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Autore Discussione: FABIO MARTINI.  (Letto 118118 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Dicembre 04, 2013, 11:30:53 am »

Politica
03/12/2013 – retroscena

Legge elettorale banco di prova Letta prova a convincere Alfano
Palazzo Chigi non può permettersi Renzi all’attacco e lo stallo

Fabio Martini
Roma

Si erano già intesi su tutto nei colloqui telefonici dei giorni scorsi, non avevano da scambiarsi opinioni su questioni delicate, né assumere decisioni spartiacque e per questo non è durato molto - poco più di 60 minuti - l’incontro tra il Capo dello Stato e quello del governo. Tra Giorgio Napolitano ed Enrico Letta, quello di ieri, è stato l’ultimo incontro di una stagione - durata sette mesi - nei quali tutti i passaggi più delicati sono passati lungo l’asse tra Quirinale e palazzo Chigi. 

Dal 9 dicembre, con la probabile elezione di Matteo Renzi a leader del Pd, la geometria della politica italiana si dispiegherà in una triangolazione destinata a comprendere anche Palazzo Vecchio. Uno schema nel quale un ruolo potrebbero averlo anche il gruppo del Nuovo Centro Destra guidato da Angelino Alfano. E da questo punto di vista ieri, per la prima volta, il neo-partito ha preso un’iniziativa interdittiva: una «melina» dietro le quinte che ha contribuito a bloccare la decisione, sia pure sotto la forma di indirizzo, che era stata fissata ieri sulla questione della riforma elettorale.

Uno stop subito enfatizzato dai renziani, a cominciare da Roberto Giachetti, che su questo versante, è in battaglia da mesi. Un fuoco che si preannuncia intenso e di lunga durata: questo è un argomento sul quale il probabile nuovo segretario del Pd non farà sconti. Renzi, chiede tante cose al governo, ma una la vuole sopra ogni ragionevole dubbio, a tutti i costi: una legge elettorale di impianto maggioritario che gli consenta, una volta eventualmente vinte le elezioni, di governare per cinque anni. 

Ecco perché la tattica del «ralenti» degli alfaniani può diventare un problema serio per il presidente del Consiglio. Tra Letta e Alfano i rapporti sono davvero buoni e per il momento non risulta che la questione sia stata ancora oggetto di discussione. Ma lo sarà presto e su questo tema Letta avrebbe intenzione di dispiegare la sua «moral suasion»: un Renzi all’attacco su questo fronte, il governo non se lo può permettere.

Alfano prende tempo anche perché il modello di legge elettorale condiziona il futuro degli scissionisti del Pdl: proprio da questa scelta si capirà cosa vogliono fare «da grandi». Se sposassero una opzione maggioritaria vorrebbe dire che puntano, prima o poi a ricongiungersi con Berlusconi. Dice Paolo Naccarato, senatore alfaniano: «La riforma si farà e avrà un impianto maggioritario: quando sarà il tempo, Alfano sarà richiamato e incoronato da Berlusconi». 

Però è anche vero che la «melina» degli alfaniani ha assunto toni aggressivi che lasciano presupporre che non sarà semplice riportarli alla «ragione» in un batter d’occhio. A Palazzo Madama, si è mosso il presidente dei senatori Maurizio Sacconi che, nel corso di abboccamenti informali ha chiesto (e ottenuto dal Pd, in attesa di un nuovo leader) un rinvio della riunione della Commissione Affari Costituzionali che avrebbe dovuto esprimere un orientamento di massima, attraverso un ordine del giorno, per il ritorno del vecchio Mattarellum. 

Ma a quel punto i renziani hanno chiesto di sottrarre la materia elettorale dal Senato e portarla alla Camera, dove il Pd - assieme a Sel - può contare su una maggioranza autosufficiente. In tutta risposta - e la sequenza è significativa - si è alzata l’artiglieria polemica degli alfaniani con Fabrizio Cicchitto: «Non si capisce perché debba aprirsi un gioco a rubamazzo fra Camera e Senato per la legge elettorale». Quale sia la posizione del Nuovo Centro Destra non è dato saperlo, ma Enrico Letta sa già che l’11 dicembre quando richiederà la fiducia, non potrà cavarsela con un semplice auspicio di cancellare il Porcellum. 

Da - http://lastampa.it/2013/12/03/italia/politica/legge-elettorale-banco-di-prova-letta-prova-a-convincere-alfano-p8E40BpkrUXCuzpzNJzf6M/pagina.html
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« Risposta #106 inserito:: Dicembre 11, 2013, 10:49:30 am »

Primarie 2013 PD
10/12/2013 - retroscena

IL COMMENTO

Fabio Martini
Roma

Due le novità, ancora da solidificare. Al segretario del Pd sta a cuore incassare in tempi stretti una nuova legge elettorale che il Nuovo Centro Destra vorrebbe invece agganciare al treno accelerato delle riforme istituzionali, mentre il presidente del Consiglio non ha avuto obiezioni di merito, riservandosi di convincere Angelino Alfano. Ma in cambio il presidente del Consiglio punta a stipulare col Pd e con le altre due formazioni di maggioranza un «contratto di coalizione» alla tedesca, un cronoprogramma, scandito nei tempi e anche negli impegni, col quale i partiti si vincolano reciprocamente e solennemente ad un significativo piano di riforme fino al 31 dicembre del 2014. Davanti all’ipotesi di questo scambio, Renzi non ha detto di no. Certo, se potesse, il neosegretario si giocherebbe subito la partita delle elezioni anticipate, ma poiché lo scenario non è maturo, ha invece risposto che se il contratto si farà, il Pd ci metterà dentro tante cose. 

Per Renzi il patto si può fare, certo, a determinate condizioni. A cominciare da quella riforma elettorale che il sindaco vuole tutta e subito e che invece Angelino Alfano vorrebbe rinviare. E infatti il vis-à-vis tra Letta e Renzi si è concluso con un comunicato incoraggiante ma non conclusivo, una nota congiunta scarna anche se intesa a spandere ottimismo: «Un incontro lungo, positivo e fruttuoso che conferma il nostro comune impegno. Lavoreremo bene insieme». Ma il comunicato non significa che tra i due sia stato siglato un accordo. L’incontro di ieri è come se si fosse simbolicamente sospeso, in attesa di aggiornamenti sulla questione più spinosa di tutte. Il presidente del Consiglio si è riservato un ulteriore approfondimento con Alfano, col quale parlerà domani pomeriggio dalla ambasciata italiana in Sudafrica, al termine dei funerali di Nelson Mandela.

E oramai la questione è arrivata al dunque. Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello da settimane ripetono lo stesso ritornello: visto che abbiamo deciso di abolire il bicameralismo e siamo pronti a far decollare il relativo disegno di legge costituzionale, che senso ha approvare una riforma elettorale temporanea che deve continuare a prevedere la fiducia al governo in due Camere, una delle quali sarà presto abolita? In altre parole, la nuova legge elettorale va approvata soltanto al termine del percorso, parallelamente alla riforma costituzionale che si prepara a cancellare il Senato. 

Impostazione con una sua logica, alla quale anche ieri Renzi ha replicato che occorre invece procedere ad una riforma immediata della legge elettorale, nel caso sciagurato di uno scioglimento immediato delle Camere. Letta ha mostrato di avere un approccio pragmatico, sostenendo che a suo avviso non ci sono ostacoli per una procedura di questo tipo, ma che devono essere d’accordo tutti i partner di governo. A cominciare dal Nuovo Centro Destra di Alfano, terrorizzato dall’idea che una legge elettorale possa aprire la strada ad elezioni anticipate, anche perché un confronto elettorale a breve «rappresenterebbe un omicidio nei loro confronti», confessa un ministro. Quale riforma elettorale? Paradossalmente - come confermato nell’incontro di ieri - questo è un aspetto relativamente spinoso. Letta ha spiegato a Renzi che per quanto lo riguarda lui è favorevole ad una legge «fortemente bipolare», che la sua preferenza personale va al Mattarellum, ma che può andar bene anche un doppio turno di coalizione e preferenze. Un impianto radicalmente maggioritario va bene anche a Renzi che però ha fretta e non soltanto perché punta ad incassare risultati visibili «nei primi due mesi». 

Da - http://lastampa.it/2013/12/10/italia/speciali/primarie/2013/pd/tra-letta-e-matteo-si-lavora-per-siglare-un-patto-vincolante-XeVo0Xd91XLHoFIuwzAfiI/pagina.html
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« Risposta #107 inserito:: Gennaio 16, 2014, 04:18:56 pm »

politica
16/01/2014
Renzi e lo spettro della palude
Il segretario del Pd oggi alle 16 dovrà spiegare al suo partito come intende risolvere il nodo della legge elettorale. L’unica opzione? Chiedere carta bianca

Fabio Martini
Roma

L’uomo nuovo della politica italiana, Matteo Renzi, è al primo passaggio stretto della sua carriera da leader nazionale: oggi alle 16, davanti alla direzione del suo partito, dovrà spiegare come intende risolvere il dossier del quale si è occupato in modo esclusivo, la legge elettorale. Fino a ieri sera, ma stamani sono previsti contatti importanti, Renzi si è visto spalancare davanti a sé la palude: anche per effetto del suo approccio declamatorio e talora provocatorio, gli unici che lo seguono sono i berlusconiani. Con effetti politici che potrebbero rivelarsi molto originali e scivolosi per Renzi: contribuire a rimettere in gioco Berlusconi, tagliarsi la strada verso una soluzione a breve dell’enigma elettorale. 

