LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => I GIUSTI MAESTRI => Discussione aperta da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:45:29 pm



Titolo: UMBERTO ECO.
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:45:29 pm
LA BUSTINA DI MINERVA

Su di un libro non letto
di Umberto Eco


Conoscere di un libro la relazione con altri libri significa spesso saperne di più che non avendolo letto. Commenta  Ricordo (ma, come vedremo, non è detto che ricordi bene), un bellissimo articolo di Giorgio Manganelli, nel quale egli spiegava come un fine lettore possa sapere che un libro non si deve leggere anche prima di averlo aperto. Non stava parlando di quella virtù che si richiede spesso al lettore di professione (o all'amatore di gusto), di poter decidere da un incipit, da due pagine aperte a caso, dall'indice, spesso dalla bibliografia, se un libro valga o meno la pena di essere letto. Questo, direi, è solo mestiere. No, Manganelli parlava di una specie d'illuminazione, di cui evidentemente e paradossalmente si arrogava il dono.

'Come parlare di un libro senza averlo mai letto' (Excelsior, 16,50 euro) di Pierre Bayard (psicanalista e docente universitario di letteratura) non tratta di come si debba sapere se non leggere un libro, ma di come si possa tranquillamente parlare di un libro non letto, persino da professore a studente, e anche se si tratta di un libro di straordinaria importanza. Il suo calcolo è scientifico, le buone biblioteche raccolgono alcuni milioni di volumi, anche a leggerne uno al giorno ne leggeremmo solo 365 in un anno, 3600 in dieci anni, e tra i dieci e gli ottant'anni ne avremmo letti appena 25.200. Un'inezia. D'altra parte chiunque abbia avuto una buona educazione liceale sa benissimo di poter ascoltare un discorso, poniamo, su Bandello, Guicciardini, Boiardo, numerosissime tragedie di Alfieri e persino 'Le confessioni di un italiano' avendone soltanto appreso a scuola il titolo e la collocazione critica, ma senza averne mai letto una riga.

È la collocazione critica il punto cruciale per Bayard. Egli afferma senza vergogna di non aver mai letto lo 'Ulysses' di Joyce, ma di poterne parlare alludendo al fatto che è una ripresa della 'Odissea' (che egli peraltro ammette di non aver mai letto per intero), che si basa sul monologo interiore, che si svolge a Dublino in un giorno solo, eccetera. Così che scrive: "quindi mi capita di frequente, nei miei corsi, senza batter ciglio, di far spesso riferimento a Joyce". Conoscere di un libro la relazione con altri libri significa spesso saperne più che non avendolo letto.

Bayard mostra come, quando ci si pone a leggere certi libri trascurati da tempo, ci si accorge che se ne conosce benissimo il contenuto perché nel frattempo se ne erano letti altri che ne parlavano, li citavano, o si muovevano nello stesso ordine d'idee. E (così come fa alcune divertentissime analisi di vari testi letterari in cui si tratta di libri mai letti, da Musil a Graham Greene, da Valéry ad Anatole France e a David Lodge) mi fa l'onore di dedicare un intero capitolo al mio 'Il nome della rosa', dove Guglielmo da Baskerville dimostra di conoscere benissimo il contenuto del secondo libro della 'Poetica' di Aristotele, che pure egli sta prendendo in mano per la prima volta, semplicemente perché lo deduce da altre pagine aristoteliche. Vedremo poi alla fine di questa Bustina che non cito questa citazione per mera vanità.

La parte più intrigante di questo pamphlet, meno paradossale di quel che sembri, è che noi dimentichiamo una percentuale altissima anche dei libri che abbiamo letto davvero, anzi di essi ci componiamo una sorta di immagine virtuale fatta non tanto di quello che essi dicevano, bensì di ciò che ci hanno fatto passar per la mente. Pertanto se qualcuno, che non ha letto un certo libro, ce ne cita dei passi o delle situazioni inesistenti, noi siamo prontissimi a credere che il libro ne parlasse.

È che (e qui viene fuori lo psicanalista più che il docente di letteratura) Bayard non tanto è interessato a che la gente legga i libri altrui, quanto piuttosto al fatto che ogni lettura (o non-lettura, o lettura imperfetta) debba avere un aspetto creativo, e che (a dirla con parole semplici) in un libro il lettore debba metterci anzitutto del suo. Tanto da auspicare una scuola dove, siccome parlare di libri non letti è un modo per conoscere se stessi, gli studenti 'inventino' i libri che non dovranno leggere.

