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Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 137297 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Settembre 09, 2013, 09:03:57 am »

politica
08/09/2013

“Il Pd? Sono il garante, non mi schiero Su Berlusconi il partito è compatto”

Il segretario Epifani: “Credo che alle primarie Letta sarà super partes”. “Renzi è sicuro che fare il segretario sia il lavoro per lui?
Gli voglio parlare”


Federico Geremicca
iNVIATO A GENOVA


Mercoledì 11 settembre, data e anniversario diversamente noti, faranno quattro mesi. Infatti lo nominarono segretario l’11 maggio: e per convincerlo ad accettare, gli assicurarono che - in fondo - si trattava semplicemente di «traghettare» il partito verso il Congresso. Già, semplicemente: che vuoi che sia? 

 

Da quel giorno, invece, sulla testa di Guglielmo Epifani - uno che pure, per la vita che ha fatto, non si spaventa di niente - è piovuto praticamente di tutto: e non solo non è finita, ma il peggio - forse - deve ancora venire. Lui ovviamente lo sa, eppure in questo afoso pomeriggio genovese spiega che non ha pentimenti, anzi: «Quattro mesi difficili, complessi, ma esaltanti. Una esperienza irripetibile. Mi è stato affidato un partito comprensibilmente scosso e ferito: piano piano mi pare ci stiamo rialzando».

 

Sono le quattro del pomeriggio, e al bar di un elegante hotel non lontano dal mare, Guglielmo Epifani si intrattiene con Lucia Annunziata, chiamata ad intervistarlo in chiusura della Festa nazionale di Genova. Nonostante Renzi, le fibrillazioni nel partito e questa terribile settimana che si apre nel segno della battaglia su Berlusconi, il segretario sembra di buon umore: tanto che nemmeno si inalbera quando gli vien posta una domanda dalle mille implicazioni. Ma lei, alle primarie, alla fine voterà per Cuperlo, per Renzi o per chi?

«Ma che domanda è? La mia storia - dice - è nota, parla da sola, sono uno di sinistra, vengo da lì... Ma il partito mi ha chiamato ad un ruolo di garante, il mio compito finisce solo col congresso e dunque ne parleremo più in là». Si ferma un attimo, poi aggiunge: «Non cerco protagonismi. Del resto, se avessi voluto giocare la partita, avrei accettato di candidarmi quando in tanti me l’hanno chiesto. Il mio problema, invece, è solo portare il Pd a congresso: anzi, al miglior congresso possibile».

 

Ma poiché le cose non sembrano andare precisamente in quella direzione, il segretario-garante-traghettatore, non nasconde qualche preoccupazione. L’impetuosa avanzata di Renzi nel Pd, infatti, ha fatto tornare d’attualità la parola più temuta in qualunque partito: scissione. Gli equilibri interni paiono saltare, il sindaco di Firenze e i suoi sostenitori (troppo semplicemente catalogati come ex dc...) potrebbero ottenere alla primarie percentuali cosiddette bulgare e, a quel punto, la convivenza sarebbe difficile, se non proprio impossibile.

A far saltare gli equilibri, secondo molti osservatori, è stato il passaggio di Dario Franceschini da un fronte all’altro. Pare che Epifani non fosse stato informato; e che Letta - consultato dal suo ministro - avesse addirittura cercato di fermarlo. Fatto sta che molti, nel Pd, hanno interpretato la mossa di Franceschini come la conferma che la partita congressuale sia già finita. Col risultato, tra gli altri, di mettere lo stesso presidente del Consiglio in una situazione delicata. Voterà anche lui per Renzi - ha pronosticato D’alema -. Un premier non può finire in minoranza nel suo partito...».

 

Epifani riflette, non è convinto. «Credo che Enrico si ritaglierà un ruolo super partes - dice -. E credo anche che sia giusto così. Con Matteo, però, ci voglio parlare. Non deve esagerare, penso non convenga nemmeno a lui... Ma anche Cuperlo può correggere un po’ la rotta, allargare l’orizzonte, uscire da quello che viene descritto come il recinto degli ex ds, arricchire la nostra dialettica».

Problemi. Altro che semplicemente traghettare. Problemi sintetizzabili in due nomi e due cognomi: Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Epifani non fa mistero di esser rimasto un po’ sorpreso dall’annuncio di candidatura alla segreteria da parte del sindaco di Firenze. Pensavo fosse un tipo di impegno che non gli interessasse, e forse non sa quello che lo attende. Le casse del partito languono, in periferia si moltiplicano le divisioni, c’è il problema dell’Unità da affrontare... Si tratta di faticare quattordici ore al giorno per ricostruire quel che c’è da ricostruire. E’ sicuro di averne voglia, è sicuro che sia lavoro per lui?».

 

Ma Renzi è un problema in divenire, e c’è ancora tempo davanti per cercare di sistemare quel che si può sistemare. La battaglia su Berlusconi, invece - lo scontro finale di una guerra durata vent’anni - entra nel vivo domani, e in ballo ci sono un mucchio di cose: il rispetto delle leggi e la tenuta del governo, i rapporti col Quirinale e il rischio di finire dritti dritti ad elezioni anticipate. Tutto vero: partita complessa. Ma Epifani è certo che la via imboccata dal Pd sia quella giusta.

Diciamo imboccata dal Pd, ma dovremmo dire imboccata da lui, un segretario - per altro - che non ha davvero nulla del leader «decisionista». «Un’ora dopo l’annuncio della sentenza di Milano - ricorda - ho detto quel che andava detto: che le sentenze prima si rispettano e poi si applicano. Ho tenuto, abbiamo tenuto, la barra dritta: nessuna oscillazione, qualcuno si aspettava divisioni nel Pd ma la linea non è mai cambiata».

 

Merito, largamente, del «traghettatore»: riferimento sorprendentemente sereno e sicuro in un Pd spazzato dalla tempesta. E ora Epifani riflette sulle prossime mosse da fare, a partire da domani, dalla riunione della Giunta. «Siamo un partito garantista - ripete - non abbiamo fretta, non abbiamo preconcetti e il Cavaliere potrà difendersi e spiegare le sue ragioni. Ma come ha detto Bersani e come dico anch’io, concederemo a Berlusconi nulla di meno ma nulla di più di quel che concederemmo a uno dei nostri». «Uno dei nostri» era la ministra Idem, dimissionaria in 48 ore per l’Imu (tremila euro) non pagata. Un precedente non proprio rassicurante per Silvio Berlusconi... 

da - http://lastampa.it/2013/09/08/italia/politica/il-pd-sono-il-garante-non-mi-schiero-su-berlusconi-il-partito-compatto-gURzI9hRX8yJW7iOZ7sv4J/pagina.html
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« Risposta #226 inserito:: Settembre 11, 2013, 11:37:37 pm »

Italia
11/09/2013 - Il Pd

“A Silvio non conviene la crisi”

I democratici tirano dritto

Ma il voto rinvierebbe il congresso

E Renzi sfiderebbe Letta solo per la premiership

Federico Geremicca
Roma


Qualcuno usa l’immagine della corda: «Il Pdl sta tirando la corda, ma non la spezzerà» (Cesare Damiano). La maggioranza, però, preferisce quella della pistola: cioè la pistola che Silvio Berlusconi avrebbe puntato contro il governo, pronto a sparare in caso di decadenza. Pistola scarica, dicono i democratici. E se anche - invece - fosse carica e il Cavaliere sparasse, si tratterebbe né più né meno che di un suicidio... 

 
A Largo del Nazareno ieri si è vissuto un altro lunghissimo giorno d’attesa, un occhio alle agenzie per capire se qualcosa andava mutando nella linea del Pdl, l’ennesimo giro di passaparola circa la linea da seguire («Approfondimenti sì, manovre dilatorie no»), contatti ripetuti di Guglielmo Epifani con Enrico Letta (e di Letta con Alfano ed un paio di ministri Pdl) e con qualcuno dei membri della sua segreteria. Nessuna smagliatura, nessuno smarcamento e partito unito su una linea che, dal giorno della sentenza della Corte di Cassazione, non è mai più cambiata.
 

In fondo - e paradossalmente, considerato il fatto che si passeggia sull’orlo del burrone - un’attesa che si potrebbe definire perfino serena, se ci si intende sul termine. Le ragioni di tale imprevedibile serenità sono diventate, negli ultimi tesissimi giorni, via via più chiare. Più chiare non solo agli osservatori di cose politiche, ma anche al Pdl, che infatti ha definitivamente smesso ormai da una settimana di sperare in un cambio di rotta dei democratici.
 
 
Intanto, il fatto di esser di fronte - praticamente - ad una scelta non solo condivisa da tutto il Pd, ma praticamente obbligata: l’idea di «salvare» Berlusconi con un voto in giunta diverso da quello del sì alla decadenza, non è mai stata presa in considerazione, essendo considerata una sorta di suicidio politico-elettorale. Il pressing di Grillo - pronto a sfruttare qualunque sbandamento del Pd - e gli umori di una già insofferente «base democratica» hanno reso del tutto impossibile il solo ragionare su ipotesi diverse dal sì alla decadenza di Silvio Berlusconi.

 
Si è ragionato a lungo, naturalmente, anche sulle conseguenze che una simile scelta avrebbe potuto (potrebbe) determinare: e da tale ragionamenti la giustezza (l’inevitabilità) della linea scelta è uscita confermata. Berlusconi apre la crisi? Epifani continua a non credere che finirà così: per la semplice ragione che una crisi di governo non solo non risolverebbe i problemi giudiziari del cavaliere ma - con ogni probabilità - porterebbe ad assetti di governo ancor meno favorevoli per il Pdl. Se poi la crisi non approdasse - nonostante gli sforzi di Napolitano - ad un qualche nuovo esecutivo ma ad elezioni in tempi brevi, questo - è la convinzione del Pd - non sarebbe la peggiore delle tragedie...

