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Autore Discussione: Giulio ANDREOTTI.  (Letto 5023 volte)
Admin
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« inserito:: Gennaio 09, 2009, 01:16:04 pm »

Mercoledì compie 90 anni.

Sette volte presidente del consiglio ora è senatore a vita

"Provo rabbia perché hanno usato i processi per mettermi fuori gioco politicamente"

Andreotti: "Ho qualche segreto di Stato e lo porterò con me in paradiso"

di GOFFREDO DE MARCHIS

 
ROMA - Belzebù in Paradiso? "Penso proprio di sì. Ma per la bontà di Dio, non perché me lo meriti". Fra pochi giorni Giulio Andreotti compie 90 anni e guarda avanti, "senza fretta". Protagonista assoluto della seconda metà del secolo scorso, il volto e il corpo più conosciuti della Prima repubblica, sette volte presidente del Consiglio, imputato per mafia e per omicidio poi assolto in via definitiva (con una prescrizione), oggi senatore a vita.

Andreotti è nato a Roma il 14 gennaio 1919, la festa è mercoledì prossimo. Un piccolo dono, tre etti di caramelle Rossana, viene gradito. "Ora però le nascondiamo. Posso mangiarne solo due al giorno". Il metodo, la disciplina lo aiutano ad affrontare la vecchiaia: "Mai cambiato abitudini". Al traguardo Andreotti arriva in buona forma. "Oggi sembra quasi normale toccare questa quota. Ma quando ero ragazzino io, un uomo di 30 anni era adulto e uno di 40 un vecchio". Altri tempi, è davvero il caso di dirlo. Che sta bene gliel'ha detto anche Benedetto XVI. "L'ho incontrato qualche giorno fa, al compleanno di padre Busa (95 anni). Si avvicina e mi fa: "Lei non invecchia mai"".

Il primo regalo della sua vita?
"Avevo 14 anni, un piccolo fonografo con un disco di Vittorio De Sica".

Praticamente non ha conosciuto suo padre. Le è pesata questa assenza?
"Mio padre è morto quando avevo due anni. Ma mia madre è stata capacissima, ha tirato su tre figli con la pensione di guerra che erano quattro soldi. Eppure non ci è mancato niente. Siamo cresciuti con una certa parsimonia, che è una bella cosa. Se poi la vita ti offre di più bene, altrimenti ci si abitua. Io sono ancora parsimonioso".

A sua moglie Livia promise che si sarebbe ritirato a 60 anni, nel 1979. Ne sono passati altri 30.
"Sono quelle promesse che si fanno. Livia all'inizio si è lamentata poi ha smesso. La mia vita è questa, non posso cambiarla. La politica che si fa adesso comunque è molto più calma e non solo perché i miei impegni sono diminuiti. I primi anni facevo il globetrotter, conoscevo tutti i comuni del mio collegio, il Lazio, non ho mai dormito a casa un sabato. È una fatica ma ti tiene vivo. Il contatto con la gente mi piaceva. Farsi un'idea dei problemi sulla carta, in un ufficio o peggio in televisione non è politica, diventa quasi un teorema di matematica".

È contento della sua vita fin qui?
"Ho avuto tutto. Ho una famiglia molto semplice, i miei figli fanno una vita regolare. Ognuno ha seguito la sua strada e alcuni hanno fatto carriera. Uno è vicepresidente di una multinazionale. Del lavoro non mi lamento. Ancora oggi mi chiedono articoli, mi invitano alle riunioni e mi piace molto andare in commissione. In aula invece il dibattito è un po' togato. Sono lontani i tempi della guerra fredda, dei grandi scontri".

E in America è diventato presidente un nero...
"Una svolta storica. Anzi mi dispiace che si debba sottolineare l'aspetto razziale quasi fosse una rarità".

Chi le manca dei protagonisti di un tempo?
"Fra le persone, De Gasperi. Ma mi manca soprattutto il metodo, il contatto con la gente che c'era prima. Adesso è tutto più meccanico. Allora i partiti e i sindacati erano soggetti molto forti e molto vivaci, oggi sono delle burocrazie. Tra gli avversari ricordo Di Vittorio. Un duro, che quando proclamava uno sciopero ci faceva penare per settimane. Ma lo rispettavamo. Durante una riunione della Dc qualcuno si lamentò perché la Cgil eccitava troppo i lavoratori. De Gasperi lo interruppe: "Non possiamo pretendere lo stile anglosassone da uno che è nato nelle Puglie dove per dare ai contadini due giorni di paga al mese abbiamo dovuto fare una legge"".

