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Autore Discussione: UMBERTO ECO.  (Letto 133441 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Febbraio 25, 2012, 04:31:32 pm »

Opinioni

Messaggi ai cerebrolesi

di Umberto Eco

Non è diseducativo "raccontare" i libri. Purché chi lo fa li abbia letti.

Il "mediatore" può invogliare alla lettura anche persone che altrimenti non si sarebbero azzardate ad affrontare i classici

(16 febbraio 2012)

Sul sito de "Il fatto quotidiano" trovo un pezzo tutto sommato divertente di Diego Marani che s'intitola "I Karamazov spiegati da Topo Gigio" e continua parlando di una serie di libri che venivano allegati a "Repubblica". Ecco l'inizio: "Nel trionfo dell'universale ignoranza sempre più i libri non si leggono ma si guardano solo da fuori e così infuria la moda del "facilitato per non intelligenti". "Don Giovanni" raccontato da Alessandro Baricco, "I promessi sposi" raccontato da Umberto Eco (due dei classici allegati a "Repubblica"), il lettore del tempo dell'iPad non è capace di leggersi i libri da sé: ha bisogno dello spiego. Così è nata la nuova letteratura assistita per cerebrolesi". Pensando che questi libri siano dovutamente purgati per piacere all'utente di Internet, Marani immagina che Zeffirelli scriva un "Anna Karenina" in cui Anna non prende mai il treno e che ne "Il processo" raccontato da Roberto Saviano, Josef K. diventi un pentito, patteggi la pena e ammetta di essere uomo di Cosentino Marani ha persino inventato un gustoso linguaggio internazionale, l'Europanto, e quindi non è nuovo a ingegnose invenzioni. Per cui non sospetteremo che anche lui abbia una lesione cerebrale, ma colpisce il fatto che parli di libri che evidentemente non ha mai visto. Altrimenti si sarebbe accorto che sono concepiti per bambini (non cerebrolesi) dai sei ai dodici anni, i quali (tranne casi di straordinaria precocità) non sono sospettabili di leggere "Guerra e Pace". Il mio riassunto del racconto manzoniano inizia con un appello collodiano ai "miei piccoli lettori" e quindi non ha nulla a che vedere coi famosi romanzi sintetizzati in cui eccelleva il "Reader's Digest".

Se avevo accettato di tentare l'esperimento manzoniano era perché avevo il lieto e riconoscente ricordo della "Scala d'Oro" una collana Utet della metà del secolo scorso (tra l'altro divinamente illustrata) dove scrittori capaci di scrivere in un bell'italiano raccontavano a bambini e ragazzi (le serie erano divise per fasce d'età, le favole di Grimm per i più piccini e "I miserabili" per i più grandicelli) i grandi capolavori di tutti i tempi. Ero un ragazzo fortunato a cui il padre aveva regalato "I promessi sposi" prima che la scuola glielo rendesse odioso, e quindi quello lo avevo letto in originale, ma avevo avvicinato altri grandi capolavori proprio attraverso i volumi dalla "Scala d'oro". E siccome erano fatti così bene che, anziché esimere dal leggere un giorno gli originali, ne facevano venire la voglia, quando poi ho letto quei testi nella versione completa mi sono accorto che "La scala d'oro" aveva reso bene il senso di quelle opere. Anche se, in periodo fascista in cui non si poteva parlare di suicidi sul giornali, ne "I miserabili" Javert, anziché gettarsi a fiume, andava a dare le dimissioni, ma il suo dramma morale era espresso ugualmente molto bene.

Perché Marani analizza così argutamente libri che non ha mai visto? E' vero che Pierre Bayard aveva pubblicato un divertente ma non mendace libretto (che avevo recensito in una Bustina) sul fatto inconfutabile che noi siamo capaci di parlare di libri che non abbiamo letto: una vita intera non basterebbe a leggere tutti quelli che sono stati scritti, e tuttavia ci accade di accennare, senza dire castronerie, al "Kamasutra" o alla "Tebaide" di Stazio. Ma Bayard non aveva giustificato coloro che "scrivono" di libri che non hanno letto.
Marani, proseguendo nelle sue riflessioni sulla decadenza dei costumi, minaccia (e, avendo io letto lui, lo cito letteralmente) "I fratelli Karamazov" raccontati da Topo Gigio, "Alla ricerca del tempo perduto" raccontato da Aldo, Giovanni e Giacomo, "L'uomo senza qualità" raccontato da Milly Carlucci, "Finnegans wake" raccontato da Christian De Sica, "Com'era verde la mia vallata" raccontato da Calderoli.

Beh, Calderoli a parte, non riuscirei a condannarli, purché il libro da divulgare ai cerebrolesi l'avessero almeno letto - con indubbio vantaggio per la loro crescita morale e civile.

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da espresso.it
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« Risposta #121 inserito:: Marzo 10, 2012, 04:17:00 pm »

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La Bustina

Lo spinacio è più lento della luce

di Umberto Eco

Ovvero: considerazioni sugli errori e sulla nascita dei miti, da Adamo ed Eva al Cern di Ginevra.

Passando per la verdura preferita da Braccio di Ferro

(07 marzo 2012)

I neutrini non vanno più veloci della luce. O almeno ce lo dice "Science": l'errore stava in una banale connessione in fibra ottica tra il ricevitore Gps e il computer usato per calcolare il tempo impiegato dai neutrini a viaggiare dal Cern di Ginevra al Laboratorio del Gran Sasso. Però leggo anche che si è intenzionati a ripetere l'esperimento per vedere se sia davvero vero che non era vero. Vedremo.

Se i neutrini non sono più veloci della luce mi colpisce scoprire che gli spinaci di cui si nutriva Popeye (Braccio di Ferro) non contengono tutto il ferro di cui si diceva. La persuasione che Popeye dovesse la sua forza al ferro contenuto negli spinaci aveva fatto crescere, specie presso i bambini, il consumo di questo ortaggio del 33 per cento, a tal punto che i coltivatori e venditori di spinaci avevano eretto statue in onore di Popeye a Crystal City (Texas), a Chester (Illinois), a Springdale e ad Alma (Arkansas). Ora un articolo di Sergio Della Sala e Stefania de Vito su "Query" mi rivela che, secondo una tabella del Dipartimento dell'Agricoltura degli Usa, cento grammi di spinaci contengono 2,7 milligrammi di ferro mentre cento grammi di fegato di pollo ne contengono 11,63. Pertanto, se Braccio di Ferro avesse inghiottito fegato di pollo con la stessa ingordigia con cui tracannava il contenuto di un barattolo di spinaci avrebbe potuto prendere Superman per una caviglia e lanciarlo in orbita.

Il fatto sarebbe che - secondo una tesi sostenuta a lungo, e nota in ambiente scientifico come "Spides" (Spinach Popeye Iron Decimal Error Story) - Segar, l'autore di Popeye, credeva al ferro degli spinaci a causa di una virgola messa male. Si diceva che nel 1870 tale dottor von Wolff aveva pubblicato una tabella in cui la virgola decimale appariva nel posto sbagliato, e l'errore era stato corretto solo nel 1930 (salvo che Segar non lo sapeva).

Però pare che anche questa ipotesi sia falsa. Non solo, ma i filologi ci dicono che nei fumetti di Popeye non si era mai affermato che gli spinaci contenessero ferro, bensì che contenevano vitamina A, e si veda in proposito, tra gli innumerevoli testi che potreste trovare su Internet, l'articolo del dottor Mike Sutton, ("Spinach, Iron and Popeye") sullo "Internet Journal of Criminology" del 2010 (1-34).
La storia non è irrilevante, visto l'affare miliardario che ne era conseguito: l'episodio ci dice come possano nascere e crescere i miti.

Altre spigolature. Leggo sullo stesso numero di "Repubblica" in cui si dice che i neutrini sono praticamente delle tartarughe, un vasto dibattito sulla necessità del multilinguismo (con articoli di Stefano Bartezzaghi e Maria Novella De Luca). Direte che è ovvio, ai giorni nostri, ma per lungo tempo si era ritenuto che per superare la Babele delle lingue fosse necessario inventare una lingua veicolare universale, e molte ne sono state proposte (alcune ottime come l'Esperanto), salvo che alla fine si è imposta una lingua naturale come l'inglese. Ora questa idea di una lingua universale nasceva da un altro mito millenario, e cioè che fosse esistita alle origini una lingua di Adamo, una lingua perfetta, che era andata perduta con lo scandalo della torre di Babele. Da cui la ricerca spasmodica di questa lingua perduta, o di qualcuna che la sostituisse.