 
Già nelle settimane scorse, infatti, quando il pressing del Popolo della libertà aveva due obiettivi (Imu e «agibilità politica» per Berlusconi) e su entrambi veniva minacciata la crisi, Enrico Letta e i vertici del Pd avevano fatto la loro scelta: se il governo deve cadere, meglio succeda sulla decadenza del cavaliere che sul terreno delle tasse, da sempre campo elettoralmente minato per i democratici. Non solo: una eventuale crisi dell’esecutivo aprirebbe al Pd - in fondo - prospettive non sgradite.

 
Un precipitare della situazione verso elezioni anticipate, infatti, avrebbe come effetto collaterale un rinvio a dopo il voto del Congresso democratico: il che permetterebbe allo stato maggiore Pd di evitare lo sfondamento di Matteo Renzi e la sua conquista del partito. E non basta: questo scenario, infatti, starebbe benissimo anche al giovane sindaco di Firenze, che potrebbe sfidare Enrico Letta (e magari altri) nelle primarie per la scelta del futuro candidato-premier, suo obiettivo più o meno dichiarato. E poi? E poi, appunto, le elezioni: per le quali - al momento - non c’è sondaggio che non veda Renzi largamente vincitore su Silvio Berlusconi e - a maggior ragione - su qualunque altro candidato del Popolo della libertà.

 
È per tutti questi motivi (più o meno inconfessabili) che in Largo del Nazareno si guarda con una qualche forma di paradossale serenità alle ore a venire ed alle possibili mosse del Cavaliere. Vuole spezzare la corda? La spezzi. Non è il Pdl che può riservare sorprese al Pd ed alle sue strategie di battaglia. Non è da lì che si temono intralci e bastoni tra le ruote. Ancora una volta, è al Colle che si guarda. Al Colle ed alla sua strenua difesa della stabilità di fronte al perdurare della crisi. Una linea che il Pd conosce bene. Fin dal novembre del 2011, quando - caduto Berlusconi - invece che il voto, Pier Luigi Bersani trovò in regalo le larghe intese e Mario Monti...

da - http://lastampa.it/2013/09/11/italia/politica/a-silvio-non-conviene-la-crisi-i-democratici-tirano-dritto-pafTTbfQA7ZqJkU9Nssu1O/pagina.html
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« Risposta #227 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:39:14 pm »

Editoriali
28/09/2013

Appesi a un filo

Federico Geremicca

L’immagine è certamente abusata, ed è quella del muro contro muro: ma stavolta davvero non ce ne è altre in grado di fotografare il punto - drammatico - cui è giunta la situazione. A cinque mesi esatti dal suo insediamento (28 aprile) il governo di Enrico Letta appare, infatti, appeso a un filo. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha deciso di sospendere ogni attività in attesa del chiarimento reclamato dal premier dopo le dimissioni annunciate dai gruppi parlamentari del Pdl in caso di decadenza di Silvio Berlusconi: e testimoni raccontano che nella sala del governo lo scontro tra i ministri sarebbe stato durissimo.

 

Dopo settimane di scontri e tensioni, il clima di sfiducia reciproca si è fatto ormai palpabile, e perfino i rapporti personali sembrano irrimediabilmente compromessi. Entro metà settimana il chiarimento arriverà nelle aule parlamentari, e il voto di fiducia che sarà richiesto da Enrico Letta rappresenterà un «momento della verità» oggettivamente non più rinviabile. Il blocco dell’aumento dell’Iva, intanto, è stato congelato in attesa dell’indispensabile verifica tra i due principali partiti della maggioranza. 

Il Pdl annuncia manifestazioni di piazza per il 4 ottobre - giorno in cui tornerà a riunirsi la Giunta per le elezioni del Senato - e il Pd pare aver rotto gli indugi: così non si può continuare, ha confidato Epifani ai suoi, se Berlusconi vuole la crisi lo dica, noi siamo pronti. 

 

Il vero punto di svolta, in una giornata tesa come non si ricordava da tempo, è stato rappresentato, forse, dal cambio di passo dei due presidenti - Napolitano e Letta - che hanno considerato non più tollerabili gli attacchi e i quotidiani aut aut del partito di Berlusconi. Che qualcosa si fosse incrinato nella proverbiale pazienza del Capo dello Stato, del resto, lo si era intuito dal tono col quale aveva denunciato - in mattinata a Milano - il venire meno perfino del «rispetto personale», oltre che istituzionale. Nell’incontro poi avuto a metà pomeriggio con Enrico Letta, il Presidente ha potuto apprezzare come anche per il capo del governo un chiarimento definitivo non fosse più rinviabile.

 

A questo punto, il bivio che si profila è drammaticamente chiaro: se quello del Pdl (con il preannuncio di dimissioni di massa) è solo un bluff per tentare di ottenere in extremis quella che da settimane viene definita l’«agibilità politica» di Silvio Berlusconi, il governo in qualche modo potrà serrare le file e andare avanti; in caso contrario, la crisi diventerà inevitabile e il Paese si ritroverà nuovamente a un passo da possibili elezioni anticipate. Un voto al quale si andrebbe, naturalmente, nelle peggiori condizioni possibili: senza una nuova legge elettorale (e dunque con la quasi certezza del riproporsi di una situazione di difficile governabilità), con il Paese tutt’ora nel piena di una difficilissima congiuntura economica e con la possibilità (il rischio) che l’ondata di discredito e disaffezione nei confronti della politica faccia il resto.

 

Non erano questi, naturalmente, gli orizzonti e gli obiettivi che si immaginavano per il pur sofferto e anomalo governo delle «larghe intese»: ma era precisamente questo, invece, il possibile epilogo che il Colle e il presidente del Consiglio temevano mentre chiedevano al Pdl ed al suo leader di separare le vicende giudiziarie di Berlusconi dall’attività di governo e dalla sua tenuta. Non lo si è voluto fare, oppure è risultato impossibile farlo: il risultato, purtroppo, non cambia. Il Paese si ritrova di nuovo ad un passo dal baratro: e l’alternativa tra nuove elezioni o l’insediamento di un governo ancor meno coeso e credibile di quello attuale, piuttosto che suscitare entusiasmi solleva pesanti e comprensibili preoccupazioni... 

da - http://www.lastampa.it/2013/09/28/cultura/opinioni/editoriali/appesi-a-un-filo-2yRKpAHknm3iftPW4g47JJ/pagina.html
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« Risposta #228 inserito:: Ottobre 13, 2013, 05:14:22 pm »

italia

13/10/2013 - reportage

Sfida di Renzi: “Non faccio il piacione, di sinistra: non si può dire sempre sì”

Renzi: sul carro del vincitore non si sale, si spinge

Il sindaco prende di mira Quirinale e governo. Telefonata di Fanceschini

«Ma che fai?». A Bari bagno di folla

Federico Geremicca
inviato a Bari


Dieci mesi e dieci giorni fa, il 2 dicembre, nella notte dei rimpianti e delle lacrime, era nient’altro che un uomo vinto e deluso. 

E ai volontari che nella Fortezza da Basso lo ascoltavano con gli occhi lucidi dopo la sconfitta contro Bersani chiese - in fondo - un solo impegno: «Abbiamo provato a cambiare la politica, non ce l’abbiamo fatta: adesso sarà meraviglioso dimostrare che la politica non riuscirà a cambiare noi».

Dieci mesi e dieci giorni dopo, quei volontari (alcuni diventati deputati o senatori) sono qui, sul charter che decolla da Bari per riportare Matteo Renzi a Firenze, dopo il passo d’avvio della sua nuova sfida: la conquista del Pd. E possono apprezzare, ascoltandolo, quanto poco il loro leader sia cambiato. Infatti, dalla strana pedana dalla quale ha pronunciato il discorso di candidatura circondato dalla folla, ha appena polemizzato - esplicitamente - con il Capo dello Stato su indulto e amnistia: e non batte ciglio quando gli viene riferita la possibile irritazione di Napolitano. 

«La mia prima preoccupazione - spiega - è far vedere che non sono cambiato, che non mi sono rammollito, che non faccio il piacione di sinistra...». E per farlo intendere, prende di mira - appunto - addirittura il Quirinale. «Le leggi le fa il Parlamento - spiega Renzi -. Il Presidente ha il diritto di intervenire e dire quel che pensa sia più giusto: ma non si può dire sempre sì. Anche noi abbiamo il diritto e dobbiamo avere il coraggio di dire dei no, altrimenti il Paese va a rotoli...».

Ci si può naturalmente interrogare intorno alla circostanza che Renzi abbia deciso di aprire la sua corsa alla segreteria polemizzando col Capo dello Stato (per altro, espressione del suo stesso partito). Ma se interrogarsi è legittimo, sorprendersi - forse - lo è un po’ meno. La mossa del sindaco, infatti, ha almeno un paio di spiegazioni. Intanto, la contrarietà ad indulti e amnistie è - diciamo così - assai diffusa e popolare presso l’opinione pubblica in genere e quella moderata in particolare, alla quale Renzi guarda da sempre con estrema attenzione. E non va dimenticato, inoltre, come il ruolo di «garante della stabilita» esercitato in questi anni da Napolitano, non lo abbia mai convinto molto: «La stabilità non è un valore in sé - ha ripetuto più volte -. Un governo merita di durare se fa le cose, altrimenti meglio mandarlo a casa».

Un colpo al Quirinale - nel giorno in cui avvia dalla Fiera del Levante la sua corsa - e un colpetto al governo: «Eh no, stavolta Letta non può dire niente - si difende Rezi - non gli ho dato un solo appiglio perchè possa dire che l’ho attaccato». Non lo ha nemmeno lodato, naturalmente; e neppure incoraggiato. «Non facciamo un Congresso per decidere quanto dura un governo. Dura se fa, e qui c’è un’intera classe dirigente che ha fallito: e nessuno ha il coraggio di dirlo». Un Congresso si fa, intende Renzi, per decidere che rotta deve assumere un partito. E su questo le idee del sindaco di Firenze sembrano chiare, e riassumibili così: nulla può più essere come prima.