La crisi dei partiti quindi è un male.
"Certo. Toglie un sistema di formazione politica che si costruisce su conoscenze storiche, approfondimenti economici e internazionali. La politica non è solo un fatto epidermico e occasionale".

Il campione di questa nuova politica è Berlusconi.
"Berlusconi è partito con un grande vantaggio: sapeva che tutto ciò che aveva fatto prima era andato bene. Non si era mai occupato di televisione e ha costruito un'azienda pari a quella di stato, non aveva mai visto un mattone e ha tirato su dei quartieri. Sotto questo aspetto è un uomo che vale. Magari fortunato, ma capace".

E come politico?
"Migliora. All'inizio commetteva un grandissimo sbaglio, quello di dire "voi politici". Ma lui che faceva?".

Come statista?
"Le prime volte che sedeva al banco del governo era scocciato, guardava continuamente l'orologio. Poi a mio avviso gli è venuta la passione, segue i problemi, parla con competenza".

Insomma, lei lo ha votato.
"No. Ma nemmeno gli ho votato contro".

Un tempo era lei l'uomo più potente d'Italia.
"Macché. Al massimo potevo essere un valvassino. Diciamo che andavo bene nel mio collegio. Nel Lazio non avevo concorrenti temibili anche perché me ne occupavo dalla mattina alla sera. Nessuno mi ha mai regalato niente. Se non fossi senatore a vita, i voti li prenderei anche adesso. Giro ancora abbastanza, raramente la sera sto a casa. Partecipo a molte riunioni, anche a certi incontri che si fanno presso famiglie. Sono persone semplici, si parla di tutto. Prima mi informo su chi sono per evitare passi falsi".

I processi sono acqua passata?
"Quando ci ripenso, provo una rabbia incontrollabile. Essere sotto tiro per cose che hai fatto, passi. Ma così no. Hanno usato i processi per mettermi fuori gioco politicamente. È stato un momento di politica molto cattiva".

Magistratura e Palazzo sono di nuovo ai ferri corti.
"I magistrati sono un grande problema. La legge è uguale per tutti, tranne che per loro. Forse perché nei tribunali ce l'hanno scritto alle spalle e fanno fatica a girarsi. Bisogna cancellare le correnti organizzate perché le correnti sono giocoforza politicizzate".

Nel suo rapporto speciale con il Vaticano ha fatto più gli interessi della Chiesa che dell'Italia?
"Glielo garantisco, il Vaticano non ha bisogno di aiuti, né del mio né di altri. Certo, la Santa sede è a Roma e chi si occupa di politica estera ne deve tenere conto. Semmai sono loro ad aver aiutato noi. Quando De Gasperi andò in America dopo la guerra, il cardinale Spellman ci aprì molte porte perché gli italiani erano visti malissimo".

L'Osservatore romano però prepara una grande intervista per i suoi 90 anni.
"Mi fa piacere. Cominciai a leggerlo nel '31 durante la persecuzione dei circoli cattolici da parte dei fascisti. Mia madre mi dava 40 centesimi per il maritozzo, io invece ci compravo l'Osservatore e il Messaggero. Era un rischio acquistarlo perché all'edicola c'erano i picchetti neri. Una volta capitai in Vaticano proprio in quegli anni e vidi Pio XI piangere e gridare contro chi gli contestava la firma dei Patti lateranensi. Quella scena mi turbò e svenni. I miei amici mi nascosero dietro una tenda bianca, di seta".

Le piacerebbe una riforma presidenzialista?
"Direi di no. Chi ha avuto un periodo di dittatura deve stare attento alle ricadute".

Ma sono passati 60 anni
"A maggior ragione. Se hai avuto una brutta polmonite a 18 anni non smetti di riguardarti a 70".

Custodisce molti segreti?
"Un po' di vita interna dello Stato la conosco. Molti no, qualcuno sì. Ma li tengo per me. Non farei mai un libro o un'intervista su certi episodi. La categoria del folklore politico non mi appartiene".

