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Autore Discussione: ANTONELLO GUERRERA. Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con ...  (Letto 2244 volte)
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« inserito:: Agosto 09, 2014, 05:52:11 pm »

Bauman: "Gaza è diventata un ghetto, Israele con l'apartheid non costruirà mai la pace"
L'amarezza dell'intellettuale polacco di origini ebraiche. Sfuggito all'Olocausto, non risparmia critiche ad Hamas e a Netanyahu: "Pensano alla vendetta, non alla coabitazione. Purtroppo sta accadendo ciò che era ampiamente previsto. La Shoah è la prova di quel che gli uomini sono capaci di fare ad altri esseri umani in nome dei loro interessi. Una lezione mai seriamente presa in considerazione"

di ANTONELLO GUERRERA
   
"CIÒ A cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto ". A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all'Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939.

Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l'aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell'abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest'intervista a Repubblica.

Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all'offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
"Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell'apartheid  -  nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi  -  che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l'8 luglio, prima dell'invasione di Gaza, Israele pratica l'apartheid ricorrendo a "due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi 'fuorilegge'. Del resto, quando l'esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell'omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi". E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri".

Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C'è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e "sproporzionata". Lei che ne pensa?
"E come sarebbe una reazione violenta "proporzionata"? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l'impegno di non spegnere l'incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: "Chi semina vento raccoglie tempesta". Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell'avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione".

Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo? Ha commesso errori?
"Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l'odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono "errori". I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l'arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L'insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull'odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire".

Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell'uso che Israele fa della tragedia dell'Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
"Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un'unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un'eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro".

A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
"Innanzitutto, non esiste la "comunità internazionale" di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell'inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che "un'eccessiva" reazione come quella all'omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe "che nessuno voleva o si aspettava"".

Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l'agghiacciante lezione dell'Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
"Le lezioni dell'Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese  -  per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l'Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un'altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un'importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c'è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di "aggressori" e "vittime" della violenza c'è un'umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l'ultima ondata di violenza nell'area "ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica".
 
© Riproduzione riservata 05 agosto 2014
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:32:31 pm »

Che cos'è lo Stato Islamico, il gruppo jihadista che minaccia l'Iraq e il mondo
Esecuzioni mostruose, un leader molto carismatico, risorse finanziarie abnormi: storia dell'ex "Isis", l'organizzazione terrorista che avanza verso Bagdad, che persino Al Qaeda ha scomunicato e che in troppi hanno sottovalutato


di ANTONELLO GUERRERA
   
Correva l'anno 2005 e Abu Bakr Al Baghdadi, il leader del gruppo terrorista "Stato Islamico" che sta terrorizzando l'Iraq e tutto l'Occidente, era in gabbia a Camp Bucca, un avamposto americano in Iraq a Umm Qasr, sul Golfo Persico. Al Baghdadi, accusato di attività terroristiche, era stato catturato dai soldati statunitensi. Poi, nel 2009, nel passaggio di consegne degli Usa, la base è andata sotto il controllo del governo iracheno. Che ha deciso di liberare Al-Baghdadi. Poco dopo, precisamente il 16 maggio 2010, Al-Baghdadi è diventato, ufficialmente, il leader del gruppo terrorista Isi (Stato Islamico dell'Iraq, allora braccio ufficiale di Al Qaeda), poi diventato Isis (o Isil), e cioè lo Stato Islamico dell'Iraq e della grande Siria (o del Levante), e oggi, dallo scorso luglio, più semplicemente "Stato Islamico" dopo la proclamazione del "califfato" in Iraq e l'annuncio di una "nuova jihad internazionale", non solo in Iraq e Levante.