Un Congresso, per altro, che Matteo Renzi non sembra destinato a vincere in carrozza: almeno per quel che riguarda la prima fase, cioè il voto degli iscritti ai circoli. Stefano Bonaccini - segretario emiliano del Pd e coordinatore della campagna di Renzi - spiega: «Puoi citarmi e farmi dire: non sarà semplice». Lino Paganelli, responsabile delle Feste democratiche e renziano convinto, aggiunge: «Fanno circolare sondaggi che danno Matteo all’80% per poi dire, se vince col 65%, che è andata male. Ma non sarà una passeggiata, perché Cuperlo potrebbe avere una buona spinta dal voto degli iscritti». E infine lui - Renzi, appunto - che la mette così: «Nei circoli un filino avanti io o un filino avanti lui...».

Che la partita sia forse più aperta di quel che si pensava non induce però a ripensamenti l’antico «rottamatore» che pare, anzi, voler rivestire proprio quei panni lì. Avvisa: «Ero un appestato e ora dicono che sono un eroe. In realtà mi considerano il male minore... Ma a proposito dei carri e di chi vorrebbe salirci su, io dico: sui carri non si sale, i carri si spingono...». L’aria e lo stile sono tornati quelli guasconi di qualche tempo fa: «Alla Fiera - dice - ho parlato nella grande sala dove parlano i presidenti del Consiglio: simbolico», dice. E sorride.

E però non sarà facile. Soprattutto se rimetterà in scena (come pare voglia fare) il film già visto di «Renzi contro tutti». Appena scende dall’aereo che lo riporta a Firenze, per esempio, riceve una telefonata di Dario Franceschini che vuole capire meglio la polemica innescata nei confronti di Napolitano: Renzi spiega con calma, ma non arretra. Forse è questa la sua forza: non essersi fatto ancora cambiare dalla politica. Ma tornano alla mente le parole declamate la sera del 2 dicembre, dopo la prima, dolorosa sconfitta: «È sempre bellissima la cicatrice che mi ricorderà di esser stato felice». La cicatrice, appunto. Una, però: perchè già due sarebbero un ricordo difficile da cancellare... 

da - http://lastampa.it/2013/10/13/italia/politica/sfida-di-renzi-non-faccio-il-piacione-di-sinistra-non-si-pu-dire-sempre-s-tWiqDJk4CaklZnAEwfBr1H/pagina.html
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« Risposta #229 inserito:: Novembre 19, 2013, 05:31:57 pm »

Politica
19/11/2013

Renzi: “Non temo i pasdaran e gli avvelenatori di pozzi”

Colloquio con il sindaco di Firenze: “Chi perde resta come ho fatto io l’anno scorso”

Federico Geremicca
Roma


Ore 20,45, lunedì sera. Dopo una giornata dura e nervosa, Matteo Renzi è finalmente a casa. L’umore è quello di chi crede di aver superato l’ostacolo più difficile, il voto degli iscritti al Pd: «Diciamo le cose come stanno - annota -: hanno perso la partita: adesso è davvero chiusa». Ma descriverlo in questa serata come un leader sereno e guascone, sarebbe un errore. Il sindaco li chiama “i pasdaran”; o anche “gli avvelenatori di pozzi”. Rivela: «I trattativisti ci chiamano e ci dicono: “ok, avete vinto ma ora calma e prudenza, non pompate il risultato”. E noi, mi creda, faremmo precisamente questo: ma i pasdaran...». 

Già, i pasdaran: quelli che ora dicono che la segreteria Renzi potrebbe essere un problema, che molte persone potrebbero non sentirsi rappresentate e andare via, che il sindaco di Firenze - in fondo - non è stato votato da più del 50% degli iscritti al Pd e che la sua legittimazione, dunque, è quel che è. Un tam tam allarmante, e due nomi su tutti: D’Alema e Fassina, perfetti esemplari di pasdaran. «Massimo - dice Renzi - ha scommesso tutto sulla mia sconfitta: mi attacca con qualunque argomento, ha organizzato e continua a organizzare la resistenza. Ma avete visto che toni, però? “Combatteremo palmo a palmo”... La rete lo ha preso in giro: “Ma che fa D’Alema, il vietcong?”. Fassina, invece, è un altro discorso: fa semplicemente ragionamenti stupidi». La polemica del viceministro, insomma, non nasconderebbe secondi fini: mentre D’Alema, avrebbe confidato Renzi ai suoi, «ha il problema di capire se farà di nuovo o no il capolista alle Europee».

Tre settimane di fuoco, da qui all’8 di dicembre: è questo quel che il sindaco di Firenze ora si aspetta in vista dell’atto finale della sua sfida. Tre settimane delicate, «da percorrere da segretario in pectore», dice, sminando il campo dalle insidie maggiori. In testa a tutte, naturalmente, questa storia che Massimo D’Alema ripete ormai da settimane: che alcuni (molti? pochi?) potrebbero andarsene, che il Pd rischia davvero la scissione. Matteo Renzi non ci crede, ma non per questo sottovaluta la minaccia.

«Sì, ora vorrebbero avvelenare i pozzi - dice -, buttarla in caciara. Ma questo è un partito in cui chi perde resta. Io persi con Bersani, ma sono rimasto nel Pd e ho seguito la linea che ci indicava il segretario. Tanti dicono che dopo la sconfitta del 2 dicembre feci il discorso più bello della mia carriera politica. Già, può essere... Ma prima di tutto chiamai il segretario per riconoscere la sconfitta e dirgli “Pierluigi ti sarò leale”: Cuperlo, per ora, a me telefonate non ne ha fatte...». 

Un po’ d’amarezza, che non riesce a cacciar via - però - la soddisfazione per il risultato ottenuto. Ancora un paio di mesi fa, infatti, Matteo Renzi era considerato quasi una sorta di corpo estraneo rispetto al Pd, uno che faceva l’occhiolino al centrodestra, un “berluschino” amico di Flavio Briatore e frequentatore degli show di Maria De Filippi. «E invece ho vinto tra gli iscritti al Pd, evento che pareva impossibile - ammette -.
I sostenitori di Cuperlo hanno passato il primo mese di campagna a dire che nei circoli avrebbero vinto loro. Poi hanno capito. E si sono preoccupati...».

Non è che Renzi, al contrario, la vedesse tutta in discesa. A metà ottobre, a Bari, nel giorno del lancio della sua candidatura, lo stesso sindaco confessava: «Come andrà nei circoli non lo so: o un pochino avanti io o un pochino avanti lui». Ora che è più sereno dice: «Fanno polemiche intorno al mio 46% tra gli iscritti? Facciano. Quando avrò ottenuto il 60% tra gli elettori delle primarie voglio vedere cosa s’inventeranno...».

Anche lui, del resto, si inventerà qualcosa. Anzi, ha già cominciato. Spiega: «L’8 dicembre io non voglio un voto su una persona, voglio un voto su delle idee. E se vinco, voglio un mandato pieno su quelle idee. Leggo che ci sono preoccupazioni circa il fatto che avrei intenzione di far cadere il governo: ripeto, è falso. Per me Letta può andare avanti oltre il 2014, a condizione che il suo governo faccia». Faccia cosa? Renzi la chiama “la lista della spesa”: «Una nuova legge elettorale, la fine del bicameralismo, l’abolizione delle province, un piano per il lavoro ai giovani, la sburocratizzazione della pubblica amministrazione...». Tanto, forse troppo per un governo la cui maggioranza va sciogliendosi in mille rivoli.

«Io non ho fretta - ripete Renzi - ho 38 anni, posso aspettare...». Ma è difficile immaginare la sua come una “segreteria d’attesa”. Si pensi a quel che ancora ripete sul caso-Cancellieri: «Che rimanga al suo posto è una follia. Quel che sta emergendo l’ha delegittimata: restare dove sta sarebbe un danno anche per lei». Dopodiché, la linea è chiara: «Se il segretario si affiderà alle valutazioni del gruppo della Camera, noi saremo molto duri; ma se invece ci indicherà una via, la seguiremo: qualunque essa sia». Un Renzi che diventa obbediente e remissivo? Mah... Piuttosto un Renzi che sta per diventare segretario. E che domani vorrebbe esser seguito e ascoltato come lui oggi segue e ascolta l’attuale segretario...

Da - http://lastampa.it/2013/11/19/italia/politica/renzi-non-temo-i-pasdaran-e-gli-avvelenatori-di-pozzi-NVaWAmJUoyRAc61SPFrNUJ/pagina.html
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« Risposta #230 inserito:: Novembre 21, 2013, 11:35:56 am »

politica
10/11/2013

Bindi: no a un nuovo centro Non possiamo immolarci sull’altare della stabilità

“Basta liti: abbiamo un mese prima delle primarie per parlare di progetti”


Federico Geremicca
ROMA

In fondo, la vede meno peggio di quel che si poteva immaginare. Nel senso che chiami Rosy Bindi chiedendole di rompere il lungo silenzio che si è imposta dopo l’elezione alla guida dell’Antimafia, ti aspetti che spari zero contro il Grande Pasticcio del tesseramento Pd e invece la ritrovi preoccupata soprattutto per gli stessi motivi che la preoccupano fin dal giorno della nascita del governo Letta. Non è, ovviamente, che sia disinteressata alle vicende del Congresso, anzi, ma i timori maggiori li riserva ad altro: la direzione di marcia dell’esecutivo, il senso (e la durata) delle larghe intese, certi movimenti al centro che potrebbero partire dopo l’addio a Berlusconi da parte delle cosiddette «colombe».

Dice: «Non può sfuggire a nessuno che se dal Pdl si stacca un gruppo filo-governativo, la forza per condurre tale operazione risiederà non nell’ambizione di cambiare il centrodestra quanto l’intero sistema politico. In molti puntano alla destrutturazione del bipolarismo: ed un sistema tripolare, a prescindere dall’exploit di Beppe Grillo, può radicarsi solo per la nascita di una nuova forza centrista. Ecco: io vorrei che il Pd dicesse con chiarezza che non offre sponde politiche ad un simile disegno».

Prima, in verità, il Pd dovrebbe dire ai propri elettori che il Congresso che ha avviato non è né una farsa né un concentrato di irregolarità, non le pare? 