Renzi è ad un passo dal binario morto, perché quasi tutti i soggetti politici si sono defilati. Beppe Grillo, attraverso il suo “ideologo” Casaleggio, in trasferta a Roma, si è chiamato fuori, confermando che i Cinque Stelle non collaboreranno mai col “sistema”, neppure per riforme che loro stessi dicono di volere. La formazione del vicepremier Angelino Alfano è ansiosissima di trovare un accordo (elezioni anticipate potrebbero segnare la fine della loro breve vita politica), ma si vende cara la pelle e non vuole una legge elettorale che la penalizzi. Berlusconi ha mandato allo scoperto i suoi emissari ma è bastata la sua presenza sullo sfondo per riaccendere una polemica dentro il Pd, quella di sempre: si tratta o no con l’”uomo nero”? Il presidente del Consiglio, col suo pragmatismo al limite dell’agnosticismo, nicchia, è pronto ad offrire la sua sapiente mediazione sul testo di compromesso che fosse maturato. E ieri sera il minimo comun denominatore era un Mattarellum integrale a due turni, ma con tanti scontenti da contentare. 

Oggi dunque è la prima giornata importante della nuova stagione: come ha detto Renzi, le riforme storiche non si fanno a maggioranza. Ma neppure con un accordo esclusivo con Berlusconi, l’unico leader del ventennio precedente che tornerebbe in “vita”, più centrale che mai. E’ dunque probabile che oggi, davanti alla Direzione del Pd, Renzi chieda carta bianca per una trattativa che gli si sta rivelando più complessa di quanto lui potesse immaginare. 

Da - http://lastampa.it/2014/01/16/italia/politica/renzi-e-lo-spettro-della-palude-HJTFhcA54H9gSCQtIJUZ2H/pagina.html
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« Risposta #108 inserito:: Gennaio 19, 2014, 12:14:18 am »

Politica
18/01/2014

Fabio MARTINI

La mossa di Renzi divide l’Italia
I tre motivi per cui il segretario ha voluto incontrare Berlusconi

Il Nazareno non è un luogo carico di storia come erano le Botteghe Oscure o piazza del Gesù, ma è pur sempre la sede nazionale del Pd. Un luogo simbolico. Matteo Renzi, volutamente sfidando e provocando la “pruderie” dei suoi oppositori interni, ha invitato in casa sua Silvio Berlusconi, da 20 anni l’“uomo nero” della sinistra italiana, da qualche mese appesantito da una condanna definitiva. L’invito di Renzi, ma anche la semplice decisione di incontrare Berlusconi, dividono il Palazzo, ma soprattutto l’opinione pubblica, come conferma l’appassionato dibattito in corso anche su “Facebook” de La Stampa. La questione divide, le ragioni del “pro” e del “contro” sono sostenute con argomenti importanti, che non possono lasciare indifferente anche chi coltiva un’opinione opposta. E lo spettacolo del pomeriggio, quando Berlusconi “profanerà” la sede del Pd, davanti alle telecamere di tutte le tv, incendierà ancora di più il dibattito.

Renzi ha deciso di incontrare Berlusconi - e di incontrarlo a casa sua - per almeno tre ragioni. La prima è che i suoi predecessori hanno sempre “sognato” di fare un accordo storico con Berlusconi ma non ci sono mai riusciti: D’Alema con la Bicamerale, Veltroni con la riforma elettorale, Bersani col Quirinale. La seconda attiene alla vocazione di Renzi di sfidare le ipocrisie: Berlusconi (a dispetto di una condanna definitiva, che in altri Paesi sarebbe infamante e che da noi gli ha garantito una “espulsione” dal Parlamento), resta il leader di Forza Italia perché quel partito, che rappresenta un quinto degli elettori, si sente rappresentato da lui. E dunque, se l’interlocutore ufficiale resta Berlusconi, perché non incontrarlo? E a quel punto, immagina Renzi, un luogo vale l’altro. Opinabile che sia, questo pensa il leader del Pd. Molto più difficile decrittare ciò che intimamente pensa Renzi attorno al terzo motivo che lo ha spinto ad incontrarsi con Berlusconi: l’accordo con Forza Italia è immaginato da segretario del Pd come premessa per riformare la legge elettorale o come grimaldello per abbattere il governo e aprirsi la strada ad elezioni anticipate? Renzi ha ragione da vendere quando afferma che riforme “istituzionali” come la elettorale impongono un accordo il più ampio possibile, dunque anche con Forza Italia. Ma se il modello elettorale Renzi-Berlusconi (che rappresentano il 46% degli elettori) si rivelasse un prendere o lasciare, allora il gioco diventerebbe scoperto.

Da - http://lastampa.it/2014/01/18/italia/politica/la-mossa-di-renzi-divide-litalia-rQ1MQpkDOOJ3hLMcBcUmBN/pagina.html
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 26, 2014, 11:45:14 pm »

Editoriali
25/01/2014
Avvicinare gli elettori agli eletti

Fabio Martini

Con una speditezza mai vista nella recente storia del Paese, la legge elettorale è uscita dalla palude delle chiacchiere e sta arrivando al dunque. Ma la sacrosanta urgenza non può diventare fretta, anche perché nella bozza di compromesso resta una macchia che, col tempo, potrebbe rimanere indelebile: quella dei parlamentari nominati - come prima - dai capi-partito. 

Da questo punto di vista a ben vedere, se si toglie il Senato, il cosiddetto «Italicum» somiglia assai al «Porcellum». Appartiene alla stessa famiglia concettuale: ne è un figlio minore. Ma in questi anni il tormentone sulla legge elettorale ha finito per fissare nella testa dei cittadini-elettori un’ostilità che supera tutte le altre: quella contro le liste bloccate, che impediscono la libera scelta dei parlamentari. Certo, in una opinione pubblica sempre più informata e avvertita sulle cose della politica, hanno pesato anche altri deficit (premi cervellotici, liste lunghe dei candidati, un Senato copia inutilmente perfetta della Camera), ma è altrettanto vero che nel compromesso raggiunto nei giorni scorsi tra Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Angelino Alfano resta una zoppia che rischia di diventare invalidante: non viene accorciata la distanza tra elettore ed eletto.

In queste ore è in corso una offensiva del «partito delle preferenze», con argomenti meno integralisti rispetto a chi vorrebbe limitarsi a ripristinare senza varianti un regime che nella fase finale della Prima Repubblica ha contribuito alla corrosione e alla fine alla corruzione del sistema politico. La caccia alle tangenti, oltre a rimpolpare le casse dei partiti a Roma, serviva soprattutto ad alimentare le cordate locali delle correnti di partito, macchine da guerra affamate di soldi per eleggere i propri candidati, nei Comuni, nelle Regioni, in Parlamento. Le preferenze, come sistema esclusivo di selezione, esistono solo in Grecia, ma alcuni deterrenti introdotti in questi anni nella legislazione italiana e un loro uso accorto potrebbero consentire di valutarne un ripristino anche per l’elezione di una quota di parlamentari. Non dimenticando che proprio con le preferenze si continuano a selezionare migliaia di consiglieri municipali, comunali, regionali e i parlamentari europei.

Nelle ultime ore si sta facendo strada l’idea di un solo capolista nominato e «bloccato» per ciascuna circoscrizione elettorale, mentre il resto dei candidati potrebbe essere scelto con le preferenze. Potrebbe essere una soluzione ma per evitare il rischio di un effetto «vorrei ma non posso», probabilmente andrebbe corroborata da un impegno formale da parte di tutti i partiti: una preselezione dei candidati con Primarie autentiche. Meglio, molto meglio, se previste per legge. In questi giorni sia Letta che Renzi (oltre ad Alfano e ai centristi che ne fanno una bandiera) hanno detto o fatto capire di essere favorevoli ad un ritorno temperato delle preferenze. Il leader del Pd aggiunge che a lui andrebbero bene, ma è Berlusconi che non le vuole. Non è una scusa, è vero. Il capo di Forza Italia, in cuor suo, ritiene che il sistema delle preferenze non gli consentirebbe di massimizzare il suo potenziale elettorale, perché i candidati di alcuni partiti concorrenti (il Nuovo centro destra ma persino l’Udc) potrebbero sottrargli molti voti. Il caso di Roberto Formigoni, passato con Alfano, è esemplare: come calamita di preferenze per una parte del mondo ciellino, l’ex Governatore avrebbe un appeal assai maggiore che come semplice candidato di una lista bloccata. Ma a questo punto anche Berlusconi, rientrato con piena soddisfazione in campo, è chiamato a qualche sacrificio. Anche perché il Cavaliere ha già espresso un veto significativo: quello contro i collegi uninominali. Un sistema che, in diverse declinazioni, è quello che consente la selezione dei parlamentari nei Paesi leader dell’Europa, Germania, Francia, Gran Bretagna. Al primo veto è stata data soddisfazione. Il secondo rischia di riaprire i giochi e di farli saltare.

