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Autore Discussione: Toni Morrison e le origini selvagge di Sara Antonelli  (Letto 2754 volte)
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« inserito:: Gennaio 03, 2009, 04:28:51 pm »

Toni Morrison e le origini selvagge

di Sara Antonelli


Con A Mercy, Toni Morrison, già vincitrice del Pulitzer nel 1988 e del Nobel nel 1993, torna a raccontare la schiavitù. Non la fase crepuscolare, come nell’inarrivabile Amatissima, bensì quella delle origini, quando gli Stati Uniti non esistevano ancora e l’America era una distesa selvaggia e scarsamente popolata dai pochi nativi sopravvissuti, dai coloni europei e dagli africani schiavi. In queste lidi primordiali, nell’anno del Signore 1690, sulla soglia di un romanzo suddiviso in capitoli che alternano le voci di più narratori, i lettori troveranno ad accoglierli proprio una schiava, Florens, qui colta nella trepidante eccitazione di un viaggio. Finita otto anni prima nelle mani compassionevoli («a mercy») di Jacob Vaark, un mercante della Virginia, Florens sta attraversando i territori sconosciuti del Nord America sia per tentare il salvataggio in extremis delle fortune del padrone sia per seguire, come gli altri personaggi di questo Nuovo Mondo morrisoniano, un’illusione. Florens, infatti, non si limita avanzare, ma, come Jacob nel capitolo seguente, spostandosi, rivanga il passato, lo intreccia al presente e prova a inventarsi un futuro.

RE-IMMAGINARSI
A Mercy, in breve, ritrae Florens nell’atto di compiere quel processo di re-invenzione del sé che hanno compiuto, stanno compiendo o stanno per compiere i protagonisti di tante storie «americane»: passare al setaccio la propria vita, cancellare gli episodi dolorosi, e quindi re-immaginarsi e rinascere. Succede a tutti. Sia agli uomini liberi sia a una schiava giovane e innamorata della passione. E poi a Rebekka Vaark, una donna che, per rifuggire un destino ingabbiato dai dogmi di una religione feroce e senza amore, attraversa il mare; a Lina, una serva scampata a costi altissimi allo sterminio della propria nazione indiana; alla misteriosa Sorrow; ai due schiavi a contratto; e infine al fabbro, alla girovaga famiglia D’Ortega, alle diverse comunità religiose in guerra tra loro. Ciò nonostante, più che nei brevi tratti caratteriali, onegli scarni e fulminanti dialoghi, o nel camaleontico e capriccioso flusso di coscienza che come un velo dipinto avvolge, sfumandoli, i pensieri dei vari personaggi, Morrison dispiega la brillantezza della sua prosa soprattutto nelle accurate descrizioni paesaggistiche dell’America; come a suggerire che in A Mercy il primo dono del cielo («a mercy») non va identificato nella reazione di Jacob all’appello della madre di Florens – modulata su un’offerta che a sua volta rivisita, ma in chiave misericordiosa, la scena di apertura di un classico della letteratura Usa, La capanna dello zio Tom - quanto nella generosità della natura americana che si offre impudicamente a tutti i nuovi arrivati, inebriandoli.

TOCCARE E VEDERE
Raffigurato con una vivacità che consente ai lettori di annusare, toccare, vedere, e accompagnato da un senso di stupore, di attesa e di mistero che non scivola mai nell’oleografismo, il paesaggio primordiale americano che Morrison descrive in queste pagine acquisisce istantaneamente la forza e il carattere di un personaggio,diventa qualcosa di vivo, capace di agire, di operare cambiamenti. È come se quella fonte di energia propulsiva che nelle favole antiche confluiva nel personaggio del mago qui prendesse le forme di un orizzonte dinamico, di una quinta girevole e palpitante su cui srotolare la parabola di Jacob, un uomo di sani principi che viene lasciato alla mercé («a mercy») di una natura che è lussureggiante solo perché è innanzi tutto lussuriosa. Un uomo irretito dalla promessa di ricchezze peccaminose tanto quanto i decori serpentini intarsiati sul cancello della magione che ricaverà da proventi degli abominevoli investimenti alle Barbados, e che invece di fargli toccare il cielo con un dito finiranno per spingerlo precipitosamente verso l’inferno.

LE COSE
All’inizio del romanzo, poco prima di concedere la grazia («a mercy») da cui origina la sua storia di dannazione, Jacob aveva avuto un’intuizione potenzialmente rivoluzionaria. Osservando i possedimenti in Maryland di un nobile portoghese corrotto, Jacob aveva concluso che a separare un mercante da una ristocratico «non è il carattere degli uomini, né il loro lignaggio, bensì le cose». Peccato che scorrendo le pagine di A Mercy l’unico rimedio cui egli ricorrerà per smascherare tale artificiosa gerarchia non sia la denuncia, né una coraggiosa anticipazione del progetto di uguaglianza democratica enunciato dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (per altro anche questa un testo bugiardo, visto che consapevolmente trascura di menzionare la schiavitù dei neri), bensì una corsa svilente che mira ad accumulare cose («la roba») per poi rinascere quale esemplare originale della costituenda nuova aristocrazia americana. Jacob si doterà di un appropriato castello americano, lo popolerà di servi e vassalli e, naturalmente, vi aggiungerà una schiava da sottomettere seppure amorevolmente, misericordiosamente. Solo allora, solo dopo l’incontro con Florens, la storia di Jacob e degli Stati Uniti («a mercy»?) potrà avere inizio.


02 gennaio 2009
da unita.it
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