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Autore Discussione: Francesco GIAVAZZI.  (Letto 61005 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 06, 2011, 10:46:17 am »

GLI OSTACOLI ALLA CRESCITA

Giustizia lenta, imprese piccole

Nelle sue «Considerazioni finali» il Governatore della Banca d'Italia, riflettendo sulle ragioni per cui da un decennio l'Italia ha smesso di crescere, ha detto due cose, apparentemente non collegate. La prima è che «le imprese italiane sono in media il 40 per cento più piccole di quelle degli altri Paesi nell'area dell'euro... e i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari». La seconda affermazione riguarda la lentezza della giustizia civile: «La durata dei processi ordinari di primo grado supera i mille giorni e colloca l'Italia al 157esimo posto su 183 nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale».

Queste due osservazioni sono invece strettamente collegate. Difficilmente una piccola impresa riesce a diventare media senza ricorrere a risorse finanziarie esterne, siano queste il credito da parte di una banca, o l'ingresso di nuovi soci nel capitale. Perché il patrimonio dell'imprenditore che la guida, o della sua famiglia, raramente consentono di fare il salto dimensionale.

Ma una banca, o nuovi soci, saranno disposti a finanziare l'azienda, e ad assumerne i rischi, solo in presenza di un sistema giudiziario sul quale possono fare affidamento. Cioè solo se, nel caso di una controversia con l'imprenditore che guida l'azienda, potranno far valere i loro diritti di fronte ad un giudice ottenendo una sentenza equa in tempi ragionevoli.

Se invece i tribunali sono lenti e opachi, intrattenere rapporti creditizi o contrattuali con controparti poco conosciute, come lo è una piccola impresa che sta cercando di crescere, diventa molto rischioso. Ecco allora che credito e capitali affluiscono a chi già ha una storia ed è conosciuto nel mercato. Alle imprese giovani e relativamente piccole vengono richieste garanzie reali di cui spesso non dispongono. Questo limita l'espansione delle aziende. Se poi, come spesso accade, i nuovi imprenditori sono anche i più giovani, ecco un altro motivo della difficoltà che i giovani incontrano ad inserirsi nel sistema produttivo, un argomento di cui ci siamo occupati sul Corriere del 10 maggio scorso.

Insomma, la lentezza e la scarsa affidabilità della giustizia civile sono tra le ragioni, e le più importanti, del «nanismo» delle aziende italiane. La giustizia civile in Italia non solo è lenta: i suoi tempi si stanno ancor più allungando. Negli anni Ottanta una procedura fallimentare durava, in media, poco più di 4 anni, ora ne dura più di 9 (dati Istat). E così le aziende trovano sempre maggiori ostacoli alla crescita. Che fare? Scartiamo subito la risposta ovvia e sbagliata: che si dovrebbe spendere di più per la giustizia. La Commissione europea sull'efficienza della giustizia (un organo del Consiglio d'Europa) calcola che lo Stato italiano spende per la giustizia 70 euro per abitante (dati relativi al 2008). La spesa in Francia è 58 euro per abitante. E non perché la Francia abbia molti meno giudici e cancellieri. I numeri sono simili: i giudici sono 9 per 100mila abitanti in Francia e 10 in Italia; i dipendenti dei tribunali con qualifica diversa da giudice sono 4 per ciascun giudice in Italia, 3 in Francia. Ciononostante la lunghezza media di un procedimento civile è la metà in Francia che in Italia. I giudici italiani sono anche pagati un po' meglio: lo stipendio base è superiore del 20% circa al corrispondente stipendio francese.

Una ragione della lentezza della nostra giustizia civile è lo straordinario numero di avvocati (vedi i numerosi articoli di Daniela Marchesi su www.lavoce.info). Gli avvocati italiani sono circa 200mila, 332 ogni 100mila abitanti. In Francia sono 48mila, 76 per 100mila abitanti. Il rapporto giudici/avvocati è 32,4 avvocati per ogni giudice in Italia, solo 8,2 in Francia. L'elevato numero di avvocati, e il modo in cui sono strutturate le loro parcelle, è un incentivo a moltiplicare le cause e a prolungarne la durata, altrimenti non ci sarebbe lavoro per questa armata.
In Germania gli avvocati sono remunerati a forfait: questo evidentemente li incentiva a chiudere le controversie il più rapidamente possibile. Non solo sono più veloci, i loro compensi sono anche più elevati di quelli dei loro colleghi italiani. Nessun ministro della Giustizia ha finora avuto il coraggio di introdurre un sistema forfettario di retribuzione dei nostri avvocati. E tuttavia, nonostante un sistema che incentiva la moltiplicazione e la lunghezza delle cause, molti, soprattutto gli avvocati più giovani, non hanno lavoro: come scrive Fabiano Schivardi su www.lavoce.info «basta leggere un romanzo di Gianrico Carofiglio o di Diego Da Silva per comprendere la condizione di sottoccupazione di molti giovani avvocati italiani».

E allora perché tanti giovani continuano ad iscriversi alla facoltà di giurisprudenza? Quest'anno gli iscritti al primo anno di corso sono 41mila, poco meno degli iscritti a medicina o ingegneria (rispettivamente 45 e 48mila). Il fenomeno è particolarmente accentuato nel Mezzogiorno: a Bari gli iscritti al primo anno di giurisprudenza sono 1.218, contro 283 a medicina, 238 a ingegneria. Con il numero chiuso a medicina abbiamo ridotto il numero di medici (e forse si è esagerato perché ora i medici cominciano a scarseggiare). Invece il numero chiuso a giurisprudenza non c'e, né alcuno propone di introdurlo. Forse per l'illusione, soprattutto nel Mezzogiorno, che una laurea in giurisprudenza apra le porte di un impiego pubblico o, più probabilmente, perché un'armata di giovani avvocati alla ricerca di un lavoro tiene bassi i loro stipendi avvantaggiando gli avvocati più anziani e i grandi studi legali.

Fortunatamente per abbreviare la durata media delle cause civili esistono modi che non costano nulla al contribuente. In una serie di importanti lavori scientifici tre economisti (Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico) ci hanno spiegato come. Si tratta innanzitutto di riorganizzare il lavoro dei giudici. Invece di iniziare tante cause tutte insieme, e poi portarle avanti in parallelo, è meglio aprirne poche alla volta e finirle prima di aprirne di nuove. Un esempio: supponiamo che due cause richiedano dieci giorni di lavoro l'una. Se un giudice lavora un giorno su una e un giorno sull'altra, le due cause finiscono dopo venti giorni (per la precisione una in 19 ed una in 20, con durata media di 19,5 giorni). Se invece si comincia una causa e si termina il lavoro in 10 giorni, e poi si apre la seconda, la durata media è 15 giorni perché la prima causa finisce in 10 giorni e la seconda in 20. Ovviamente vi sono altre considerazioni da tener presente, come il fatto che vi siano tempi morti (il che spingerebbe ad aver più cause attive tutte insieme) ed il fatto che concentrandosi su poche cause il giudice potrebbe essere più produttivo (il che spingerebbe nella direzione opposta).

E non è solo teoria, i tre economisti hanno esaminato l'esperienza delle Sezioni Lavoro dei Tribunali di Torino e Milano. Nel primo caso i tempi di risoluzione delle cause sono molto più veloci che nel secondo: i processi a Torino durano in media 174 giorni, contro 324 a Milano. Il motivo è proprio una diversa organizzazione del lavoro dei giudici. E non si tratta solo del Nord. Un'esperienza simile, alla Sezione Lavoro del Tribunale di Napoli, in pochi anni ha ridotto la durata media dei processi del 20 per cento. A questo risultato ha contribuito anche una pratica quasi banale: quando un giudice è assente, ad esempio per una gravidanza, i suoi processi, anziché venir rimandati di un anno, sono attribuiti agli altri giudici del Tribunale, incluso, se necessario, il presidente.