«E infatti non è così: noi non meritiamo di essere raccontati come una caricatura. Stanno votando centinaia di migliaia di iscritti, i casi inquietanti in realtà sono cinque (Cosenza, Asti, Frosinone, Lecce e Rovigo) e un aumento delle iscrizioni - dopo il calo dell’anno scorso - è in parte fisiologico, considerata la stagione congressuale».

Tutto a posto, dunque? 

«Non dico questo, ma nessuno dei casi in questione è riconducibile all’elezione del segretario nazionale. E comunque, bloccare il tesseramento è stato giusto: così si impedisce che, dentro o fuori il Pd, si possa dire che si sta inficiando il Congresso».

Inficiando forse no, ma sporcarlo - così da depotenziare la possibile vittoria di Renzi - forse sì. Lei pensa che qualcuno stia praticando un giochetto simile? 

«Lo escludo totalmente. Le dico, anzi, che i risultati che maturano nei circoli ci fanno pensare a un Congresso vero e competitivo. Ora, però, il problema è far decollare il confronto tra i candidati - sui programmi, sul ruolo del Pd, sulla natura del partito - perchè se c’è una cosa che non possiamo permetterci è un calo di partecipazione alle primarie».

Ma un calo è dato per scontato... 

«Non ci si può rassegnare a questo. Abbiamo un mese per discutere del partito e del Paese che vogliamo. Bisogna che i candidati animino un dibattito serio sul futuro, perchè sono mesi che siamo appiattiti sulle vicende di Berlusconi e sull’instabilità della stabilità del governo. Per quanto mi riguarda, farò la mia parte».

Ma se ha deciso addirittura di non schierarsi con nessuno dei candidati in campo! 

«Però andrò a votare, e il documento che abbiamo proposto al dibattito del partito mi pare meriti attenzione. In quel documento diciamo che il Pd sostiene il governo ma non si identifica in esso; che la stabilità è un valore solo se produce risultati, riforme e azioni utili al Paese; e che non siamo disposti a sacrificare l’assetto bipolare del sistema politico italiano sull’altare della stabilità. Insisto: se non si affrontano i problemi, non è un governo di servizio ma un governo di durata... Insomma, ci sono molte cose da definire. Pensi a questa vicenda del Pse...».

Lei intende le critiche di Fioroni - e non solo - per l’affermazione di Epifani circa il fatto che «il Pd ha le sue radici nel Pse»? 

«L’esperienza del Pd non si identifica con quella del Pse. Noi siamo - certo - nella metà del campo progressista, ma con l’intento di superare le tradizionali famiglie politiche europee. Non dobbiamo ridurre le nostre ambizioni e il nostro progetto. Ci sono tante forze progressiste nel mondo - dagli Stati Uniti al Giappone - che non si identificano nel socialismo. Dunque, ospitiamo pure il Congresso Pse a Roma: ma con la forza di chi sente di poter chiedere a quella famiglia politica di cambiare nome e orizzonte».

Per tornare al Congresso: crede che vincerà Renzi e che dopo - come molti profetizzano - ci saranno elezioni anticipate? 

«Penso che questa ipotesi, in questo momento, non convenga a nessuno. Credo che Renzi abbia bisogno di tempo per stabilire un rapporto più stretto con il suo partito, e che se questo riesce anche lui ne trarrà maggior forza. Quanto alle primarie, sì: immagino vincerà lui. Ma nei congressi locali c’è una situazione quasi di parità con Cuperlo, il che vuol dire che ci sono ampi margini per una discussione vera. Per altro, il voto che stanno esprimendo i circoli ci dice che questo non è “il Pd di Renzi” e che Renzi non lo ha ancora né conquistato né convinto sulla base di un progetto che - per quanto mi riguarda - trovo ancora generico e non condivisibile soprattutto sulle politiche economiche e sociali».

Lei dice «il Pd di Renzi» così come una volta si diceva l’Ulivo di Prodi... Che effetto le ha fatto apprendere che il Professore non voterà alle primarie? 

«Non mi ha meravigliato. E se vuole che gliela dica tutta, credo che dopo la vicenda dei 101 “franchi tiratori” Romano sia autorizzato a fare qualunque scelta. Provo una grande amarezza, naturalmente: ma anche per il fatto che su quell’inaccettabile episodio non vi sia stata un’analisi seria, un’autocritica ed un’assunzione di responsabilità».

Un’ultima cosa: sulla Commissione Antimafia. È sempre ai ferri corti con il Pdl? 

«Mercoledì riuniremo l’ufficio di presidenza. Aspetto ancora la nomina del capogruppo del Popolo della Libertà in commissione e poiché molto tempo è passato, sento di dover rivolgere loro un appello: di fronte alla magistratura ed alle forze dell’ordine che continuano la loro lotta alla mafia, di fronte all’impegno di “Libera” e delle altre associazioni, dei parenti delle vittime e di operatori economici che non si arrendono, la politica non può restare indietro e mostrarsi inadempiente. È una responsabilità che dobbiamo sentire tutti, ed è per questo che attendo fiduciosa». 

Da - http://www.lastampa.it/2013/11/10/italia/speciali/primarie/2013/pd/bindi-no-a-un-nuovo-centro-non-possiamo-immolarci-sullaltare-della-stabilit-304Yjs9Y3pwOmV4wkTUEdK/pagina.html
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« Risposta #231 inserito:: Novembre 25, 2013, 04:47:52 pm »

politica
25/11/2013 - analisi

Il paradosso del partito di lotta e di governo

Tre modelli a confronto uniti solo dalle critiche all’esecutivo

Federico Geremicca

ROMA

Ognuno dei tre lo ha fatto a modo suo, cioè con maggior o minor nettezza. Ma è certamente un inedito paradosso quello andato in scena ieri a Roma alla Convenzione del Partito democratico. 

Infatti, candidandosi alla guida del Pd, tutti e tre gli aspiranti segretari (Renzi, Cuperlo e Civati) hanno vistosamente strattonato il governo presieduto da Enrico Letta e del quale proprio il Partito democratico è l’azionista di maggioranza. 

Un paradosso inedito, certo, ma non inspiegabile: e ancora frutto - in piena evidenza - dell’onda lunga della delusione provocata dal voto del 24-25 febbraio, arrivata dalla periferia del partito fino al vertice.

Benchè non inattesa, non si tratta di una buona notizia per Enrico Letta, impegnato a far quadrare conti ed equilibri politici sempre più traballanti. E se il premier poteva aspettarsi l’affondo di Matteo Renzi («Il governo sia efficace nelle scelte di politica economica e nelle riforme istituzionali, altrimenti le larghe intese diventano solo il passatempo per superare il semestre europeo») e il giudizio tranchant di Civati («Fatta la legge elettorale l’anno prossimo si può tornare a votare»), forse non si attendeva analoga posizione da parte di Gianni Cuperlo («Il governo non ha più alibi, e deve scuotere l’albero perché i frutti cadano a terra»).

Un paradosso, dunque, che affonda le proprie radici ancora nello choc per la mancata vittoria elettorale di inizio anno e nella delusione per la nascita di un governo più subito che scelto: ma un paradosso che il futuro gruppo dirigente del Pd farebbe bene ad affrontare (finalmente) prima che produca effetti che potrebbero andare anche oltre una già grave e temuta crisi di governo. Le critiche e le riserve avanzate ieri dai tre candidati segretari alle larghe intese e all’esecutivo in carica, sono - infatti - l’inevitabile proiezione degli umori che circolano tra iscritti ed elettori, ai quali Renzi, Cuperlo e Civati stanno chiedendo il voto: e potrebbero, dunque, rientrare o affievolirsi una volta conclusa la competizione. Ma nel partito, intanto, si vanno scavando solchi profondi che - a lungo andare - rischiano di diventare baratri non più colmabili.

Se ne è avuta una prova, ieri, col durissimo scambio di contestazioni andato in scena tra Cuperlo e Renzi. L’aspro faccia a faccia, se vogliamo chiamarlo così, ha riguardato i rispettivi programmi per rimettere l’Italia sui binari della crescita e l’idea stessa di partito che i due candidati coltivano e propongono. Basti citare l’accusa, velenosissima, che Cuperlo e Renzi si sono rimpallati: «Noi non siamo il volto buono della destra, noi siamo la sinistra», ha ammonito il candidato sostenuto da Bersani e D’Alema; «Cuperlo ha ragione - ha replicato il sindaco di Firenze - ma non dobbiamo nemmeno essere il volto peggiore della sinistra». Si fronteggiano, insomma, due idee praticamente opposte di partito, con tutto quel che ne segue (e ne potrà seguire...) in termini di programmi, politica delle alleanze e natura stessa del Pd.

In una fase di caotico riassestamento del sistema politico, con scissioni laceranti che hanno già riguardato due dei tre partiti impegnati nelle larghe intese (Scelta Civica e Pdl) l’idea che anche il Pd possa esser travolto dalle sue divisioni, non solo non appare più un’ipotesi di scuola - come poteva essere ancora qualche mese fa - ma perfino una via percorribile senza troppo «scandalo», considerata la fase. È evidente che la circostanza sarebbe esiziale per un partito nato come alfiere del bipolarismo, sull’onda di una dichiarata «vocazione maggioritaria»: ma al punto cui è giunto il dibattito interno al Pd - e alla luce di quel che va accadendo tutt’intorno - sottovalutare la possibilità di un esito traumatico dello scontro in corso, sarebbe un errore gravissimo.

E così, tra le eredità che riceverà in dono il futuro leader del Pd, c’è anche questa: la necessità di tenere assieme un partito segnato da profonde divisioni politiche, rancori personali e voglia di mandare tutto all’aria. Matteo Renzi - indicato da tutti i sondaggi come favorito nelle primarie dell’8 dicembre - dovrà dunque soppesare con attenzione le sue prime mosse da leader. Già avviare la sua segreteria provocando elezioni anticipate in primavera (ipotesi che il sindaco di Firenze sembra, quantomeno, non temere) potrebbe nascondere insidie imprevedibili; cercarle addirittura con un Pd che si divide e si scinde, rischia di trasformarsi in un errore esiziale: per il Paese, certo, ma anche per il futuro ed il destino dello stesso Partito democratico...