DA - http://lastampa.it/2014/01/25/cultura/opinioni/editoriali/avvicinare-gli-elettori-agli-eletti-JU892dYV8Gdo3QSpxdwFcI/pagina.html
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« Risposta #110 inserito:: Febbraio 19, 2014, 12:10:56 pm »

Politica
19/02/2014 - retroscena

Renzi, sbloccata l’impasse: niente vicepremier e i ministri saranno 18
Bassanini rinuncia all’Economia: Bernabè in pole

Fabio Martini
Roma

C’era una volta il governo Letta-Alfano, a fine settimana nascerà il governo Renzi, con un leader a tutto tondo, senza vice ingombranti. Martedì 18 è stato il giorno della svolta nella faticosa gestazione del governo, la squadra si è sbloccata e oggi saranno definiti gli ultimi dettagli. Una ventata di ottimismo che potrebbe portare Renzi al Quirinale giovedì sera o al massimo venerdì mattina, comunque in leggero anticipo sulle previsioni. E dunque il 21 febbraio potrebbe diventare il d-day, col giuramento dei ministri. Ieri sera, ma anche durante i colloqui, Matteo Renzi era gasatissimo, determinato a mettere in campo nomi e programmi di qualità, perché, come ha confessato a più di uno, «io mi gioco tutto». Un ottimismo motivato: nel corso della giornata di ieri si sono quasi definitivamente sciolti i due principali grovigli che impedivano a Renzi di poter disporre in campo la sua squadra. Che alla fine non sarà composta da 15 ministri, come sembrava nei giorni scorsi, ma probabilmente da 18, comunque tre in meno dell’esecutivo Letta.

Nelle ultime 48 ore si è arrivati a chiudere sul ministero dell’Economia dopo il rifiuto di Franco Bassanini, presidente della Cassa Depositi e Prestiti. A precisa offerta, Bassanini si è dichiarato indisponibile e a quel punto si è virato verso il profilo del tecnico con peso politico. Il ministro dell’Economia è stato individuato, «mister x» avrebbe accettato in via definitiva, ma il presidente incaricato non ne ha rivelato il nome né agli alleati e neppure ai fedelissimi. Nome copertissimo e ieri sera, dalle voci che circolavano, la semifinale sembrava essere circoscritta a tre nomi: il governatore Ignazio Visco, l’ex presidente di Telecom Franco Bernabè, il presidente dell’Istat Carlo Padoan. Ma chi ha provato ad interpellare informalmente fonti della Banca d’Italia ha incontrato smentite molto secche, che di fatto escludono l’ipotesi, mentre il nome di Bernabè veniva ipotizzato dallo staff di Renzi come probabile, ma allo Sviluppo economico e non all’Economia. Alla fine il prescelto potrebbe essere il fedelissimo Graziano Delrio? Lui, uscendo dalla lunga giornata di trattative, si è espresso in modo laconico: «No comment». 

Ieri sera ha ripreso a circolare l’ipotesi di uno spacchettamento del ministero dell’Economia, scorporando le Finanze e lasciando accorpati Tesoro e Bilancio, tornando alla configurazione tipica della Prima Repubblica, che negli ultimi anni era stata superata non solo in Italia, con la nascita di una nuova «poltrona», in altre parole con un ministro incaricato di occuparsi soltanto di tasse. E quanto alla trattativa sulla presenza di Angelino Alfano nel governo, è stata fugata l’ipotesi di un suo ridimensionamento, col passaggio alla Difesa, mentre è stato deciso nell’incontro tra Renzi e Ncd che il leader del Nuovo Centro Destra perderà il «pennacchio» da vicepremier. Davvero complicato nel corso di questa settimana è stato trovare un ministro dell’Economia, cuore pulsante di ogni governo. Renzi si era convinto che a via XX Settembre dovesse andare un politico di peso. Una convinzione dettata dalle esperienze più recenti, che hanno visto alternarsi al Tesoro ministri tecnici, personalità di competenza (soprattutto finanziaria) ma disarmati davanti alle insidie dei grandi burocrati e delle paludi parlamentari. Il premier incaricato ha rinunciato ad occupare la casella dei Beni culturali con un vip ed ha accettato di affidare il ministero a Dario Franceschini, che vi ambiva.

Da - http://www.lastampa.it/2014/02/19/italia/politica/renzi-sbloccata-limpasse-niente-vicepremier-e-i-ministri-saranno-ZT1kAnE4UN6aKAPOdJ46gJ/pagina.html
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« Risposta #111 inserito:: Febbraio 22, 2014, 05:57:42 pm »

Politica
22/02/2014

Il ritorno dei politici al potere senza nessun effetto speciale
Soltanto tre tecnici con una spartizione certosina tra i partiti
Mancano le personalità “anticonformiste” che tutti si attendevano

Fabio Martini
Roma

Giovane e giovanile. Discontinuo. Corto e compatto. Con una presenza femminile senza precedenti nella storia della Repubblica. Ma il primo governo di Matteo Renzi è privo del valore aggiunto da lui prodotto in questi anni: quelle personalità anticonformiste, creative e di successo imprenditoriale che hanno animato le ultime kermesse della Leopolda a Firenze. Un buco preannunciato dai no scanditi da alcuni di loro e che nelle ultime 48 ore Renzi non è riuscito a colmare. Come chiosa in confidenza Nichi Vendola: «Non ci sono neppure gli effetti speciali...». 

E quanto al riconoscimento del merito, nel passato più volte proposto da Renzi come un valore di rottura rispetto all’egualitarismo della sinistra, è difficile rintracciarlo, scorrendo le biografie di una parte dei ministri. Ma il profilo del governo guidato dal presidente del Consiglio più giovane della storia d’Italia è connotato da altre tre novità: la fine della lunga delega ai tecnici, il ritorno dei politici, la quasi scomparsa di ministri nati, o attivi, nel Nord produttivo, a favore di una presenza sensibile di romani (ben 4 su 16 ministri) e di emiliani.

Per volontà di Renzi la stagione di deferenza e di delega ai tecnici è finita, o quasi: solo 3 ministri hanno una provenienza esterna al mondo politico, anche se tra i tre è compreso il ministro più importante del governo, Pier Carlo Padoan, che guiderà l’Economia. Il ritorno del primato della politica, preannunciato in questi mesi dal protagonismo poco consociativo di Matteo Renzi, è confermata da una presenza massiccia di ministri politici, 13 su 16, con una percentuale dell’81%, molto più alta rispetto a quella del precedente esecutivo che contava 12 politici «puri» e ben 9 personalità tra tecnici o esponenti della società civile appena arruolati in Parlamento. 

Un ritorno della politica al quale corrisponde anche un’attenzione alle quote spettanti ai partiti, con un dosaggio quasi certosino per quanto riguarda il Pd. Dei 9 ministri di area democratica, la maggioranza filo-Renzi ottiene il 66% dei posti (la percentuale di Renzi alle Primarie era stata del 67,8%), mentre le due minoranze (che avevano ottenuto assieme il 32,2%) ottengono il 33% dei posti nel governo, con l’ingresso nell’esecutivo di due esponenti della minoranza “post-comunista”, Andrea Orlando e Maurizio Martina, e di Maria Carmela Lanzetta, ex sindaco di Monasterace, area Civati.

 

Un ritorno al primato della politica che, nel dosaggio dei ministeri, non si discosta dai classici governi di coalizione. Le due Scelte Civiche, quella rimasta con Mario Monti e quella emigrata al seguito dell’ex ministro Mario Mauro, ottengono un ministero per ciascuna, con un premio speciale per Pier Ferdinando Casini: entra nel governo il suo fraterno amico Gian Luca Galletti, parlamentare e sottosegretario stimato da amici e avversari. 

In realtà Galletti sarebbe dovuto andare alle Politiche agricole, ma all’ultimo minuto l’ennesimo rifiuto (quello del magistrato Nicola Gratteri che sarebbe dovuto andare alla Giustizia) ha rimescolato parecchie poltrone. E quanto al Nuovo Centro Destra, dopo un lungo corpo a corpo, è riuscita a mantenere i suoi tre ministeri e infatti Angelino Alfano non ha fatto nulla per nascondere il suo compiacimento: «Non potevano chiedere di più...».

In termini personali, Alfano è stato il più gratificato, assieme all’area che fa riferimento a Dario Franceschini e a Piero Fassino. Sono infatti vicine al sindaco di Torino, che con Renzi coltiva un rapporto di reciproca stima, sia Federica Mogherini che Roberta Pinotti che a differenza della collega di partito, approda alla Difesa dopo un cursus honorum parlamentare e di governo nel campo delle forze armate, che è iniziato 8 anni fa. In questi giorni Matteo Renzi, con grande tenacia, aveva tenuto duro sulla parità tra uomini e donne, un principio dal quale non ha mai derogato, neppure quando i conti non tornavano.