Salvo che Bayard, per mostrare come, quando si parla di un libro non letto, anche chi l'ha letto non si accorge delle citazioni sbagliate, verso la fine del suo discorso confessa di aver introdotto tre notizie false nel riassunto de 'Il nome della rosa', de 'Il terzo uomo' di Greene e di 'Scambi' di Lodge. La faccenda divertente è che io leggendo mi sono subito accorto dell'errore su Greene, ho avuto un dubbio a proposito di Lodge ma non mi ero accorto dell'errore a proposito del mio libro. Il che vuol dire che probabilmente ho letto male il libro di Bayard oppure (e sia lui che i miei lettori sarebbero autorizzati a sospettarlo) che l'ho appena sfogliato. Ma la cosa più interessante è che Bayard non si è reso conto che, denunciando i suoi tre (voluti) errori, egli assume implicitamente che dei libri ci sia una lettura più giusta delle altre -tanto che, dei libri che analizza per sostenere la sua tesi della non-lettura, dà una lettura molto minuziosa. La contraddizione è così evidente da dar adito al dubbio che Bayard non abbia letto il libro che ha scritto.

(20 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Umberto Eco LA BUSTINA DI MINERVA
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2007, 09:26:37 pm
LA BUSTINA DI MINERVA

Come perdere la Trebisonda
di Umberto Eco


Due spiegazioni per Scalfari e alcuni chiarimenti sulla 'sindrome di Bayard': cioè l'attribuzione ad altri di idee che invece sono nostre 

La settimana scorsa su questa pagina Eugenio Scalfari si chiedeva perché si dice 'perdere la Trebisonda' o 'andare in cimbali', e annotava che forse io lo so. Grazie per l'attestato di fiducia, ma per Trebisonda (che noi 'happy few' chiamiamo confidenzialmente Trapezunte) basta andare su Internet, dove però si alternano due spiegazioni alquanto diverse.

Una è che, siccome Trebisonda era il maggior porto sul Mar Nero, per i mercanti perdere la rotta di Trebisonda significava perdere il denaro investito nel viaggio. L'altra, che mi pare più attendibile, è che Trebisonda costituiva un punto di riferimento visivo per le navi, perdendo il quale si perdeva l'orientamento, o la bussola, o la tramontana.

Quanto ad andare in cimbali, che comunemente si usa per uno stato di ubriachezza, il Dizionario Etimologico di Cortelazzo e Zolli ci dice che originalmente significava essere smodatamente allegro, che viene già usato dall'Aretino e che deriva dal Salmo 40, 'in cymbalis bene sonantibus'. E Scalfari può ora dormire sonni tranquilli tra due cimbali.

Chi non li dorme sono io, che nella Bustina scorsa citavo il libro di Bayard su come si possa parlare di libri non letti. Evidentemente si può, ed ho appena parlato del Cortelazzo-Zolli i cui cinque volumi (dato che non sono un pazzo) non ho mai letto per intero. Ma Bayard toccava anche un altro argomento, e cioè che anche chi un libro lo ha letto di solito non lo ricorda con esattezza perché leggendolo vi ha messo dentro del suo, attribuendolo all'autore. Mi è già accaduto di citare un episodio esemplare. Ai tempi della mia tesi di laurea, mentre mi arrovellavo senza riuscire a risolverne il problema centrale, leggendo il libro di un oscuro autore ottocentesco, tale abate Vallet, vi avevo trovato l'idea decisiva - e anche a decenni di distanza ricordavo il segno che vi avevo fatto a margine, in rosso e con punto esclamativo. Trent'anni dopo, parlando di questo caso con un amico, ero andato a ricuperare quel libro mai più toccato, avevo ritrovato di colpo la pagina col segno rosso, e mi ero accorto che l'autore non esprimeva affatto quell'idea mirabile. Essa (probabilmente per associazione d'idee) era venuta in mente a me mentre leggevo lui, che diceva tutt'altro, e gliela avevo attribuita.

Se così accade mentre si legge attentamente un libro per ragioni di studio, immaginiamoci cosa accade quando si legge disattentamente un giornale o si segue con la coda dell'occhio una trasmissione televisiva. Ed ecco che cosa mi è capitato con 'L'espresso' di due settimane fa. Avevo appena letto a pagina 9 il convincentissimo articolo di Bocca sul cretinismo generale, avevo sfogliato a pagina 16 e vi avevo trovato la notizia di un film che Wim Wenders sta per girare in Italia. Forse mi aveva anche aiutato la foto dove Wenders non ci fa una gran figura, ma subito avevo pensato a un film con Boldi e De Sica e mi ero subito rammaricato che anche Wenders contribuisse al cretinismo generale. Poi mi sono fermato. Ammiro moltissimo Wenders, lo giudico regista profondo e pensoso, non mi è mai passata per la testa l'idea che sia uno stolto.