Dal 2004 a oggi. Ma la storia dello Stato Islamico, il gruppo di jihadisti sunniti che da settimane minaccia pericolosamente Bagdad e tutto l'Iraq, viene da più lontano. Il gruppo terrorista, famigerato per ferocia e crudeltà mostruose persino rispetto agli standard di Al Qaeda, è essenzialmente un prodotto della guerra in Iraq lanciata da Usa e Regno Unito nel 2003. La sua prima formazione, infatti, (seppur con un altro nome, "Jama'at al-Tawhid wal-Jihad", e cioè "l'organizzazione del monoteismo e del Jihad") risale al 2004 e si è formata, a leggere i suoi propositi, proprio in risposta all'intervento militare concepito dall'amministrazione di George W. Bush.

Le colpe del governo. Lo Stato Islamico è, oggettivamente, anche il risultato delle politiche "esclusive" e per certi versi discriminatorie del premier sciita Nouri al Maliki e del suo governo, che non si è distinto per la sua apertura verso i curdi e soprattutto verso i sunniti iracheni (Saddam Hussein era sunnita, così come tutto l'apparato militare, storicamente). E questo ha lasciato campo aperto all'azione dei terroristi, che vogliono imporre un califfato tra Iraq e Siria in base a un'interpretazione ultraradicale della sharia, la legge islamica. Per raggiungere i risultati di oggi, è indubbio che lo Stato Islamico abbia avuto l'appoggio di una parte della popolazione sunnita nel nord-ovest nel paese, come dimostrano le conquiste degli ultimi tempi.

La guerra interna ad Al Qaeda. Ma lo Stato Islamico (ex Isis o Isil) per come lo conosciamo, in realtà, nasce ufficialmente solo l'anno scorso. E nasce da uno scontro interno alla galassia di Al Qaeda, l'organizzazione di Osama bin Laden che ha perso peso nella galassia dell'estremismo islamico dopo la sua uccisione ad Abbottabad (Pakistan) e la flebilissima guida del suo vice, il medico egiziano Ayman Al Zawahiri. Negli ultimi tempi, durante la guerra civile in Siria, c'è stata una dura battaglia tra l'allora Isis e un altro gruppo jihadista, Jabhat al Nusra, il cui leader si chiama Abu Mohammed al-Golani e che è molto attivo contro Bashar Assad.

La frattura. Ma se al-Nusra è un braccio "ufficiale" di Al Qaeda, approvato ufficialmente da Al Zawahiri, lo stesso non si può dire dello Stato Islamico. Negli ultimi mesi si era parlato anche di fusione tra le due organizzazioni, su pressione soprattutto di Al Baghdadi. Poi non se n'è fatto più nulla, per incomprensioni e litigi vari, anche perché Golani, il leader di Al Nusra, non ha voluto cedere il passo al più carismatico Al Baghdadi.

La scomunica di Al Qaeda. Di lì è stato scontro aperto, con una mezza scomunica di Al Zawahiri. Che, paradossalmente, non ha approvato alcune mosse considerate troppo efferate e spietate dello Stato Islamico persino per un'organizzazione assassina come Al Qaeda. L'ordine di Al Zawahiri ad Al-Baghdadi (lasciare la Siria ad Al Nusra per concentrarsi esclusivamente sull'Iraq) è rimasto miseramente inascoltato. Perché, come dice il suo stesso nome, lo Stato Islamico vuole ricreare il grande Califfato del Levante. E questo, nei suoi piani, include anche la Siria.

Minaccia sottovalutata. Ma lo Stato Islamico, nonostante il niet dell'erede di Bin Laden, non si è fermato. Ed ha proliferato, sempre di più, anche perché sottovalutato. Dalle autorità irachene, ma anche da quelle occidentali. Basti pensare che fino alla conquista di Mosul, che ha gettato nel terrore il Paese e il mondo intero, molti pensavano che l'allora Isis avesse "solo" tremila militanti. Anche quando lo scorso dicembre i terroristi hanno conquistato la strategica Falluja. Un errore madornale. Secondo alcune stime, oggi lo Stato Islamico può contare fino a 5mila miliziani solo in Siria, e altri 6mila in Iraq. Ben oltre le 10mila unità, dunque.