Non a caso della presenza femminile nel governo, si è fatto abbondantemente carico il presidente del Consiglio: tre delle quattro ministre del Pd (Federica Mogherini, Marianna Madia, Maria Elena Boschi) escono dalla segreteria voluta da Renzi. Il quale, a sua volta, ha limitato al massimo la presenza di ministri renziani: e sono due donne. Curioso lo squilibrio territoriale: dei 16 ministri, 4 sono emiliani, 4 romani, 2 sono i lombardi, i liguri e i toscani, un siciliano, un calabrese. Tra le regioni più popolose e produttive, nessun ministro proviene da Piemonte, Veneto, Campania e Puglia.

Da - http://lastampa.it/2014/02/22/italia/politica/il-ritorno-dei-politici-al-potere-senza-nessun-effetto-speciale-EFdctSSQ87Ai7OunLTRUUL/pagina.html
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« Risposta #112 inserito:: Marzo 02, 2014, 11:34:09 am »

Politica
01/03/2014

Renzi: “Uno choc all’economia Rispondiamo a chi non ha impiego”
Il premier accelera: i mercati ci guardano per capire se facciamo sul serio

Fabio Martini
Roma

A questo punto Matteo Renzi lo sa. A forza di fare annunci impegnativi, in giro per il mondo ma soprattutto da noi cresce l’attesa per i primi provvedimenti del suo governo, destinati a diventare l’unico metro per “misurare” la nuova leadership. Proprio per questo motivo il presidente del Consiglio ha voluto spiegare ai suoi ministri cosa ha in mente. Lo ha fatto ieri mattina, entrando in Consiglio: «I fondamentali della nostra economia sono buoni, come confermano i dati più recenti dello spread e delle aste dei Bot, ma purtroppo i dati sulla disoccupazione sono terrificanti». E dunque, «dobbiamo dare uno choc all’economia italiana, dobbiamo andare fino in fondo con le riforme di cui l’Italia ha bisogno», «i mercati ci stanno osservando, stanno cercando di capire se facciamo sul serio». 

Leader “digitale” sempre ansioso di stare dentro il dibattito-web e che ancora non si trova a suo agio nel Palazzo, Renzi durante il Consiglio dei ministri si è prodotto in uno dei suoi tweet, a commento dei dati Istat appena usciti: «La disoccupazione e’ al 12,9%. Cifra allucinante, la piu’ alta da 35 anni. Ecco perche’ il primo provvedimento sara’ il Jobs Act». Ecco il punto. Matteo Renzi sente crescere attorno a sé l’urgenza delle prime misure, anche se è ben consapevole che i provvedimenti-urto dovranno essere ben calibrati, credibili nelle coperture di spesa. Ecco perché si riserva ancora «due settimane per partire con il Jobs Act», come ha confermato durante la cerimonia di giuramento dei nuovi viceministri e sottosegretari: «Entro 15 giorni metteremo in campo la proposta sul lavoro, che è urgente e non perché ci viene chiesta dalle istituzioni internazionali, ma perché ci viene chiesta dal 12,9% dei disoccupati». Per il piano del lavoro di cui lui parla da mesi, per la prima volta Renzi ha chiamato in causa due ministri: «Lo Sviluppo economico e il Mef dovranno mettere in campo una proposta, che è molto urgente». 

Dunque, il premier si riserva un arco di tempo che gli consenta di presentarsi, il 17 marzo a Berlino dalla cancelliera Merkel, con un piano per il lavoro che non sia un semplice libro dei sogni, ma che possibilmente abbia superato il primo barrage, quello del Consiglio dei ministri. Ma l’idea-forte, la vera novità che Renzi non ha ancora concettualizzato e che però rappresenta, nelle sue intenzioni, il salto di qualità rispetto al governo Letta è il cambio radicale di metodo: niente più interventi e micro-finanziamenti a pioggia o maxi-decreti omnibus, ma invece puntare tutto sulla concentrazione delle risorse, su pochi interventi-urto e di forte impatto.
 
Quali siano i suoi focus, Renzi lo aveva spiegato nei giorni scorsi in Parlamento e ai ministri ha ulteriormente dettagliato: oltre allo sblocco dei debiti della Pubblica amministrazione, al taglio del cuneo fiscale, anche interventi nell’edilizia, riduzioni nei costi per l’energia. Anche se poi, in serata, parlando con i sottosegretari, ha scandito un calendario, al solito molto preciso ed impegnativo: «Nel mese di aprile e maggio affronteremo i temi della pubblica amministrazione», «entro maggio faremo la riforma del fisco», «nel mese di giugno inizieremo il lavoro sulla giustizia», anche perché «il semestre Ue a guida italiana non deve essere quello in cui l’Italia prende la linea ma la dà all’Europa». 

E poi congedandosi dai sottosegretari, li ha voluto investire con una di quelle frasi ad effetto che tanto piacciono al nuovo premier: «Vi auguro di essere all’altezza, è l’augurio che faccio a me stesso e che mi lascia inquieto, come è giusto per chi ha responsabilità così grandi. Il mio augurio è che tornando a casa proviate i brividi, un senso di vertigine e di preoccupazione per questa sfida a cui ci chiama il Paese». 

Ora i vari dossier sono tutti sul tavolo del presidente del Consiglio, con tanto di costi e di possibili coperture. Un lavoro che ha visto impegnati i suoi più stretti collaboratori, e di cui ora sta al capo del governo decidere le priorità e questo è il principale enigma che circonda palazzo Chigi, al di là delle dichiarazioni del suo leader.

Da - http://lastampa.it/2014/03/01/italia/politica/renzi-uno-choc-alleconomia-rispondiamo-a-chi-non-ha-impiego-2f8OIIIFtHKTwSzhR9Y2nL/pagina.html
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« Risposta #113 inserito:: Marzo 15, 2014, 08:43:54 am »

Politica
14/03/2014 - retroscena

Quei tre miliardi che possono salvare il piano del premier
Trattative con Bruxelles per un aumento limitato del deficit al 2,8% del Pil

Fabio Martini
Roma

Quel giovanotto italiano, ripetono a Berlino, piace ad Angela Merkel. Ma lunedì mattina quando accoglierà Matteo Renzi al Bundeskanzleramt, ovviamente la Cancelliera non lascerà trapelare sentimenti. Certo, la Merkel ha avuto l’intuito di puntare su Renzi in tempi non sospetti - era il luglio 2013 quando incontrò in forma riservata il sindaco di Firenze - ma da parte tedesca una naturale prudenza è d’obbligo per diversi motivi. Il primo: Renzi è il quarto presidente del Consiglio italiano nel giro di 28 mesi, un rosario di volti che ripropone la proverbiale litania sull’evanescenza italica. il secondo motivo è più fresco e sostanziale ed interpella Berlino, ma prima ancora Bruxelles: in giro per l’ Europa si è diffusa un’alea di dubbio sugli annunci fatti due giorni fa da Renzi.

Anche se nelle giornata di ieri il «giallo» delle coperture si è avviato verso una soluzione più chiara e che potrebbe segnare una svolta davvero importante nella vicenda del governo Renzi. Mercoledì il presidente del Consiglio aveva fatto capire che il 60% dei tagli delle tasse promesse sarebbe stato finanziato con un aumento del deficit, con una crescita del disavanzo fino a 6 miliardi. In altre parole una lievitazione che sarebbe potuta arrivare fino al 3% del prodotto lordo, soglia considerata a rischio a Bruxelles. Rischio serissimo: quello della procedura di infrazione. 

Ecco perché, per tutta la giornata di ieri, si è dipanata per via diplomatica, una complessa trattativa che ha visti coinvolti palazzo Chigi, ministero dell’Economia e gli «uffici preposti» a Bruxelles e che ha portato a un importante punto di caduta che potrebbe risolvere la querelle: l’Italia è pronta ad impegnarsi con l’Ue per un aumento limitato del deficit, passando dal 2,6 al 2,8, dunque con un incremento dello 0,2% che consentirebbe di «guadagnare» 3,2 miliardi. A questa cifra vanno sommati i 3 miliardi stimati da Carlo Cottarelli come recupero realistico dalla spending review nell’arco del 2014 e dunque sommando le due cifre, si arriva a 6,2 miliardi, guarda caso la stima - grosso modo - indicata da Matteo Renzi ieri sera a Porta a Porta: «Per mantenere la promessa bastano 6,6 miliardi», meno dei dieci su cui si è ragionato per giorni perché tutto partirebbe da maggio e non all’inizio dell’anno, Dunque, se lo «sforamento» dal 2,6 al 2,8% sarà «autorizzato», Renzi sarà a cavallo. 