(9 gennaio 2009)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Febbraio 08, 2009, 06:18:42 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 10, 2009, 06:19:56 pm »

I documenti sono in via di classificazione: 3500 faldoni, chiamati "buste", 200 dei quali riguardano il Vaticano

Ecco l'archivio di Giulio Andreotti nel caveau blindato dello Sturzo

Non soltanto carte: ci sono anche immagini, audio e video "Colpisce la cura con cui si sono archiviati documenti vari"

 
 ROMA - E' una leggenda politica. Un mito archivistico. Il "grande armadio" della Prima repubblica. Per ora è ancora chiuso, tranne particolari autorizzazioni, alla consultazione pubblica e ci vorrà ancora del tempo anche perché Giulio Andreotti continua ad "alimentarlo" quotidianamente e a consultarlo per i suoi libri, interventi, discorsi. Eccolo l'archivio più temuto e ambito della Repubblica depositato nel caveau blindato dell'Istituto Don Sturzo dove tutti i principali esponenti della Dc hanno lasciato le loro carte. L'ANSA ha avuto la possibilità di visitarlo e, per la prima volta, di fotografarlo.

Ci sono voluti due mesi per trasferirlo in via delle Coppelle 35 nell'antico Palazzo Baldassini (opera dell'architetto Sangallo il giovane) da via Borgognona 47 dove in un appartamento era custodito l'Archivio per antonomasia. Sono 3.500 grandi faldoni - "buste" secondo la denominazione archivistica - conservati in due grandi archivi a scomparti mobili che hanno occupato due stanze dei sotterranei dell'Istituto che già accoglie le 1.400 buste di Luigi Sturzo, l'intero archivio della Dc, quello di Flaminio Piccoli, le trecento "buste"Giovanni Gronchi e le 350 di Mario Scelba.

L'Archivio Andreotti è già stato definito due anni fa di "interesse storico particolarmente importante". Il lavoro di classificazione è quasi definito per le prime carte, quelle del giovanissimo sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti che aveva la delega per il cinema e lo spettacolo tra il '47 e il '53.
Sulle singole scaffalature dei due grandi armadi che scorrono su rotaie appare la scritta "G.A." e alcune sezioni recano la scritta "riservato" per le carte di natura personale. Ancora oggi la scheda di Giulio Andreotti sul sito del Senato reca, alla voce professione, la dicitura "giornalista" e questo è l'archivio di un politico che non ha mai dimenticato il suo mestiere. Infatti, da ogni faldone spuntano ritagli di giornali, appunti, foto, discorsi, documenti vari ed anche, in molti casi, libri, pubblicazioni inerenti l'argomento.

Spiega l'archivista che sta lavorando alla classificazione, Luciana Devoti, che si tratta di un archivio che copre circa 600 metri lineari. E' stata raggiunta un'intesa con Andreotti per stabilire, tenendo conto della attuale normativa, le "linee di azione rispetto alla conservazione, tutela, accesso e valorizzazione del complesso documentario".

"Quello che colpisce è la cura con cui si sono archiviati documenti vari per evidenti fini di studio o di documentazione personale che l'Istituto ha solo ordinato per seguendo lo schema pratico ma efficace di archiviazione che via via si è adottato", dice l'archivista. Il tutto era poi sintetizzato nelle schede collocate in due grandi classificatori a schede da cui spuntano riferimenti a grandi fatti storici (Alleanza atlantica, comunismo, De Gasperi ecc.) ma anche le piccole annotazioni dei rapporti di Andreotti con il suo elettorato. Una mole incredibile di carte, ma c'è chi ancora oggi giura di camion di faldoni arrivati in Vaticano quando Andreotti abbandonò definitivamente il dicastero della Difesa.

Due sono le sezioni principali dell'archivio; quella seriale divisa in 15 argomenti (Camera dei Deputati, Cinema, Dc, Discorsi, Divorzio, Elezioni, Europa, Fiumicino, Governi, Parlamento, Personale, Trieste, Scritti, Senato e Vaticano). Si tratta di circa 110 "buste". Ci sono poi le "Pratiche numeriche", cioè la seconda sezione corrispondenti a pratiche numerate da 1 a 10.560 ( 2400 "buste" circa). Ad ogni pratica, comunque, possono corrispondere uno o più fascicoli, contenenti documentazione relativa ad affari diversi. Ad esempio ci sono 80 fascicoli dedicati agli Usa e 200 al Vaticano, con relativi "incartamenti" riguardanti i Papi dello scorso secolo. Otto decimi delle carte sono disponibili in buste ma c'è anche un grande archivio fotografico, uno sonoro e audiovisivo e perfino una raccolta dei menu e dei cartoncini degli inviti ai vertici e pranzi ufficiali a cui il sette volte Presidente del Consiglio ha partecipato.