Che cosa era successo? Era successo che stavo ancora riverberando sull'articoletto di pagina 13 i sentimenti che avevo provato leggendo Bocca, e pensavo ancora che tutti siano fatalmente cretini..

Sempre su questo giornale leggo la 'Satira preventiva' di Serra, mi diverto come un matto ma, proseguendo a leggere le altre pagine, tutte le altre notizie mi paiono inventate da Serra e ho l'impressione che questo giornale ci parli di un mondo surreale. Ora è certamente possibile che (1) viviamo davvero in un mondo in cui tutti hanno perso la Trebisonda oppure (2) io inizi a mostrare sintomi di demenza senile; ma mi consola il fatto che rilevo spesso che anche gli altri si comportano in questo modo. Per esempio, incontro un tale che mi dice quanto è d'accordo su quanto ho scritto sull'ultima Bustina, e io so di sicuro che non ho mai espresso quella idea, anche perché si tratta proprio del contrario di quel che penso. Tento di spiegare, ma il mio lettore quasi si offende e dice di ricordare benissimo che io ho scritto quelle cose. Evidentemente le aveva lette in un articolo su un'altra pagina, o addirittura su un altro giornale, si era trovato consenziente e leggendo poi me (certamente con simpatia) mi aveva attribuito la sua idea (come io avevo fatto con l'abate Vallet). Del pari mi accade che il barista si compiaccia per la mia intervista alla televisione della sera prima, quando io ho la certezza di non essere stato in televisione ma, se lo dico, quello al massimo concede che forse era stato due sere prima. È che, vedendomi di persona, mi aveva associato alla mia immagine vista in qualche telegiornale chissà quanti mesi fa, poi aveva introdotto nel cocktail anche qualcosa che aveva udito la sera prima da qualcun altro.

Di solito a questo punto lascio perdere. Non riuscirò mai a spiegare al mio interlocutore che è vittima di quella che chiameremo la sindrome di Bayard.

da espressonline


Titolo: Ebrei, massoni e radical chic... (il caso don Gelmini).
Inserito da: Arlecchino - Agosto 18, 2007, 12:27:57 am
LA BUSTINA DI MINERVA

Ebrei, massoni e radical chic
di Umberto Eco


Il complotto evocato da don Gelmini dimostra che nel suo animo è conservato lo stesso mostro che aveva ossessionato i suoi maestri più anziani

Mentre scrivo non si è ancora sopita la discussione giornalistica sul caso di don Gelmini, e vorrei subito dire che non sono gran che interessato a sapere se le accuse che gli rivolgono sono giuste o sbagliate, perché errare è umano, sia che abbia sbagliato un prete sia che abbia sbagliato un magistrato, e per il resto si tratta di faccende personali. D'altra parte ammetto che gli accusatori non solo sono carcerati o pregiudicati, ma vengono da storie di droga e, se sotto l'imperio della droga si può immaginare di essere assaliti da un mostro con gli occhi d'insetto, si può anche immaginare di essere baciati da un ecclesiastico ottantenne, perché all'orrore (come sapeva Lovecraft) non c'è mai fine.

Tuttavia l'aspetto più interessante della faccenda è quello (che invece è stato liquidato in due giorni) dell'affermazione che le accuse venivano da una cricca ebraica e radical chic. Poi don Gelmini, di fronte alla reazione ebraica, si è corretto, ha detto che pensava ai massoni, i massoni sono come l'Opus Dei o i gesuiti, meno si fa chiasso intorno a loro e meglio è, e quindi non hanno dato gran seguito alla cosa, anche perché nessuno ha mai ammazzato sei milioni di massoni (hanno solo fucilato qualche carbonaro in tempi risorgimentali) e quindi i massoni su queste cose sono meno permalosi degli ebrei.

Sono apparsi subito alcuni articoli (ricordo quelli di Serra e di Battista) che notavano come la citazione di don Gelmini rivelasse echi (consci o inconsci) di antiche polemiche clericali, e che questo costituiva l'aspetto più triste della faccenda. Infatti è più che noto che l'idea del complotto giudaico massonico, prima di andare a nutrire i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, era nata in ambiente gesuitico e aveva percorso tutta la polemica anti rivoluzione francese, prima, e anti risorgimento, dopo.