Per migliorare il funzionamento della giustizia non servono grandi riforme. Basterebbero presidenti di Tribunale intelligenti e non impigriti e un governo che introducesse il numero chiuso a giurisprudenza e avesse il coraggio di liberalizzare le tariffe degli avvocati.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

05 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_05/
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« Risposta #61 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:37:26 pm »

SPESA PUBBLICA, EFFETTO PERVERSO

La tassa peggiore non si vede


L' imposizione che grava sulle imprese italiane e francesi è apparentemente simile. L'aliquota legale sul reddito delle società è pari al 31,4 per cento in Italia, 34,4 in Francia (dati Eurostat, riferiti al 2009). E tuttavia rilevanti differenze nel sistema di deduzioni fiscali e nella determinazione della base imponibile fanno sì che le imprese italiane paghino al fisco molto di più. Antonio Accetturo e Carlo Menon, due ricercatori della Banca d'Italia, hanno ricostruito l'imposizione effettiva studiando i dati di bilancio di due campioni di imprese localizzate in regioni per molti aspetti simili: il Nord-Est italiano e l'Alpi-Rodano in Francia, la regione il cui capoluogo è Lione. A parità di settore produttivo la pressione fiscale per le imprese italiane (calcolata come rapporto fra totale delle imposte pagate e profitti prima delle imposte, escludendo le imprese che hanno chiuso il bilancio in perdita) era pari al 43 per cento circa, contro il 26 per cento in Francia (questi dati si riferiscono al 2008).
Una differenza tanto elevata, 17 punti in più, non si spiega con un diverso livello di spesa pubblica da finanziare. Anche tenendo conto degli interessi sul debito, che sono molto più elevati in Italia che in Francia, la spesa pubblica francese è più alta: 52 per cento del prodotto interno lordo, contro il nostro 47. L'unica spiegazione è che la distribuzione del carico fiscale è molto diversa, e in Italia grava sulle imprese in misura molto maggiore che in Francia.

Il fisco non grava sulle aziende solo con le imposte. Una media impresa di Padova (anche questi dati provengono dallo studio della Banca d'Italia) deve compiere 15 pagamenti fiscali l'anno, che richiedono circa 351 ore di lavoro. In Francia il numero dei pagamenti è 7, e richiedono 132 ore.
Si potrebbe pensare che le aziende italiane pagano di più perché ricevono dallo Stato servizi migliori. Evidentemente non è così, almeno per i servizi offerti dai tribunali, un caso di cui Alberto Alesina ed io abbiamo già scritto sul Corriere del 5 giugno. Una ricerca svolta dalla Banca mondiale per conto della Regione Veneto mostra che per ottenere una sentenza di primo grado su una disputa commerciale a Padova sono necessarie 41 procedure e 1.808 giorni, con una spesa pari al 27,3 per cento del valore della causa. In Francia il numero di procedure è 29, che richiedono 331 giorni con un costo pari al 17,4 per cento della causa.

Né è il caso per le infrastrutture: in un confronto con circa 100 regioni europee, Veneto ed Emilia-Romagna si collocano nei primi 15 posti della graduatoria Eurostat sulla congestione da traffico pesante, sebbene recentemente il nuovo Passante di Mestre abbia significativamente migliorato la situazione.

Insomma, abbiamo certamente un problema di eccessivo carico fiscale sul lavoro. Riguarda le imprese, ma anche i lavoratori, che pagano un'aliquota del 30 per cento quando quella sui redditi finanziari è meno della metà, 12,50. Abbiamo anche un problema di qualità ed efficienza della spesa. Questa non si migliora con tagli uguali per tutti, né impedendo ai Comuni con un bilancio in attivo di spendere i loro soldi, mentre lo Stato ripiana i debiti di Roma e di Catania. Ciò che servirebbe è un'analisi approfondita dei vari capitoli di spesa, come aveva iniziato a fare Tommaso Padoa-Schioppa con i suoi «quaderni bianchi».

Francesco Giavazzi

24 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/editoriali/11_giugno_24/la-tassa-peggiore-non-si-vede-francesco-giavazzi_dd4041fe-9e21-11e0-b150-aadf3d02a302.shtml
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« Risposta #62 inserito:: Luglio 03, 2011, 11:55:06 am »

CHI FRENA LE RIFORME A COSTO ZERO

Giustizia lenta, i tre ostacoli


Con l'obiettivo di accelerare i tempi della giustizia civile, ieri il ministro Alfano ha annunciato che i presidenti dei tribunali saranno obbligati a programmare il lavoro dei loro uffici, con vincoli sulla durata dei procedimenti e incentivi economici per i più efficienti. «Per migliorare il funzionamento della giustizia civile non servono grandi riforme: basterebbero presidenti di Tribunale intelligenti ed operosi», scrivevamo sul Corriere del 5 giugno.

L'importanza di riorganizzare il lavoro dei giudici è stata dimostrata in alcuni seri lavori scientifici che ricordavamo in quell'articolo, ma questo cambiamento non è possibile se non si modifica il modo in cui sono scelti i presidenti dei Tribunali e i capi degli uffici. Oggi essi sono designati dal Consiglio superiore della magistratura (Csm) con un meccanismo simile a quello dei vecchi concorsi universitari: i magistrati che fanno parte del Csm (due terzi dei componenti del Consiglio) sono eletti dai loro colleghi e pertanto, presumibilmente, contraggono debiti verso i loro elettori che spesso poi «ripagano» con promozioni e trasferimenti. Un sistema, come accadeva nei vecchi concorsi universitari, che raramente promuove i migliori. Negli atenei il ministro Gelmini, prima di varare la sua riforma, sostituì le elezioni con il sorteggio delle commissioni: un meccanismo che nei due anni passati, almeno in alcune discipline, ha fatto saltare molti accordi dietro le quinte, consentendo la promozione di giovani ricercatori di valore. Si potrebbe istituire il sorteggio anche per i membri togati del Csm.

Un secondo problema è la proliferazione delle sedi giudiziarie. In Piemonte, ad esempio, vi sono ben 17 tribunali e 139 uffici giudiziari. Molti andrebbero eliminati. Non lo si fa per il peso delle potenti lobby locali, soprattutto avvocati, alcuni dei quali temono di perdere i loro piccoli monopoli provinciali. E tutto ciò nonostante magistratura e professione forense, a livello nazionale, approvino la razionalizzazione delle sedi.

Un terzo problema è il numero degli avvocati. In Italia ci sono circa 200 mila avvocati, in Francia sono 48 mila. Difficile migliorare l'efficienza della giustizia se non si limita il loro numero. Un avvocato per sopravvivere economicamente deve avere una cinquantina di cause l'anno. Mille professionisti in più significano quindi, in teoria, almeno 50 mila cause l'anno in più. La soluzione è evidentemente il numero chiuso alla facoltà di Giurisprudenza, come peraltro chiesto dagli stessi avvocati. Non solo, ma andrebbe anche abolito il valore legale della laurea.

Il decreto legislativo approvato il 4 marzo 2010 introduce l'obbligatorietà, per alcune cause civili, della mediazione, o comunque di un tentativo di conciliazione. È una via importante per cercare di accelerare i tempi della giustizia civile. E tuttavia l'Organismo unitario dell'avvocatura, l'organizzazione che li rappresenta, ritiene che mediazione e conciliazione siano «lesive degli interessi della categoria» e ha ottenuto dal Tribunale amministrativo del Lazio che la Corte costituzionale ne giudichi la legittimità. Quello della giustizia è un esempio di riforme importanti che si possono fare a costo zero per il contribuente, e con grandi benefici per l'efficienza e la crescita economica del Paese. Se non si fa è spesso perché qualche categoria rema contro.


Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
02 luglio 2011 09:07
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_02/giustizia-lenta-i-tre-ostacoli-alberto-alesina-francesco-giavazzi_bb99bd58-a468-11e0-9ba2-3e9ac4006989.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 16, 2011, 04:52:33 pm »

LA MANOVRA DA SOLA NON BASTA

Non coltiviamo troppe illusioni


I mercati non si sono tranquillizzati. Martedì pareva che si fossero un po' calmati, ma solo perché la caduta dei prezzi era stata arrestata dall'intervento della Banca centrale europea che ha acquistato molti titoli pubblici italiani. Ma c'è un limite a quanto anche la Bce possa fare. Un'alternativa è che sia il Fondo europeo per la stabilità finanziaria ad acquistare titoli italiani, ma ciò significherebbe rendere ancor più trasparente il trasferimento fiscale dai contribuenti tedeschi a quelli italiani. Ma la riluttanza della Germania a farsi carico dei problemi di altri Paesi è sempre piu evidente. Ecco perché gli investitori si stanno chiedendo se l'Italia possa farcela da sola.
Da lunedì scorso la nostra posizione è cambiata: ora non stiamo più con Francia e Germania nel gruppo dei Paesi «sicuri», ma con la Spagna: il rendimento dei Btp italiani è ormai uguale a quello dei titoli spagnoli e lontano trecento punti dagli analoghi Bund tedeschi e dagli Oat francesi. Ciò significa che gli investitori non pensano più che un default dell'Italia (l'incapacità cioè di rimborsare i titoli di Stato) sia un evento con possibilità pressoché nulla. A questi prezzi, sui mercati si calcola che, in un orizzonte di cinque anni, la probabilità che l'Italia possa restituire solo 50 centesimi per ogni euro avuto in prestito è pari al 20%.
Un default italiano rimane comunque una possibilità molto remota, ma ciò che si sta facendo per evitarlo non basta. È per questo che la nuova manovra finanziaria non ha convinto i mercati. Per due motivi: le misure sono ancora troppo sbilanciate sul 2013 e 2014, cioè dopo le prossime elezioni. Nel 2011 la manovra sarà di tre miliardi, di sei nel 2012 su una dimensione totale di 79 miliardi. Si deve anticiparne e di molto l'impatto. È per di più troppo sbilanciata sul lato delle entrate e fa poco sul taglio delle spese.
L'annuncio che ripartiranno le privatizzazioni «nel 2013», cioè quando ci sarà un nuovo governo, anziché tranquillizzare i mercati li ha probabilmente preoccupati ancor di più, perché rende evidente che considerazioni elettorali prevalgono sulla gravità della situazione. Inoltre l'Italia paga il fatto che misure per la crescita, deregolamentazione di certe professioni, miglioramenti nel campo della giustizia civile e nei costi burocratici per le imprese, vengono annunciati all'ultima ora sull'orlo del tracollo invece che costruite con calma anni orsono. E anche questo i mercati lo capiscono benissimo: danno cioè l'impressione di essere scelte preterintenzionali e non meditate.
L'esperienza di altre crisi finanziarie insegna che la metà di agosto è un momento propizio per gli attacchi: i mercati sono poco liquidi e le decisioni di un piccolo numero di investitori sono facilmente amplificate. È accaduto nell'agosto del 1998 con il default della Russia e nell'agosto del 2007 quando scoppiò la crisi dei subprime americani.
Il governo ha poche settimane di tempo per evitarlo. Ma ciò non significa concentrarsi su misure contabili di breve periodo che aumentano una pressione fiscale già alta. Bisogna anche annunciare riforme credibili che accelerino la crescita. È vero che queste riforme strutturali non daranno risultati sullo sviluppo immediati, ma in questo momento l'effetto annuncio, se credibile, può molto aiutare. I mercati devono convincersi che l'Italia sta cambiando passo. Altrimenti chi vorrà continuare a investire in un Paese che non cresce?
Illudersi di avercela fatta solo perché stiamo per approvare questa manovra sarebbe un errore gravissimo.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

15 luglio 2011 08:31© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_15/alesina_giavazzi_coltivare_illusioni_c5b18e94-aea7-11e0-82fd-68e04dbc5f96.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Luglio 23, 2011, 05:43:28 pm »

GRECIA, EURO, BCE. RIFLESSI NON SOLO ECONOMICI

Il credito c'è e anche morale


La signora Merkel doveva scegliere: difendere l'indipendenza della Banca centrale europea, o usare il bilancio della Bce per mascherare i costi degli interventi fiscali che si sono resi necessari per salvare l'euro. Fedele alla tradizione tedesca, ha scelto l'indipendenza della Bce. Se si vuole riassumere con un'immagine il risultato del vertice europeo di giovedì, questo produrrà rigore monetario e una politica fiscale austera, ma non inflessibile. Ciò significa tassi di interesse che ritorneranno alla normalità (i tassi al netto dell'inflazione sono negativi da tempo) e un euro rafforzato.

La Bce ha ottenuto tre risultati importanti: 1) i rischi che in questi mesi la Banca si è assunta acquistando titoli pubblici per sostenere i Paesi in difficoltà vengono garantiti dal Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Fesf o Efsf, European Financial Stability Facility), quindi dai contribuenti degli Stati forti. Per ora questa garanzia si applica solo ai titoli greci acquistati dalla Bce, ma, accettato il principio, sarà difficile non applicarlo in futuro ad altri Paesi. Di una garanzia simile godono peraltro la Federal Reserve americana e la Banca d'Inghilterra: finora in Europa non era stato possibile per l'assenza di un'autorità fiscale federale; 2) le risorse del Fesf potranno essere utilizzate per ricapitalizzare le banche. Da tempo la Bce sostiene che dalla crisi non si esce se non si rafforza il capitale delle banche, mettendole nelle condizioni di non temere l'insolvenza di uno Stato sovrano. Considerando che fino al giorno prima del vertice il presidente Sarkozy proponeva il contrario, cioè di tassare le banche, il risultato è una vittoria significativa per la Bce; 3) il Fesf potrà acquistare sul mercato titoli pubblici di qualunque Paese dell'area dell'euro. Finora non lo poteva fare, e ciò lasciava la Bce sola a fronteggiare improvvise crisi di fiducia nel debito di un Paese (è accaduto 10 giorni fa con i titoli italiani).

A fronte di questi risultati Jean-Claude Trichet ha pagato comunque un prezzo: ha dovuto accettare l'insolvenza della Grecia e, pur garantito dal Fesf, impegnarsi a non escludere le banche greche dai finanziamenti della Bce. In altre parole accettare una realtà che per molti mesi aveva negato: quando si presta denaro ad uno Stato, anche europeo, c'è il rischio di non essere ripagati. Fino a ieri questo pericolo non c'era, da oggi è un fattore del quale gli investitori dovranno tener conto.
L'architrave degli accordi di giovedì è l'aumento delle risorse del Fesf tramite l'emissione di titoli garantiti dagli Stati forti. I capi di Stato non hanno voluto impegnarsi con una cifra, ma se vogliono che l'accordo sia credibile non potranno attendere a lungo. Inoltre, finora il Fondo decideva all'unanimità, con il rischio che un singolo Paese (è accaduto con la Finlandia) bloccasse tutto. Il testo di giovedì evita la parola unanimità e parla di mutual agreement, un concetto meno impegnativo che prevede l'unanimità solo di chi è presente alle riunioni.