Ma, con le istituzioni europee in scadenza, ancora prima che a Bruxelles, il presidente del Consiglio italiano dovrà avere il placet nella vera capitale dell’Europa politica: Berlino. Da parte sua Matteo Renzi si è preparato al mini-tour europeo - domani sarà a Parigi per incontrare il presidente Hollande e lunedì a Berlino - con un apparato concettuale che lo mette al riparo da brusche contestazioni: «Ci hanno fatto credere che l’Europa è nostra nemica, e l’Europa ha fatto di tutto per mostrarsi tale ma la nostra scommessa con Bruxelles è che le riforme le facciamo noi». E ancora: «Non teniamo in ordine i conti per fare un favore ai capi di governo, ma perché chi non lo ha fatto in passato, ha sbagliato». Lo schema di Renzi è chiaro: conosciamo il nostro «arretrato», sappiamo le riforme che dobbiamo fare, non chiediamo di sfondare i «sacri» tetti di Maastricht. Ma sul medio periodo - ecco la novità - Renzi si riserva di giocare una partita strategica. Come? Il premier ieri sera lo ha fatto capire sia pure con un brevissimo inciso: «Cosa l’Italia deve fare, gli italiani lo sanno benissimo. Ma non vi stupite se vi diciamo di cambiare regole». Per ora è soltanto una battuta, ma nella quale però si avverte l’eco di argomentazioni care a Romano Prodi, che di queste cose a suo tempo ha parlato con Renzi, e il cui pensiero è questo: «Non è stupido che esistano parametri come punti di riferimento, semmai è stupido che restino immutati per più di 20 anni».

Da - http://lastampa.it/2014/03/14/italia/politica/quei-tre-miliardi-che-possono-salvare-il-piano-del-premier-KqfNkp9HP9WDPEfqYK5SsO/pagina.html
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« Risposta #114 inserito:: Aprile 06, 2014, 06:13:33 pm »

Politica
03/04/2014 - retroscena

Renzi -Padoan, la strana coppia
Dopo il gelo è l’ora della sintonia
L’assist del ministro: gli 80 euro in busta arriveranno in tempo

Fabio Martini
Roma

Si vedono e si parlano poco, l’essenziale. Comunicano soprattutto grazie ad alcune, fidate staffette. Eppure il rapporto tra Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan per ora funziona e ieri si è consumato un nuovo, significativo passaggio nel rapporto tra i due leader del governo: ad Atene, con la sua risposta incoraggiante sugli sgravi Irpef, («I provvedimenti arriveranno in tempo»), il ministro dell’Economia è come se avesse «bollinato» l’operazione più ambiziosa voluta dal presidente del Consiglio.

È davvero una strana coppia quella formata da Matteo Renzi e da Pier Carlo Padoan. Trentanove anni il presidente, sessantatré il ministro, tra i due ci sono 24 anni di differenza, due mondi diversissimi di appartenenza, due caratteri agli antipodi. Distanze per ora considerate ininfluenti da Padoan, che dice: «I miei rapporti con Renzi sono ottimi». Certo, dopo 40 giorni di convivenza tra i due sarebbe originale se uno dei dicesse il contrario. Certo, Renzi è un accentratore, eppure le parole del ministro finiscono per fotografare l’essenza di un rapporto nato nella reciproca diffidenza e che per il momento sta tenendo, senza strappi. Un piccolo miracolo. In Italia il rapporto tra presidenti del Consiglio e ministri dell’Economia si sono dipanati lungo traiettorie intermittenti, talora conflittuali e questo, al netto dei caratteri dei protagonisti, soprattutto per un motivo istituzionale. In Italia il ministro ha più potere di molti suoi colleghi esteri per una ragione semplice: il capo del governo non può licenziarlo. 

E d’altra parte tra Renzi e Padoan l’incipit non è stato idilliaco. Nei giorni dell’incarico, Matteo Renzi avrebbe preferito all’Economia un ministro politico. Ha provato con Graziano Delrio, ma Giorgio Napolitano (che pure ha una stima speciale per l’ex presidente dell’Anci) ha suggerito un tecnico autorevole e alla fine la scelta è caduta su Padoan. L’assestamento iniziale tra i due non è stato semplicissimo. 

Nei primi approcci Renzi si è mostrato diffidente verso un personaggio circondato da un’aura «dalemiana» e che, oltretutto ha nominato nel suo staff due ex uomini di fiducia di Enrico Letta: Roberto Garofoli (già segretario generale a Palazzo Chigi, ma vicino a Filippo Patroni Griffi) e soprattutto Fabrizio Pagani. Ma a rendere più complicato l’approccio tra premier e ministro ha contribuito anche il carattere di Renzi: il presidente del Consiglio ha subito preso in mano il timone, ha indicato obiettivi e mission, talora evitando di consultarsi con Padoan poco prima di alcuni passaggi dirimenti. Ma il ministro, come riconosce lo stesso Renzi «non è un signor No», Padoan ha dimostrato subito di non essere il classico tecnocrate, confermando quelle doti politiche già dimostrate nel periodo Ocse, quando seppe convivere senza strappi con Giulio Tremonti.

Renzi e Padoan si parlano poco, ma i collegamenti sono tenuti da un terzetto di fluidificatori. Anzitutto il factotum Luca Lotti, personaggio discreto, che non ama apparire, l’uomo più vicino a Renzi. Poi, Enrico Morando, il vice-ministro all’Economia che, da mago della finanza pubblica, sta preparando il Def. E naturalmente un ruolo lo gioca anche Graziano Delrio, il «sottosegretario a tutto» e che finora ha svolto una mole e una qualità di lavoro fuori dall’ordinario. 

Naturalmente non sono tutte rose e fiori. Padoan ha fatto buon viso al cattivo gioco di Renzi, quando il premier ha avocato a Palazzo Chigi la spending review, coordinata da Carlo Cottarelli. Il giorno della presentazione delle famose slide da parte di Renzi, nella sala stampa di Palazzo Chigi, il ministro dell’Economia ha assistito in piedi allo show. E presto Renzi varerà, se non proprio un gabinetto ombra, una nuova struttura di consulenza, diversa dal classico Dipartimento e formata da un pool di economisti, tutti senza retribuzione, ai quali il presidente del Consiglio chiederà contributi e pareri «à la carte». Un modo per rafforzare la squadra del presidente, senza pestare troppo i piedi al suo ministro più autorevole.

Da - http://lastampa.it/2014/04/03/italia/politica/renzi-padoan-la-strana-coppia-dopo-il-gelo-lora-della-sintonia-5O7jYKPVqXkleU3in4gbsN/pagina.html
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« Risposta #115 inserito:: Giugno 01, 2014, 06:06:54 pm »

Politica
31/05/2014 - intervista

Renzi: “Pronti a guidare l’Ue L’Italia ha scelto la stabilità Governerò per quattro anni”
Il premier a La Stampa: “Prima dei nomi, mettiamoci d’accordo sull’agenda.
La Germania è un modello, ma basta austerità: dobbiamo cambiare l’Europa”

Fabio Martini
Roma

Sin dalla notte della larghissima vittoria elettorale Matteo Renzi si è imposto un understatement e un profilo basso che hanno di nuovo spiazzato tutti e così, anche chiacchierando nel suo studio di palazzo Chigi con i corrispondenti di alcuni dei più importanti giornali europei che gli chiedono di una sua possibile leadership Ue, lui si vieta ogni trionfalismo: «Non credo che il senso delle elezioni sia che è nato il leader Matteo Renzi. No, il senso delle elezioni è che l’Italia può giocare un ruolo, che l’Italia non è l’ultima ruota del carro, che l’Italia è un Paese che, se cambia, può diventare lei leader d’Europa». In jeans scoloriti, camicia bianca senza cravatta, Matteo Renzi mantiene il suo tono scanzonato e a Philippe Ridet de «Le Monde» che gli chiede un pronostico sul mondiale di calcio, lui risponde: «Sono troppo amico di Cesare Prandelli e poi dicono che se l’Italia vince i Mondiali c’è un punto in più di Pil...». Ma la Francia lo ha vinto nel ’98 e non è arrivato nulla...». Renzi: «Facciamo così, noi lo vinciamo e poi controlliamo, io mi accontento anche di mezzo punto!».

Presidente, è la terza volta in due anni che questo pool di giornalisti viene qui a palazzo Chigi: prima c’era Monti, poi Letta, ora lei. Pensa che il prossimo anno ne troveremo un altro? Quale è la ricetta per restare? 
«Non so se sia un bene o un male, ma credo che per qualche anno non ne vedrete altri! L’Italia ha scelto la stabilità e per noi stabilità significa fare riforme molto dure e molto forti. Possiamo permetterci di dire che vogliamo cambiare l’Europa perché partiamo da noi. Perché da noi, dopo 70 anni, non si è votato per le Province. Perché la riforma elettorale è stata approvata in prima lettura. Perché la riforma della Costituzione è ben incardinata al Senato. Perché la riforma del lavoro, scandita in due parti, è già avviata; perché la riforma della Pubblica amministrazione sarà attuata il 13 giugno; perché la riforma della giustizia sarà presentata entro giugno; perchè il 30 giugno inizierà il processo civile telematico. L’Italia sta profondamente cambiando».

La stabilità consente il cambiamento? 
«Sì, anche perché il segnale delle urne non si presta ad equivoci. È la prima volta dal 1958 che un partito prende più del 40 per cento, allora credo fosse al governo Fanfani: 56 anni fa. Più forte di così gli italiani non potevano parlare».