Ci sono fascicoli annuali, come quello sul 1978, l'anno della morte di Aldo Moro e della elezione di due Papi dopo la morte di Paolo VI. Andreotti molto spesso chiede questa o quell'incartamento ma anche, con cadenze varie, le fa avere all'istituto che incrementa così uno dei suoi "giacimenti" più importanti, certamente il più ambito per storici e giornalisti.

(10 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 11, 2009, 05:03:35 pm »

11/1/2009 (7:24) - IL PERSONAGGIO

Ma Andreotti è spiritoso?
 
Nel '90 pubblicò il volume di commenti: "Onorevole stia zitto"

Sta per compiere 90 anni, non rinuncia alle battute che hanno fatto la sua leggenda


RAFFAELLO MASCI
ROMA


«Il potere logora chi non ce l’ha» è solo la più celebre delle sue battute, seguita da quella secondo cui esistono solo due generi di pazzi «quelli che si sentono Napoleone e quelli che credono di poter risanare le Ferrovie dello Stato». Ma Giulio Andreotti, padre della patria che si appresta a spegnere 90 candeline, ha fatto della sua lepidezza romana travasata in mille aforismi, uno dei pilastri della sua popolarità. Nel ’90 pubblicò un primo libro che raccoglieva il meglio di questo genere in cui sarebbe diventato campione, si chiamava «Onorevole stia zitto». Dieci anni dopo ha raccolto «the best of» nel volume «Il potere logora ...», riedito, debitamente integrato, nel 2008.

Questa sua verve espositiva, questa sua carica affabulatoria, evidentemente, devono essergli molto piaciute: «Qualcuno crede - dice Andreotti stesso nell’introduzione al libro - di declassarmi sostenendo che nella mia vita pubblica io propendo per il pragmatismo e mi mostro refrattario alle grandi programmazioni. Di più: poiché indulgo nell'uso di frasi scherzose e sono allergico a ogni genere di discorsi e concetti complicati - che, del resto, sono stati bollati come “politichese” -, c'è chi mi guarda con sufficienza, quasi scandalizzandosi intellettualmente a causa di un mio presunto gusto per le battute. Non voglio davvero far assurgere il mio metodo a canone di comportamento da imitare. Né oso riferirmi al “castigat ridendo mores”».

Ma, insomma, un genere suo di scrittura e anche di intrattenimento affidato alla levità, deve averlo trovato, e noi lo abbiamo sottoposto al parere di tre maestri del ridere: il vignettista Vauro, lo scrittore e attore Paolo Villaggio e il produttore del Bagaglino Pierfrancesco Pingitore. Tanto più che il senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, non si smentisce nemmeno nell’ultima intervista: la prima, per la verità, concessa all’Osservatore Romano.

Un lungo intreccio di reminiscenze, giudizi storici e politici oltre, ovviamente, a tante battute. Come quando spiega che, pur rimettendosi alla volontà di Dio, un desiderio si permette di esprimerlo: «Se proprio posso, magari gli chiederei una proroga». Stessa leggerezza anche nell’affrontare problemi che hanno segnato duramente la sua stessa esistenza. Sulle proposte di riforma della giustizia, una sola frase: «E’ auspicabile, perché ci sono stati molti casi limite». Risolve con un tocco d’ironia persino l’ultima svolta della sua interminabile brillante carriera: destinata a concludersi - questo, almeno, il suo non disinteressato parere - in Paradiso, «ma per la bontà di Dio, non perché me lo meriti».