Ma siccome al complotto giudaico massonico ci aveva ormai rinunciato da quel dì' lo stesso Vaticano, sembrava che questa immagine fosse rimasta sepolta in polverose biblioteche di seminari vescovili, lasciandone il copyright ad Adolf Hitler e a Bin Laden. E invece ecco che un sacerdote che vive oggi, e che presumibilmente ha studiato in seminario negli anni Trenta (dopo la Conciliazione), dimostra di aver conservato nei recessi della propria anima ricordi se non altro verbali del mostro che aveva ossessionato i suoi maestri più anziani.

Nel 1992 un povero cardinale, che non pensava affatto agli ebrei ma stava attaccando la mafia, l'aveva definita Sinagoga di Satana. Apriti cielo. Subito era sorta una polemica, a cui avevo partecipato anch'io con due Bustine. Chi giustificava l'uso di quella espressione ricordava come sinagoga nei dizionari significasse anche riunione, adunanza, conventicola, e che se ne parlava già nell'Apocalisse. Il fatto è che non solo nell'Apocalisse il termine appare in contesto antigiudaico, ma che il suo uso corrente è stato dovuto a un libro pubblicato nel 1893 da monsignor Meurin, 'La Sinagoga di Satana', dove si dimostrava che la massoneria, setta di adoratori di Lucifero, era pervasa di cultura ebraica (come del resto, e qui Meurin era molto generoso, gli scritti di Ermete Trismegisto, gli gnostici, gli adoratori del serpente, i manichei, i templari e i cavalieri di Malta) e che attraverso di essa gli ebrei miravano alla conquista del mondo.

Ora, dopo il libro assatanato di Meurin (che all'epoca aveva avuto molto successo) non si può più impunemente usare l'espressione 'Sinagoga di Satana' così come non si può più agitare una bandiera con la svastica affermando che si tratta soltanto di un venerabile e innocente simbolo astrale di origini preistoriche.

Annotavo qualche Bustina fa che stanno apparendo da un lato accanite polemiche anticlericali e antireligiose e dall'altro riprese della polemica clericale e sanfedista contro il mondo moderno e (da noi) contro i miti risorgimentali e l'ideologia dello Stato unitario. Altro che passo di gambero. Però forse mi sbagliavo, non si tratta di un paradossale ritorno a polemiche ormai morte, bensì di un naturalissimo ritorno del rimosso, di qualcosa che era sempre rimasto lì e non se ne parlava più solo per buona educazione. Ma chi è stato educato a temere il complotto giudaico non lo dimentica mai, anche se solo per via di frasi fatte - e anche se una patina di aggiornamento culturale permette di aggiungere espressioni come 'radical chic'. Insomma, pare che ci sia chi non ha mai smesso di leggere (sia pure di notte) i romanzi di padre Bresciani.

In questa vicenda l'unico aspetto che mi ha stupito è che, nel suo confusivo citazionismo, don Gelmini abbia tirato in ballo anche i massoni. Bel senso della riconoscenza, visto che (mi attengo a quanto ha detto lui) generosissimi finanziamenti ha ricevuto da un ex membro della P2, tessera 1.816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625.

(17 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO - Ma chi ha scritto i 'Protocolli'?
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2007, 11:39:51 am
Ma chi ha scritto i 'Protocolli'?
di Umberto Eco

Che il documento sia falso è pacifico. Tuttavia chi lo abbia prodotto e quando è ancora materia di dibattito 

Il 31 luglio scorso è scomparso (a 92 anni) Norman Cohn. È sempre stato interessato alle psicopatologie collettive perché nel 1957 aveva scritto un affascinante libro sui vari millenarismi (uscito in italiano come 'I fanatici dell'Apocalisse', Comunità) e nel 1992 un altro (tradotto come 'I demoni dentro' da Unicopli) sulla caccia alle streghe. Ma il suo libro più sinistramente attuale rimane 'Warrant for a genocide' (1967) in cui si ricostruisce la vicenda della produzione e dello smascheramento di quel celebre falso che è stato 'I Protocolli dei Savi Anziani di Sion'. Sui Protocolli mi è accaduto di tornare sovente in queste Bustine, ma non per ossessione mia, bensì per ossessione altrui, visto che il tema ancora affolla il Web, specie nei siti fondamentalisti arabi, ma non solo.