 

Un voto politico o un atto di fede? 
«E’ difficile interpretare i flussi elettorali, a maggior ragione è difficile interpretare le emozioni elettorali. Penso che le due cose stiano assieme. È un atto di fede, basato su un ragionamento politico. C’è un modo tipico di dire, buffo, dei politici italiani che perdono le elezioni: ah, gli italiani non ci hanno capito... Come se fosse colpa degli elettori! Ma rovesciando quel modo di pensare, si potrebbe dire che stavolta sono stati gli italiani ad aver capito noi, più e meglio di quanto non sia stata capace la classe dirigente, i giornalisti, i politici».

Dopo tanti falsi allarmi, stavolta l’Europa sembra davvero al bivio, ripensarsi o rischiare di perdersi. L’altra sera, alla cena di Bruxelles con gli altri capi di Stato e di governo c’era la percezione di questo bivio o sono state espresse preoccupazioni rituali? 
«Non so valutare le singole posizioni, io dico che se vogliamo salvare l’Europa, dobbiamo cambiarla. Anche nel nostro Paese, quello con la percentuale più alta di votanti e nel quale si è affermato il principale partito al governo, chi ha votato per il Pd ha comunque chiesto di cambiare l’Europa, non di conservarla come è».

Lei sosterrà la candidatura di Juncker alla presidenza della Commissione europea? 
«Il presidente Van Rompuy ha ricevuto un mandato da parte di tutti i governi per trovare un accordo globale, che tenga assieme gli incarichi di maggiore responsabilità. La posizione del governo italiano è molto chiara: nomina sunt consequentia rerum. Prima di ragionare di nomi, mettiamoci d’accordo sull’agenda. Mi interessano più i posti di lavoro che i posti di potere».

Un profilo del leader della Commissione? 
«Deve amare l’idea dell’Europa e oggi i veri amanti dell’Europa sanno che così come è, va cambiata. Deve amare l’Europa, ma con uno sguardo da innovatore».

Dopo le elezioni Europee come sono i suoi rapporti con la cancelliera Merkel? E’ vero che durante la cena di Bruxelles lo ha chiamato «il matador»? 
«Sì matador, ma non d’Europa! Ci siamo messi a discutere cosa significasse matador, l’origine dell’espressione. D’altra parte ci eravamo sentiti il giorno prima per complimentarci reciprocamente».

Sì, ma ora vi attende un confronto che potrebbe vedervi su sponde opposte... 
«Ho un ottimo rapporto con la signora Merkel, ho sempre detto che se l’Italia o altri Paesi hanno dei problemi, la colpa non è dell’Europa. Di più: trovo volgare e inelegante il modo in cui alcune forze politiche hanno cercato di prendere voti, parlando male della Germania. Noi abbiamo preso i voti parlando bene dell’Italia, che però va cambiata. Da questo punto di vista la Germania per me è un modello, non un nemico. Lo è quando penso al mercato del lavoro, o alla sua struttura pubblica. Questo non significa non avere idee diverse su tante questioni. È del tutto evidente che oggi la Germania ha tutto l’interesse che l’Italia corra. E l’Italia ripeterà che l’impostazione di fondo dell’Europa non deve essere centrata soltanto sull’austerità ma anche sulla crescita, l’occupazione e le riforme».

 

Ogni Paese mette sempre grande enfasi sulla propria presidenza dei semestri europei, ma poi è difficile individuare un semestre memorabile. Lei ha una idea-forte per dare un segno italiano al prossimo semestre? 

«Non vorrete mica che ve le dica adesso? Non posso bruciarmi le notizie! So che dal 2 luglio, giorno del mio intervento al Parlamento europeo, il nostro impegno sarà forte anche per la favorevole congiunzione astrale: rinnovo degli organi, soldi della nuova programmazione fino al 2020, necessità condivisa di un cambio di paradigma nelle politiche economiche».

Sull’immigrazione cosa chiederà l’Italia? 
«Prima di chiedere, l’Italia agisce. Veder morire dei bambini di 3 anni in fondo al mare dicendo che non è un problema nostro, è incivile e immorale. È contro le regole del mare e di una cultura dell’accoglienza che era nata nel Mediterraneo: la cultura ateniese e romana. Abbiamo imparato che l’accoglienza e il salvataggio dell’ospite è un valore sacro. Con l’operazione Mare Nostrum stiamo salvando tante persone. Ma L’Europa deve richiamare le Nazioni Unite ad intervenire in Libia e più in generale avere una capacità di gestione dei fenomeni immigratori. Pensiamo che Frontex possa essere utilizzato di più e meglio».

Lo scandalo Expo ha fatto riemergere antichi personaggi... 
«E’ una guerra che vinciamo. Ogni volta che emerge uno scandalo, dobbiamo allarmarci, ma anche rallegrarci che la magistratura funziona. Una certa mentalità non si cambia con un decreto legge. Ma il fatto che un ragazzo con meno di 40 anni rappresenti il Paese, è il segno che gli italiani sono capaci di tutto. Nel bene e nel male».

A gennaio lei disse ad Enrico Letta: stai sereno, nessuno vuole prendere il tuo posto. Oggi pensa che sarebbe stato meglio non dirlo? E perché dopo aver criticato la vecchia classe politica lei ha preso il potere con una manovra che è apparsa di Palazzo? 
«Io ho detto quella frase perché ne ero convinto, profondamente convinto. In quel momento spronavo il governo Letta a rimettersi in moto: era come una macchina che aveva esaurito la batteria. Io ho cercato di dare il mio contributo al governo perché quella macchina ripartisse, ma la macchina non si è riaccesa, non per un gioco di Palazzo ma per una responsabilità di quella classe dirigente. C’è stato un processo di esaurimento di quel Governo, negarlo oggi è anche ingiusto ed io ho molto sofferto dal punto di vista personale. Da parte nostra, assumere la guida del governo è stato un atto di generosità. Io so come sono andate le cose e anche Enrico Letta lo sa».

 Oggi possiamo dirlo? Alle Europee sarebbero arrivati logorati sia il governo che il Pd? 
«Io credo che il tempo sia galantuomo e credo che allora essermi costretto al silenzio sia stato un bene nell’interesse del Pd, del governo e del Paese».

Sinceramente la sua visione di fare politica è cambiata in questi mesi? 
«Intanto è cambiata la mia vita personale nel senso che io vengo da una esperienza amministrativa, della quale ero felice e ora invece passo da questo piano al terzo piano dove c’è l’appartamento del Presidente del Consiglio, ho la scorta che non ho mai avuto in vita mia perché io da sindaco, a differenza di certi politici italiani, viaggiavo in bici tranquillamente per i fatti miei...».

 Ma ora legge e vive la politica in modo diverso? 
«Penso che con un governo di quarantenni, tra dieci anni i rottamati saremo noi e questa è una bella cosa! La politica è un’esperienza straordinariamente affascinante ma non la fai per sempre. Questo mi porta a dire che io vivo con urgenza questo tempo: per me la clessidra è voltata ogni momento, nessun giorno è sbagliato per cominciare a cambiare davvero e da questo punto di vista, ciò mi porta a dire che voglio fare velocemente le riforme. Penso che tra dieci anni mi piacerebbe lasciare anche alla mia terza figlia Ester, che allora sarà maggiorenne, un Paese che sia guida dell’Europa, leader dell’innovazione e capace di attrarre talenti e non di cacciarli».

Come spiega il flop di Beppe Grillo? E Berlusconi è politicamente finito? 
«Guai a pensare che Grillo e Berlusconi siano finiti. L’Italia è capace di tutto nel bene e nel male, è un Paese di genialità e follia allo stesso tempo. Grillo ha avuto un risultato decisamente inferiore alle aspettative, ha nascosto ai suoi che aveva già fatto alleanze internazionali e ha tenuto nascosti anche i nomi dei propri candidati. Però non è finito: finirà se noi faremo le riforme e se saremo credibili. Berlusconi è Berlusconi, ha preso circa il diciassette per cento, un risultato che in Europa molti continuano a definire inspiegabile. Ma è il risultato di un uomo che in questo anno ha avuto una condanna, polemiche a go-go, si è separato da alcuni tra i suoi più stretti collaboratori e comunque continua ad esserci. Io non ignoro nessuno, perché è stato sbagliato in questi anni quell’atteggiamento della sinistra di superiorità morale e intellettuale, tipico dei salotti radical chic. Ma non ho paura di nessuno. Ora dobbiamo solo avere la forza di fare le riforme». 

L’intervista è stata realizzata insieme a Andrea Bachstein (Suddeutsche Zeitung), Lizzy Davies (The Guardian), Philippe Ridet (Le Monde) e Pablo Ordaz (El Pais). 