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 11, 2009, 05:10:23 pm »

 90 ANNI DEL SENATORE A VITA

Cossiga: Andreotti? Ama giocare a poker Mi ha sempre battuto

«La Cia non lo voleva. Per Moro soffrì ma pensava che nessuno ci credesse»
 
 
Presidente Cossiga, Andreotti è Belzebù o uno statista? «È un grande statista del Vaticano. Il segretario di Stato permanente della Santa Sede, da Pio XII a Giovanni Paolo II. La sua vocazione politica è una vocazione religiosa. Se Enrico VIII ebbe (prima della rottura) il titolo di Defensor Fidei, lui dovrebbe essere nominato Defensor Ecclesiae. In questo, vero allievo di Montini. Che non a caso, dovendo scegliere tra lui e Moro per indicare un sottosegretario a De Gasperi, scelse lui».

Perché? «Montini, di famiglia altoborghese e cattolico liberale, era molto diverso da Andreotti, romano de Roma di origine frosinate e cattolico papalino. Proprio per questo, Montini ritenne di contemperare lo spirito mitteleuropeo di De Gasperi con quello pratico di Andreotti. E fece bene: mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l'unica moralità della politica consiste nel saperla fare». Da qui i rapporti della sua corrente con la mafia? «Tutti i partiti in Sicilia hanno avuto rapporti con la mafia, anche i comunisti. E non sempre a fin di male: fu la mafia a consegnare allo Stato il bandito Giuliano. Una stagione che si chiude solo quando la mafia decide la linea stragista».

Quando ha conosciuto Andreotti? «Avevo 17 anni. Gli ho sempre dato del tu e l'ho sempre chiamato Giulio, così come lui mi ha sempre chiamato Francesco. Però non ha mai dato confidenza sino in fondo a noi colleghi. Ha amici, ma tutti fuori dalla politica, quasi tutti preti: monsignor De Luca, monsignor Angelini. E poi Ciarrapico: un "burino" come lui. In comune con Moro ha il senso della corporeità: io ho preso sottobraccio tutti, da Fanfani a Giscard d'Estaing, mai però Moro e Andreotti. Non ho mai visto Andreotti abbracciare qualcuno. Eppure abbracciò me, quando dopo via Caetani andai a rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni. Mi disse: "Ricorda che Palazzo Chigi resterà sempre la tua casa". Fu profetico: l'anno dopo sarei stato il suo successore».

Come fu il passaggio di consegne? «Inconsueto. Andreotti mi lasciò tutto scritto. Conservo ancora i fogli intestati con la sua grafia. Tra l'altro, mi avvertiva che stava per scoppiare lo scandalo Petromin». Andreotti fece davvero tutto il possibile per salvare Moro? «Sì, tranne trattare. Però fu favorevole ad aprire un canale attraverso la Croce Rossa e Amnesty. Furono i comunisti a chiuderlo. È la prima volta che lo dico, ma Berlinguer e Pecchioli vennero al Viminale da me, con cui avevano più confidenza che con Andreotti, a dirmi: "Ora basta"». Non fu Andreotti a modificare il messaggio del Papa, specificando che Moro andava liberato "senza condizioni"? «Macché. Era Montini a dire ad Andreotti cosa doveva fare, non certo il contrario. Per Andreotti la morte di Moro fu un peso terribile. Lo ricordo bene mentre mi dice, nel suo studio di Palazzo Chigi: "Soffro molto Francesco, e soffro ancora di più perché non credono che io soffra"».

I rapporti tra i due non erano buoni. «Però non gli ho mai sentito dire una parola contro Moro, mentre non posso certo dire il contrario. A dire il vero, Andreotti non parlava mai male di nessuno. Tranne qualche battuta su Fanfani, con cui proprio non si prendeva. Poi rideva come fa lui, "ih ih ih" (il presidente emerito si produce in una buona imitazione di Andreotti). Intelligentissimo, al punto da fingere di non esserlo. Non parla mai in proprio favore. Curiale com'è, sa che in Curia si parla bene solo del Papa. Filoarabo, ebbe un ruolo decisivo nello sbloccare l'Exodus, la nave dei profughi ebrei». Uomo senza passioni? «No. Ama il gioco. Mangia e beve poco, dorme pochissimo; non l'ho mai visto dormire in aereo, neppure nei viaggi più lunghi; quando andammo in Australia, giocò tutto il tempo a carte con Susanna Agnelli, credo a scala 40. Con me, Sandra Carraro e Francesco Rebecchini giocava a poker: vinceva sempre lui. Ora si è appassionato al burraco, che io non so cosa sia. Tre o quattro volte mi ha portato a giocare ai cavalli. Ne parleremo lunedì (domani, ndr) a Porta a Porta, e gli ricorderò quando sbancai le Capannelle. Lui è un vero esperto, ma parsimonioso».