Ora sappiamo che di lingue perfette non ne esistono e che le lingue nascono per crescita spontanea a seconda dei paesi. Però c'è una bella storia raccontata da un pensatore arabo dell'XI secolo, Ibn Hazm. Esisteva all'inizio una lingua data da Dio, ma questa lingua comprendeva tutte le lingue, che solo dopo si sarebbero separate. Il dono di Adamo era dunque il poliglottismo, e per questo tutti gli uomini sono capaci di comprendere la rivelazione in qualsiasi lingua sia espressa.

Ecco un bel mito per incoraggiare il multilinguismo. E cominciando presto, dall'età in cui si diventa multilingui senza fatica.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/lo-spinacio-e-piu-lento-della-luce/2175666/18
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« Risposta #122 inserito:: Aprile 02, 2012, 12:08:51 am »


La Bustina

Leggiamoci, prego, la Costituzione

di Umberto Eco

Il governo Monti non è una sospensione delle libertà democratiche.

È un caso previsto dai nostri costituenti.

A sostenere il contrario sono gli stessi che da anni parlano di Seconda Repubblica. Sbagliando

(29 marzo 2012)

Nel corso delle discussioni sul governo Monti e tra le varie e giuste preoccupazioni per la ricomparsa dei partiti nel 2013, viene da taluni agitato un fantasma, quello che l'esistenza di un governo tecnico costituisca una sospensione delle libertà democratiche.

Ricordo un'intervista, due mesi fa, con un giornalista inglese, animato da diffidenza sia verso l'Unione europea che verso l'euro, il quale si scandalizzava per un governo i cui membri non erano stati eletti dal popolo. Gli avevo fatto notare che in America Kissinger non era stato eletto dal popolo, e dal popolo non sono eletti i membri della corte suprema, che in fin dei conti il nostro presidente della Repubblica è pur sempre nominato dal parlamento mentre la regina Elisabetta no (e tuttavia nessuno pensa che in Gran Bretagna la democrazia sia sospesa), che in Italia c'erano stati altri governi tecnici (per esempio Dini e Ciampi), proposti da un presidente della Repubblica eletto dal parlamento, a sua volta eletto dal popolo e investito della potestà di dare o negare la fiducia al governo proposto dal presidente della Repubblica. Non era convinto, e mi sono detto che non conosceva la nostra costituzione, e pazienza, gli inglesi sono sempre poco informati circa quel che accade sul continente, dove ci si ostina a guidare a destra e a mangiare le rane.

Ma queste cose si dicono anche in Italia, e da parte di parlamentari che la costituzione dovrebbero conoscere (e su di essa, prima di essere ammessi in parlamento, dovrebbero sottoporsi a un esame, così come i tassisti debbono fare per la toponomastica cittadina, altrimenti niente licenza). Se leggessero la nostra costituzione troverebbero quello che dicevo al mio interlocutore inglese, che per l'articolo 83 "il presidente della Repubblica è eletto dal parlamento in seduta comune dei suoi membri", che per l'articolo 92 "il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri", e che per l'articolo 94 "il governo deve avere la fiducia delle due Camere". Però scoprirebbero di più, e cioè che per l'articolo 64: "I membri del governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono".

Ohibò, per i costituenti era così ovvio che non fosse necessario, per essere membro del governo, essere eletto dal popolo, che si sono solo preoccupati di precisare che in ogni caso i membri del governo dovrebbero avere la decenza di partecipare ai lavori del parlamento e addirittura possono esservi obbligati. Ovviamente i costituenti non pensavano che un governo "tecnico" non fosse un governo "politico", ma davano per scontato che tuttavia non fosse composto da deputati o senatori.

Quindi il dibattito sulla presunta sospensione della democrazia è opera di signori che non hanno mai letto la Costituzione. E sono probabilmente gli stessi che da anni continuano a parlare (sostenuti da molti giornalisti, purtroppo) di Seconda Repubblica. E' una scopiazzatura dal lessico politico francese, ma in Francia quando si parla di Quinta Repubblica si pensa al sistema presidenziale dovuto a De Gaulle. E questa Repubblica era quinta perché rimpiazzava la Quarta, che si era sostituita alla Francia di Vichy, la quale a sua volta aveva liquidato la Terza Repubblica, sorta dopo la caduta del Secondo Impero; e la Terza sostituiva la Seconda, nata con la rivoluzione del 1848 e il crollo dei vari regimi monarchici che avevano seguito il collasso della Prima, affossata da Napoleone e dal Primo Impero.

Dunque le Repubbliche (in Francia) si contano a seconda dei mutamenti costituzionali che hanno seguito sconvolgimenti totali dello Stato. In Italia non è accaduto niente di simile, i politici e la costituzione della cosiddetta Seconda Repubblica sono gli stessi della prima, e chi parla di Seconda Repubblica si riempie da anni la bocca di aria fritta. E vogliono persino modificare una costituzione che non hanno mai letto.

 
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« Risposta #123 inserito:: Aprile 18, 2012, 04:13:25 pm »

Nessuno è ateo in trincea

di Umberto Eco

E' uno dei più celebri aforismi di Marcello Marchesi, intellettuale, poeta, scrittore e comico di cui ricorre il centenario della nascita.

Era il re delle battute fulminanti e un genio del gioco di parole

(17 aprile 2012)

Ho letto recentemente due articoli. Uno, di Sergio Romano, rievocava quel personaggio di diplomatico e parodista che era stato Paolo Vita-Finzi. La sua "Antologia apocrifa" era stata pubblicata da Formiggini nel 1927 e nel 1961 da Ceschina. Ne ero stato totalmente conquistato e, più tardi (lavorando alla Bompiani), avevo pubblicato "Quasi come" (1976), un'antologia di parodie e di imitazioni di Guido Almansi e Guido Fink, che di Vita-Finzi riportava ben otto testi. Risultando poi l'opera di Vita-Finzi ormai introvabile, sempre da Bompiani ne avevo consigliato la riedizione nel 1978.

Di quella cinquantina di parodie io amo particolarmente "Convalescenza" di Ungaretti, non tanto per la poesia ("Rilievito - docilmente - a questa brezza - fievole") ma per la nota finale: "Di questa poesia sono stati stampati dieci esemplari numerati su carta del Giappone, con ritratto dell'Autore e riproduzione del manoscritto autografo, che costituiscono l'edizione originale; 30 esemplari su carta Fabriano, e 50 esemplari su papier d'Arches. Precede uno studio di 148 pagine di Alfredo Gargiulo. La poesia ha inoltre un commento di Paul Valéry e note esplicative di Valéry Larbaud. Seguono una versione in francese di Lionello Fiumi e uno studio sulle fonti e sulle varianti".

Però il pezzo più celebre "L'io e il non io", è una parodia di Giovanni Gentile. Cito le ultime quattro righe: "Ma perché questo è l'Io, questa è la sua legge: che esso non possa essere Io senza essere non-Io, e per essere Io deve negare in sé quella identità che sarebbe la negazione di sé, in quanto egli attualmente è altro da sé". La cosa straordinaria è che poi si era scoperto che tutto il pezzo non era una parodia ma la riproduzione di tre pagine autentiche di Gentile.

Ho letto poi qualche articolo per celebrare il centenario della nascita di Marcello Marchesi. Potrebbe apparir fuori luogo ricordarlo insieme a Vita-Finzi, che era un raffinato e umbratile diplomatico, mentre Marchesi scriveva per le riviste musicali e appariva in televisione, tra fanciulle procaci, come "signore di mezza età". Ma era uomo più profondo del mestiere che si era scelto. Di lui, sempre lavorando in casa editrice, avevo pubblicato nel 1971 "Il malloppo", una sorta di monologo ininterrotto fatto di battute fulminanti.

Certamente alcune erano tratte dall'immenso repertorio del comico corrente, e rimane indeciso se fosse davvero sua "Diamo a Cesare quel che è di Cesare: ventitre pugnalate". Ma basterebbe ricordare (che so) "Il sesso è sporco? basta lavarlo. L'importante è che la morte ci trovi vivi. Domine subisco. Dal mio fioraio le corone da morto le fa la nonna, così si abitua all'idea. Nessuno è ateo in trincea".