Da - http://lastampa.it/2014/05/31/italia/politica/renzi-pronti-a-guidare-lue-litalia-ha-scelto-la-stabilit-governer-per-quattro-anni-FfnCBUAae2MAUC0KuEqTKJ/pagina.html
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« Risposta #116 inserito:: Giugno 05, 2014, 07:05:40 pm »

Politica
05/06/2014 - retroscena

La Casa Bianca investe su Renzi per cambiare l’austerity della Merkel
L’America vorrebbe l’Italia protagonista nella stabilizzazione del Mediterraneo


Fabio Martini
Inviato a Bruxelles

È la sua prima volta e si vede. Matteo Renzi è seduto al tavolo da cena dei sette «grandi» in una saletta del Justus Lipsius, mastodontico palazzo bruxellese in vetrocemento e le telecamere, ospitate per un minuto, indugiano sul viso del presidente del Consiglio: sguardo perplesso, serioso. Non il solito Renzi spavaldo, almeno in quel piano sequenza. Al tavolo tondo, non grande, Renzi è seduto a fianco di David Cameron e al primo ministro giapponese Shinzo Abe, mentre Barack Obama è dall’altra parte del tavolo, con Angela Merkel al suo fianco. Ma poi, durante la cena di lavoro, Renzi torna Renzi, si muove a suo agio anche quando parla della difficile stabilizzazione in Libia, tema del quale il premier italiano si occupa perché così è stato concordato in base ad una divisione di influenza che piacerebbe all’Italia, ma che gli americani per ora stentano a conferire.

Attorno al tavolo del G7, ovviamente per Renzi gli occhi che contano di più sono quelli del presidente degli Stati Uniti: Barack Obama, appena vede il premier italiano scherza: «Vedo che è spuntato qualche capello bianco anche a te!». Ma il presidente americano deve avere un debole per il colore dei capelli, visto che due mesi fa all’Aja, ad un G7 in quel caso straordinario, aveva detto a Renzi: «Anche io quando ho cominciato questo lavoro avevo i capelli neri». Al di là delle battute, quel che conta Obama lo aveva detto a Renzi nel suo recente colloquio telefonico, il giorno dopo le elezioni europee e gli sherpa statunitensi lo hanno ripetuto nelle ultime ore ai nostri diplomatici. Ed è un messaggio molto importante: l’amministrazione Obama giudica con favore il successo del governo italiano alle elezioni, tanto più che quella di Renzi è stata una vittoria in controtendenza rispetto al severo giudizio degli elettori europei sui propri governanti. Ma soprattutto - e questo è il punto cruciale sul quale l’amministrazione Obama insiste in queste ore - Renzi è un leader sul quale gli Usa puntano di più, nella speranza di ribaltare il verbo rigorista della cancelliera Merkel.

Il forte investimento politico su Renzi degli americani non significa atteggiamento acritico: l’amministrazione Usa considera ancora insufficiente la risposta italiana alle pressioni per tornare ad aumentare le spese per la difesa. Gli Usa spingono perché anche l’Italia aumenti gli investimenti fino al 2% del Pil. E d’altra parte, nel corso del recente colloquio Obama-Renzi a Roma, l’Italia aveva proposto di assumere un ruolo più importante in Libia e nel Mediterraneo, ma senza spiegare in che modo. Gli americani vedrebbero di buon occhio un protagonismo italiano nel campo dell’addestramento delle forze militari e della stabilizzazione della Libia, ma dubitano che Renzi voglia arrivare a tanto. E quanto agli F35 restano un problema: lo «scambio» col maggior impegno sulla Libia si potrebbe anche ipotizzare, ma gli investimenti nella difesa dovranno comunque salire.

Questa mattina Renzi incontrerà a quattr’occhi il primo ministro inglese Cameron e la cancelliera Merkel per provare a sciogliere i primi nodi sulle nomine ai vertici delle istituzioni europee. 

Era circolata la voce di una possibile mediazione italiana, scenario improbabile in presenza del mandato già conferito a Herman Van Rompuy. In base alla divisione dei compiti tipico dei G8, a Renzi toccherà una relazione sulla questione energetica, che molto sta a cuore agli americani, impegnati nella mission di convincere gli europei a diversificare di più le fonti di approvvigionamento. Renzi annuncerà a questo riguardo una importante iniziativa: la conferenza internazionale «Roma Energy Initiative». 

Da - http://lastampa.it/2014/06/05/italia/politica/la-casa-bianca-investe-su-renzi-per-cambiare-lausterity-della-merkel-9CWRVM2uRMrxM861eb1FEP/pagina.html
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« Risposta #117 inserito:: Giugno 21, 2014, 10:29:29 am »

Politica
20/06/2014 - il caso

Renzi-Grillo, carta a sorpresa nella strategia del dialogo
Anche il premier può avere interesse ad avere un altro “forno”

Fabio Martini
Roma

Due milord. Di punto in bianco, nel pomeriggio del 19 giugno 2014 Beppe Grillo e Matteo Renzi hanno cominciato a scambiarsi gentilezze inaudite fino a poche ore prima. Il capo del Cinque Stelle ha scritto sul blog: «Diciamo ai cittadini italiani che non c’è alcuna preclusione da parte nostra ad affrontare anche un tavolo di trattative sulle riforme costituzionali. Vogliamo lavorarci in modo rapido e responsabile, non c’è da parte nostra nessuna intenzione di ritardare il processo». Cassate le consuete insolenze, Grillo adotta un lessico a lui sconosciuto, tanto è vero che il presidente del Consiglio gli ha risposto, sciogliendo i violini: «Nessuno ha la verità in tasca, tutti possono dare una mano». E poi in un crescendo di gentilezze: «Mi avete scritto come presidente del Consiglio e dunque possiamo vederci a palazzo Chigi», «ma avete anche evidenziato - nel vostro ragionamento - l’importanza del successo elettorale (sottolineatura di cui vi sono personalmente grato) che come è ovvio è un successo non del governo, ma del Partito democratico. Se preferite confrontarvi con noi come Pd, allora organizziamo una delegazione del partito. Aspetto vostre nuove».

Certo, nello scambio tra i due sono disseminate anche punture d’ago, ma il senso della pubblica corrispondenza è chiaro: a parole - e con parole dolci - i due dicono di voler dialogare su riforme istituzionali e legge elettorale. A prima vista un cambio di toni quasi epocale. Più leggibile nell’ottica di Matteo Renzi: il presidente del Consiglio sa bene che resta imprevedibile il percorso della riforma del Senato e quello della nuova legge elettorale, a dispetto delle brezze favorevoli degli ultimi giorni. Da questo punto di vista la replica dialogante del presidente del Consiglio a Grillo corrisponde all’istinto di chi accarezza il migliore degli scenari per un leader: poter disporre del maggior numero di interlocutori intercambiabili. Oltre al Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, a Forza Italia di Berlusconi e alla Lega (sul titolo V), ora anche il Cinque Stelle: ben quattro “forni” dove impastare il pane delle riforme. 

Più controversa la lettura della apertura di Grillo. Dall’impenetrabile “cerchio magico” grillino non trapelano chiavi interpretative e uno che li conosce come Beppe Civati, capofila dell’unica minoranza del Pd, sostiene: «Il tono molto dialogante finisce per controbilanciare gli eccessi dei mesi scorsi, quando predicavano il tutto o niente. Comunque sembra essere un rimbalzo tecnico delle elezioni, l’inizio di un nuovo percorso che al momento riesce difficile prevedere».

 Da movimento anti-sistema a partito “tosto” ma dentro il sistema? Spiazzante la lettura di Mario Adinolfi, blogger che da anni segue e anticipa le mosse del Cinque Stelle: «Alcuni segnali e anche alcune voci di dentro autorizzano a pensare che, dopo il successo elettorale di Renzi, sia stato deciso un cambio strategico: l’abbandono del profilo anti-sistema a favore di un populismo che sta al gioco, va a vedere le carte altrui, riservandosi di rompere al momento giusto, attribuendo le colpe a Renzi. La possibile, clamorosa novità potrebbe essere quella dell’occupazione di uno spazio politico spostato verso il centrodestra: questo spiega l’alleanza con Farage, altrimenti inspiegabile». 

Quanto a Renzi, si è messo alla finestra. Anche perché la disponibilità del Cinque Stelle si è manifestata proprio nel momento in cui il convoglio della riforme istituzionali sta arrivando all’approdo. E per Renzi l’abolizione del Senato non è soltanto un obiettivo in sé. Dice un renziano della prima ora come Giorgio Tonini «Questa riforma sarebbe è soltanto un trofeo storico che nessuno finora ha messo sul proprio scaffale; vale molto più dei 500 milioni di risparmio, è un “cip” di credibilità nella futura sfida alle caste conservatrici».