Andreotti ha raccontato a "Repubblica" di essere svenuto in Vaticano, turbato dal pianto di Pio XI, nel 1931. Cosa ci faceva un dodicenne nelle stanze papali? «Ma lui le ha sempre bazzicate. I Pueri Cantores, queste cose qui». Al punto da far nascere la diceria di una discendenza da Papa Pacelli. «Inverosimile. I Pacelli frequentavano molto più su della famiglia Andreotti...».

Com'erano i rapporti con i comunisti? «Berlinguer lo rispettava, ma ammirava davvero soltanto Moro. Andreotti però aveva sostenuto i partigiani e difeso i cattocomunisti: sapeva che i Rodano e i Balbo erano tra i credenti più accesi. Come lui: Andreotti era tra i pochi democristiani che andavano a messa ogni giorno, e mai ruppero la fedeltà coniugale». Craxi? «Con Craxi non si sono mai presi, anche se Bettino lo stimava molto come politico». Berlusconi? «Né Andreotti né io abbiamo mai votato per Berlusconi. Ad aprile lui ha votato Udc, io Pd al Senato e lista Ferrara alla Camera, anche se finora non lo sapeva nessuno, neppure Giuliano. Però sia Andreotti sia io abbiamo votato la fiducia a Berlusconi, perché siamo democristiani e per noi la governabilità è il primo valore. Abbiamo sostenuto pure Prodi, anche se la politica non era cosa per lui; come Andreotti gli aveva spiegato già nel '78, quando lo congedò dal governo dicendogli che in quanto professore era sprecato per la politica».

Andreotti dice che porterà in Paradiso alcuni segreti di Stato. Quali, secondo lei? «Non so. Io di segreti non ne ho. Ricordo che quando nell'89 stavo per dare l'incarico ad Andreotti, Washington mi mandò un uomo della Cia per dirmi di non farlo: lo consideravano troppo sbilanciato in favore dell'Est. Chissà se è stato solo il difensore o anche il propugnatore dell'Ostpolitik vaticana».

Al tempo delle stragi, né Andreotti né lei sapevate qualcosa? «Io no. Forse qualcuno più su di me sì. Ma non Andreotti. Quando divenne ministro della Difesa, un suo amico militare gli consigliò: "Occupati di tutto, tranne che di commesse e di servizi segreti", e lui gli diede retta. Il massimo esperto di servizi nella Dc era Moro. E comunque ogni strage ha un segno diverso e quasi tutte avvennero per errore: la bomba piazzata da mani di destra in piazza Fontana doveva esplodere a banca chiusa, i francesi centrarono il Dc9 di Ustica per sbaglio, come per sbaglio l'esplosivo palestinese deflagrò a Bologna».

Aldo Cazzullo
11 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Gennaio 14, 2009, 05:50:36 pm »

«Delle colpe che ho nessuno mi ha mai chiesto conto»

di Concita De Gregorio e Susanna Turco


Giulio Andreotti rilascia la quattordicesima intervista per i suoi 90 anni seduto in un trono di velluto azzurro coi bordi d’oro.

La sua stanza a palazzo Giustiniani è piena di doni: quasi tutti ritratti di papi, uno di Padre Pio. Non è affatto stanco.

Si alza prende un caffè e con l’Unità sciorina un repertorio ad hoc che va da Togliatti a Fidel Castro passando per Di Vittorio. Un accenno a Berlinguer, «conversatore piacevole». Naturalmente si aspetta domande su mafia, stragi, Moro, segreti di stato. Naturalmente non risponde. Sorride, se così si può dire, e sempre dice: «Non lo so ma se lo sapessi non lo direi».
Come per l’incontro fra Togliatti e Pio XII. Come sempre. Come quello che potrebbe essere il suo epitaffio.

Per dormire bene, si raccomanda congedandosi, occorre mangiare leggero la sera. Per vivere bene affrontare un problema alla volta e non drammatizzare, glielo ha insegnato sua madre. Inoltre bisogna leggere pochi romanzi e andare poco al cinema: Gomorra non l’ha finito, per esempio, e il Divo, non l’ha visto tutto. Solo un po’. «Non sono bello, ma nel film sembro un granchio».