Nel 1977 Marchesi mi aveva parlato di un altro suo progetto, e avevo avuto l'impressione che il libro di Marchesi, che doveva intitolarsi "L'alibi", intendesse narrare una storia "mia". Sta di fatto che da gran tempo registravo sui miei taccuini quello che avevo fatto e dove ero nel tal giorno (come "ristorante con Giuseppe", "visto 'Rio bravo'", "convegno a Roma"), e rileggendo quelle note telegrafiche mi ero reso conto che avevo un alibi di ferro per ogni delitto famoso, per il presunto omicidio di Raoul Ghiani (non potevo essere su quel treno quella notte perché ero a teatro con vari amici), per la strage di piazza Fontana (ero addirittura a New York) e per vari altri crimini, durante i quali alla data fatale stavo facendo una conferenza (che so) a Battipaglia. Ma quello che per me era un gioco, per Marchesi (citava un aforisma non suo, "essere innocenti è pericoloso perché non si hanno alibi") era diventata un'ossessione.

Quell'ossessione poteva diventare un grande romanzo e avevo esortato entusiasticamente Marchesi a scriverlo. Ma Marchesi non l'ha poi scritto e aveva certamente un alibi. Era morto l'anno dopo, nel fiore della mezza età, tuffandosi da uno scoglio.


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« Risposta #124 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:47:33 pm »

Niels Klim

Porta a Porta

di Umberto Eco

In un classico della letteratura utopica le dispute retoriche sono come i combattimenti fra galli, con tanto di istigatori che pungolano i contendenti ai fianchi. Sembra la descrizione di un talk show

(26 aprile 2012)

Quando mi sarò definitivamente stancato di cercare ogni quindici giorni argomenti di qualche attualità per questa rubrica, vorrei iniziare una serie di recensioni in ritardo, in cui possa parlare di libri usciti tanto tempo fa, come se fossero usciti oggi e fosse utile rileggerli. Per esempio mi è capitato di tirare fuori da un mio scaffale l'edizione 1745 del "Nicolai Klimii iter subterraneum" di Ludwig Holberg (la prima, che non ho, era del 1741, ma era uguale) per guardarne le curiosissime illustrazioni. Però (con molte più incisioni da una edizione posteriore) è più comodo leggerne la traduzione italiana, la prima dopo 250 anni ("Il viaggio sotterraneo di Niels Klim", Adelphi 1994).
L'opera del danese Holberg è un classico della letteratura utopica, dopo Tommaso Moro, Campanella e Swift. A differenza dei suoi predecessori l'universo che scopre Niels Klim non è sulla superficie ma all'interno della terra, che è cava (idea che avrebbe poi avuto molta fortuna nella fantasia di molti occultisti sino ai giorni nostri, passando persino per i nazisti), per cui dentro il nostro globo ruotano altri pianeti.

Lasciando perdere altre caratteristiche di quei luoghi, dove gli uomini hanno forma arborea, sono interessanti vari usi e costumi che Niels Klim trova singolarmente diversi da quelli terrestri (traendo ovviamente dalla differenza alcune moralità). Ecco un esempio.

"Fra le altre ottime regole del principato vi era la concessione di divertimenti innocui, nella convinzione che rafforzino l'animo e permettano di affrontare le attività meno piacevoli, allontanando le nubi scure e la malinconia, che sono fonte di inquietudini, disordini e cattivi propositi... Notai però con indignazione che annoveravano fra gli spettacoli e le commedie anche le dispute retoriche: in determinati periodi dell'anno i disputatori si affrontano a coppie come i gladiatori, quasi con le stesse regole con cui da noi si svolgono i combattimenti fra galli o animali feroci, con scommesse e un premio stabilito per i vincitori. Perciò i ricchi hanno l'abitudine di allevare i disputatori come da noi si allevano i cani da caccia... Un ricco cittadino di nome Henochi aveva accumulato in soli tre anni una gran fortuna, sommando i premi di un unico disputatore allevato a quello scopo... Con stupefacenti fiumi di parole quel campione abbatteva, costruiva, faceva quadrare il cerchio, strepitava con insidiosi sillogismi e sofismi dialettici, e con distinzioni, eccezioni e limitazioni si prendeva gioco di qualsiasi oppositore e lo riduceva facilmente al silenzio. Talvolta assistetti alle dispute, ma non senza amarezza, poiché mi sembrava crudele e vergognoso trasformare in spettacoli quegli esercizi tanto nobili, che solitamente costituiscono un vanto per i nostri ginnasi... A irritarmi non era tanto il fatto in sé, quanto il modo in cui si svolgeva: venivano assoldati degli istigatori che non appena vedevano languire l'impeto della disputa pungolavano i contendenti ai fianchi per spronarli e destarli dal loro torpore...

Oltre a questi disputatori, che i sotterranei in tono di scherno chiamano Masbaki, ovvero litiganti, gareggiavano quadrupedi selvatici e domestici, e uccelli ferocissimi esibiti agli spettatori per danaro. Chiesi al mio ospite come potesse un popolo dotato di tanto giudizio relegare fra i giochi circensi pratiche così nobili, che favoriscono lo sviluppo della capacità oratoria, la ricerca della verità e la crescita intellettuale. Mi rispose che una volta, nei secoli barbari, queste competizioni erano molto stimate, ma l'esperienza aveva insegnato che le dispute possono nascondere la verità e rendere sfrontata la gioventù... I risultati poi dimostravano che con il silenzio, la lettura e la meditazione i giovani imparano più rapidamente".

Sorridendo per queste favole, ho chiuso il libro e sono tornato alla realtà mettendomi a guardare alla tv un bel dibattito politico-giudiziario, con onorevoli, avvocati e giornalisti che, pungolati dal conduttore, s'interrompevano a vicenda.
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« Risposta #125 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:36:27 am »

Razzismo

Perché la Lega fa orrore

Umberto Eco

Gli italiani si stanno scandalizzando per quattro diamanti e un paio di diplomi albanesi.

Ma i veri motivi per cui disprezzare il partito di Bossi erano e sono molto più gravi.

E non bisogna dimenticarlo. Mai

(10 maggio 2012)

Il lettore che, in una grigia mattina di questo maggio piovoso, trovasse, abbandonato in treno e mancante della copertina e delle prime pagine questo libro (romanzo?) di Furio Colombo, si chiederebbe perché l'autore si sia rimesso a fare Dickens, coi suoi ragazzini macilenti esposti a feroci punizioni corporali, voglia rievocare le vicissitudini del povero Remy di "Senza famiglia" nella tana del signor Garofoli, abbia scopiazzato le vicende dei "boveri negri" dell'ormai insopportabile "Capanna dello zio Tom" o, peggio ancora, si sia ridotto a presentare come attuali le storie del profondo sud americano ai tempi di Wallace, in cui le "bovere negre, sì badrone" venivano sbattute giù dai trasporti pubblici. Evvia, caro Colombo, viviamo in altri tempi - per fortuna!

Il nostro lettore proverebbe però un moto di sorpresa se poi ritrovasse il libro completo di copertina e prefazione, vedesse che è intitolato "Contro la Lega" (Laterza, per soli 9 euro tanti orrori da far impallidire Stephen King) e non contiene storie inventate bensì un puntiglioso resoconto di episodi di razzismo e persecuzione perpetrati in vari comuni amministrati dal noto partito. Sono episodi che Colombo in quanto deputato ha cercato spesso di denunciare in parlamento ricevendo una volta, dal deputato leghista Brigandì, come motivata contro-argomentazione, "Faccia da culo!" (sic).

In questo malauguratamente non-romanzo si racconta "una storia italiana, dove carabinieri e vigili urbani distruggono con le ruspe i campi nomadi, tra le due e le tre del mattino, terrorizzando i bambini" e dove a scuola i bambini sinti, anche se cittadini italiani, sono assegnati a classi separate e - come i bambini stranieri - restano a digiuno all'ora della mensa scolastica. Il libro comincia con la storia della famiglia Karis. Il padre, cittadino italiano da generazioni, viveva a Chiari facendo il ferrivecchi. Un'improvvida amministrazione di centro sinistra gli aveva assegnato un prefabbricato di tre stanze ma la successiva amministrazione padana nel 2004 (sindaco il senatore Mazzatorta) si era ripreso il terreno perché "era cambiato il piano regolatore": la casa dei Karis veniva abbattuta, il comune cancellava la residenza, i bambini non potevano più andare a scuola e l'intera famiglia si riduceva a vivere in una roulotte. Così che di fronte a questo inaccettabile caso di nomadismo i vigili urbani battevano nottetempo con mazze di ferro sul veicolo se il padre si era fermato per riposo o per fare pipì.