Da - http://lastampa.it/2013/11/25/italia/politica/il-paradosso-del-partito-di-lotta-e-di-governo-dJYswflfu2IZVHFSqVlQsL/pagina.html
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« Risposta #232 inserito:: Dicembre 01, 2013, 11:36:21 am »

Politica
28/11/2013 - Gli avversari
I nemici di sempre non festeggiano “Ora sarà tutto più difficile”
Bindi: “Per me quello di ieri non è stato un giorno politicamente felice”

Federico Geremicca
Roma

Ci sono giornate che aspetti per anni, poi quella giornata arriva e tu non sai più bene se è valsa la pena attendere tanto, se hai fatto un affare oppure no.  

Con qualche approssimazione, è più o meno questo l’umore incerto dei «nemici di sempre» nel giorno in cui Silvio Berlusconi - detto anche il Dottore, il banana, il Caimano e, più gentilmente, il Cavaliere - decade dalla sua carica di senatore. Il Pd si interroga sui rischi e i vantaggi di un tale accadimento e non trova una risposta. O meglio, come da un po’ di tempo a questa parte, ne trova due: quella degli amici di Renzi e quella dei nemici di Renzi...

Insomma: è un buon affare, per il governo, una maggioranza senza Berlusconi, anzi con Berlusconi che va all’opposizione affianco a Grillo e si prepara a cannoneggiare Palazzo Chigi un giorno sì e l’altro pure? E sono stati un affare, per il Pd, questi quasi quattro mesi vissuti pericolosamente, con l’obiettivo prioritario di «applicare la legge», di «dare esecuzione a una sentenza», di mettere - insomma - Silvio Berlusconi fuori dal Parlamento? Enrico Letta - e lo ha detto subito - non ha dubbi, ne è valsa la pena: il governo ora è più forte perché la maggioranza è più coesa. Ma tra i Democratici, in verità - e non solo per faccende congressuali - non sono in molti a pensarla come lui, anche in un giorno tanto atteso come questo.

Non la pensa come lui, per esempio, Sergio Cofferati: «Quella di Letta è un’affermazione che non ha elementi razionali a sostegno». E anche Rosy Bindi - icona antiberlusconiana per antonomasia - non è ottimista: «Per il governo comincia una fase più difficile, non più facile». Paolo Gentiloni, renziano dichiarato, aggiunge: «L’idea che maggioranza e governo siano più forti è tutta da dimostrare: ci vorrebbe almeno una “fase due” dell’esecutivo, con una visibile discontinuità». Ma Beppe Fioroni, anti-renziano ugualmente dichiarato, replica: «Il governo è più forte perché a farlo cadere, ora, dovrebbe essere il Pd: e io voglio vedere quale segretario mette la faccia in un’operazione che porta alle dimissioni di Enrico Letta...».

Non è però solo questione di chi fa cadere chi: è anche questione di chi fa cosa e perché. E dunque: cosa può fare Letta con una maggioranza magari più coesa ma certo più ristretta, tanto che - per iniziare - escono dall’agenda quelle riforme costituzionali che pure sono la vera «missione» affidata alle larghe intese dal Capo dello Stato? «Potrà fare poco, immagino - profetizza Rosy Bindi -. Con Berlusconi che lo attacca dall’opposizione, anche Alfano dovrà alzare la sua asticella. Il Cavaliere dirà “troppe tasse”? Alfano dovrà dire lo stesso, e per Enrico saranno problemi... Vedo all’orizzonte una competizione interna al centrodestra della quale noi del Pd rischiamo di pagare il prezzo».  

Non solo: per quanto può contare - e conta molto - c’è anche un problema elettorale e di consenso all’orizzonte: «Per Letta e per il Pd - azzarda Gentiloni - può essere pericolosissimo farsi “testare”, come si dice, alle prossime Europee: sono per antonomasia elezioni con voti “in libera uscita”, si svolgono con metodo proporzionale e Berlusconi e Grillo le giocheranno tutte in chiave anti-euro e anti-Europa, come i movimenti populisti che vanno radicandosi in tutto il Vecchio Continente. In due parole: rischiamo di rimetterci le penne».

Dunque sono un guaio la decadenza di Berlusconi e il passaggio di Forza Italia all’opposizione?  

«Possono diventarlo - annota Rosy Bindi -. Per me quello di ieri non è stato un giorno politicamente felice, e non maramaldeggio sulle vicende di Berlusconi. Tolte le riforme costituzionali, che vedo svanire all’orizzonte, che resta da fare al Pd e al governo? La legge elettorale da riformare, certo: e dobbiamo a tutti costi riuscirci. E poi il semestre europeo, che non è poco, intendiamoci. Ma da anti-renziana come sono, dico che su questo Matteo ha ragione: il governo fino ad ora ha usato la nostra prudenza, ora deve usare le nostre idee e il nostro coraggio...».

E quindi? Come chiudere questa giornata prima tanto attesa e ora così temuta? Forse affidandosi alla vena filosofica di Beppe Fioroni: «Può succedere di tutto, ma Letta deve andare avanti - dice -. Del resto, con la fine della Seconda Repubblica, siamo entrati in una fase di caos primordiale, dove tutto finisce e tutto comincia». Caos primordiale, già. E figurarsi se il caos può spaventare il Pd...

Da - http://lastampa.it/2013/11/28/italia/politica/i-nemici-di-sempre-non-festeggiano-ora-sar-tutto-pi-difficile-0HkaKrA5CWgmV28B0se7GN/pagina.html
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« Risposta #233 inserito:: Dicembre 08, 2013, 06:18:21 pm »

Editoriali
06/12/2013

Dal Porcellum al gioco dell’oca
Federico Geremicca

La speranza è durata poche ore. E chi immaginava che la temuta sentenza della Corte Costituzionale potesse avere almeno l’effetto di accelerare e responsabilizzare l’estenuante dibattito in corso intorno alla riforma della legge elettorale, ci ha messo pochissimo a capire che non è così. Se possibile, anzi, la situazione è addirittura peggiorata. 

Peggiorata per la buona ragione che va ormai rivelandosi con sempre maggior chiarezza la circostanza che il confronto sulla riforma da varare è ormai ineludibilmente intrecciato al braccio di ferro in corso tra chi vuole il voto anticipato la prossima primavera e chi punta – come da programma – ad arrivare fino al 2015.

E così, non per caso, quella di ieri è stata una giornata di vera e propria guerriglia politica e perfino procedurale. Camera e Senato sono ai ferri corti e si contendono la titolarità di conservare (o acquisire) il diritto a discutere di legge elettorale; i partiti – anche quelli di maggioranza – appaiono ancor più divisi circa il tipo di riforma da varare; e Berlusconi, Grillo e la Lega – andandoci ancor più per le spicce – si sono calati in una trincea assai insidiosa: il Parlamento, il governo e il Presidente della Repubblica – dicono – sono delegittimati dalla sentenza della Corte, e non resta che ristabilire la legalità e indire nuove elezioni. 

Il clima è pesante, Enrico Letta naviga a vista in attesa del dibattito parlamentare di mercoledì prossimo e la spinta verso il voto tra marzo e aprile sembra farsi ogni giorno più forte. Poco importa che occorrerebbe comunque approvare una nuova legge elettorale prima di tornare alle urne, e che all’orizzonte non si scorga alcuna ipotesi di intesa. Gli equilibri in campo, infatti, sembrano cambiare: tanto che, secondo molti, la probabile elezione di Matteo Renzi alla guida del Partito democratico rischia di chiudere definitivamente (e nel peggiore dei modi) l’insidiosissimo cerchio.

Quale sarebbe lo scenario, infatti, una volta che il sindaco di Firenze dovesse conquistare il Pd? Molto semplice: le tre forze politiche maggiori del Paese (Partito democratico, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle) avrebbero alla guida leader che si dichiarano esplicitamente per le elezioni anticipate – Berlusconi e Grillo – o che dicono di non considerarle un male assoluto, a fronte di un governo che non dovesse «fare» (Renzi). È vero che a contrastare questi leader e questa spinta c’è un altrettanto «potente terzetto» (il Capo dello Stato, il presidente del Consiglio e il vicepremier Alfano, leader del Nuovo centrodestra ): ma in politica esiste una forza delle cose che, se non arrestata in tempo, rischia di travolgere tutto e tutti.

 

Quel che continua a sconcertare è l’incapacità a decidere e la paralisi della quale sembrano esser finite preda tutte le forze politiche: si parla di riforma della legge elettorale da anni, eppure il Parlamento non riesce a trovare – oggi – un’intesa nemmeno su quale Camera sia titolata a discuterne e perfino ad approvare un innocuo ordine del giorno di indirizzo. Si sperava, come detto, che il fatto che pendesse sul Porcellum una sentenza della Corte Costituzionale spingesse i partiti a decidere: non solo questo non è accaduto, ma ora – paradossalmente – capita perfino di dover ascoltare tra i corridoi della Camera e quelli del Senato obiezioni e rimproveri a mezza voce al lavoro della Corte: fingendo di ignorare che se i giudici sono intervenuti è solo perché qualcun altro non lo ha fatto...

Non sono, naturalmente, solo ignavia e irresponsabilità a tenere la riforma ferma al palo: è che i partiti – alcuni divisi perfino al loro interno – guardano a modelli assai diversi l’uno dall’altro e, fondamentalmente, a modelli che possano favorirli e garantirne la sopravvivenza. Non è un vizio di oggi: tanto che – è noto – in Italia le leggi elettorali sono state quasi sempre il prodotto o di referendum (il Mattarellum) o di «colpi di mano» (il Porcellum): e ora – quando e se accadrà – di sentenze della Corte Costituzionale.

Eppure si era scritto e sperato in un accordo a tre (Letta-Renzi-Alfano) su una legge elettorale a doppio turno: così che si sarebbero garantite, in un sol colpo, tanto la riforma quanto la sopravvivenza del governo. Niente da fare: da ieri anche questa ipotesi è carta straccia. E dunque si ricomincia dall’inizio, come in un rischioso, insostenibile e intollerabile gioco dell’oca...