Presidente, Francesco Cossiga dice che lei è l'unico a sapere se avvenne davvero l'incontro tra Palmiro Togliatti e Pio XII. Dica: ci fu?
«Anche se lo sapessi, lo terrei per me. Togliatti e Pio XII non hanno fatto, all’epoca, un comunicato stampa: significa che non volevano farlo sapere, non trova?»

Si è molto parlato in questi giorni dei suoi misteriosi archivi. Pare contengano perfino un pezzo di cioccolata smozzicata. Non è che per caso, fra i fascicoli e le buste, c'è anche il memoriale di Moro?
«No, per carità. Se l'avessi avuto, l'avrei ridato alla famiglia. Comunque nei miei archivi non c'è niente di misterioso. Come nei miei diari. Mi suggerì Longanesi di tenerli. Sono utili, ma riguardano solo me».

La sua carriera politica è sterminata. Manca solo la carica di presidente della Repubblica. Le dispiace?
«No. È un mestiere che richiede sacrificio. Dover girare sempre con la scorta, per esempio: preferisco le mie passeggiate solitarie all'alba a Villa Borghese».

Ha un rimpianto?
«Ho fatto meno di quanto avrei potuto. Per molte persone. Da ragazzo andavo a Pietralata con la Conferenza di San Vincenzo, a distribuire pane e latte. È questo che intendo».

E di rammarico? Ne ha per la sentenza di Palermo, dove l'accusa di mafia è caduta per prescrizione sui reati precedenti al 1980?
«Mi dispiace per la prescrizione. Molte volte ho dato elementi per dimostrare che l'accusa non era vera. Ma davo fastidio a molta gente, che ha avuto meno fortuna di me. Invidie».

Tutto qui?
«Ci sono tante cose che non rifarei. Ma le uniche colpe che ho non mi sono mai contestate».

E quali, presidente?
«Ma lasci perdere. (sorriso). Faccende private».

Essere dipinto come Belzebù la lusinga?
«Non mi piace. Però sopravvivo».

Si sente mai diabolico?
«Sono un uomo normale, all'ottanta per cento. Ho pregi e difetti come gli altri. Non pretendo che mi facciano un processo di beatificazione».

Quanti sono ancora vivi dei suoi amici?
«Dei compagni di classe con cui ero in contatto, nessuno».

Tra i politici?
«Chi c'è più? Emilio Colombo».

C'è Fidel Castro.
«Persona notevole, gli feci visita».

E Bush padre.
«È venuto a trovarmi quando è stato a Roma, l'ho visto con piacere».

Il politico che ha stimato di più?
«De Gasperi, senza dubbio. Somigliava ad Adenauer. La stessa tempra, la stessa serietà».

E Berlinguer?
«Un piacevole conversatore. Ho conosciuto anche suo padre, Mario. Era parlamentare anche lui».

Nessuno dei suoi figli, invece, ha fatto politica.
«Naturalmente non li ho dissuasi né incoraggiati. Ma mi ha fatto piacere che andasse così».

Il suo erede politico, invece, chi è?
«Non ce l'ho. Né lo pretendo».

E l’erede di De Gasperi? Berlusconi si paragonato più volte a lui.
«De Gasperi è stato un politico. Berlusconi fa parecchie altre cose. Non vedo l'affinità».

Un consiglio che darebbe al Pd?
« Abbandonare la politica del rione. Occuparsi dei grandi problemi, economici e internazionali.C'è da educare le nuove leve.
Ricostruire un concetto di sindacato».

Lo trova appannato?
«È meno vivace. Ai tempi di Di Vittorio era un'altra cosa. Organizzava scioperi che non ci facevano respirare, bloccava perfino il rifornimento dell'acqua per gli animali».

Lei, che è sempre stato un fautore del dialogo con i paesi arabi, parlerebbe oggi con Hamas?
«Con Hamas si deve trattare. Ma quel che si è riacceso in questi giorni è storia antica. Quando si è creato lo stato arabo non si è detto con precisione cosa fosse. La Bibbia dà una spiegazione, c'è una maledizione che rimane».

Lei sogna?
«Non molto».