Ma il libro parla di ogni genere di extra comunitari. A Termoli i vigili urbani acciuffano un ambulante del Bangladesh, lo picchiano e lo rinchiudono nel portabagagli dell'auto di servizio. A Parma vigili urbani in borghese prendono Emanuel Bonsu, giovane nero che stava recandosi alla scuola serale, lo riempiono di botte e solo più tardi si accorgono che non spacciava affatto droga come avevano sospettato. Su un autobus di Varese un quattordicenne ordina a una coetanea con il velo di lasciargli il posto sull'autobus, la ragazza resiste, e lui e i suoi compagni la prendono a calci e a pugni. A Bergamo su un autobus una passeggera grida che le hanno rubato il cellulare, il controllore decide che il ladro non può essere che un ragazzo di colore, l'autobus viene fermato, il ragazzo spogliato nudo, il cellulare non viene fuori (evidentemente il ladro era un altro), ma gli trovano indosso settanta euro e il controllore sequestra la somma e la signora, grata, l'incassa come risarcimento.

Siamo appena a pagina 11 di questo non-romanzo e i capitoli seguenti spaziano delle sevizie subite in Libia da disperati che militari italiani hanno fermato in mare e restituito agli aguzzini di Gheddafi, alle accuse di "nasone" a Gad Lerner, in un crescendo di piacevoli e romanzesche atrocità.

E' curioso che gli italiani si stiano scandalizzando per quattro diamanti e due o tre diplomi a pagamento (caso mai laurearsi in Albania non è forse indice di scarso razzismo?) mentre da anni accettano che avvengano tutte queste cose, che il libro asciuttamente racconta.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-la-lega-fa-orrore/2180494/18
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« Risposta #126 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:51:12 am »

Razzismo

Perché la Lega fa orrore

Umberto Eco

Gli italiani si stanno scandalizzando per quattro diamanti e un paio di diplomi albanesi.

Ma i veri motivi per cui disprezzare il partito di Bossi erano e sono molto più gravi.

E non bisogna dimenticarlo. Mai

(10 maggio 2012)

Il lettore che, in una grigia mattina di questo maggio piovoso, trovasse, abbandonato in treno e mancante della copertina e delle prime pagine questo libro (romanzo?) di Furio Colombo, si chiederebbe perché l'autore si sia rimesso a fare Dickens, coi suoi ragazzini macilenti esposti a feroci punizioni corporali, voglia rievocare le vicissitudini del povero Remy di "Senza famiglia" nella tana del signor Garofoli, abbia scopiazzato le vicende dei "boveri negri" dell'ormai insopportabile "Capanna dello zio Tom" o, peggio ancora, si sia ridotto a presentare come attuali le storie del profondo sud americano ai tempi di Wallace, in cui le "bovere negre, sì badrone" venivano sbattute giù dai trasporti pubblici. Evvia, caro Colombo, viviamo in altri tempi - per fortuna!

Il nostro lettore proverebbe però un moto di sorpresa se poi ritrovasse il libro completo di copertina e prefazione, vedesse che è intitolato "Contro la Lega" (Laterza, per soli 9 euro tanti orrori da far impallidire Stephen King) e non contiene storie inventate bensì un puntiglioso resoconto di episodi di razzismo e persecuzione perpetrati in vari comuni amministrati dal noto partito. Sono episodi che Colombo in quanto deputato ha cercato spesso di denunciare in parlamento ricevendo una volta, dal deputato leghista Brigandì, come motivata contro-argomentazione, "Faccia da culo!" (sic).

In questo malauguratamente non-romanzo si racconta "una storia italiana, dove carabinieri e vigili urbani distruggono con le ruspe i campi nomadi, tra le due e le tre del mattino, terrorizzando i bambini" e dove a scuola i bambini sinti, anche se cittadini italiani, sono assegnati a classi separate e - come i bambini stranieri - restano a digiuno all'ora della mensa scolastica. Il libro comincia con la storia della famiglia Karis. Il padre, cittadino italiano da generazioni, viveva a Chiari facendo il ferrivecchi. Un'improvvida amministrazione di centro sinistra gli aveva assegnato un prefabbricato di tre stanze ma la successiva amministrazione padana nel 2004 (sindaco il senatore Mazzatorta) si era ripreso il terreno perché "era cambiato il piano regolatore": la casa dei Karis veniva abbattuta, il comune cancellava la residenza, i bambini non potevano più andare a scuola e l'intera famiglia si riduceva a vivere in una roulotte. Così che di fronte a questo inaccettabile caso di nomadismo i vigili urbani battevano nottetempo con mazze di ferro sul veicolo se il padre si era fermato per riposo o per fare pipì.


Ma il libro parla di ogni genere di extra comunitari. A Termoli i vigili urbani acciuffano un ambulante del Bangladesh, lo picchiano e lo rinchiudono nel portabagagli dell'auto di servizio. A Parma vigili urbani in borghese prendono Emanuel Bonsu, giovane nero che stava recandosi alla scuola serale, lo riempiono di botte e solo più tardi si accorgono che non spacciava affatto droga come avevano sospettato. Su un autobus di Varese un quattordicenne ordina a una coetanea con il velo di lasciargli il posto sull'autobus, la ragazza resiste, e lui e i suoi compagni la prendono a calci e a pugni. A Bergamo su un autobus una passeggera grida che le hanno rubato il cellulare, il controllore decide che il ladro non può essere che un ragazzo di colore, l'autobus viene fermato, il ragazzo spogliato nudo, il cellulare non viene fuori (evidentemente il ladro era un altro), ma gli trovano indosso settanta euro e il controllore sequestra la somma e la signora, grata, l'incassa come risarcimento.

Siamo appena a pagina 11 di questo non-romanzo e i capitoli seguenti spaziano delle sevizie subite in Libia da disperati che militari italiani hanno fermato in mare e restituito agli aguzzini di Gheddafi, alle accuse di "nasone" a Gad Lerner, in un crescendo di piacevoli e romanzesche atrocità.

E' curioso che gli italiani si stiano scandalizzando per quattro diamanti e due o tre diplomi a pagamento (caso mai laurearsi in Albania non è forse indice di scarso razzismo?) mentre da anni accettano che avvengano tutte queste cose, che il libro asciuttamente racconta.

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« Risposta #127 inserito:: Giugno 05, 2012, 07:09:01 pm »

Opinioni

Vi avviso che sono morto, ma è falso

di Umberto Eco

Su Internet si sta diffondendo la comunicazione sotto mentite spoglie. Così gli utenti non si fideranno mai.

Come accadde quando il Corriere pubblicò un articolo apocrifo di Pasolini

(24 maggio 2012)

 La settimana scorsa su Internet sono apparse centinaia di notizie sulla presunta morte di Gabriel García Márquez. Immediatamente dopo le stesse fonti riferivano che la notizia era stata data da me sul mio account Twitter. Immediatamente dopo, ancora la stesse fonti, e altre ancora, tra cui alcune autorevolissime, scoprivano che io non sono registrato su Twitter e che quindi quel mio indirizzo era falso. Se pure alcuni imbecilli che beccano la prima notizia e poi non controllano avessero continuato a moraleggiare sul mio presunto scherzo (si sa, conflitti tra scrittori) la maggior parte delle inchieste successive appurava che circolano in Internet anche altri indirizzi col mio nome senza che io ne sappia nulla.

Nulla di straordinario, voi potete registrarvi su Internet come "Leonardo da Vinci" e nessuno ci può far niente, figuratevi cosa accade con nomi di scrittori contemporanei. D'altra parte altri interventi ancora avanzavano l'ipotesi che l'autore della bufala fosse quel Tommaso De Benedetti già autore di colpi del genere, che architetta proprio per dimostrare (come pare abbia detto una volta al "Guardian") che "i Social Media sono la fonte meno verificabile del mondo". Che sia così lo si sapeva da quel dì, e l'hanno saputo i poveretti che, essendosi invaghiti per corrispondenza di una fanciulla che si diceva bellissima, hanno poi scoperto che si trattava di un anziano pensionato delle dogane affetto da Herpes Zoster. E gli unici che possono poi controllare davvero "de tactu" sono i pedofili, quando riescono ad agganciare un minorenne più credulo degli altri.
 