Il libro di Cohn era stato tradotto nel 1969 da Einaudi come 'Licenza per un genocidio', ma purtroppo non è mai stato ristampato. D'altra parte non è mai stato tradotto in italiano un altro libro, più ricco di quello di Cohn (ottocento invece di duecentocinquanta pagine), specie per la storia remota dei Protocolli, 'L'apocalypse de notre temps' di Henri Rollin - che solo recentemente l'editore Allia ha riproposto in Francia. È un'opera che, apparsa nel 1939, all'inizio della guerra, annunciava con precisione quasi visionaria quello che i Protocolli avrebbero prodotto negli anni seguenti.

In un'altra Bustina citavo 'Il complotto' di Willy Eisner (Einaudi 2005) dove si ricorda (in forma narrativa, ma in base a seria documentazione) che i Protocolli sono stati presi ancor più sul serio proprio dopo che, nel 1921, il 'Times' aveva dimostrato che erano stati scopiazzati da un libro di Maurice Joly contro Napoleone III. Ma la posizione di chi li considera sempre validi continua a essere quella che ripeteva Julius Evola nella prefazione all'edizione italiana del 1938 (anno, ricordiamolo, delle leggi razziali in Italia): "Il problema della loro autenticità è secondario e da sostituirsi con quello, ben più essenziale, della loro 'veridicità'. Quand'anche (cioè: dato e non concesso) i Protocolli non fossero 'autentici' nel senso più ristretto, è come se essi lo fossero, per due ragioni capitali e decisive: perché i fatti ne dimostrano la verità; perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell'Ebraismo tradizionale e moderno è incontestabile". Come dire: se anche non fossero stati scritti dagli ebrei esprimerebbero comunque quello che noi antisemiti pensiamo che gli ebrei pensino.

Sapevo che Rollin aveva collaborato nel 1939 con i servizi segreti francesi, ma ora apprendo, dall'articolo apparso su 'The Guardian' in morte di Cohn, che anche lui aveva lavorato durante la guerra per l'Intelligence Service. La coincidenza non è strana perché evidentemente la dimestichezza con i documenti falsi e con le doppiezze dei servizi segreti aveva aiutato questi due autori a dipanare una storia che ha assolutamente del romanzesco. Infatti che il documento sia falso è pacifico, ma chi lo abbia prodotto (e quando) è ancora materia di dibattito - tranne il fatto che il materiale d'origine nasce certamente in Francia.

Sia Rollin che Cohn hanno reso plausibile la tesi per cui tutto sarebbe stato ordito dai servizi segreti russi ovvero da quella Ochrana allora diretta a Parigi da Rakowsky, negli anni del caso Dreyfus - e ne 'Il complotto' Eisner accentua il ruolo avuto nella stesura finale da tale Golovinskij, che peraltro era collaboratore di Rakowsky. Una interpretazione radicalmente diversa di tutta la storia ha dato invece Cesare G. De Michelis nel suo 'Il manoscritto inesistente' (Marsilio, 1998). Siccome in effetti i Protocolli erano apparsi ufficialmente a stampa solo nel 1903 nel quotidiano russo 'Znamja' e poi in volumetto, a Pietroburgo nel 1905, De Michelis - lavorando con acribia filologica sugli originali russi - arriva alla conclusione che il testo sia stato steso solo in quegli anni in ambiente russo (devo ovviamente tralasciare le prove che egli adduce, e la dimostrazione di come le successive traduzioni abbiano sofferto di varie manipolazioni). Ma l'anno scorso Carlo Ginzburg in un congresso a Los Angeles ha criticato questa tesi come troppo radicale.

Si può in ogni caso ritenere che, anche se De Michelis ha ragione, il materiale sia stato a poco a poco assemblato nei decenni precedenti in Francia, anche perché in altra sede avevo individuato tra le fonti dei Protocolli persino i romanzi di Sue (tranne che per Sue il complotto non era degli ebrei bensì dei gesuiti).

