo quando lui era in prigione, ai suoi viaggi in treno. Ricordo che trascorrevamo sempre assieme le nostre vacanze in un Ashram, una sorta di comunità, un villaggio in cui tante persone conducono una vita comunitaria per perseguire determinati ideali sotto la guida di un maestro e osservando una rigida disciplina. Era questo il luogo che Ghandi amava. Quando mio nonno creava un Ashram risiedeva lì solo per pochi giorni. Non si fermava mai troppo a lungo in uno stesso posto. Questa è una delle cose che ricordo benissimo di lui. Viaggiava moltissimo. Era un uomo avventuroso. Trascorse un periodo anche in Africa per difendere i diritti dei neri dall’odio razziale. Ricordo che era uno sperimentatore. Era sempre alla ricerca di qualcosa, della sua verità. Ogni volta che mi vedeva mi chiedeva: “Cos’hai imparato oggi?”, “Hai migliorato la tua calligrafia?”. Ricordo che sorrideva sempre. Ogni momento trascorso con lui era speciale. Ghandi ha fatto di tutta la sua vita un viaggio spirituale nella sua mente. Scelse di vestirsi come un contadino dei campi di grano. Anche nei periodi di freddo lui girava seminudo e senza scarpe. E’ così che lo ricordo. Le porte di casa sua erano sempre aperte, chiunque poteva entrare. Solo per gli incontri importanti dava appuntamenti e chiudeva le porte. Aveva un grandissimo senso dell’ironia. Era divertente stare con lui. Ricordo che una sera ad una celebrazione ufficiale in sua presenza lui mi presentò ad un personaggio di spicco inglese. L’uomo inglese mi chiese: “How are you?”. Ero così contenta che mi avesse presentato a quell’uomo inglese che iniziai a parlare a raffica, raccontandogli la mia vita, fino a che mio nonno non mi chiamò in disparte e mi disse: “Ma cosa fai? Quando gli inglesi ti chiedono come stai non voglio sapere davvero come stai, è solo una domanda di rito. Non devi raccontargli la tua vita!”. Io ci rimasi malissimo. Ogni volta che mi rivolgeva un rimprovero mi feriva molto. Ghandi aveva un rispetto enorme per gli ospiti. Quella fu per me una grande lezione di cultura».

Che tipo di rapporto Ghandi aveva con sua moglie? Com’era sua nonna?
«Mio nonno non sarebbe diventato Mahatma senza sua moglie. Lui aveva solo 14 anni quando si sposò. La tradizione indiana prevedeva i matrimoni in un’età molto giovane e anche mio nonno dovette adeguarsi a questo rito. Ma più volte, in seguito, affermò che era un’ingiustizia. Mia nonna non sapeva né leggere, né scrivere. Ma era più forte di lui. Hanno vissuto tutta la vita crescendo e lottando assieme. Quando Ghandi fu messo in prigione lei rinunciò alla sua libertà per seguirlo. Era malata. Quando mio nonno la vide raggiungerlo in prigione accompagnata da un’amica medico le disse: “Sei venuta di tua spontanea volontà o ti hanno imprigionata? Perché se sei qui di tua volontà non voglio che tu rimanga, hai bisogno di cure non puoi stare in carcere!”. L’amica medico gli disse che sua moglie era molto malata e che proprio per questo aveva bisogno di rimanere con lui anche in prigione. Mia nonna non rivide mai più la libertà. Morì in prigione al suo fianco. Ho ben chiaro nella mente il ricordo di una discussione fra mio padre e mio nonno dopo la sua morte. Si chiedevano quale fosse il modo migliore per onorare la sua memoria. Ghandi pensò che il modo più giusto per ricordarla fosse quello di fondare in India centri di istruzione per le donne. Lo fece e ancora oggi quei centri funzionano offrendo a molte donne indiane la possibilità di crearsi una cultura, imparare a leggere e a scrivere. Fortuna che mia nonna non ebbe».

Ghandi amava molto scrivere lettere, vero? Gliene ha mai scritto una?
«Sì, mio nonno era una grande scrittore di lettere. Amava tanto scriverle. E spesso anche noi ci scambiavamo lettere. Ricordo che una volta gliene mandai una e lui mi rispose scrivendomi: “Ho ricevuto la tua lettera, devo dire che scrivi molto male”. Ricordo che ci rimasi malissimo e mi arrabbiai davvero molto. Strappai quella lettera».

Davvero la strappò?
«Sì. Mi aveva offesa. Solo adesso mi rendo conto di aver commesso un errore. Chissà oggi quanto varrebbe quella lettera. Peccato… avrei potuto rivenderla e magari ricavarne qualche soldino…».