Incubi che ritornano?
«Non molti. Accadeva più spesso da giovane. Cerco di dimenticare subito. Il segreto è mangiare leggero la sera».

Va sempre a messa ogni mattina?
«Non che sia un sonnifero».

Può giovare alla coscienza.
«Aiuta».

Il potere logora chi non ce l'ha. Esiste una vulgata che attribuisce la massima a Talleyrand, lo sa?
«No. Ma è mia. La dissi quasi per caso. Fece impressione. Mi è capitato di trovarla scritta anche sulle copertine dei quaderni».

La descrivono come una maschera del potere per il potere.
«Importante è valere, ma anche dare l'impressione di valere. Comunicarlo. Nessuno vive su un'isola».

Qual è la riforma, o la legge che porta il suo nome, di cui va più orgoglioso?
«Non ho fatto grandissime leggi. È meglio è applicare bene quelle che esistono. Ce ne sono anche troppe, è un modo per rispettarne meno».

L'andreottismo rischia di essere eterno?
«Non è un metodo, è l'attitudine a non drammatizzare. Le cose vanno affrontate e risolte una alla volta. L'ho imparato da mia madre».

Ha visto il Divo?
«Non tutto».

E Gomorra, l'ha letto?
«Non tutto».

Mafia e camorra governano il Paese?
«Non credo. Non siamo nemmeno in mano al terzo ordine francescano, ma non vedo motivo di esagerare».

cdegregorio@unita.it
sturco@unita.it



14 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 08, 2009, 06:19:32 pm »

Il costituente

Andreotti: la Carta? Grande equilibrio, durerà altri 50 anni
 
 
ROMA — Cambiare la Costituzione per governare a colpi di decreti-legge? «No grazie», dice Giulio Andreotti, pluripresidente del Consiglio, ministro e deputato dell'Assemblea costituente. Ma aggiunge anche «Berlusconi per la Englaro non va criticato».

Senatore Andreotti, la nostra è una Costituzione «sovietica»? Influenzata dal modello dell'ex Urss che ispirava gli esponenti del vecchio Pci?
«Certamente lo sforzo che fu fatto allora, nonostante le divisioni internazionali dei due blocchi, fu proprio di tenere insieme situazioni diverse. La nostra Costituzione comunque fu fatta per durare ed in effetti è durata».

Sessant'anni ma li dimostra tutti, dice però Berlusconi.
«Chi è al governo ha spesso la tentazione di fare di più. Di guadagnare tempo, di avere più potere. La Costituzione esprime invece un grande equilibrio, proprio perché uscivamo da un regime e da una dittatura e quindi volevamo salvaguardare lo spirito della libertà».

Il premier ha fatto l'esempio del prossimo G8 di luglio che dovrà affrontare il problema della crisi economica internazionale. Ha detto che è difficile prendere impegni con gli altri capi di governo: perché le misure che verranno decise da noi devono essere approvate con un meccanismo parlamentare vecchio e lento...

«Il nostro è un sistema equilibrato che impedisce sia fughe in avanti sia lunghe attese: le cose si fanno. Ha dimostrato di funzionare anche in momenti difficili, con il terrorismo. Funzionerà ancora. Mi creda, per i prossimi cinquant'anni non c'è proprio la necessità di modificare la nostra Carta costituzionale. Poi i posteri vedranno... In ogni caso il decreto legge è un istituto valido, previsto proprio dalla Costituzione. Va usato sempre giustamente, non se ne deve abusare, ma fu voluto con lucidità proprio dalla Costituzione».

Veltroni dice che Berlusconi ha preso la palla al balzo del decreto legge per la Englaro, per poi chiedere di modificare la Costituzione. Se lei fosse stato capo del governo il decreto legge per «salvare» questa donna l'avrebbe fatto?
«Non voglio insegnare il mestiere a nessuno. Non voglio esprimere un giudizio. Ma se Berlusconi ha ritenuto di dover presentare un decreto legge non va criticato: è nella responsabilità del governo. Non bisogna dimenticare che chi governa spesso ha elementi che altri non hanno. E poi quello per Eluana Englaro era un decreto legge che non faceva male a nessuno. Come dicono i medici? Primum non nocere, per prima cosa non nuocere».

M. Antonietta Calabrò

08 febbraio 2009
da corriere.it
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