Al rigore monetario si accompagna maggiore flessibilità nelle regole di bilancio. Dopo non aver fatto quasi nulla per due anni, ed aver speso i 110 miliardi di euro ricevuti un anno fa, la Grecia ottiene altri 109 miliardi ad un tasso da Paese virtuoso, il 3,5%. Ottiene anche che le banche le condonino (di fatto) debiti per altri 106 miliardi nei prossimi 8 anni, un terzo di tutto il suo debito. Non c'era altra via, a meno di accettare che Atene uscisse dall'euro mettendo a rischio la costruzione monetaria europea. Ma il segnale ai Paesi indebitati è che bisogna fare sacrifici, ma senza dannarsi.

Francesco Giavazzi

23 luglio 2011 08:56© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_23/giavazzi_credito_morale_0ca2b6c6-b4ec-11e0-9870-5546c4221366.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Agosto 02, 2011, 11:50:04 am »

DECISIONI CORAGGIOSE E RUOLO DEL PREMIER

Ultima occasione per una svolta

Wall Street non ha brindato all'accordo fra democratici e repubblicani: l'indice delle 500 maggiori società quotate ha chiuso in ribasso dello 0,4%. Preoccupano i dati sull'economia americana. Nel primo semestre dell'anno la crescita ha rallentato dal 3% a meno dell'1%; ieri i dati di luglio sull'industria manifatturiera hanno confermato questa frenata. La flessione di New York si è trasferita in Europa e ancora una volta si è amplificata in Italia: la Borsa di Milano è scesa di un altro 3,87%.

«Chiuso l'accordo sul debito, occupiamoci di ciò per cui gli americani ci hanno eletto: creare posti di lavoro, consentire alle aziende di pagare salari migliori, in una parola far sì che l'economia riprenda a crescere». Con queste parole il presidente Obama ha colto ciò che angoscia i mercati e i cittadini: il rischio che la ripresa svanisca e la disoccupazione non scenda.

Domani Silvio Berlusconi si presenterà in Parlamento per parlare della crisi. È importante che sia lui a farlo. La strategia dei suoi ministri economici evidentemente non ha funzionato. Dopo aver ripetuto per tre anni che l'Italia era al riparo dalla tempesta, che le nostre banche erano le più solide al mondo e il nostro sistema di protezione sociale il migliore, il ministro dell'Economia, evocando il naufragio del Titanic, ha detto che era necessaria una correzione violenta dei conti pubblici. Ma poi non è stato capace di realizzarla e ha varato una manovra fatta per lo più di maggiori tasse e spostata a dopo il 2013, quando chissà se questo governo ci sarà ancora. Non sorprende che i mercati non gli abbiano creduto: il Tesoro, che in aprile, prima che Tremonti alludesse al Titanic, si finanziava a 10 anni pagando il 4,8%, ora paga attorno al 6%.

Dopo aver tuonato contro il mercato, e aver irriso i liberisti, il ministro Sacconi ora chiede, nei cinque punti dell'intervista di ieri al Corriere , una «stagione di privatizzazioni e liberalizzazioni». Troppo tardi.

Ci attende un autunno molto difficile. In settembre il Tesoro dovrà emettere una quantità straordinaria di titoli. Gli investitori cui chiederà d'acquistarli pongono una sola domanda: dopo un decennio di stagnazione, sarete capaci di ricominciare a crescere? Altrimenti chi garantisce che ripagherete ciò che ora ci chiedete in prestito? Aspettare settembre è una strategia suicida: se la crisi si aggrava, tutto diventerà più difficile. Dopo aver perso tre anni, non gettiamo al vento altre settimane.

Silvio Berlusconi ha un'ultima chance per salvare se stesso, il suo governo, e non ultimo questo sfortunato Paese. Egli è stato un imprenditore che nella sua vita ha saputo cogliere grandi successi. Dia prova di saper affrontare questa nuova emergenza. È in grado, se lo vuole, di prendere in mano il timone della politica economica. Lasci perdere leggi e leggine ad personam. Pensi al Paese.

È un'opera in cui l'intuizione è più importante delle scelte tecniche e Berlusconi, diversamente dai suoi ministri economici, non ha mai avuto dubbi che si dovesse lavorare per la crescita. Se avrà bisogno di un supporto tecnico, e certamente ne avrà bisogno, chieda alla Banca d'Italia di mettere uno staff al suo servizio. La Banca è l'unica istituzione che da anni ripete che solo la crescita ci salverà. Una guida politica forte e diretta, priorità chiare e uno staff credibile ci possono salvare. Ma la strategia deve partire domani. Dopo le vacanze sarà troppo tardi.

Francesco Giavazzi

02 agosto 2011 07:57© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_02/ultima-occasione-per-una-svolta-francesco-giavazzi_17822ef0-bccb-11e0-b530-d2ad6f731cf9.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Agosto 11, 2011, 12:30:30 pm »

L'incertezza non risparmia nessuno


L'indice Vix, che misura le attese degli investitori sulla volatilità della Borsa di New York nei prossimi 30 giorni, è salito martedì a 48, tre volte il valore di inizio luglio. Non è l'80 dei giorni del fallimento della Lehman, ma a parte quell'episodio è il valore più elevato da anni. Nulla meglio di questo numero spiega ciò che sta accadendo nei mercati: un improvviso aumento dell'incertezza. Che cosa è cambiato in quattro settimane?

Che dopo una crisi finanziaria la ripresa fosse lenta non è una novità. Lo abbiamo imparato dal libro di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart («This time is different», Princeton University Press, 2009) o semplicemente osservando il Giappone dopo la crisi della fine degli anni Ottanta. Che la ripresa lenta di Europa e Stati Uniti fosse in parte compensata dalla grande vitalità delle economie dei Paesi emergenti, continua a essere vero.

Le imprese, soprattutto quelle americane, macinano profitti e raramente sono state tanto liquide: se non investono è per via dell'incertezza sull'economia, non perché manchino le risorse per finanziare nuovi progetti. Né è una novità che l'invecchiamento della popolazione metta a rischio nel mondo occidentale i conti pubblici. E neppure è una novità che da oltre un decennio la nostra economia non cresca e che ciò sia la maggior preoccupazione di chi ha prestato denaro al Tesoro italiano.
E allora perché improvvisamente tanta incertezza? A mio parere il motivo lo ha spiegato Alberto Alesina sul Corriere dell'8 agosto: la percezione che non vi sia una chiara leadership politica. Ciò che manca è «il riconoscimento della gravità della situazione e la dimostrazione di voler e saper affrontare i problemi con urgenza e non rimandarli, ovvero un atteggiamento di lungimiranza al di là delle scadenze elettorali».

Pesa l'assurda discussione americana sul tetto al debito, e in Europa, il non aver ancora dato seguito alle decisioni del vertice di Bruxelles di luglio, in particolare non aver ancora modificato le regole operative del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (EFSF). E così il peso di evitare un collasso cade tutto sulle spalle delle banche centrali: la Fed e la Bce.

Anche nell'autunno del 2008, dopo Lehman, furono le banche centrali a «salvare il mondo». Ma i loro interventi furono presto accompagnati da una risposta politica forte, disegnata negli incontri del G7 di Washington e del G20 di Londra.

I mercati sanno bene che le banche centrali possono offrire un sollievo solo temporaneo. Non possono risolvere né i problemi della crescita, né quelli dell'invecchiamento. E rispetto a tre anni fa le loro armi oggi sono spuntate. La crisi è quindi nelle mani dei governi. Se non intervengono rapidamente e in modo credibile, a questi livelli del Vix le economie occidentali entrano in stallo.