Da - http://lastampa.it/2014/06/20/italia/politica/renzigrillo-carta-a-sorpresa-nella-strategia-del-dialogo-sOFk7NdhgtOjnw9pevYs4J/pagina.html
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« Risposta #118 inserito:: Luglio 03, 2014, 07:25:22 pm »

Europa
02/07/2014 - retroscena

Dopo D’Alema e Letta, tocca a Prodi Ora Renzi “esporta” la rottamazione
Nessun rapporto con il Professore. Oggi discorso di apertura del semestre italiano


Fabio Martini
Inviato a Strasburgo

Se un anno fa avesse seguito il consiglio di Massimo D’Alema («Non candidarti segretario del Pd, diventa europarlamentare...»), oggi pomeriggio Matteo Renzi sarebbe stato uno dei 751 euro-peones chiamati nel Parlamento di Strasburgo ad ascoltare il presidente del Consiglio italiano nel discorso di avvio di semestre. E invece quel discorso lo pronuncerà lui, Matteo Renzi, che un anno fa non ha seguito il consiglio di D’Alema e che poi ha continuato a fare di testa sua, perché - come sta dimostrando in queste ore nella vicenda delle nomine europee - è sua intenzione tracciare una linea indelebile tra la propria generazione e quella che l’ha preceduto. Quella di Massimo D’Alema, Romano Prodi, Pier Luigi Bersani, Enrico Letta. Dai quali, con tanti gesti espliciti e non, sta progressivamente aumentando le distanze. 

Intanto oggi pomeriggio, alle 15, davanti all’Europarlamento, Matteo Renzi pronuncerà il discorso più importante della sua vita politica, lui stesso se ne rende conto, tanto è vero che per la prima volta, ha preparato un testo scritto, dopo aver compulsato libri, computer, ritagli e avere “costruito”, evento raro, un discorso. Come sempre senza ghost-writer. Renzi, che sarà accompagnato da Federica Mogherini, Graziano Delrio e Sandro Gozi, fino a ieri sera ha tenuto le carte coperte sul discorso, che di sicuro conterrà una forte sottolineatura del ruolo del Parlamento rispetto al Consiglio.

Finito il discorso, la prevista conferenza stampa con Martin Schulz è stata annullata: a Strasburgo si sussurra che tra i due non ci sia una buona chimica. In Europa Renzi sta vivendo una luna di miele, ben raccontata dal titolo del “Figaro” che definisce il premier italiano «le coqueluce», il «cocco d’Europa» e lui intende assecondare questa deriva con un discorso “alto”, che dia il senso di un cambio di verso, di una rottura col passato.

La stessa che nelle ultime settimane Renzi sta approfondendo in Italia con la generazione che l’ha preceduto. Anche con microfratture, non percepibili dall’opinione pubblica. A cominciare da un personaggio che in Europa dice ancora molto: Romano Prodi. Un mese fa, quando si trattava di preparare il viaggio in Cina, Paese nel quale il Professore è una autorità riconosciuta, non risulta che Renzi si sia appositamente incontrato o abbia chiesto consigli importanti a Prodi. E la stessa nonchalance, Renzi la sta mantenendo anche nella preparazione del viaggio in Africa, altra area nella quale Prodi ha acquisito prestigio dopo la missione svolta per conto dell’Onu. Naturalmente tra i due c’è un rapporto cordiale, ma l’emancipazione di Renzi dai “seniores” della sinistra italiana diventa ancora più evidente proprio dal confronto tra la prima squadra di Prodi e quella dell’attuale governo. Nel 1996 il cinquantasettenne Professore scelse di affidare i ministeri più importanti a personalità che per lui erano seniores, due ex premier (Ciampi e Dini), il più sperimentato degli ex comunisti (Napolitano), il suo ex professore (Andreatta). A fine febbraio, Renzi invece ha scelto per quei ruoli personaggi dal profilo opposto: giovani, con curriculum meno pesanti, in alcuni casi leggeri.

Sostiene il professor Arturo Parisi, che “studia” e ha consigliato Renzi nella prima ora, ma che poteva essere richiamato alla Difesa e non lo è stato: «Rottamazione sembrava una parola come tante e invece per Renzi è una parola grande come una montagna: con una serie di gesti, comprese le nomine europee, lui intende affermare che la vecchia generazione è fuori e con lui, che è il più “vecchio”, ne inizia una nuova. In questo modo ogni tanto perde per strada personaggi con competenze e alla fin fine conta solo lui? Vero, ma bisogna mettersi nei suoi panni, di uno che ogni volta avrebbe dovuto pensare: se prendo questa iniziativa, cosa penserà il senior in Consiglio dei ministri? Vada sicuro e tranquillo». 

Ecco perché Matteo Renzi non ha mai preso in considerazione di mettere in pista come Alto Rappresentante per la politica estera personalità come Massimo D’Alema ed Enrico Letta, più blasonati di Federica Mogherini, ed esattamente due settimane fa ha iniziato a sondare Angela Merkel su quella candidatura così temeraria.

Da - http://lastampa.it/2014/07/02/esteri/europa/ora-renzi-esporta-la-rottamazione-dopo-dalema-e-letta-tocca-a-prodi-bfIywQoVSbbcZAfzN1JCIM/pagina.html
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« Risposta #119 inserito:: Agosto 30, 2014, 09:41:16 am »

Scuola, Renzi costretto allo stop. Slitta la riforma
Oggi in consiglio dei ministri, nemmeno le linee guida
Il capo del governo, Matteo Renzi, oggi guiderà il consiglio dei Ministri

29/08/2014
Fabio Martini
ROMA

Le vignette, si sa, sono sempre paradossali, l’Economist oltretutto è un settimanale severo con l’italianità, ma certo la copertina del settimanale britannico che ritrae Matteo Renzi con in mano un gelato mentre la «barca» dell’euro affonda, non è precisamente un tonico a poche ore dal vertice di Bruxelles chiamato a nominare Alto commissario e presidente del Consiglio europeo. 

L’immagine del premier italiano che, come un bambino, si trastulla con un cono, non corrisponde esattamente alle ultime giornate di Matteo Renzi, vissute in modo frenetico, lanciando annunci, cercando coperture, immaginando spot efficaci per il consiglio dei ministri in programma oggi e che era chiamato ad approvare tre importanti provvedimenti su scuola e giustizia e anche il decreto sblocca-Italia. Anche ieri Renzi ha cercato, al suo ritmo incalzante, di chiudere le innumerevoli questioni aperte, ma alla fine ha deciso di ritirare uno dei tre dossier. In serata la gelata, davvero inaspettata: palazzo Chigi ha diffuso un comunicato ufficioso per annunciare che il provvedimento sulla scuola «slitta, ma NON salta, per evitare troppa carne al fuoco».

Una retromarcia inusuale in Matteo Renzi, sempre attentissimo a non contraddirsi. Nei giorni scorso il presidente del Consiglio si era sovraesposto, annunciando che nel Cdm sarebbero state adottate misure «stupefacenti» per la scuola. Negli ultimi giorni erano via via affiorate indiscrezioni, più o meno apocrife, sulle intenzioni del premier e alla fine era emerso il progetto più hard: quello di assumere in pianta stabile centomila insegnanti precari. Progetto quantomai ardito, alla luce del costo dell’operazione (circa 3 miliardi), in un contesto di crescente difficoltà finanziaria. Certo, l’intenzione di Renzi era quello di presentare oggi in Consiglio dei ministri (e poi in conferenza stampa, l’appuntamento preferito dal premier) soltanto le linee-guida della “riforma” della scuola, una scuola più a misura di insegnante e di studente. Dunque soltanto alati progetti da mettere in pratica nel prossimo anno scolastico, senza l’obbligo di una immediata copertura. Eppure, anche quel progetto minimo è saltato.

Da quel che trapela, dal ministero dell’Economia avrebbero fatto presente che il semplice annuncio di misure corpose per la scuola (a cominciare da quella dei centomila), avrebbe innescato una doppia aspettativa, finanziaria e negli interessati, che sarebbe stato molto difficile soddisfare. Tanto più che le misure per la scuola avrebbero richiesto un intervento a breve: le risorse necessarie per il prossimo anno scolastico andavano inserite, scompaginandola, nella legge di Stabilità che il governo si è impegnato a presentare tra 32 giorni.
In compenso sulla giustizia penale e sulla responsabilità civile dei giudici, Renzi ha cercato soluzioni di compromesso per non scontentare troppo Forza Italia e Ncd, mentre è potuto andare dritto sulla riforma che gli stava più a cuore, quella della giustizia civile.

Questa sera, in conferenza stampa, il presidente del Consiglio potrà annunciare - e sbandierare - la promessa di un prossimo dimezzamento delle cause, annosa questione alla quale sono sensibili anzitutto gli imprenditori italiani e stranieri. Ma Renzi non demorde dalla linea degli annunci: lunedì, in una ennesima conferenza stampa, presenterà il programma dei mille giorni. Domani, intanto, il Consiglio europeo nominerà Alto rappresentante per la politica estera Ue Federica Mogherini. Impuntandosi, Renzi l’ha avuta vinta, ma il commento di “Le Monde” è impietoso, definendo questa «una scelta sbagliata» e sostenendo che la candidatura Mogherini «soddisfa diverse condizioni», perché è donna, socialdemocratica e brava con le lingue straniere, «tutte tranne una: l’esperienza - e l’aura personale che questa conferisce».

Da - http://lastampa.it/2014/08/29/italia/politica/scuola-renzi-costretto-allo-stop-slitta-la-riforma-Ey8q5zjNoRRAGXcC19MnQP/pagina.html
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