È naturale che, nel corso dei quarant'anni decorsi dall'apparizione del libro di Cohn, in ogni nuova ricerca sulle origini dei Protocolli si avanzino delle riserve su alcuni aspetti della sua ricostruzione. Ma questo non rende il libro meno appassionante, anche perché porta in calce alcuni documenti di grande interesse come il famigerato 'Discorso del rabbino' che (falso anch'esso e sempre riapparso in forme diverse) ha certamente costituito una delle origini remote dei Protocolli.

da espressonline.it


Titolo: UMBERTO ECO... Qualunquismo e neo-qualunquismo
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2007, 10:23:29 pm
LA BUSTINA DI MINERVA

Qualunquismo e neo-qualunquismo
Umberto Eco


Il 'Vaffanculo Day' di Beppe Grillo, a differenza della minoranza 'malata' che diede vita all'Uomo Qualunque, rappresenta una malattia dell'intero corpo sociale  Il comico Beppe GrilloLa partecipazione al 'Vaffanculo Day' organizzato da Beppe Grillo ha riacceso la discussione se vari sintomi di disaffezione e sfiducia nei confronti della classe politica rivelino la rinascita del qualunquismo. Non credo che la crociata ormai decennale di Grillo contro tutti possa essere definita qualunquismo, perché caso mai si tratterebbe di una sorta di neo-savonarolismo laico.

Il problema è quello della gente che partecipa con lui, e persino di quelli che lo vanno a sentire per puro divertimento, perché se si divertono è perché viene sollecitato pur sempre qualche loro rancore profondo. D'altra parte le 150 mila copie (sino a luglio, che poi se va bene diventano 300 mila lettori) di 'La casta' di Stella e Rizzo non sono noccioline: tutti quei lettori che si interessano a come vengono spesi e sprecati i soldi pubblici, non sono gente che vuole soltanto divertirsi. È gente che cerca materia alla propria indignazione o almeno alla propria insoddisfazione nei confronti della classe politica e degli amministratori degli enti pubblici.

Ma si tratta di 'qualunquismo'? Il qualunquismo storico (lo racconto ai giovanissimi) nasce quando nel dicembre 1944 (nella Roma già liberata, ma mentre i fascisti dominano ancora l'Italia del nord), Guglielmo Giannini fonda un giornale, 'L'uomo qualunque', che già nel 1945 raggiunge le 850 mila copie di tiratura (tantissimo per quei tempi) sino a che nel 1946 dà origine al movimento omonimo che manderà ben 30 deputati alla Costituente. Che poi il movimento da un lato venga strumentalizzato dalla Democrazia cristiana e infine si smembri andando a ingrossare le file del partito monarchico e del neonato Movimento sociale, ci dice soltanto che il suo richiamo catalizzava i malumori dei vecchi fascisti epurati e di chi, uscito frastornato da vent'anni di dittatura, non riusciva a capire né la dialettica tra partiti diversi, né la retorica post-resistenziale che chiamava tutti a un pronunciamento ideologico. Era insomma il movimento dei 'vaffanculo' dell'epoca, ma per ragioni del tutto diverse da quelli odierni.


Infatti quel movimento rappresentava una reazione allo choc di una vita democratica ancora ignota, mentre questo rappresenta una disaffezione verso una vita democratica a tutti nota e (pareva) accettata. Quello era una malattia infantile della democrazia italiana, e infatti non ha avuto un successo veramente significativo perché gli si opponevano i grandi partiti di massa (Democrazia cristiana, Partiti comunista e socialista) che suscitavano l'entusiasmo e l'impegno dei cittadini. Invece il neo-qualunquismo non rappresenta il rifiuto a priori di una dialettica democratica (che i settatori dell'Uomo Qualunque rifiutavano prima ancora di averla conosciuta). Esso rappresenta la sindrome di delusione nei confronti della classe politica da parte di chi in quella dialettica ci credeva. Il primo riguardava una minoranza di 'malati' che non potevano inquinare il corpo sociale più di tanto, il secondo rappresenta o annuncia una malattia (incipiente) del corpo sociale nella sua totalità.

Non posso (e non so) analizzare tutti i motivi di questa disaffezione, ma vorrei dire quello che ho letto sui quotidiani o visto al telegiornale nelle ultime settimane, quando siamo stati avvisati ogni giorno che il governo intendeva diminuire le tasse. Ora un governo che dice a più riprese che diminuirà (al futuro) le tasse, certamente non le ha diminuite, e pazienza, perché potrebbe (come in parte ha fatto) spiegare perché ancora non può farlo. Ma ripetere ogni giorno che le tasse saranno diminuite induce in chi legge o ascolta due (e solo due) interpretazioni possibili: una, che il governo 'non' ha diminuito le tasse (altrimenti non userebbe il futuro), due, che ha aumentato le tasse, e proprio per questo si affanna a ripetere che poi le diminuirà.