Dal suo sorriso è evidente che sta scherzando. Dubito davvero che se la sarebbe mai rivenduta.
«Certo che no. Ero ironica naturalmente. Anzi credo che sia scandaloso il modo in cui molti oggetti di mio nonno siano buttati in pasto al commercio. E’ una cosa che non sopporto e forse neanche lui la sopporterebbe».

Ci parli di quando andava a trovare suo nonno in prigione.
«Quando andavo in prigione ricordo che lo trovavo sempre seduto a terra, su un materassino sottile, con la schiena dritta a scrivere una lettera poggiata sul palmo della mano, oppure lo trovavo a leggere un libro. Mio nonno era un minimalista. La sua maestra di vita era la disciplina. Era bello guardarlo, perché anche quando scriveva e leggeva aveva il sorriso sulle labbra. Era come se si imponesse di ridere sempre. Ma quel sorriso perenne gli veniva da dentro. Non era mai forzato. Dopo la prigionia Ghandi era ancora più forte».

Ci racconti qualcos’altro di Mohandas…
«Ho ben chiare nella mia mente immagini di mio nonno che insegnava ai bambini a non sprecare l’acqua, a non buttare immondizia a terra, a non sporcare i muri. Aveva un rispetto assoluto per la natura, per ogni creatura vivente, per tutto ciò che lo circondava. Trattava le cose come se anch’esse avessero un’anima».

Qual era il più grande sogno di Ghandi?
«Sognava per l’India una politica di rinascita dello spirito senza sfruttamento. Dopo la libertà dell’India infatti conobbi un altro Ghandi».

In che senso un altro Ghandi?
«Dopo l’indipendenza dell’India la sua lotta era rivolta ai nemici interni. Voleva che dopo la libertà politica gli indiani conquistassero quella che noi chiamiamo “Sarvodaya”, la rinascita totale a partire da quella del cuore. Credeva che la vera democrazia è quella in cui ogni cittadino è libero ma soprattutto responsabile di sé stesso e delle proprie azioni».

Qual è l’insegnamento più grande che le ha lasciato suo nonno?
«Cosa ho imparato da lui? L’entusiasmo per il viaggio. Il minimalismo e l’apprezzamento per le cose semplici, umili, l’amore per la stoffa fatta a mano. Se cercate il grande Mahatma in me non lo troverete. Io ho conosciuto e amato soprattutto Mohandas Karamchand Gandhi. Per me era solo un nonno molto speciale. Una settimana prima che morisse, in un giorno di freddo lui voleva camminare un po’ e mentre passeggiavamo ricordo che gli chiesi: “Nonno cosa dovrò fare io nella vita? Quale sarà il mio ruolo?”. Lui mi rispose semplicemente: “Ora stai studiando ed è questo quello che devi continuare a fare. Credo che tu viaggerai molto. Quando tornerai dai tuoi viaggi sarà la tua coscienza ad indicarti la strada”. Quel giorno si decise la mia vita».

Ghandi dedicò la sua vita alla ricerca della verità. Ma cos’era per lui la verità?
«La verità di Ghandi era racchiusa nell’amore per il prossimo, nella semplicità di vivere, nel minimalismo e nella disciplina interiore».

Come si rapportava Ghandi al progresso e alla tecnologia. E’ vero che era contrario al modello di progresso occidentale?
«Era a favore del progresso ma quello che parte dal basso. Secondo lui il progresso occidentale non era adatto all’India. Non era contro la tecnologia ma credeva che dovesse essere al servizio dell’uomo e non viceversa».

Ghandi affermò: “Grazie ad un lungo processo di disciplina e preghiera ho cessato di odiare chicchessia”. Secondo lei come ci riuscì? Com’è possibile non odiare chi, ad esempio, fa del male ai propri cari?
«Non so come ci riuscì. Mi rendo conto che non è affatto semplice. Ghandi nutriva sempre una profonda compassione per gli uomini. Lui non ispirava mai paura perché era estremamente tollerante. Io non ci riesco, credo che non potrei mai amare chi fa del male alle persone a me care. Lui probabilmente ci riuscì con la sua disciplina interiore. A piccoli passi. Partiva dalle piccole cose per riuscire a farne di grandi. Viveva completamene immerso nel presente. Col tempo coltivò un immenso amore per tutto ciò che lo circondava, non solo per gli uomini. Ricordo che ogni cosa che toccava la toccava come se fosse animata. Mio nonno era fermamente convinto che anche la persona in apparenza più malvagia nascondeva in sé del bene, una bontà probabilmente celata da un trauma infantile, da una vita ingiusta o da una profonda sofferenza. Per questo forse riusciva a comprendere e a perdonare».

 
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