Francesco Giavazzi

11 agosto 2011 08:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_11/giavazzi_incertezza-non-risparmia-nessuno_4642612e-c3d8-11e0-9d94-686c787ab248.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Agosto 27, 2011, 04:15:09 pm »

Berlino frena? Un'occasione

Paradossalmente, il rallentamento dell'economia tedesca potrebbe essere un'inaspettata fortuna per le sorti dell'euro.
Fino all'estate le condizioni dei Paesi dell'unione monetaria erano molto diverse. Da un lato la Germania cresceva, con conti pubblici solidi; dall'altro i Paesi della periferia (Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) erano fermi e la crisi di fiducia verso i loro titoli pubblici rischiava di mettere in pericolo la sopravvivenza dell'euro. Questa divergenza creava difficoltà per la Banca centrale europea: se la Bce faceva ciò che era bene fare per la Germania - permettere ai tassi di interesse di salire e non acquistare titoli pubblici della periferia per non accrescere la liquidità - la crisi dell'euro si aggravava. Se la Bce interveniva acquistando titoli pubblici dei Paesi periferici (fino a settimana scorsa sono stati acquistati 36 miliardi di titoli italiani e spagnoli), i tedeschi protestavano, anche perché con questi acquisti la Banca svolgeva un compito che dovrebbe essere estraneo alla politica monetaria.

Il temporaneo stallo dell'economia tedesca attenua questa contraddizione. Oggi una politica monetaria più espansiva va bene per Berlino e consente anche qualche sostegno ai Btp. I mercati lo hanno subito capito: il differenziale fra i titoli della periferia e i Bund è sceso, e l'euro si è un po' indebolito. Questa situazione favorevole apre una finestra, probabilmente breve, per fare quelle riforme che consentirebbero di uscire dalla crisi in cui l'unione monetaria versa da oltre un anno. Ma quali riforme?

Non passa giorno che non venga suggerita una nuova soluzione, tutte per lo più basate su qualche alchimia finanziaria. Sembra vi sia una gara tra politici ed economisti a suggerire la riforma più originale che, senza costi per nessuno (o magari solo per i tedeschi), risolva tutti i problemi dell'euro. La più frequentemente invocata sono gli Eurobonds, che si dovrebbe avere il coraggio di chiamare con il loro vero nome: una garanzia tedesca a gran parte del debito pubblico italiano e spagnolo. E ci stupiamo che i tedeschi non siano d'accordo?

Il problema di tutte queste proposte è che non affrontano la causa prima della crisi dell'euro: l'incapacità dei Paesi della periferia, Italia in primis , di crescere, con conti pubblici solidi. Non servono complessi piani finanziari che dovrebbero miracolosamente salvarci. Ciò che serve non richiede alcun piano europeo: ciascun Paese deve e può fare da solo, sia perché le riforme necessarie sono tutte interne, sia perché non sono le medesime per tutti.

Il primo pilastro è il rigore fiscale. Per favorirlo si è avanzata l'ipotesi di introdurre nella Costituzione una norma che imponga il pareggio di bilancio. È una soluzione che ha pro e contro. I primi sono ovvii. I secondi derivano dalla rigidità che una tale regola introdurrebbe nella politica fiscale. Durante una recessione è normale, anzi opportuno, che il bilancio vada in deficit, a patto che tali deficit siano compensati da surplus durante i periodi di crescita. Si potrebbe allora pensare ad una regola che imponga di mantenere in pareggio il bilancio corretto per il ciclo. L'obiezione è che subito si troverebbero modi per «correggere» il saldo di bilancio attribuendo alla recessione deficit che nulla hanno a che fare con il ciclo. Si potrebbe delegare il calcolo della correzione ad un'agenzia internazionale, l'Eurostat ad esempio, o la Bce. Ma è realistico ipotizzare che un Parlamento nazionale deleghi in modo credibile tali funzioni?

Come si vede quella delle regole fiscali e di bilancio non è una strada facile, ma dalla risposta a queste domande potrebbe dipendere la sopravvivenza dell'euro. Il secondo pilastro è la crescita. Per quanto riguarda l'Italia, la litania delle riforme necessarie - giustizia civile, criminalità, mercato del lavoro, privatizzazioni, una riforma fiscale che riduca le aliquote e allarghi la base imponibile, un federalismo che non si traduca nella libertà delle autonomie di spendere, pensioni di anzianità - è ormai nota a tutti. Imposta o meno «dallo straniero» - e il fatto che la Bce l'abbia ripetuta e ci abbia spinto in quella direzione può solo aiutarci - è l'unica ricetta. Intorno a Ferragosto pareva che un po' di «paura» avesse stimolato il dibattito politico nella giusta direzione. Ora la confusione è totale (e si riflette sugli spread: i titoli spagnoli hanno avuto un andamento migliore di quelli italiani). Invece di discutere di veri tagli di spesa e di riforme fiscali che aumentino il gettito riducendo le distorsioni, il dibattito all'interno della maggioranza e tra governo e opposizione si è ridotto ad una scelta tra varie tasse straordinarie: sui redditi, sulle case, sulla ricchezza, sui capitali rimpatriati.

E per aumentare la confusione, la Cgil poi proclama uno sciopero generale, quasi come un riflesso condizionato: c'e una manovra, non si sa bene quale ma non importa, quindi ci vuole uno sciopero. Insomma le condizioni sarebbero ideali: una crisi che ha creato urgenza, e uno spiraglio di calma
sul debito pubblico. Smettiamola allora di invocare Eurobonds salvatutti e rimbocchiamoci le maniche. Un momento così propizio potrebbe non ripetersi.

Alberto Alesina
Francesco Giavazzi

27 agosto 2011 08:56© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_27/alesina-giavazzi-germania-frena-occasione_9678d2f6-d06a-11e0-9089-e017081fffa0.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Settembre 22, 2011, 05:07:03 pm »

LA VERA EMERGENZA E' LA CRESCITA

Purché non sia tutto inutile

Se consideriamo i conti pubblici al netto degli interessi sul debito - il miglior indicatore della politica fiscale di un Paese - nel 2012 la Francia avrà un disavanzo pari al 2,4% del Prodotto interno lordo, l'Italia un avanzo del 2%. L'avanzo italiano sarebbe addirittura superiore a quello tedesco, stimato all'1,4%. Perché allora, se i nostri conti pubblici stanno tanto meglio di quelli francesi, Moody's sta considerando di declassare l'Italia e non la Francia? E perché i mercati sono tanto preoccupati per il nostro Paese?

Una risposta è che il debito italiano è molto più elevato di quello francese: 120% del Pil, contro 85 in Francia. Ma è una risposta solo in parte convincente. Quando un Paese ha accumulato molto debito non può ridurlo in pochi anni. Nessuno chiede all'Italia di fare miracoli: l'importante è che anno dopo anno il livello del debito scenda, e che la riduzione non si interrompa.
Ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito pubblico e il Pil. Anche se il debito rimane stabile, ma l'economia non cresce, il rapporto aumenta: la crescita (al denominatore) è importante quanto i conti pubblici (al numeratore). È la nostra incapacità di crescere e di attuare politiche che favoriscano la crescita ciò che davvero preoccupa le agenzie di rating e gli investitori. La storia dà loro ragione.

Tra il 1993 e il 1998 l'Italia attuò una manovra di bilancio di dimensione analoga a quella varata in questi giorni dal governo Berlusconi: una correzione dei conti pari a circa 6 punti di Pil. Anche quella fu una manovra prevalentemente dal lato delle tasse. Che cosa accadde? Nel 1993, dopo la famosa legge finanziaria del governo Amato, le famiglie italiane ridussero i loro consumi del 3%. E non si ripresero più: negli anni successivi i consumi, che prima crescevano in linea con il resto d'Europa, crebbero della metà. Anche gli investimenti rallentarono, non solo in assoluto (dal 3% l'anno all'1,8), ma anche nel confronto europeo. Ciò che crebbe fu la spesa pubblica: era il 43,2% del Pil nel 1990, oggi è il 46,7%. La lezione è che usare solo la leva delle tasse significa farsi del male: si ammazza l'economia, non si riduce il rapporto debito-Pil e si crea lo spazio per far lievitare la spesa pubblica.
Molti oggi auspicano un'altra tassa, la patrimoniale: sarebbe, nella migliore delle ipotesi, un'imposta inutile, nella peggiore fatale. Se l'Italia riprendesse a crescere il rapporto debito-Pil comincerebbe a scendere, anche senza patrimoniale.