E' vita questa? No, e mi ricordo di un avvenimento alla fine degli anni Sessanta quando qualcuno (in tempi in cui non esistevano né e-mail né fax) aveva mandato per lettera un articolo al "Corriere della sera" a firma Pier Paolo Pasolini, e l'articolo era stato pubblicato. Scandalo, era un falso e una burla, Pasolini non ne sapeva niente. La prima reazione era stata di terrore: come avrebbe fatto da quel momento ogni giornale a essere sicuro che l'articolo che riceveva, se non era consegnato di persona, fosse davvero di colui che lo firmava? Ma all'epoca avevo scritto un articolo in cui dicevo che non ci si doveva preoccupare. La società, anche se accetta l'idea che esistano bugiardi e falsari, si basa sul mutuo accordo per cui in generale chi parla dice la verità. Altrimenti non potremmo prendere un dato treno per Roma perché l'orario ferroviario ci avrebbe mentito, quando si chiamassero i vigili del fuoco per un incendio quelli non verrebbero perché sospetterebbero uno scherzo, quando entriamo in una banca potrebbe trattarsi di un luogo fittizio opportunamente mascherato (come la sala corse del film "La stangata"), se chiamiamo un medico si potrebbe presentare un laureato in Albania, e potrebbe darsi che avesse mentito nostra madre quando ci ripeteva che eravamo nati dal ventre suo (per non dire della perplessità della Vergine Maria di fronte a quell'androgino con ali di cartone che le si era insinuato nella loggetta).

Invece, scrivevo, la società sa che il mutuo impegno alla verità è essenziale a tutti, e se crollasse ciascuno di noi sarebbe perduto. Ecco perché, commentavo, scherzi come quello del falso Pasolini si fanno una volta ma poi, per una sorta di istinto sociale, si smette. E così in effetti è stato. Salvo che ora con Internet si sta diffondendo una sorta di abitudine alla comunicazione sotto mentite spoglie, e gli utenti si abitueranno pian piano a non fidarsi mai. Se è vero che pullulano sui vari Twitter e Facebook i politici, di cui diffidiamo per abitudine, con l'andar del tempo anche i solitari assolutamente bisognosi di un contatto umano, sia pure virtuale, inizieranno a rendersi conto di vivere in un universo del sospetto generalizzato, dove dovresti dubitare di tutti, come un abitante di Clerville che a ogni istante immagina che sotto la maschera di plastica di una ricca ereditiera, di un famoso chirurgo, di un ecclesiastico o di un commerciante in diamanti, si celino Diabolik ed Eva Kant.

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« Risposta #128 inserito:: Giugno 17, 2012, 06:31:09 pm »

IN PIAZZA

Eco e Bartezzaghi divertono

"Ma dove va la storia?"

Marconi e internet, gli errori e la creatività: andiamo avanti e indietro, a destra e sinistra...

di MICHELE SMARGIASSI


BOLOGNA - Alle nove, la storia fa un passo indietro. Anzi un passo a destra e uno a sinistra, senza decidere... La storia è "il gambero di Buridano". Alle nove di sera si affolla ancora di due o tremila persone piazza Santo Stefano, che Riccardo Luna aprendo la serata ribattezza "la piazza dei miracoli" perché si riempie ogni volta in queste giornate con Repubblica, ora si riempie per Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi, si riempie sulla fiducia perché con quel titolo, "Il gambero di Buridano" appunto, c'è da aspettarsi di tutto, "infatti anche io vorrei saperne qualcosa di più", s'incuriosisce Eco.

Termina di nuovo nel cuore medievale di Bologna la seconda giornata della Repubblica delle idee, un salotto serale rilassato e con molta voglia di sorridere, senza fretta, Luna ha il tempo di chiedere "com'è andata oggi?" al pubblico e pescare qualche risposta, Maria Rita: "Ho ascoltato Veronesi, Zagrebelsky e Ligabue", complimenti per l'assortimento di interessi, una signora venuta da Pesaro in treno: "Aspesi, Marzano e quel giornalista che racconta le storie, come si chiama... Rumiz". Una piccola ovazione per l'arrivo del fondatore Eugenio Scalfari e si comincia davvero, Eco sale sul palco impartendo una benedizione pontificale a Piergiorgio Odifreddi seduto in prima fila e comincia a spiegare che "fino all'Ottocento siamo stati abituati hegelianamente che la storia marcia in avanti, poi ci samo resi conto che la storia fa dei balzi indietro", per esempio "Marconi ha inventato il telegrafo senza fili ma Internet ha fatto fortuna tornando ai fili, da Milano a Roma una volta si prendeva l'aereo e adesso si fa prima in treno, e questo perché la storia va a balzelloni".

Ma questo gambero che è la storia, aggiunge Bartezzaghi, "in realtà va indietro solo perché non sa bene dove andare", come l'asino della favola, morto di fame per l'indecisione fra fieno e avena. Ma non si può darle torto, alla storia, quando i vantaggi si ribaltano in svantaggi e la tecnologia che doveva liberare invece incatena, e tutto sembra diverso da come doveva essere. Aveva ragione Rodari con il suo Libro degli errori: "Il mondo sarebbe bellissimo se fossero solo i bambini a sbagliare". Come si sopravvive dunque alla prevalenza dell'errore? Per Eco, c'era una volta un controllo dell'errore, "a cominciare dal maestro di scuola. Ora con Internet c'è una circolazione di errori incontrollabile", che produce senza interruzione correzioni e nuovi errori. Certo "l'errore è fondamentale per il processo creativo", si impara dagli errori, qundi il problema non è l'esistenza degli errori: "quella che è in crisi è la capacità di riconoscerli, sanzionarli, emendarli".

Eppure la conoscenza va avanti, accumula saperi fatti di parole, deboli contraddittorie ma "necessarie per misurare il mondo". Conoscere, rivendica Eco, "è uno dei piaceri inevitabili dell'uomo". Delle parole bisognerà dunque ancora fidarsi, senza le parole non ci sono le idee. Quando Eco e Bartezzaghi si congedano, sale sul palco Aessandro Bergonzoni, attore-autore che delle parole è un giocoliere. Tornare indietro? Cambiare idea come il gambero di Buridano? Non è quello il problema, stabilisce Bergonzoni, "perché non siamo mai noi che cambiamo idea, sono le idee che cambiano noi".
 

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« Risposta #129 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:22:27 pm »

Opinione

Perché i politici non capiscono

di Umberto Eco

Inutile che ci arrabbiamo. Vivono tutti, spesso da decenni, chiusi nei loro uffici, nei loro palazzi, nelle loro auto blu.

Non hanno idea di cosa significhi andare fare la spesa o prendere un tram. Insomma, sono tagliati fuori dalla realtà.

Anche per questo, dopo un po', dovrebbero tornare tutti a fare una vita 'normale'

(12 giugno 2012)

Giovanna Cosenza, nel suo recente "Spotpolitik" (Laterza), studia la perdurante incapacità della classe politica italiana a comunicare in modo persuasivo coi suoi elettori. Certamente si è quasi abbandonato il politichese burocratico, anche se ancora Cosenza ne ritrova spietatamente le tracce in un comunicatore della nuova generazione come Vendola. E non tanto da Berlusconi ma addirittura da Kennedy era iniziata l'era della comunicazione politica basata non sul simbolo o sul programma bensì sull'immagine (e il corpo) del candidato. E ancora assistiamo al passaggio, definitivo e ormai inevitabile, dal comizio allo spot pubblicitario. Ma mi pare che su un punto questo libro ritorni dall'inizio alla fine: i nostri politici non riescono a comunicare perché quando parlano non si identificano coi problemi della gente a cui si rivolgono, ma sono incentrati "autoreferenzialmente" sui loro problemi privati.

Ma come, anche Berlusconi, che ha saputo parlare con parole semplici, slogan efficaci, approcci basati sul sorriso e addirittura sulla barzelletta? Anche. Forse non in quei momenti felici in cui ha saputo porsi dal punto di vista dei suoi ascoltatori e - interpretando i loro desideri più inconfessati - ha detto loro che era giusto non pagare le tasse; ma in generale, e specie negli ultimi tempi, egli parlava ossessivamente dei suoi nemici, di chi gli remava contro, dei magistrati che gli volevano male, e non del fatto che la "gente" stava avvertendo la crisi economica che poi non è più riuscito a nascondere.