Le reclute straniere. E qui spunta un'altra caratteristica fondamentale del mostro creato da Al-Baghdadi. Perché lo Stato Islamico, a differenza della stessa Al Nusra e altri gruppi terroristi che combattono in Iraq e Siria, ha un grande appeal tra i giovani stranieri (spesso occidentali): tutti (neo)musulmani convertitisi al jihad, che ora, secondo l'Economist, sono almeno 3mila nelle file dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante e che sarebbero pagati poche centinaia di dollari al mese. Secondo Peter Neumann del King's College di Londra, l'80 per cento dei combattenti stranieri in Siria sono passati con Al-Baghdadi.

Chi è Al-Baghdadi. Perché Al-Baghdadi, come si diceva, è un tipo molto carismatico. Di sicuro è nato a Samarra nel 1971. Il resto è un mistero. Il suo vero nome non lo sa nessuno. Pare sia Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarrai. Le prime foto che lo ritraggono sono uscite solo un paio di anni fa. Vanta un dottorato in studi islamici, ottenuto all'università di Bagdad molti anni fa. E i suoi miliziani lo dipingono come discendente diretto del Profeta Maometto. L'ascesa di Al-Baghdadi è cominciata dopo l'uccisione per mano americana di Abu Musab al-Zarqawi, allora nemico pubblico numero uno per Washington in Iraq.

La ferocia dello Stato Islamico. Al-Baghdadi è la mente di numerose azioni terroristiche in Iraq (spesso suicide), come gli attacchi a Mosul nel 2011. Ed è famoso anche per la sua violenza e crudeltà verso i suoi nemici, come dimostrano i terribili video che circolano online da giorni ma che sono solo gli ultimi di una lunga serie: crocifissioni, decapitazioni, amputazioni. Su di lui gli Stati Uniti hanno posto una taglia da 10 milioni di dollari. Attualmente, solo la testa di un terrorista vale di più per Washington, ed è proprio quella del leader qaedista Al Zawahiri (25 milioni).


Armi e soldi. L'apparato sanguinario che dirige Al-Baghdadi è ben equipaggiato, spesso con armi rubate agli americani, e si finanzia con numerose azioni illegali, quali contrabbando e sequestri. Lo scorso febbraio l'Isis ha spodesdato Al Nusra dalla riserva di gas di Conoco, a Deir Ezzor, in Siria: solo questo giacimento, secondo alcuni analisti, frutta ai terroristi molte decine di migliaia di dollari a settimana. Ma non solo. Il premier Al Maliki ha accusato i sauditi e altri stati del Golfo come il Qatar (che sono wahabiti, cioè una branca del sunnismo radicale) di finanziare lo Stato Islamico e altri gruppi terroristi contro i governi sciiti (come in Siria, anche se Assad è alawita, una setta sciita).

"Il gruppo jihadista più ricco al mondo". A questo proposito, qualche giorno fa è passata praticamente inosservata una notizia che potrebbe rilevarsi devastante per il futuro dell'Iraq e dell'intera lotta al fondamentalismo islamico. Durante l'ultima battaglia di Mosul, ricca di pozzi di petrolio, poi conquistata dai terroristi, lo Stato Islamico ha sottratto (secondo il racconto del governatore dell'istituto e alcuni media locali) 429 milioni di dollari durante l'assalto alla sede della Banca Centrale, oltre a un gran numero di lingotti d'oro. Il solo denaro rubato, secondo alcune stime, potrebbe fornire i fondi necessari per reclutare 60mila terroristi all'alto salario di 600 dollari al mese. E lo Stato Islamico, a questo punto, rappresenterebbe l'organizzazione jihadista più ricca del mondo. Diventando davvero una minaccia globale, come lo è stata Al Qaeda. Basti pensare che Mehdi Nemmouche, l'uomo accusato del recente attentato al museo ebraico di Bruxelles, quando è stato arrestato in Francia aveva con sé proprio una bandiera dell'Isis.

(articolo aggiornato il 4 agosto 2014)

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2014/06/16/news/che_cos_l_isil_isis-89129521/
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