Da - http://lastampa.it/2013/12/06/cultura/opinioni/editoriali/dal-porcellum-al-gioco-delloca-PLiH8LEvkbYUS9CeUZnFvK/pagina.html
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« Risposta #234 inserito:: Dicembre 13, 2013, 06:19:46 pm »

Politica
12/12/2013 - colloquio

Renzi un’ora con Napolitano “Diffidenza decrescente”
“Credo vorrebbe andare al voto dopo il 2015, ma stabilità non è immobilismo”

Federico Geremicca
Roma

L’espressione che usa è singolare, ma rende l’idea - con ricercata delicatezza - dell’attuale stato dei rapporti tra i due: “Diffidenza decrescente”. Ecco quel che corre oggi tra Matteo Renzi e Giorgio Napolitano; e quel che corre oggi, allora, segnala almeno un cambiamento rispetto a quel che c’era ieri: quando la diffidenza - evidentemente - era solida, percepibile e nient’affatto decrescente.

Il neo segretario del Pd è rimasto colpito: «Un’ora faccia a faccia. Incontro serio, buono, importante». E forse anche il Presidente tornerà a riflettere sulla lunga chiacchierata: cinquant’anni di differenza, due mondi sideralmente distanti, in mezzo una guerra, la ricostruzione, l’Italia che si rimette in piedi. Eppure, un punto d’incontro lo si trova: il Paese va salvato di nuovo e, per farlo, servono riforme e stabilità. E’ su questo che, alla fine, i due s’intendono. Anche se il sindaco-segretario - tornato a Firenze - spiega di non rinunciare alle sue convinzioni: «Credo che Napolitano vorrebbe che il governo andasse avanti, molto avanti, altro che 2015... Io non dico di no, però insisto: stabilità non può voler dire l’attuale immobilismo». 

Matteo Renzi è contento - diremmo perfino molto contento - di queste sue prime 72 ore da segretario. E non è solo per come è andato il tanto atteso incontro al Quirinale: «Il Presidente ha apprezzato, credo, il fatto che io non intenda imporre miei modelli in materia di legge elettorale - dice -. Ma contemporaneamente, ha chiaro che il Pd non mollerà sulla necessità di fare una riforma. Quel che mi pare di poter dire, al di là dell’incontro, è che molte cose sono già cambiate in appena tre giorni. Mi sembra si vada affermando - conclude soddisfatto - l’idea che la riforma vada fatta in tempi molto brevi, e credo sia ormai deciso che se ne occuperà la Camera: per cui Giachetti può interrompere il suo digiuno. E questa è quella che si può chiamare una buona notizia».

Bene con Napolitano, dunque. E bene anche sulla via della riforma della legge elettorale, lungo la quale - però - Renzi si muove con «crescente diffidenza». «Temo che Angelino Alfano voglia perder tempo e menare il can per l’aia - dice il sindaco-segretario -. Io con lui parlerò, figurarsi, ma non mi lascerò incantare e nemmeno rallentare: ho una mia exit strategy, un canale aperto anche con Berlusconi e Grillo, che la riforma adesso la vogliono davvero. E se il Nuovo centrodestra divaga, vuol dire che lavoreremo con qualcun altro».

Beppe Grillo, già. Il comico-leader ha fiutato il pericolo e da un po’ di tempo ha fatto di Matteo Renzi il suo nemico numero uno: si può tranquillamente dire che l’avversione è reciproca, e che quel che si profila - per i prossimi mesi - potrebbe somigliare a un vero e proprio duello rusticano. Il segretario del Pd non ha affatto gradito, per esempio, l’ultima uscita del leader Cinque Stelle che lo ha sfidato a rinunciare al finanziamento pubblico, come ha già fatto il suo movimento. Renzi gli ha prima replicato con un tweet: «Caro Grillo ti rispondo nei prossimi giorni con una sorpresina che ti sto preparando». Ma la sorpresina, in realtà, è già pronta...

«Credo proprio che gli risponderò da Milano, all’Assemblea nazionale -dice -. Mi chiede di firmare una lettera di rinuncia al finanziamento pubblico? Troppo semplice. Facciamo le cose per bene: firmi lui una lettera nella quale dice sì ad una legge elettorale maggioritaria, alla riforma del Titolo V, all’abolizione del Senato e del finanziamento pubblico ai partiti. Vediamo se è pronto. Ma quel che è più importante è che deve mettersi in testa anche lui che l’agenda delle cose da fare la detta il Pd, e che non staremo più a rincorrere né lui né altri».

Il piglio di Renzi non sembra cambiato: il nuovo ruolo di segretario non ha smorzato la nettezza delle sue posizioni e il tono - al solito - un po’ guascone. E’ contento della segreteria messa in campo: «Più donne che uomini, come promesso: non era mai successo prima. E poi tutti bravissimi. Sono impressionato dalla concretezza della Serracchiani, dall’impegno della Boschi, dalla lucidità di Federica Mogherini...»”. E con un piccolo strappo alla riservatezza con la quale ha circondato il suo colloquio con Napolitano, dice «il Presidente era molto curioso di saperne di più - racconta -. Alcuni dei giovani messi dentro li conosceva, la Mogherini, la Boschi... di altri ha voluto sapere».

La Segreteria, dunque il Partito, il Pd. Matteo Renzi è ancora in attesa di sapere se Cuperlo ci sta davvero ripensando e alla fine accetterà la carica di Presidente dell’Assemblea nazionale. «So che ci ragiona - dice Renzi -. Sul momento mi aveva detto di no, ma nella sua componente si è aperta una complicata discussione e alla fine - io lo spero - potrebbe ripensarci. Comunque sia, non è che accetterò qualunque nome mi verrà proposto. So che D’Alema è furioso, per esempio, perchè ho annunciato che non lo ricandiderò alle Europee. Ma si volta pagina, e non sono preoccupato: anche in Direzione, su 120 membri una ottantina almeno è in maggioranza con me». 

Tante partite da giocare contemporaneamente: e nessuna particolarmente semplice. Renzi non è spaventato, ma non nasconde - in un momento di sincerità - che il livello si è fatto assai più alto. «Fino a ieri, parliamoci chiaro, giocavo a tennis: cioè, buttavo la palla dall’altra parte del campo. Adesso è una partita a scacchi. Difficile. E se sbagli una mossa...». Già, se sbagli una mossa è un guaio. Chiedere ai predecessori: da Veltroni a Bersani non potranno che confermarlo...

Da - http://lastampa.it/2013/12/12/italia/politica/renzi-unora-con-napolitano-diffidenza-decrescente-CnlOKDyoy81WZ0SRLgM14L/pagina.html
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« Risposta #235 inserito:: Dicembre 16, 2013, 04:54:18 pm »

politica
15/12/2013

Il destino incerto della coppia Letta-Renzi

Federico Geremicca
Roma

Cos’è in corso tra Letta e Renzi? Un abile gioco di squadra o una lotta sorda che non potrà che concludersi con un vincitore e un vinto?

Da qualche giorno è questo l’interrogativo che accompagna le mosse e le contromosse del premier Letta e del leader Pd, Matteo Renzi, che oggi a Milano verrà ufficialmente proclamato segretario. Ottimisti e pessimisti si dividono nella risposta da dare circa la natura e le dinamiche del rapporto di questa nuova «coppia politica» italiana: dopo Fanfani e Moro, De Mita e Forlani, D’Alema e Veltroni, tocca adesso ai due enfant prodige del Partito democratico. Ma se la storia ha un senso e i precedenti possono aiutare ad orientarsi, gli ottimisti (in buona o cattiva fede) rischiano di andar incontro ad una cocente delusione.

Il rischio di errore, in analisi così, è naturalmente alto: ma è davvero difficile cogliere i segni (e le ragioni politiche) di una intesa - anzi: di un patto, come va di moda dire oggi - tra i due giovani leader democratici. E c’è un elemento, in particolare, che va necessariamente assunto come punto di partenza per l’avvio di qualunque previsione che riguardi l’evolvere del rapporto tra premier e segretario: e cioè, che Enrico Letta (perfino suo malgrado) si è ritrovato seduto sulla poltrona che Matteo Renzi insegue - senza farne mistero - fin dall’autunno dell’anno scorso.

Fallito l’assalto alla candidatura a premier perché battuto da Pier Luigi Bersani, il giovane sindaco di Firenze ha deciso di provare a raggiungere lo stesso traguardo attraverso un’altra strada: la conquista della leadership del maggior partito italiano (e di governo). Da quella postazione ha immediatamente avviato un’opera, diciamo così, di «provocazione positiva» nei confronti dell’esecutivo, per dimostrare l’inadeguatezza di un governo composto da forze troppo omogenee per poter utilmente marciare assieme.

Renzi immaginava, forse, una rapida resa del premier-competitor, ma due novità (solo in parte imprevedibili) sono sopraggiunte a complicargli i piani: la sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha privato il Paese di una credibile legge elettorale per tornare alle urne, e la reazione di Enrico Letta, deciso - come ha ripetuto ancora mercoledì di fronte alla Camera riunita - a «combattere come un leone». E a che tipo di combattimento pensasse, e quale nemico avesse in mente, lo si è capito a sufficienza con la spregiudicata mossa fatta in materia di finanziamento pubblico ai partiti.

Sia su questo terreno, sia sulla delicata frontiera della legge elettorale da varare, l’effetto della competizione tra Letta e Renzi ha - paradossalmente - prodotto una accelerazione alla quale tutti guardano, adesso, con non nascosta soddisfazione. Sull’ormai obbligatoria riforma del Porcellum - è vero - si è ancora alle mosse preparatorie (ma il passaggio di mano della materia, tra Senato e Camera, è certo un punto a favore del leader Pd). Sul finanziamento ai partiti, invece, il governo ha effettuato una mossa concreta: il cui effetto, in tre anni, sarà quello di trasformare i partiti politici italiani negli unici - tra i maggiori Paesi europei - a non poter godere di una sola lira di finanziamento pubblico.