Ora, lasciando ai lettori il gusto di centellinare le cattiverie che Cosenza non risparmia a nessuno (e forse il più bersagliato è Bersani), vorrei chiedermi perché i nostri uomini di governo non sanno immedesimarsi nei problemi delle persone comuni. La risposta l'aveva data tempo fa Hans Magnus Enzesberger in un articolo (non ricordo più con che titolo e dove l'avesse pubblicato) in cui rilevava che l'uomo politico contemporaneo è l'essere più separato dalla gente comune perché vive in fortini protetti, viaggia in automobili blindate, si muove contornato da gorilla, e pertanto la gente la vede ormai solo di lontano, né gli capita mai di fare la spesa in un supermercato o la coda a uno sportello comunale. La politica, minacciata dal terrorismo, ha dato vita ai membri di una casta condannata a non sapere nulla del paese che deve governare. Casta sì, ma nel senso dei paria indiani, tagliati fuori dal contatto con gli altri esseri umani.

Giovanna Cosenza Giovanna Cosenza Soluzioni? Occorrerebbe stabilire che l'uomo politico non può stare né al governo né in parlamento se non per un periodo molto limitato (diciamo i cinque anni di una legislatura o, a essere indulgenti, due). Dopo dovrebbe tornare a vivere da persona normale, senza scorta, come prima. E se poi, dopo un determinato periodo di attesa, ritornasse al potere, avrà avuto alcuni anni di esperienze quotidiane fuori-casta.

Questa idea potrebbe suggerirne un'altra: non dovrebbe esistere una categoria di politici di professione, e parlamento e governo dovrebbero essere lasciati a cittadini normali che decidono di servire il paese per un breve periodo. Ma sarebbe un errore, e dannosissimo, da grillismo deteriore.

Chi si dedica al mestiere della politica, in varie organizzazioni, apprende delle tecniche di gestione della cosa pubblica e, vorrei dire, un'etica della dedizione, come accadeva ai politici professionisti della Dc o del Pci che facevano generosa gavetta nelle associazioni giovanili e poi nel partito. E, per la scelta che avevano fatto, non avevano messo insieme imprese private, studi professionali, fabbrichette o imprese edili, e quindi, entrati in parlamento o al governo, non erano tentati di salvaguardare o addirittura incrementare le proprie ricchezze - come accade invece a chi, messo in parlamento da un Capo a cui poi deve rendere quel favore e dal quale riceve l'esempio di un disinvolto conflitto d'interessi, è portato a imitarlo. Che poi, anche lavorando in un partito, si possa cedere alla corruzione, sarebbe malaugurato incidente, ma non farebbe parte di un sistema.

     
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« Risposta #130 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:03:02 am »

Stupido, metti via quel telefonino

di Umberto Eco

Filmare o fotografare, per poi magari caricare il tutto in Rete.

Ormai molte persone non pensano ad altro quando assistono a un evento.

E così rinunciano a capire che cosa sta succedendo davvero davanti ai loro occhi

(10 luglio 2012)

Qualche tempo fa, all'Accademia di Spagna di Roma, stavo tentando di parlare, ma una signora mi sbatteva in faccia una luce accecante (per poter azionare bene la sua telecamera) e mi impediva di leggere i miei appunti. Ho reagito in modo molto risentito dicendo (come mi accade di dire a fotografi indelicati) che quando lavoro io devono smettere di lavorare loro, per via della divisione del lavoro; e la signora ha spento, ma con l'aria di aver subito un sopruso. Proprio la settimana scorsa, a San Leo, mentre si lanciava una bellissima iniziativa del Comune per la riscoperta dei paesaggi montefeltrani che appaiono nei dipinti di Piero della Francesca, tre individui mi stavano accecando con dei flash, e ho dovuto richiamarli alle regole della buona educazione. Si noti che in entrambi i casi gli accecatori non erano gente da Grande Fratello, ma presumibilmente persone colte che venivano volontariamente a seguire discorsi di un certo impegno. Tuttavia evidentemente la sindrome dell'occhio elettronico li aveva fatti discendere dal livello umano a cui forse aspiravano: praticamente disinteressati a quel che si diceva, volevano solo registrare l'evento, magari per metterlo su YouTube. Avevano rinunciato a capire che cosa si stesse dicendo per far memorizzare al loro telefonino quello che avrebbero potuto vedere con i loro occhi.

QUESTO PRESENZIALISMO di un occhio meccanico a scapito del cervello sembra dunque aver mentalmente alterato anche persone altrimenti civili. Che saranno uscite dall'evento, a cui avevano presenziato, con qualche immagine (e sarebbero stati giustificati se io fossi stato una spogliarellista) ma senza nessuna idea di ciò a cui avevano assistito. E se, come immagino, vanno per il mondo fotografando tutto ciò che vedono, sono evidentemente condannati a dimenticare il giorno dopo quello che hanno registrato il giorno prima.Ho raccontato in varie occasioni come abbia smesso di far fotografie nel 1960, dopo un giro per le cattedrali francesi, fotografando come un pazzo. Al ritorno mi ero ritrovato con una serie di foto modestissime e non ricordavo che cosa avessi visto. Ho buttato via la macchina fotografica e nei miei viaggi successivi ho registrato solo mentalmente quello che vedevo. A futura memoria, più per gli altri che per me, comperavo ottime cartoline.

UNA VOLTA, AVEVO UNDICI ANNI, sono stato attirato da insoliti clamori sulla circonvallazione della città dove ero sfollato. A distanza ho visto: un camion aveva urtato un calesse guidato da un contadino con la moglie accanto, la donna era stata scaraventata a terra, le si era spaccata la testa e giaceva in mezzo a una distesa di sangue e sostanza cerebrale (nel mio ricordo ancora orripilato era come se avessero spiaccicato una torta di panna e fragole) mentre il marito la teneva stretta ululando di disperazione. Non mi ero avvicinato più di tanto, terrorizzato: non solo era la prima volta che vedevo un cervello spalmato sull'asfalto (e per fortuna è stata anche l'ultima) ma era la prima volta che mi trovavo di fronte alla Morte. E al Dolore, alla Disperazione. Cosa sarebbe accaduto se avessi avuto, come accade oggi a ogni ragazzino, il telefonino con telecamera incorporata? Forse avrei registrato, per mostrare agli amici che io c'ero, e poi avrei messo il mio capitale visivo su YouTube, per deliziare altri adepti della "schadenfreude", ovvero della delizia che si prova per le disgrazie altrui. E poi chissà, continuando a registrare altre disgrazie, al male altrui sarei diventato indifferente. Invece ho conservato tutto nella mia memoria, e quella immagine, a settant'anni di distanza, continua a ossessionarmi e a educarmi, sì, a farmi partecipe non indifferente del dolore degli altri. Non so se i ragazzi di oggi avranno ancora queste possibilità di diventare adulti. Gli adulti, con gli occhi incollati al loro telefonino, sono perduti ormai per sempre.

 
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« Risposta #131 inserito:: Agosto 10, 2012, 07:52:57 pm »

La Bustina

E se provassimo a ignorare B.?

di Umberto Eco

Editorialisti e politici dovrebbero cominciare a smetterla di fare da cassa di risonanza a Berlusconi che ridiscende in campo.

Come fanno le mamme coi bambini che ostentano volgarità

(08 agosto 2012)

Tutti si erano accorti che, da quando aveva abbandonato la presidenza del consiglio, Berlusconi si era anche assentato dalle prime pagine dei giornali. E non perché lo volesse. Ma aveva un bell'andare a visitare l'amico Putin, ed era come ci fosse andato il presidente del Rotary Club di Vanuatu; aveva un bel discendere dall'elicottero con nuove fanciulle, la gente pensava che erano fatti suoi. E il suo gradimento nei sondaggi calava inesorabilmente.
Ora che ha annunciato che riscenderà in campo, ha riconquistato le prime pagine. Badate bene che non importa che poi lo faccia o no, è noto con quanta volubilità cambi d'avviso dall'oggi al domani; è che per oggi è tornato a sorriderci da ogni cantone.