Questo è ciò che si chiede all'Italia, non di dimezzare il debito di colpo. Una patrimoniale che riducesse il debito anche al 100% del Pil sarebbe totalmente inutile se non cambiasse il ritmo di crescita dell'economia. Ma una patrimoniale sarebbe esiziale per la crescita perché diffonderebbe la falsa impressione che le riforme non sono poi tanto urgenti. È proprio ciò che spera chi le riforme non le vuole perché metterebbero a rischio i propri piccoli e grandi privilegi. È questo il motivo per cui anche la Confindustria sta convertendosi alla patrimoniale?

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

19 settembre 2011 09:50© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_19/alesina-giavazzi-emergenza-crescita_f0603b0c-e27f-11e0-9b5b-a429ddb6a554.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Ottobre 18, 2011, 04:45:34 pm »

LE LOBBY E GLI INTERESSI PARTICOLARI

Crescita frenata da troppi monopoli


Finora per la crescita ha fatto di più Sergio Marchionne, annunciando l'uscita di Fiat da Confindustria, del governo, che punta su una nuova linea ad alta velocità da Lecce a Trieste. Perché non è la mancanza di infrastrutture a impedirci di crescere - almeno non in primo luogo - ma i mille interessi particolari che da decenni impediscono le riforme. E Confindustria è uno di questi.

Una Confindustria non esiste negli Stati Uniti: la National Association of Manufacturers è solo una delle molte lobby attive a Washington, mentre il Business Roundtable è un luogo prestigioso di analisi e dibattito, non di trattative centralizzate. Una Confindustria non esiste più nemmeno in Gran Bretagna, almeno non nella forma di simili associazioni dell'Europa continentale. Sembra esistere soprattutto in Paesi ad alta disoccupazione.

Un conto è la libertà di associazione, di proposta, di lobby, la promozione trasparente di interessi specifici, un altro è sedersi al tavolo con il governo per «concertare» le leggi, contrattando dei « do ut des » con la pretesa di avere il monopolio degli interessi di tutte le imprese.

Undici anni fa, nel giorno in cui Confindustria elesse suo presidente Antonio D'Amato, scrissi su queste colonne che la cosa migliore che gli industriali potevano fare per dare una scossa all'Italia era riformare la loro associazione in modo radicale. Finché Confindustria parteciperà al tavolo della concertazione, giustamente i sindacati nazionali reclameranno il diritto di sedersi anch'essi a quel tavolo. E le politiche continueranno a essere concertate non per il bene dei cittadini, ma dei gruppi di interesse che Confindustria e sindacati rappresentano. In un decennio Confindustria è cambiata, ma nel senso opposto: le cinque maggiori imprese associate oggi sono monopoli, pubblici o privati: Ferrovie, Poste, Enel, Telecom, Eni. In Confindustria comandano, ma con quale credibilità rappresentano gli interessi delle mille piccole e medie imprese che tengono in piedi questo Paese? Con quale credibilità si può parlare di liberalizzazioni e privatizzazioni, dalla distribuzione di gas ed energia elettrica, alle farmacie, alle professioni?

La vicenda dell'articolo 8 della recente manovra finanziaria è sintomatico. La proposta originale del ministro Sacconi prevedeva che imprenditori e lavoratori potessero firmare accordi aziendali senza sottostare ai vincoli imposti dai contratti nazionali. La norma approvata consente ancora la deroga ai contratti nazionali, ma richiede che l'accordo fra lavoratori e impresa sia negoziato e approvato da un sindacato nazionale. Si dice per proteggere i lavoratori delle piccole imprese. Io penso che sia piuttosto per garantire la sopravvivenza dei sindacati nazionali.

E da che parte è stata Confindustria? Da quella dei sindacati, evidentemente. Non credo perché improvvisamente abbia a cuore i lavoratori delle piccole aziende, ma perché un'associazione degli industriali si giustifica solo se vi sono dei sindacati nazionali altrettanto potenti.

Francesco Giavazzi

18 ottobre 2011 09:39© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_18/crescita-frenata-da-troppi-monopoli-francesco-giavazzi_3065cdb6-f946-11e0-bc4b-5084eabf7820.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:32:55 pm »

Un'agenda possibile

Una caratteristica distintiva del programma della grande coalizione che speriamo nasca in Parlamento dovrà essere l'equità delle riforme contemplate. Maggiore sarà l'equità, più accettabili saranno quelle riforme ai cittadini. E tanto più saranno eque, tanto più ampia sarà la maggioranza che sosterrà il governo. Tutti sono favorevoli all'equità, ma verso chi, e come?

In passato i governi hanno cercato una certificazione dell'equità delle riforme al tavolo della concertazione: equità fra lavoratori dipendenti e autonomi, fra impiegati pubblici e privati, fra lavoratori e pensionati, ciascuno rappresentato e difeso da un sindacato o da un'associazione, professionale o industriale. Il problema è che a quei tavoli sono rappresentate solo le componenti relativamente forti della nostra società, quelle appunto che hanno la forza di associarsi. Il risultato è un'accozzaglia di privilegi che poi diventa molto difficile scalfire: impiegati pubblici che per decenni sono andati in pensione prima dei privati, e con salari che crescevano di più senza corrispondenti aumenti di produttività; sussidi a questo o quel settore industriale, privilegi per questa o quella categoria professionale; protezione contro la concorrenza per chi deteneva quote di mercato già ampie; sussidi al Sud che nulla hanno fatto se non consolidare l'assistenzialismo e scoraggiare l'attività imprenditoriale, creando al Nord un risentimento su cui la Lega ha fatto presa.

La concertazione ha creato l'esatto opposto dell'equità: i veri deboli non siedono a quei tavoli. Essere «equi» significa chiedersi quale sia l'effetto delle riforme sui giovani, sulle donne, sugli immigrati. Stiamo consegnando ai nostri figli una società indebitata, in cui il loro inserimento nel mondo del lavoro è sbarrato da mille ostacoli. Le donne italiane sono quelle che in Europa meno partecipano al mondo del lavoro, non solo per motivi culturali, ma anche fiscali. Perché non tassarle di meno per favorire questa fantastica risorsa sprecata? Il futuro di una società in cui nascono così pochi bambini dipende dalla capacità di integrare i nuovi cittadini: non trattarli equamente è un modo sicuro per rendere più difficile la loro integrazione.

Equità significa anche distribuire il carico fiscale in maniera giusta. Da più parti, immaginiamo quasi all'unanimità, si proporrà la scorciatoia di un'imposta una tantum sul patrimonio. Con due obiettivi. Primo: ridurre in fretta il debito. Secondo: aumentare l'equità colpendo i ricchi. Sarebbe un errore su entrambi i fronti. I mercati non si aspettano una riduzione immediata del rapporto fra debito e prodotto interno lordo (Pil): chiedono un cambiamento nella dinamica di quel rapporto, che dipende dalla differenza tra costo del debito e crescita. Un pacchetto di riforme credibile per la crescita abbasserebbe lo spread , invertendo la dinamica di tassi di interesse e crescita: il rapporto debito-Pil comincerebbe a scendere, lentamente, ma in modo durevole. Una patrimoniale invece avrebbe l'effetto opposto.

