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Autore Discussione: Vite parallele Uniti dalla passione per l’estetica  (Letto 1374 volte)
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« inserito:: Luglio 12, 2018, 07:36:19 pm »

ECONOMIA E IMPRESE
10 Luglio 2018 Il Sole 24 Ore

Vite parallele
Uniti dalla passione per l’estetica Così la tecnologia è un opera d’arte

Affinità e differenze tra Taylorismo e capitalismo californiano

I negozi non sono soltanto i negozi. I negozi sono anche lo specchio dell’anima di una impresa. Il parallelismo fra Adriano Olivetti e Steve Jobs si costruisce nelle affinità e nelle differenze e si alimenta nella capacità di entrambe le personalità di travalicare la Storia sconfinando nell’immaginario – Jobs – e trascendendo nel mito, nel caso di Olivetti.
Iniziamo dalle affinità e dalle differenze. Fra i due industriali – e fra le due imprese, la Olivetti e la Apple - corre mezzo secolo che, nel turbinio del Novecento, sembra quasi mezzo millennio. La Olivetti di Adriano era una impresa fordista pura. Metallo, metallo e ancora metallo. Taylorismo applicato alla vita aziendale. La durezza dei cronometristi. La fabbrica meccanica nella sua accezione più classica, per quanto resa eterodossa e radicalmente ammorbidita dal modello sociale e “politico” della utopia adrianea, con i servizi sociali che rendevano i redditi reali degli operai, degli impiegati e dei dirigenti di un terzo superiori rispetto al resto dell’industria italiana, moltiplicando e rendendo un unicum nel panorama internazionale la loro condizione interiore di individui, membri della fabbrica ma anche – per il tramite della fabbrica – della comunità. Con una piccola, ma significativa, diversificazione sul lato della specializzazione produttiva: la prima grande elettronica che verrà sacrificata nel 1964 - l’azienda semifallita - a favore del mantenimento della presenza proprio negli Stati Uniti. Negli anni Cinquanta, la Olivetti di Adriano ha una dimensione identitaria molto nitida e pervasiva: il profilo estetico rappresenta un fenomeno di impresa in grado di concentrare, coagulare e distillare il senso delle cose e il senso degli oggetti. Il negozio al numero 584 della Quinta Strada di New York di BBPR è questo.
La Apple di Steve Jobs, invece, è una impresa non fordista, che nasce quale evoluzione dell’industria nordamericana in una società già terziarizzata e già segnata dalla profonda rivoluzione elettronica. Ibm, per citare l’azienda informatica americana per antonomasia, era una impresa fondamentalmente fordista. Apple, no. Apple è fondata nel 1976 a Cupertino, in California. E, dunque, ha i tratti del capitalismo californiano – prima che americano – di quel periodo storico. La base sottostante della ricerca pubblica e militare. Il rapporto diretto con gli investitori. L’ambiente – l’ecosistema - reso fertile dalle università.
Cupertino non è Ivrea. Gli anni Quaranta e Cinquanta in Italia e in Europa non sono gli anni Ottanta e Novanta in California e negli Stati Uniti. Ma, soprattutto, il modello americano ha due tratti di lungo periodo che non sono mai appartenuti al modello europeo, prima che italiano o olivettiano. Il primo tratto specificatamente americano è la rapidità di rigenerazione dell’organismo industriale – nel caso specifico Apple ha avuto più di un passaggio storico a vuoto e la stessa leadership di Jobs è stata messa in discussione in diversi frangenti – ogni volta che esso andava in crisi: la manifattura europea è sempre stata strutturalmente più rigida, meno elastica e dotata di minore capacità auto-rigenerativa. Il secondo tratto americano è il meccanismo di delocalizzazione con la costruzione di catene globali del valore radicate in Cina. Una delocalizzazione dei componenti e dei prodotti che riguarda il modello americano molto più di quello europeo.
Il vero punto concreto di congiunzione fra i due personaggi è, quindi, l’estetica. Nel 1981, Jobs partecipa alla International Design Conference di Aspen dedicata al design italiano. Da lì inizia una fascinazione che ha due fuochi: l’elettronica e l’auto. I designer olivettiani – per esempio Ettore Sottsass e Mario Bellini – e Sergio Pininfarina. A Cupertino, allora anch’essa sede americana della Olivetti, e a Ivrea ricordano ancora l’amore per le forme dei loro prodotti e dei loro uffici manifestato da Steve Jobs, che negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta è uno dei giovani felini della informatica internazionale ma non è ancora il re leone della elettronica, dei computer e della telefonia mondiale.
È, dunque, l’estetica l’elemento comune fra due imprenditori capaci di attivare la fantasia, di prendere un prodotto (o, in questo specifico caso, un negozio) e di renderlo assimilabile ad una opera d’arte (nel caso Olivetti) o di farlo diventare uno dei luoghi simbolo del consumo del nostro nuovo capitalismo, insieme materiale e immateriale, come Apple. Ed è in questo vortice che, alla fine, sia Adriano Olivetti sia Steve Jobs sono riusciti a rendere – per un atto della volontà o per caso poco importa – le loro stesse personalità due enigmi che travalicano il dato storico per accendere l’immaginazione degli altri. Dentro la Storia, ma anche fuori dal Tempo.

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Paolo Bricco

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180710&startpage=1&displaypages=2
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