Sull’onda di mutande verdi comprate con soldi pubblici, feste in maschera e cosmetici acquistati con i quattrini degli italiani, l’iniziativa del governo è stata salutata dallo scrosciare degli applausi. Secondo un vecchio adagio, però, la fretta è a volte cattiva consigliera, e sarebbe paradossale se l’abolizione totale del sostegno alla politica dovesse in qualche modo esser ripensata di fronte ad una domanda che potrebbe riservare riposte amare: dove e come i partiti troveranno risorse per continuare la loro attività? L’interrogativo non è da poco. E anche Renzi non farebbe male a rifletterci: soprattutto se davvero avesse intenzione di annunciare, oggi da Milano, la disponibilità del Pd a restituire perfino i finanziamenti ricevuti dall’inizio degli Anni 90 ad oggi... 

Da - http://lastampa.it/2013/12/15/cultura/opinioni/editoriali/il-destino-incerto-della-coppia-lettarenzi-CJQD5kAoaySCZdqcF0p0DP/pagina.html
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« Risposta #236 inserito:: Dicembre 24, 2013, 06:33:14 pm »

Politica
21/12/2013

Le due anime del Pd e il mistero dell’articolo 18
Il partito si spacca, ma per il segretario non è una priorità
Il lavoro e l’articolo 18 già spaccano il Pd

 
Federico Geremicca
Roma

«Guardi, abbiamo fatto una riunione di segreteria ancora giovedì, l’altro ieri, proprio su questo: il piano-lavoro, che Renzi vorrebbe pronto entro un mese. E naturalmente di tutto abbiamo discusso meno che dell’abolizione dell’articolo 18. Ancora mi chiedo, anzi, chi ha messo in giro la notizia che noi si starebbe ragionando su questo: probabilmente, qualcuno che vuol mandare tutto a gambe all’aria».

Ora, dunque, la questione sarebbe addirittura il chi: cioè, chi è che nel Pd ha parlato dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? «Non Renzi - spiega Marianna Madia - che probabilmente non sarebbe contrario, ma ha chiaro che non è questo il tempo per una simile discussione, e infatti l’ha ripetuto anche alla presentazione del libro di Vespa». E se non Renzi, chi allora? Gutgeld, forse, solitamente definito consigliere economico del neo-segretario Pd? «Magari ne ha scritto - dice la Madia -. Ma naturalmente una cosa è quello che scrive Gutgeld e altra quello che decidiamo noi».

Ma tant’è: è bastato perché Stefano Fassina - viceministro all’Economia - prendesse il bastone e randellasse: il piano lavoro di Renzi «è inutile, se non dannoso», ed è «deprimente il ritorno dell’ossessione sull’articolo 18 e sulle regole, dopo i conclamati fallimenti della ricetta neoliberista». Che Matteo Renzi lo abbia detto oppure lo abbia soltanto pensato, non è granché importante in questo caso: perché - al di là della polemica a “uso interno” - quel che riemerge in queste ore con disarmante nettezza è uno dei tabù (forse il più solido e attuale) che da anni divide la sinistra italiana.

Non l’unico, naturalmente. Qualcuno, per esempio, ricorda le spaccature orizzontali all’interno del centrosinistra ad ogni voto parlamentare per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero? E le polemiche durissime in materia di bioetica o fine vita? Per non dire - anche questa questione ancora parzialmente irrisolta - dei duelli rusticani in materia di unioni civili, adozioni e matrimoni gay. Ogni volta che la cronaca rende necessario affrontare queste e alcune altre questioni, il solo parlarne spacca il centrosinistra - e il Pd - quasi precisamente a metà. Come sta puntualmente accadendo in questi giorni di fine anno in materia di abolizione dell’articolo 18: faccenda che, come detto, nessuno - né Renzi né membri della sua segretaria - ha per ora più o meno ufficialmente posto.

«E sarebbe anche singolare che qualcuno la ponesse - annota da Strasburgo Sergio Cofferati, che della difesa dei diritti in senso lato ha fatto per anni una bandiera -. Parlare di come licenziare mentre le aziende non assumono a causa della crisi, è un esercizio di ottimismo o di cinismo, non saprei dire. Senza contare che, in larga misura, l’articolo 18 già non esiste più: visto che la riforma Fornero in materia di mercato del lavoro lo ha di fatto surrogato, lasciando alle aziende - grandi e piccole - la possibilità di licenziare per ragioni economiche. E infatti reintegri per giusta causa non se ne vedono più...».

Questo naturalmente non vuol dire che la questione non sia più sul tavolo e che di articolo 18 non si tornerà a parlare (e probabilmente anche non troppo in là nel tempo) Ma il problema, per il Pd, è appunto riuscire almeno a parlarne, evitando che attorno a questo totem (è Matteo Renzi ad averlo definito così) si ricreino schieramenti automatici che - piuttosto che guardare alla sostanza del problema - guardino ad altro: all’utilità elettorale, alla convenienza di parte, al “ricavo politico” che se ne potrebbe avere alla luce degli equilibri interni.

«Noi non partiremo certo da lì - ripete Marianna Madia - perché partire da lì vuol dire fermarsi subito». Partire no, va bene. Ma c’è chi spera - e il numero di chi lo spera cresce - che almeno ci si arrivi. A crisi superata, naturalmente. Perché discutere di come licenziare oggi, a molti appare vagamente surreale... 

Da - http://lastampa.it/2013/12/21/italia/politica/le-due-anime-del-pd-e-il-mistero-dellarticolo-9CairWvpdbRkZ74umUbepM/pagina.html
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« Risposta #237 inserito:: Dicembre 28, 2013, 11:46:08 pm »

Editoriali
28/12/2013
Gli spazi lasciati vuoti dai partiti

Federico Geremicca

Stavolta non ha applaudito nessuno, a differenza di quanto accadde nell’aula di Montecitorio gremita in ogni ordine di posti il 22 aprile scorso. Giorgio Napolitano leggeva il duro discorso da Presidente rieletto e fu quasi costretto a interrompere il suo severo atto d’accusa di fronte ai continui battimani: «Il vostro applauso - disse rivolto a deputati e senatori - non induca ad alcuna autoindulgenza: non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme». 

Torna utile, oggi, ripensare a quell’intervento. E non solo per i mancati applausi - a Parlamento semideserto - che hanno accompagnato la puntigliosa lettera con la quale il Capo dello Stato, ieri, ha richiamato governo, Camere e forze politiche a un maggior rigore in materia di decreti legge: ma anche e soprattutto perché, nel giro di pochi mesi, quel frenetico batter di mani è stato sostituito da un sentimento, un disagio, del quale naturalmente si intende il senso, ma assai meno l’origine, la ragione e - in qualche modo - perfino la legittimità. 

Il disagio di cui diciamo è legato agli atti di un Capo dello Stato che starebbe allargando a dismisura il raggio della sua «supplenza», che interverrebbe troppo di frequente per riempire «vuoti» politici, legislativi (e perfino regolamentari) e che - questa è l’accusa finale - starebbe addirittura trasformando l’attuale forma repubblicana in una «monarchia costituzionale». Delle funzioni, del ruolo e delle prerogative dei Presidenti della Repubblica, sono stati riempiti volumi e volumi, dal dopoguerra a oggi: e quindi figurarsi se il tema non ha un suo interesse e una sua legittimità. Ma non è questo il punto. 

 

Quel che appare poco comprensibile, infatti, è la circostanza che a porre simile questione - più o meno tra i denti - siano precisamente i soggetti che hanno creato e continuano a creare quei vuoti politici (e non solo politici) che il Capo dello Stato è costretto - spesso suo malgrado - a riempire. Per altro, la contestata funzione di supplenza, non di rado si risolve in iniziative di fronte alle quali le forze politiche dovrebbero - per tornare all’immagine iniziale - nuovamente applaudire. E perfino con qualche riconoscenza.

Si pensi, ad esempio, proprio all’ultimo caso in questione: il decreto salva-Roma, che il governo ha dovuto far decadere appunto per iniziativa del Quirinale. Si denuncia, infatti, l’ennesima «ingerenza» del Presidente della Repubblica: e non ci si sofferma su cosa si sarebbe abbattuto - in caso di non intervento e di conversione di quel decreto - sulle forze politiche e sul governo che l’aveva voluto. Una nuova ondata di discredito - per le regalìe, le scelte clientelari e la confusa pioggia di denari fatti cadere qua e là - avrebbe probabilmente investito il sistema: a tutto vantaggio non certo dell’esecutivo, ma di quelle forze «demagogiche, populiste e antieuropee» che pure - così spesso - vengono messe all’indice.

Perché piuttosto che denunciare l’«invadenza» del Capo dello Stato i partiti politici - di maggioranza e di opposizione - non riempiono essi quei vuoti, quegli spazi, sui quali deve poi intervenire il Quirinale? «Imperdonabile - disse in quel 22 aprile Napolitano - resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005». È stata forse varata una nuova norma elettorale? Non risulta. «Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro le quali ho cozzato nel passato - aggiunse il Presidente - non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». C’è qualcuno che si preoccupa di evitare le possibili (perché preannunciate) dimissioni del Capo dello Stato, piuttosto che denunciarne l’invadenza? Non parrebbe.

È penoso dirlo, ma l’anno che si conclude finisce così come era cominciato: l’incapacità ad eleggere un nuovo presidente della Repubblica, due mesi per varare un governo purchessia, nessun passo avanti in materia di riforme e - anzi - il mortificante intervento della Corte Costituzionale scesa in campo a cancellare quella che c’era. È di questo che ci si dovrebbe occupare, piuttosto che lamentare supplenze (non esaltanti, ma inevitabili e certo non nuove) rispetto alle quali tante volte occorrerebbe semplicemente prender atto e perfino ringraziare...

Da - http://lastampa.it/2013/12/28/cultura/opinioni/editoriali/gli-spazi-lasciati-vuoti-dai-partiti-5EWJuk4nzC1jpSs1xxqVCL/pagina.html
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« Risposta #238 inserito:: Gennaio 18, 2014, 05:18:58 pm »


Editoriali
17/01/2014

Tra i due leoni una sfida incandescente

Federico Geremicca

Quattro ore di discussione pubblica, tesa e senza rete: eppure il senso della Direzione Pd in diretta streaming, è tutto – in fondo – in un duro scambio di battute. Renzi: «In 10 mesi sulle riforme è un elenco di fallimenti. Se pensiamo di andare avanti come se niente fosse, saremo spazzati via». Letta (da Palazzo Chigi): «Sono d’accordo su un nuovo inizio. Ovviamente ho un giudizio diverso sui nostri nove mesi di lavoro».