Una patrimoniale ammazzerebbe la crescita facendo probabilmente aumentare il rapporto debito-Pil, dopo una momentanea riduzione. È un'esperienza che abbiamo già vissuto dopo il 1992 con il governo Amato: in quegli anni le privatizzazioni ridussero il rapporto debito-Pil di oltre dieci punti, ma poiché non si fece nulla per la crescita, nel decennio successivo quel beneficio ce lo siamo mangiati. Non solo, una patrimoniale sarebbe come dire: «Siamo nel panico, parliamo tanto di crescita, ma la sola cosa che sappiamo fare è confiscare un po' di soldi agli italiani». Molto probabilmente gli spread salirebbero invece che scendere. Quanti condoni e misure una tantum abbiamo varato negli ultimi anni, con un approccio ragionieristico ai conti pubblici? Innumerevoli. Quale è stato il loro effetto sul rapporto debito-Pil? Nessuno.

La via per garantire equità non sono misure una tantum. Se si pensa che in Italia le tasse colpiscano più alcuni che altri (ed è certamente vero), si faccia una riforma fiscale spostando il peso delle imposte in modo permanente, non una tantum . E lo si faccia ostacolando la crescita il meno possibile. Per esempio si cominci allargando la base imponibile, riducendo elusione ed evasione (e anche molte detrazioni), si tassino meglio le rendite finanziarie, si reintroduca l'Ici sulla prima casa, lasciandone gestione e incasso ai Comuni. Si potrebbe pensare anche a una Ici progressiva, più alta per le case più costose. Si faccia una riforma fiscale, ma la si faccia con calma, coerenza e non una tantum lasciando inalterati i vizi strutturali del nostro sistema impositivo. Si tassino i ricchi certo, più dei meno abbienti, ma non si demonizzi la ricchezza, soprattutto quella costruita creando lavoro e benessere per la società. Gli imprenditori onesti, che sono la gran parte, non sono parassiti. Se mai lo sono quelli che si aggirano nei ministeri cercando questo o quel sussidio spesso mascherato come una misura di equità. Come scriveva Luigi Einaudi: «Nei Paesi dove le imposte sono davvero "democratiche", cioè esentano i redditi necessari all'esistenza, tassano poco, ma pur tassano, i redditi mediocri e tassano progressivamente sempre più fortemente i redditi grossi a mano a mano che si ingrossano, non si parla di imposte straordinarie patrimoniali».

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

14 novembre 2011 10:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_14/un-agenda-possibile-editoriale_bbce0c64-0e87-11e1-98bb-351bac11bfea.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Dicembre 21, 2011, 06:06:58 pm »

LIQUIDITÀ DALLA BCE AGLI ISTITUTI DI CREDITO

La Banca centrale non è la soluzione


Oggi la Banca centrale europea (Bce) offrirà agli istituti di credito dell'eurozona liquidità in misura illimitata. Le banche cioè potranno ottenere dall'istituto di Francoforte tutta la liquidità che desiderano e per di più ad un tasso molto favorevole: 1 per cento per tre anni.

Alcuni ritengono che questa operazione (ripetuta il primo marzo) consentirà alle banche di ricominciare a far credito alle imprese, attenuando così la recessione che è alle porte. Altri invece prevedono che gli istituti di credito, attratti dalla differenza fra il costo del denaro cui possono attingere a Francoforte e il rendimento dei Btp (oggi prossimo al 7%), useranno la liquidità per acquistare titoli pubblici. Il governo e la Banca d'Italia potrebbero esercitare la loro moral suasion sulle banche, ma non è chiaro che cosa preferiscano: che usino la liquidità per aiutarli nelle aste dei Btp, o per ripristinare linee di credito alle imprese?

La realtà è diversa. L'operazione della Bce non sarà una panacea, né per le imprese, né per il Tesoro, almeno non in Italia, e non per le nostre banche maggiori. Per far credito ai suoi clienti o per acquistare Btp, una banca non solo deve avere la liquidità necessaria: deve anche disporre di sufficiente capitale, oltre quello già impiegato in precedenti prestiti. Ogni prestito infatti comporta dei rischi: il cliente potrebbe non rimborsarlo e i Btp potrebbero perdere valore, come è accaduto nei mesi recenti. Per far fronte ai nuovi rischi che si assume, la banca deve avere abbastanza capitale «libero». Se non ne dispone, la liquidità serve a poco, anzi quasi a nulla.

Il guaio è che le banche italiane oggi hanno poco capitale libero, soprattutto quelle che in passato hanno acquistato molti titoli pubblici, perché la caduta dei prezzi dei Btp ha consumato capitale. L'Autorità bancaria europea (Eba) stima che nel loro insieme i primi cinque gruppi bancari italiani (che erogano il 62% di tutto il credito) abbiano bisogno di 15,4 miliardi di nuovo capitale solo per far fronte ai rischi assunti in passato. Nel sistema quindi c'è poco spazio sia per nuovi prestiti sia per acquisti di titoli pubblici.

La situazione non è però la stessa in tutte le banche. Quelle che hanno meno capitale libero sono le maggiori: ma queste sono le stesse che hanno più difficoltà a varare aumenti di capitale. I loro padroni, le Fondazioni bancarie, non hanno più risorse, ma si oppongono all'ingresso di azionisti esterni che ne diluirebbero il controllo. Forse anche ai loro azionisti si riferisce il presidente della Bce quando ripete che «molte banche devono rafforzare il loro capitale».

Diverso è il caso delle aziende di credito minori. In passato, anziché acquistare Btp, hanno finanziato i loro clienti, e ora hanno sufficiente capitale libero, ma non la liquidità necessaria per fare nuovi prestiti. Oggi la Bce, rivedendo le regole sulle garanzie che chiede per fornire liquidità, risolve questo problema. Veneto Banca, ad esempio, l'istituto di Montebelluna, potrà aumentare i prestiti ai propri clienti, ma altrettanto non potrà fare Unicredit, i cui clienti purtroppo sono molti di più. Per attenuare la recessione che è alle porte, la Bce può contribuire, ma pensare che passi per Francoforte la soluzione dei nostri problemi è un'illusione. Non esistono scorciatoie finanziarie. Servono quei provvedimenti per la crescita per troppo tempo rimandati. E servono subito.

Francesco Giavazzi

21 dicembre 2011 | 14:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_21/banca-centrale-no-soluzione-giavazzi_0d672a12-2b9b-11e1-92c6-0bc88599d431.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Marzo 17, 2012, 04:05:11 pm »

L’emergenza non è finita

Nell’audizione alla Camera sulle liberalizzazioni, il presidente del Consiglio ha giustamente ricordato ai deputati della Lega Nord che la riduzione dello spread fra Italia e Germania, ieri sceso a quota 282, non è solo merito della Bce: una parte non piccola riflette la fiducia di cui gode il governo nei mercati finanziari internazionali. Paradossalmente è proprio questa fiducia il nostro maggior fattore di rischio. Innanzitutto perché ha fatto venire meno l’urgenza. In dicembre il decreto salva Italia fu varato dal governo e approvato dal Parlamento in due settimane. Pochi giorni dopo, il 29 dicembre, il presidente del Consiglio annunciò che liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro sarebbero state varate entro gennaio.

Siamo a metà marzo: il decreto sulle liberalizzazioni attende ancora la definitiva approvazione da parte del Parlamento e le norme sul mercato del lavoro non sono state ancora portate in Consiglio dei ministri. Non è solo una questione di calendario. Più i tempi si dilatano, più le corporazioni che con queste norme si vorrebbero colpire riescono a organizzarsi per evitarle. Il decreto cresci Italia ne è l’esempio. Il provvedimento che verrà approvato è un’immagine molto sbiadita dell’afflato liberista che ispirò il primo testo del governo. Valga per tutti il compromesso sulla separazione della rete di distribuzione dal gas dall’Eni: dovrà avvenire non prima del settembre 2013, quando questo governo non ci sarà più. Al prossimo sarà sufficiente un decreto di poche righe per cancellare tutto. Come fa un investitore che deve scommettere su un cambio di passo dell’Italia a fidarsi? La fiducia sta creando le condizioni per la sua stessa dissoluzione.