Perché un governo scelga questo modo di comunicare ai suoi elettori, mi rimane dolorosamente oscuro, ma ammetto chela colpa non sia del governo bensì dei mass mediaha riacceso la discussione se vari sintomi di disaffezione e sfiducia nei confronti della classe politica rivelino la rinascita del qualunquismo. Non credo che la crociata ormai decennale di Grillo contro tutti possa essere definita qualunquismo, perché caso mai si tratterebbe di una sorta di neo-savonarolismo laico.

Il problema è quello della gente che partecipa con lui, e persino di quelli che lo vanno a sentire per puro divertimento, perché se si divertono è perché viene sollecitato pur sempre qualche loro rancore profondo. D'altra parte le 150 mila copie (sino a luglio, che poi se va bene diventano 300 mila lettori) di 'La casta' di Stella e Rizzo non sono noccioline: tutti quei lettori che si interessano a come vengono spesi e sprecati i soldi pubblici, non sono gente che vuole soltanto divertirsi. È gente che cerca materia alla propria indignazione o almeno alla propria insoddisfazione nei confronti della classe politica e degli amministratori degli enti pubblici.

Ma si tratta di 'qualunquismo'? Il qualunquismo storico (lo racconto ai giovanissimi) nasce quando nel dicembre 1944 (nella Roma già liberata, ma mentre i fascisti dominano ancora l'Italia del nord), Guglielmo Giannini fonda un giornale, 'L'uomo qualunque', che già nel 1945 raggiunge le 850 mila copie di tiratura (tantissimo per quei tempi) sino a che nel 1946 dà origine al movimento omonimo che manderà ben 30 deputati alla Costituente. Che poi il movimento da un lato venga strumentalizzato dalla Democrazia cristiana e infine si smembri andando a ingrossare le file del partito monarchico e del neonato Movimento sociale, ci dice soltanto che il suo richiamo catalizzava i malumori dei vecchi fascisti epurati e di chi, uscito frastornato da vent'anni di dittatura, non riusciva a capire né la dialettica tra partiti diversi, né la retorica post-resistenziale che chiamava tutti a un pronunciamento ideologico. Era insomma il movimento dei 'vaffanculo' dell'epoca, ma per ragioni del tutto diverse da quelli odierni.

Infatti quel movimento rappresentava una reazione allo choc di una vita democratica ancora ignota, mentre questo rappresenta una disaffezione verso una vita democratica a tutti nota e (pareva) accettata. Quello era una malattia infantile della democrazia italiana, e infatti non ha avuto un successo veramente significativo perché gli si opponevano i grandi partiti di massa (Democrazia cristiana, Partiti comunista e socialista) che suscitavano l'entusiasmo e l'impegno dei cittadini. Invece il neo-qualunquismo non rappresenta il rifiuto a priori di una dialettica democratica (che i settatori dell'Uomo Qualunque rifiutavano prima ancora di averla conosciuta). Esso rappresenta la sindrome di delusione nei confronti della classe politica da parte di chi in quella dialettica ci credeva. Il primo riguardava una minoranza di 'malati' che non potevano inquinare il corpo sociale più di tanto, il secondo rappresenta o annuncia una malattia (incipiente) del corpo sociale nella sua totalità.

Non posso (e non so) analizzare tutti i motivi di questa disaffezione, ma vorrei dire quello che ho letto sui quotidiani o visto al telegiornale nelle ultime settimane, quando siamo stati avvisati ogni giorno che il governo intendeva diminuire le tasse. Ora un governo che dice a più riprese che diminuirà (al futuro) le tasse, certamente non le ha diminuite, e pazienza, perché potrebbe (come in parte ha fatto) spiegare perché ancora non può farlo. Ma ripetere ogni giorno che le tasse saranno diminuite induce in chi legge o ascolta due (e solo due) interpretazioni possibili: una, che il governo 'non' ha diminuito le tasse (altrimenti non userebbe il futuro), due, che ha aumentato le tasse, e proprio per questo si affanna a ripetere che poi le diminuirà.