BERLUSCONI E' , e nessuno glielo nega, un genio della pubblicità e uno dei principi a cui si attiene è "parlate di me, anche male, ma parlatene". Che è poi la tecnica di tutti gli esibizionisti: certo è criticabile calarsi i calzoni ed esibire il proprio apparato sessuale all'uscita di un liceo femminile, ma se lo fai hai la prima pagina assicurata - e alcuni, per averla, diventano persino serial killer.

Tal che si potrebbe supporre che parte (dico solo una parte, ma consistente) del carisma berlusconiano presso tanti elettori fosse dovuto non tanto o non solo a quanto diceva o faceva, ma alla costanza con cui i suoi avversari, per criticarlo, lo ponevano continuamente in copertina.

Come comportarsi con lui (non dico i suoi seguaci, ma chi lo teme come una sventura per la nostra debole repubblica) di qui alle elezioni venture?
Una leggenda più volte raccontatami dice che quando appena avevo iniziato a parlare, dopo "mamma", "papà" e "nonna", un giorno avevo iniziato a urlare "cagü!", con la u alla francese, come si usa nei nostri dialetti del Nord ed è impronunciabile nella parte inferiore dello Stivale. Come avessi coniato quell'espressione, del tutto sconosciuta ai lessicografi, era materia di dibattito; forse avevo udito una parolaccia come "cagòn" da alcuni muratori che lavoravano nella casa di fronte, e che seguivo ammirato dal ballatoio. Fatto sta che rimproveri, scappellotti, urlatacce, non erano serviti a niente. Io ripetevo "cagü!" a intervalli, sempre più soddisfatto per l'attenzione che ricevevo.
Sino a che si era arrivati allo scandalo. Una domenica, a mezzogiorno in punto, la mamma mi teneva in braccio in Duomo e stava giusto squillando il campanello dell'elevazione (mentre nel tempio non si udiva più volare una mosca) e io - incoraggiato da quel subitaneo e assordante silenzio - mi ero sporto verso l'altare e, con quanto fiato avevo in gola, avevo gridato "cagü!".

Pare che per un istante il sacerdote avesse interrotto la formula della consacrazione delle specie, e gli sguardi severamente esterrefatti dei fedeli avevano obbligato la mia buona madre, che avvampava di vergogna, ad abbandonare il sacro luogo.
Occorreva evidentemente trovare una soluzione, e fu trionfalmente trovata. Nei giorni seguenti io gridavo "cagü!" e mia mamma faceva finta di non avere sentito. Io insistevo, "mamma, cagü!" e lei rispondeva (continuando a sprimacciare i letti) "ah sì?". Io insistevo con "cagü!" e la mamma informava mio padre che in serata sarebbero venute a trovarci le sorelle Faccio.

Insomma, i miei gentili lettori avranno intuito la piega che ha poi preso la faccenda: esasperato per l'assenza di ogni riscontro, ho smesso di dire "cagü!" e mi sono dedicato all'apprendimento di un lessico più ricco e complesso che usavo "ore rotundo", con gran soddisfazione dei miei genitori che si compiacevano per avere un figlio così cruscante.

NON VOGLIO SFRUTTARE i miei ricordi infantili per dare consigli ai politici, ai corsivisti e agli impaginatori dei quotidiani. Salvo che, se per caso essi fossero interessati a non far da cassa di risonanza a un loro avversario, potrebbero prendere esempio da mia mamma.

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« Risposta #132 inserito:: Agosto 27, 2012, 05:30:47 pm »

Opinione

Che casino, troppe informazioni

di Umberto Eco

La quantità di messaggi che passa attraverso la Rete può generare una sorta di 'censura per eccesso di rumore'.

E un'intera generazione rischia di crescere senza selezionare quello che legge

(24 agosto 2012)

Mi hanno riferito dei colleghi che a un esame del triennio, essendo caduto il discorso non so come e perché sulla strage alla stazione di Bologna, di fronte al sospetto che l'esaminando non sapesse neppure di cosa si stesse parlando, gli era stato domandato se ricordava a chi fosse stata attribuita. E lui aveva risposto: ai bersaglieri.

Ci si sarebbero potute attendere le risposte più varie, dai fondamentalisti arabi ai figli di Satana, ma i bersaglieri erano veramente inattesi. Io azzardo che nella mente dell'infelice si agitasse l'immagine confusa di una breccia scolpita nel muro della stazione per ricordare l'evento, e che la visione della breccia abbia fatto corto circuito con un'altra nozione imprecisa, poco più di un flatus vocis, concernente la breccia di Porta Pia. D'altra parte il 17 marzo del 2011, interrogati dalle Iene televisive sul perché quella data fosse stata scelta per celebrare i centocinquant'anni dell'unità d'Italia, molti parlamentari e persino un governatore di regione hanno dato le rispose più strampalate, dalle cinque giornate di Milano alla presa di Roma.

LA FACCENDA DEI BERSAGLIERI sembra riassumere efficacemente altri esempi del difficile rapporto di moltissimi giovani coi fatti del passato (e coi bersaglieri). Tempo fa alcuni giovani intervistati hanno detto che Aldo Moro era il capo delle brigate rosse. Eppure io a dieci anni sapevo che il primo ministro italiano ai tempi della marcia su Roma (e quindi dieci anni prima della mia nascita) era stato "l'imbelle Facta". Certamente lo sapevo perché la scuola fascista me lo ripeteva ogni giorno, il che mi fa pensare che, sia pure a modo proprio, la riforma Gentile fosse più matura della riforma Gelmini, ma non credo che tutta la colpa sia della scuola. Credo che le ragioni siano altre e siano dovute a una forma continua di censura che non solo i giovani ma anche gli adulti stanno subendo. Non vorrei però che la parola censura evocasse solo colpevoli silenzi: esiste una censura per eccesso di rumore, come sanno spie o criminali dei film gialli che, se devono confidarsi qualcosa, mettono la radio al massimo volume. Il nostro studente forse non era qualcuno al quale era stato detto troppo poco ma qualcuno a cui era stato detto troppo, e che non era più in grado di selezionare ciò che valeva la pena di ricordare. Aveva nozioni imprecise circa il passato non perché non gliene avessero parlato ma perché le notizie utili e attendibili erano state confuse e seppellite nel contesto di troppe notizie irrilevanti. E l'accesso incontrollato alle varie fonti, espone al rischio di non saper distinguere le informazioni indispensabili da quelle più o meno deliranti.

E' IN CORSO UNA DISCUSSIONE se sia bene o male che oggi ciascuno possa stampare e mettere in circolazione un libro senza la mediazione di un editore. L'argomento positivo è che in passato tanti scrittori eccellenti sono rimasti ignoti per colpa di un ingiusto sbarramento editoriale, e che una libera circolazione di proposte non possa che costituire una ventata di libertà. Ma sappiamo benissimo che molti libri vengono scritti da personaggi più o meno eccentrici, così come accade anche per tanti siti Internet. Se non ci credete, andate a vedere "nonciclopedia.wikia.com/wiki/Groenlandia" dove si dice: "La Groenlandia è un'isola situata in un punto del globo terrestre che, se esistesse davvero, confermerebbe l'ipotesi che la Terra è quadrata. E' l'isola più popolosa al mondo per quanto riguarda il ghiaccio.... Inoltre è uno stato dell'Europa, o perlomeno così mi sembra, non ho voglia di consultare l'atlante quindi prendetela per buona. Si trova nell'emisfero boreale, in Borea del nord.".

Come fa un ragazzo a sospettare che l'autore di questa notizia stia scherzando, o sia un personaggio eccessivamente stravagante? Così può accadere coi libri. Difficile che un editore accetti di pubblicare notizie del genere, se non precisando sulla copertina o sul risvolto che si tratta di una raccolta di allegri paradossi. Ma quando non ci fosse più alcuna mediazione a dirci se un libro va preso sul serio o no?

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« Risposta #133 inserito:: Settembre 15, 2012, 11:02:08 am »

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Evasione e compensazione occulta

di Umberto Eco

Sulle regole del diritto san Tommaso aveva regole chiare e severe e non avrebbe concordato con Berlusconi quando diceva che i cittadini erano da comprendere se evadevano un fisco troppo esoso. La legge è legge

(30 agosto 2012)

Ci sono evasori fiscali in tutti i paesi perché il dispiacere di pagar tasse è profondamente umano. Ma si dice che gli italiani siano più inclini di altri popoli a questo vizietto. Perché?