Eccola qui, dunque, la questione delle questioni, che viene prima della legge elettorale, dello ius soli e di tutto il resto: il destino, il futuro del governo in carica.

Che sia questa la posta in palio – nel Pd ma non solo nel Pd – ieri è finalmente apparso con crudissima chiarezza, perché il neo-segretario dei democratici (sorprendendo perfino i renziani più renziani) non ha annacquato nessuna delle critiche che muove da settimane all’esecutivo e anzi – se possibile – le ha perfino accentuate. «Il governo è al minimo storico di popolarità – ha detto in Direzione – e il nostro problema è invertire la china... oppure rischiamo che al voto europeo il fallimento ricadrà su di noi».

Perfino sprezzante in alcuni passaggi («Ho visto ministri dimettersi per un “chi”, ma non per la condanna di Berlusconi») Matteo Renzi non ha fatto né sconti né concesso attenuanti al lavoro (al «fallimento») dell’esecutivo guidato da Enrico Letta. E se il giudizio del leader democratico sul governo in carica già costituiva un problema da settimane, da ieri si è trasformato nel problema dei problemi: i toni, infatti, si sono ulteriormente appesantiti e le intenzioni del sindaco-segretario, di conseguenza, continuano ad essere circondate da sospetti crescenti. «Se ogni volta che apro bocca – ha lamentato ieri – voi cominciate a dire che voglio le elezioni anticipate, allora non andremo da nessuna parte...».

Eppure il sospetto, a questo punto, è giustificato e reso lecito – in fondo – dalla stessa direzione di marcia del segretario. Renzi, infatti, non perde occasione per definire fallimentare il bilancio del governo eppure non intende occuparsi – e quindi favorire – l’invocato rimpasto che potrebbe rafforzare e rilanciare l’esecutivo; chiede che nella nuova agenda di governo alla quale lavora Letta vengano inseriti provvedimenti indigeribili per il Nuovo Centrodestra di Alfano; ripete di voler incontrare Berlusconi per discutere anche con lui di riforma elettorale e ogni sua uscita – insomma – sembra fatta apposta per appesantire e rendere meno gestibile una situazione già di per sé assai complicata.

E’ possibile, in realtà, che il leader democratico intenda tener aperte – finché possibile – entrambe le strade: scivolare verso le elezioni anticipate, se riuscisse davvero ad arrivare ad una nuova legge elettorale, oppure sostenere «criticamente» l’esecutivo, se la riforma del sistema di voto non dovesse andare in porto. I tempi della scelta, però, si vanno intanto inesorabilmente accorciando: e non è questo il suo unico problema. Colloquio dopo colloquio, infatti, Renzi va convincendosi che – al di là di questo o quel roboante proclama – la voglia di tornare alle urne non è poi così diffusa... Ed è un impedimento non da poco.

Per dirla con più chiarezza: al momento, il segretario Pd è probabilmente l’unico leader a volere davvero un voto che – vedendolo probabilmente facile vincitore, stando ai sondaggi – dividerebbe il mondo politico in sconfitti (gli avversari del centrodestra) e succubi (gli alleati di governo e la parte di Pd che gli si oppone). Chi e perché, insomma, dovrebbe regalare a Matteo Renzi elezioni anticipate in un quadro così? Ed è per questo che i suoi toni si alzano, le critiche al governo si fanno sempre più affilate e lo stile politico (quello di sempre) non raccoglie né inviti alla prudenza né al senso di responsabilità, considerata la crisi ancora galoppante.

La sfida tra i due «giovani leoni» democratici si fa dunque incandescente, come era largamente prevedibile. Ma col mondo politico che sta col fiato sospeso e le cancellerie europee che si interrogano su cosa diavolo stia risuccedendo in Italia, restano davvero pochi giorni a Letta e a Renzi per raggiungere quell’intesa a lungo e invano ricercata. Un’intesa, un patto, nel quale – ad onor del vero – quasi nessuno crede più...

Da - http://lastampa.it/2014/01/17/cultura/opinioni/editoriali/tra-i-due-leoni-una-sfida-incandescente-xGT18xK0KloOapZDUiAJNK/pagina.html

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« Risposta #239 inserito:: Gennaio 19, 2014, 05:53:52 pm »

politica
19/01/2014

Renzi: “Letta dovrebbe ringraziarmi, invece dice che è merito suo”
Il segretario: ma col nostro lavoro lui non c’entra


Federico Geremicca
Roma

«E adesso voglio vedere se avranno ancora il coraggio di dire che voglio mettere in crisi il governo, che il mio obiettivo sono le elezioni anticipate e che sono solo immagine e niente sostanza». Sono le nove della sera, Matteo Renzi è in treno e sta facendo ritorno a Firenze. Il lungo e contestatissimo incontro con Silvio Berlusconi è andato bene, c’è un’intesa di massima sull’intero percorso riformatore (dalla legge elettorale all’abolizione del Senato, fino alla riforma del Titolo V) e ti aspetteresti, dunque, un Renzi contento e in gran forma. Ma no, niente da fare. Assolutamente no.  

Il leader Pd, stanco e provato da una settimana dura e segnata da non più di quattro o cinque ore di sonno a notte, è un fiume in piena: «Ho dimostrato che quel che dicevo da mesi era vero: ho messo gli interessi del Paese davanti a tutto - spiega - Li ho messi anche davanti ai miei interessi personali, perchè non c’è dubbio che andare al voto subito sarebbe stata un’occasione, per me. Ora la smetteranno, spero. Anche se non so quanto siano contenti, visto che in tre settimane stiamo facendo un lavoro che non erano stati in grado di fare in dieci anni».

Soddisfatto, dunque: ma solo parzialmente e - come si usa dire in questi casi - con molti sassolini da togliersi dalle scarpe. Il primo riguarda Enrico Letta col quale - nonostante gli sforzi reciproci - proprio non riesce a trovare una sintonia : «Se va in porto l’intesa - dice Renzi - il suo governo è salvo. Dovrebbe ringraziarmi, e invece va mettendo in giro la voce che se si troverà un’intesa su una nuova legge elettorale è per merito suo, per la sua mediazione. Ma credo che tutti abbiano capito che lui non c’entra niente col lavoro che stiamo facendo. Per sapere com’era andato l’incontro con Berlusconi e cosa avevamo deciso, ieri ha dovuto chiamare lo zio...».

Il secondo sassolino, invece, riguarda il Pd. «Lunedì - continua Renzi - faremo la Direzione e vedremo che cosa accadrà. Il modello al quale stiamo lavorando mi pare possa funzionare, ma ciò nonostante sono sicuro che in molti voteranno contro. Diranno che il sistema che il Pd preferisce è il doppio turno... Anche a me sarebbe piaciuto il doppio turno, ma non ci sono i numeri per approvarlo, e bisogna farsene una ragione».

Il segretario, insomma, teme un’altra Direzione tesa e nervosa quanto quella di qualche giorno fa. Immagina già bersaniani e dalemiani in campo contro di lui. Del resto, lo scontro per le primarie è stato durissimo, e troppe ferite sanguinano ancora«Fa niente, faremo i conti anche con loro. Intanto, però, ho fatto sapere a Bersani che se ha voglia e se la sente, domani (oggi per chi legge, ndr) vado a Parma a trovarlo in ospedale per raccontargli a che punto della faccenda siamo arrivati e come pensiamo si potrebbe chiudere. Aspetto solo di sapere da Vasco Errari se Pier Luigi ne ha voglia e se la sente...».

Fa il viaggio di ritorno da solo, così come da solo era venuto da Firenze a Roma. E anche quest’immagine consegna, plasticamente, la fotografia di un leader solitario. Patti con nessuno, poche intese - se non quando assolutamente necessario - e uno stile politico che, per delicatezza, ricorda l’avanzare di un bulldozer in un campo di macerie. Faceva così a Firenze e non ha cambiato metodo una volta arrivato a Roma. Un ciclone. Sembra essere nella capitale e sul palcoscenico nazionale da anni, e invece è stato proclamato segretario un mese fa. Solo che ha preso il Pd al guinzaglio e lo sta portando a spasso come un cagnolino. Ora di qua, ora di là, ora su, ora giù... Anche i fedelissimi - amici e compagni della prima ora - fanno sempre più fatica a seguirne le mosse...

È anche per questo, per questo stile di direzione - a volerla dir così - che si va facendo sempre più assordante il silenzio dei Capi. Veltroni, D’Alema, Marini, Bindi, Finocchiaro... un silenzio assordante. Alcuni sono forse ancora realmente indecisi su cosa pensare; altri scommetterebbero volentieri su un suo fallimento, ma non ne vedono i segni. E poi ci sono quelli che non sanno in cosa sperare. Ma è questione di tempo. E uno degli interrogativi è proprio questo: quanto tempo ha ancora davanti Matteo Renzi prima che finisca lo stupore, il torpore che sembra aver avvolto il Pd? Quando saranno dissotterrate le solite e affilatissime asce di guerra?

«Faremo i conti anche con questo - dice Renzi mentre il treno entra in stazione -. Ma intanto dovrebbero essere contenti. Il Pd perchè siamo ripartiti e tornati al centro della scena. E quelli che stanno al governo, per il fatto che possono andare avanti: anche grazie al lavoro che sto facendo io...». Questo dice Renzi: dovrebbero essere tutti contenti. E invece, chissà perchè, di contenti in giro se ne continuano a vedere pochi che più pochi non si può...

Da - http://lastampa.it/2014/01/19/italia/politica/renzi-letta-dovrebbe-ringraziarmi-invece-dice-che-merito-suo-JT5xyAB9mMK8ag3hvbKAxL/pagina.html
« Ultima modifica: Gennaio 20, 2014, 11:27:07 pm da Admin » Registrato
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