Il risveglio potrebbe essere brusco. Mentre il governo continua a costruire i propri programmi sull’ipotesi che l’economia nel 2012 si contragga dell’ 1 per cento, il Fondo monetario internazionale prevede un -2,2% e i maggiori investitori internazionali una forchetta fra -2%, nell’ipotesi più favorevole, e -4% in quella meno favorevole, con una mediana di -3%. Con questi numeri il deficit rimarrà sopra il 4% del Pil e il debito ricomincerà a crescere. Come lo spieghiamo a quegli stessi investitori e ai nostri partner tedeschi, ai quali abbiamo ripetutamente promesso il pareggio di bilancio nel 2013? C’è un solo modo per uscire da questo guaio. Convincerli che la recessione del 2012, per quanto grave, è un fatto transitorio e che le norme che stiamo approvando segneranno davvero un cambio di passo. Bruciata, purtroppo, la carta delle liberalizzazioni, rimane solo la riforma del mercato del lavoro.

Il ministro Fornero ha pronto un testo incisivo, che prevede da subito interventi volti a eliminare la segmentazione tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, e che modifica immediatamente l’articolo 18 per i nuovi assunti. Su queste norme si gioca il futuro del governo e del Paese. Se le pressioni corporative o i suoi colleghi ministri dovessero chiederle un passo indietro, Elsa Fornero dovrebbe, con lo stile e la determinazione che la caratterizzano, abbandonarli al loro destino.

Francesco Giavazzi

17 marzo 2012 | 9:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_17/giavazzi_emergenza_non_finita_fa7eaa9c-6ffb-11e1-a5a4-3511fb610746.shtml
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« Risposta #73 inserito:: Marzo 17, 2012, 04:06:29 pm »

DOPO l'EDITORIALE

E Monti replica a Giavazzi «Eccesso di impazienza»

Il premier: le liberalizzazioni non sono «bruciate»


MILANO - Parla del suo amico, collega e autorevole economista che però «dá un esempio di eccesso di impazienza quando sul Corriere scrive cose imprecise che disorientano completamente chi voglia valutare». Il presidente del consiglio Mario Monti, al convegno di Confindustria a Milano, torna sull'editoriale del Corriere della Sera a firma di Francesco Giavazzi dal titolo «L'emergenza non è finita».

LE CRITICHE - «L'impazienza è atteggiamento ben giustificato - precisa Monti - quando ci si trova di fronte a situazione complessa che richiede interventi rapidi, ma bisogna tuttavia essere realistici nell'osservare le cose. Piccole cose sbagliate perché - osserva - è bene per noi governo sentire la frusta dell'impazienza intellettuale, ma è troppo comodo per noi se quella frusta perde un po' di autorità perchè è imprecisa. Il 29 dicembre il presidente del Consiglio annunciò che le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro sarebbero state varate entro gennaio». Ed è proprio a gennaio che il decreto viene adottato dal Consiglio dei ministri. «Dipende che cosa significa varate - aggiunge Monti, leggendo alcuni stralci dell'editoriale - la settimana prossima ci sarà l'approvazione definitiva da parte del Parlamento. Penso che anche Giavazzi ricordi che il decreto legge ha i suoi tempi. Rispetteremo il termine di fine marzo per riforma lavoro».

LA DIFESA - Poi la difesa del ministro del Lavoro Elsa Fornero che «non abbandonerà il governo Monti al suo destino - ha aggiunto Monti. - Credo che il ministro non possa abbandonarci al nostro destino, anche perché martedì siederò al suo fianco per presiedere la riunione con le parti sociali».

Redazione Online

17 marzo 2012 | 14:02© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_marzo_17/monti-giavazzi-replica_0ef016b8-702a-11e1-a5a4-3511fb610746.shtml
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« Risposta #74 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:22:50 pm »

Politica e corporazioni

Domande senza risposta

I problemi dell'Italia si possono osservare da due diverse prospettive: da Roma, come da tutte le capitali, appare in primo piano la politica. Ovviamente non mi riferisco ai ministri di questo governo, ma a quei politici che parlano del futuro dell'Italia e in realtà pensano solo al futuro proprio, a quale posto riusciranno a occupare nel prossimo giro della giostra romana. Si stracciano le vesti se il governo usa il voto di fiducia per evitare che alcuni provvedimenti vengano del tutto svuotati di efficacia in Parlamento: in realtà temono solo che il voto di fiducia annulli il loro potere di intermediazione fra governo e corporazioni. Alti dirigenti dello Stato che asseriscono l'impossibilità di tagliare anche di un solo euro la spesa pubblica, difendono l'assoluta necessità dei 30 miliardi che ogni anno lo Stato trasferisce ad imprese pubbliche e private: tutti essenziali, e soprattutto quelli destinati alle aziende nei cui consigli di amministrazione essi siedono da anni.

Da questo osservatorio si rischia di confondere le corporazioni (lo sono anche Confindustria e i sindacati) con le istituzioni.
È un ambiente dal quale è impossibile estirpare il virus della corruzione. Un mondo nel quale diventa persino difficile nominare il direttore generale del Tesoro, incarico (come ricordai sette settimane or sono) forse ancor più delicato di quello di Governatore della Banca d'Italia, e un nodo che il presidente del Consiglio non è ancora riuscito a sciogliere.

Diversamente si può guardare l'Italia da un'altra prospettiva: quella degli investitori che hanno acquistato il nostro debito pubblico e ogni giorno si chiedono se sia ancora un buon impiego dei risparmi che sono stati loro affidati. Essi non risiedono solo a Milano, Londra o New York, ma anche a Omaha, Nebraska, dove ha sede la società di Warren Buffet, uno dei più abili investitori al mondo, a Oslo e a Singapore, dove hanno sede grandi fondi sovrani.

Peraltro non c'è bisogno di spostarsi tanto lontano per avere una prospettiva diversa sui problemi italiani: è sufficiente recarsi a Palermo e fare una chiacchierata con Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali siciliani. Da anni ripete che ogni euro di spesa pubblica è un colpo alla concorrenza, agli imprenditori che cercano di farcela da soli, e invece un aiuto a quelli più abili nel percorrere i corridoi dei ministeri che a esportare. Ci si può anche chiedere come reagiranno i cittadini tedeschi quando leggeranno che l'Italia, dopo essersi ripetutamente (e a mio avviso incautamente) impegnata al pareggio di bilancio nel 2013 - senza mai aggiungere «se il ciclo lo consentirà» - dovrà rivedere i propri obiettivi e spostare in là nel tempo quell'impegno.

Da questi osservatori appare chiaro che le difficoltà non stanno nei problemi da risolvere, ma nel mondo che a Roma s'interpone fra il problema e la sua soluzione.

Non c'è dubbio che Mario Monti sia in assoluto la persona che meglio conosce e apprezza le preoccupazioni degli osservatori internazionali, preoccupazioni che riprendevo nel mio articolo del 17 marzo («L'emergenza non è finita») e che il premier sabato ha accusato di eccessiva impazienza. Capisco le difficoltà di fare fronte a quell'emergenza. Ma anche Prometeo per regalare il fuoco e la speranza agli uomini fu condannato al supplizio...

Francesco Giavazzi

20 marzo 2012 | 8:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_20/domande-senza-risposta-francesco-giavazzi_941d5f78-7253-11e1-a140-d2a8d972d17a.shtml
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