Devo riandare ad antichi ricordi, e rievocare la figura di un vecchio padre cappuccino di grande umanità, dottrina e bontà, a cui ero molto affezionato. Ora questo amabile vegliardo, nel comunicare a me e ad altri giovani i principi dell'etica, ci aveva spiegato che contrabbando ed evasione fiscale, se sono peccati, lo sono in modo veniale perché non contravvengono a una legge divina, bensì solo a una legge dello Stato.

AVREBBE DOVUTO RICORDARE sia la raccomandazione di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare, sia quella di San Paolo ai Romani ("Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse"). Ma forse sapeva che, nei secoli passati, alcuni teologi avevano sostenuto che le leggi fiscali non obbligano in coscienza, ma soltanto in forza della sanzione. Però, nel riportare oggi questa opinione, Luigi Lorenzetti, direttore della "Rivista di Teologia Morale" commenta: «Si fa torto, però, a quei teologi se si ignora il contesto sociale ed economico che li ha indotti a inventare tale teoria. L'organizzazione della società non era per niente democratica; il sistema fiscale ingiusto, gli esosi balzelli opprimevano i poveri».

Infatti il mio cappuccino citava un altro caso, quello della compensazione occulta. Per dirla nel modo più semplice, se un lavoratore ritiene di essere ingiustamente sottopagato, non fa peccato se sottrae tacitamente quel di più a cui avrebbe diritto. Ma solo se la sua paga è evidentemente iniqua e gli si nega la possibilità di appellarsi alle leggi sindacali. Però su un argomento del genere lo stesso san Tommaso aveva suoi dubbi. Da un lato «quando una persona versa in tale pericolo... allora uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui. E l'atto per questo non ha natura di furto o di rapina» (Summa Theologiae II-II, 66, 7). Dall'altro «chi prende la roba propria a chi la detiene ingiustamente, pecca non già perché fa un torto a costui... ma pecca contro la giustizia legale, perché si arroga il giudizio sui propri beni scavalcando le regole del diritto» (Summa II-II, 66, 5). E sulle regole del diritto san Tommaso aveva idee chiare e severe, e non avrebbe concordato con Berlusconi quando diceva che i cittadini erano da comprendere se evadevano un fisco troppo esoso. Anche per Tommaso la legge era la legge.

Tuttavia la concezione tomista del diritto di proprietà era cattolicamente più "sociale", in quanto la proprietà era da considerarsi giusta "quanto al possesso" ma non "quanto all'uso": se io ho un chilo di pane acquistato onestamente ho diritto di esserne riconosciuto proprietario, ma se accanto a me c'è un barbone che muore di fame dovrei dargliene una metà. Sino a che punto l'evasione è compensazione occulta?

In un "Trattato di teologia morale" che trovate su Internet sul sito Totus Tuus, mentre si raccomanda di attenersi alle leggi vigenti e si osserva che «la parte più sana della popolazione» paga le tasse e non fa contrabbando, si ammette tuttavia che «l'evasione comunque non è riguardata come fatto lesivo dell'onore (la stessa legge la considera illecito amministrativo e non reato), sebbene crei un senso di disagio morale». E quindi avrebbe torto Monti a dire che gli evasori sono ladri: sono solo delle persone che dovrebbero provare disagio morale.

MA IL MIO ECCLESIASTICO di cui dicevo prima non scendeva in queste sottigliezze casuistiche, si limitava a dire che evasione e contrabbando non sono peccati mortali perché vanno "soltanto" contro le leggi dello Stato. E in questa sua posizione mi pare riflettesse una educazione che aveva ricevuto da giovane, prima dei Patti Lateranensi, per cui lo Stato era una cosa così cattiva che non bisognava dargli retta. Si vede che qualcosa di queste antiche idee è rimasto nel Dna del nostro popolo.


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« Risposta #134 inserito:: Settembre 21, 2012, 05:39:34 pm »

Opinioni

Inquisiti e villani

di Umberto Eco

Nella finzione cinematografica i poliziotti che indagano sono trattati sempre con scarso rispetto dagli inquisiti.

Perché? In realtà i registi vogliono evitare i faccia a faccia. Ma così si alimentano atteggiamenti poco civili

(13 settembre 2012)

Film e telefilm hanno la cattiva abitudine di mostrarci coppie a letto che, prima di addormentarsi (1) copulano, (2) litigano, (3) lei dice che ha mal di testa, (4) si voltano svogliatamente uno da una parte e l'altra dall'altra. Mai che almeno uno dei due legga un libro. E poi ci lamentiamo che la gente, che si comporta secondo i modelli televisivi, non legga mai. Ma c'è di peggio. Che cosa accade se entra in casa vostra un commissario o un ufficiale dei carabinieri e comincia a porvi domande, certe volte neppure imbarazzanti? Se siete un delinquente incallito e ormai smascherato, un mafioso schedato, un serial killer nevrotico, forse risponderete con insulti e sghignazzi, o vi getterete a terra fingendo un attacco epilettico. Se invece siete persone normali e incensurate farete accomodare il funzionario, risponderete educatamente alle sue domande, magari con un pizzico di preoccupazione, ma standogli educatamente di fronte. Se poi siete colpevole, starete ancora più attenti a non irritarlo.

CHE COSA ACCADE INVECE nei telefilm polizieschi (che io, avverto subito per non passare da moralista aristocratico, guardo sempre con interesse, specie quelli francesi e tedeschi dove, salvo "Cobra 11", non vi sono eccessive violenze ed esplosioni al tetranitratossicarbonio)? Accade sempre (fate attenzione, sempre) che, quando il poliziotto entra e inizia a fare domande, il cittadino continua a fare i comodi suoi, si affaccia alla finestra, finisce di cuocere le sue uova con pancetta, riassetta la stanza, si lava i denti e poco manca che non vada a orinare, va al tavolo a firmare delle carte, corre al telefono, si muove insomma come uno scoiattolo facendo del suo meglio per voltare le spalle all'inquirente, e dopo un poco gli dice sgarbatamente che se ne vada perché lui (o lei) ha da fare.

Ma è il modo? Perché i registi dei telefilm si ostinano a instillare nella mente dei loro spettatori che gli agenti di polizia vanno trattati come importuni piazzisti di aspirapolvere? Direte che l'inquisito scortese fa sempre più scattare il desiderio di vendetta dello spettatore, che poi godrà della vittoria del detective umiliato, ed è vero. Ma se poi molti spettatori sottosviluppati alla prima occasione prenderanno gli appuntati dei carabinieri a pesci in faccia, credendo che quella sia la moda? Forse chi acquista i telefilm non se ne preoccupa perché ormai persone ben più importanti dei piccoli criminali inquisiti da Siska ci hanno insegnato che uno può rifiutarsi di presentarsi in tribunale?

LA VERITA' E' CHE IL REGISTA di telefilm avverte che, se l'interrogatorio dura più di alcuni secondi, non possono tenere due attori di faccia, e si deve in qualche modo movimentare la scena. E per movimentarla si fa muovere l'inquisito. E perché il regista non può sostenere, e fare sostenere allo spettatore, alcuni minuti di due persone che si guardano in faccia, specie se discutono di cose di grande e drammatico interesse? Ma perché per farlo il regista deve essere come minimo Orson Welles e gli attori devono essere Anna Magnani, l'Emil Jannings de "L'angelo Azzurro", il Jack Nicholson di "Shining", gente che sa sostenere il primo piano, ed esprimere il proprio stato d'animo con uno sguardo, una piega della bocca. Ingrid Bergman e Humphrey Bogart in "Casablanca" potevano parlare per molti minuti senza che Michael Curtiz (che poi non era neppure Eisenstein) potesse permettersi nemmeno un piano americano, ma se siete obbligati a girare un episodio (e talora due) alla settimana, il produttore non può concedersi nemmeno Curtiz e, quanto agli attori, grasso che cola se, come accade nei polizieschi tedeschi, danno il meglio di sé quando mangiano panini al wurstel tra uno smanettamento di computer e l'altro.

Non moralizziamo. Sapevamo benissimo che per addormentarci nel giro di mezz'ora bisogna leggere un libro che non ci farà dormire e non Joyce. L'unica preoccupazione è che chi guarda solo telefilm dimentichi, o non sappia mai, che esistono anche film in cui la gente sa guardarsi in faccia.

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