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Autore Discussione: Alberto Ferrari, La lezione di Keynes  (Letto 1870 volte)
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« inserito:: Agosto 17, 2011, 04:24:59 pm »

Alberto Ferrari ,   12 agosto 2011, 16:06

La lezione di Keynes

Economia     

Nel 1930, Keynes, pubblicò su "I trimestrali di Politica" un articolo sul tema degli alti salari in tempo di crisi, sostenendo la strategia della tassazione delle rendite. Così si sarebbe

potuto dare al lavoratore, in termini di servizi essenziali e sociali, quanto di danaro sonante gli sarebbe mancato in busta paga: sicurezza pensionistica, cure mediche gratis, asili scuole

materne formazione scolastica gratis, politiche di favore per la casa per i trasporti e per i beni pubblici primari. Con un obiettivo primario: la difesa della coesione sociale


Nel 1930, Keynes, pubblicò su "I trimestrali di Politica" un articolo sul tema degli alti salari. Eravamo in piene recessione economica e Keynes si chiedeva, in contrasto con quelli che lui

definiva "Il Partito degli Alti salari" se, nel contesto sociale esistente - molto simile all'attuale - , l'innalzamento dei salari fosse il mezzo migliore per migliorare le condizioni

materiali della classe operaia e al contempo favorire un auspicabile aumento dei consumi. Keynes non era un socialista, ma un liberal che considerava però la coesione sociale come un bene

indispensabile al progresso di una nazione, e per questo si preoccupava.

Keynes faceva rilevare che i fautori degli alti salari dimenticavano che l'Inghilterra apparteneva ad un sistema internazionale e non ad un sistema chiuso. Sistema nel quale peraltro era

stato deliberatamente introdotto un grado assai elevato di mobilità internazionale dei flussi finanziari. Ne seguiva che in mancanza di intralci ad investire all'estero, il capitalista

(così lo chiamava) era libero di dirigere le sue risorse in quelle parti del mondo dove maggiore era il suo tornaconto. Il risultato sarebbe stato una fuga di capitali ( e stabilimenti)

all'estero, il peggioramento del cambio e, conseguentemente, una disoccupazione all'interno. Disoccupazione il cui " dichiarato proposito è di far cadere i salari fino a fargli raggiungere

i livelli di quelli esistenti all'estero". Una possibile soluzione era quella di basare gli alti salari su di una più alta efficienza produttiva ( come la Germania di oggi). Ma questa

presupponeva politiche di lungo respiro e di non facile ed immediata attuazione.
Keynes riteneva dunque che, in una situazione di crisi economica, per migliorare le condizioni della classe lavoratrice ( e consentire quindi maggiore capacità di spesa) era inopportuno

tentare di farlo aumentando i salari e riducendo così la remunerazione del capitale al di sotto di quello che si poteva ottenere in altri paesi, senza poter contemporaneamente limitare la

libertà degli investimenti all'estero. La via da ricercare era invece un'altra e consisteva nel "rigorosamente tassare il reddito" una volta che il produttore ne fosse entrato in possesso.

Con la tassazione si sarebbe potuto dare al lavoratore, in termini di servizi essenziali e sociali, quanto di danaro sonante gli sarebbe mancato in busta paga: sicurezza pensionistica, cure

mediche gratis, asili scuole materne formazione scolastica gratis, politiche di favore per la casa per i trasporti e per i beni pubblici primari ( acqua luce gas, ecc).

I vantaggi per Keynes erano numerosi: l'innalzamento dei salari colpisce le imprese in diretta proporzione all'ammontare di lavoro occupato e spinge ad assumere pochi lavoratori o può

portare l'imprenditore ad abbandonare il rischio d'impresa; le tasse ( peraltro modulabili sui diversi fattori d'impresa come per esempio esentare il reinvestimento in ricerca) cadono sui

profitti solo dopo che sono già stati prodotti e dunque non minano direttamente l'impresa. Le tasse, a differenza dei salari, distribuiscono il costo del miglioramento delle condizioni

materiali della classe lavoratrice su di un'area assai più ampia e, azzerando o riducendo i costi per l'accesso ai beni primari, aggiungono capacità di valore di spesa ai salari dei

lavoratori, senza mettere direttamente a rischio l'impresa. L'imprenditore è come la pecora per il buon pastore, il quale non la uccide per prelevarle tutta la lana, ma la tosa avendo

riguardo a non tosarla al punto da farla morire di freddo. E dunque, conclude Keynes, la migliore strada, per tutti, consiste nel continuare a migliorare il programma di servizi sociali,

dando in servizi ciò che, in un sistema di mercato aperto, non può essere dato direttamente in salario.

La lezione di Keynes è essenzialmente una lezione di buon senso dove il bene primario è la difesa della coesione sociale. Essa ci richiama immediatamente alla mente ciò che è avvenuto in

Italia in modo distruttivo in questi ultimi vent'anni. I salari sono aumentati assai lentamente mentre il loro potere di acquisto è andato sempre più calando perché su di essi si è

scaricato, in modo molto più massiccio, tutta una serie di spese che nel passato erano assenti o più limitate, perche derivavano da servizi considerati pubblici ( asili, scuola,

sanità,trasporti, sistema pensionistici, casa, ecc). Servizi resi in questi anni sempre più privati, posti a carico del cittadino e resi più costosi, incerti e spesso truffaldini . Si è

attuato, in nome di un liberismo d'accatto, una politica di continua riduzione di interventi sociali di sostegno, sperando di fare i furbi, con il risultato che si è impoverito e

mortificato pesantemente tutto il mondo del lavoro, oggi non più in grado di reggere. L'esatto contrario di ciò che si e fatto in altri paesi Europei, a cominciare dalla Germania e paesi

nordici dove, pur con i dovuti contrasti, moderazione salariale e sostegno sociale sono andati di pari passo. Consentendo a quelle nazioni di sentirsi "comunità" e non un insieme di tanti

singoli; furbi solo a fottersi l'uno con l'altro.

Non so se quanto sostenuto da Keynes (tassare la ricchezza più che aumentare i salari) sia la cura più utile e rapida per l'attuale situazione italiana. Perché essa presuppone il ritrovare

un senso collettivo del paese. Ma è certo che il maggiore artefice di questo disastro è sicuramente Berlusconi e la sua corte dei miracoli, mossa solo dal suo diretto tornaconto come sempre

più evidenziano le indagini della magistratura a carico di molti esponenti di quel partito. Per questo è dunque urgente che se ne vada. Per poter riportare un minimo, se non di serenità,

almeno di serietà e di credibilità tra quelle forze sociali sindacali imprenditoriali e politiche che dovranno con ogni urgenza sedersi attorno ad un tavolo per cercare di porre rimedio ad

un disastro socio-culturale prima ancora che economico: la convinzione che pochi potessero vivere sulla povertà di molti, portato avanti con scandalosa arroganza da quasi vent'anni. Prima

che sia troppo tardi per l'intero paese.

da - http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18445
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