Perché un governo scelga questo modo di comunicare ai suoi elettori, mi rimane dolorosamente oscuro, ma ammetto che la colpa non sia del governo bensì dei mass media

(14 settembre 2007)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO... Bamboccioni messi in croce
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 04:24:12 pm
LA BUSTINA DI MINERVA

Bamboccioni messi in croce
di Umberto Eco


Perché i trentenni italiani, diplomati o laureati, non possono "abbassarsi" ad occupazioni umili per rendersi indipendenti? Non avrà qualche ragione il ministro Padoa-Schioppa quando parla di bamboccioni?  Il ministro dell'Economia Padoa-SchioppaMi fa un poco specie, francamente, che in questa discussione nazionale sui bamboccioni, a nessuno sia venuto in mente di andare a consultare il venerabile e autorevolissimo Grande Dizionario della Lingua Italiana Utet (altrimenti noto come il Battaglia). Vi si sarebbe trovato che mentre per bamboccio s'intende "bambino con una sfumatura vezzeggiativa e scherzosa insieme, bambino grassottello un po' goffo e impacciato, privo ancora di parola, di ragione, quasi un oggetto, un giocattolo", per la variazione bamboccione (accrescitivo) si possa reperire una serie di usi classici per cui, secondo il Tommaseo-Rigutini "se dico bamboccione non penserò tanto alla mole, quanto alla forma badiale... difficile immaginare un bamboccione senza un bel visone lustro", e secondo Baldini "ora tutti si trovano a far la vita comoda, lei, Bertoldino, la nuora Meneghina, e quel caro bamboccione di Cacasenno".

Quanto a Cacasenno (nell'aggiunta del Banchieri al classico 'Bertoldo e Bertoldino' del Croce) si trova che "Cacasenno era grosso di cintura, aveva la fronte bassissima, gli occhi grossi, le ciglia irsute, il naso e la bocca aguzza, che certo assomigliavasi ad un gatto mammone, ovvero ad uno scimmiotto". Dovendo montare a cavallo, "Cacasenno, pigliando il vantaggio, pose il piè mancino nella staffa dritta, e salito che fu si trovò con la faccia volta verso le natiche del cavallo; quivi Erminio crepava dal ridere, e volendo ch'ei smontasse, mai fu possibile a persuaderlo".

Quando arriva dal re, "i Palafrenieri di Corte, alzando la portiera, fecero entrare Cacasenno, il quale sopra le spalle si trascinava un uscio di legno. Il Re e la Regina, a questa gustosa entratura ebbero a smascellarsi dalle risa, intendendo tal stravaganza; ma più stupita restò la Marcolfa di tal cosa; e quivi il Maggiordomo di Corte, che si trovò presente, appena potendosi contenere dalle risa, così disse alle Regie Corone: Sappiano le Regie Corone loro che nel salir le scale del Palazzo, mentre Marcolfa entrava in sala, questo bamboccio disse a un Palafreniere che si sentia volontà di orinare. Fu egli intanto condotto al luogo di necessità, con sopportazione parlando, ed uscitone fuori non serrò l'uscio della bussola, onde io trovandomi, così gli dissi: Fanciullo, tirati dietro l'uscio, per non sentire il fetore; ed egli, levando l'uscio della bussola dai gangheri, se lo trascina dietro, onde così l'abbiamo introdotto qui a Loro".


Chiede il re: "Dimmi Cacasenno, perché ti trascini dietro quell'uscio?". E lui risponde: "Che importa a voi di saperlo?". Reagisce il re: "M'importa perché sono il padrone di casa". Risponde Cacasenno: "Se siete il padron di casa, quest'uscio adunque è vostro; ditemi che ne ho da fare". Il re: "Lascialo andare". E Cacasenno: "Uscio vattene, che il padrone ti dà licenza; vattene, dico, tu pesi troppo, né ti posso più tenere in ispalla". Pertanto la Marcolfa "levatogli l'uscio di spalla, ordinò a Cacasenno che facesse un inchino al Re ed alla Regina, ed inchinatosi fino a terra, ad ambedue baciasse la mano; allora Cacasenno, quasi un nuovo Cabalao, con bella grazia si pose trabocconi per terra, così dicendo: Oh! messeri, eccomi qui chinato in terra, siccome m'ha detto mia Nonna; mettetemi la mano in bocca, ch'io ve la voglio baciare; venite, vi aspetto".

Se Cacasenno era un bamboccione, molti di coloro che Padoa-Schioppa ha designato come tali non lo sono. E se qualcuno a trent'anni vive ancora coi genitori e usa la loro macchina per andare in discoteca il sabato sera (e magari schiantarsi alle tre di notte sull'autostrada), probabilmente è più astuto di Cacasenno e comunque fa così perché nessuno gli provvede un lavoro e dunque la colpa è della società.  Sacrosanto. Tuttavia, essendo per mestiere in contatto con i giovani e conoscendone molti che per studiare si sono fatti in quattro per trovare una borsa di studio e/o un lavoro qualsiasi e vivere con altri amici fuori sede, magari quattro per camera, mi chiedo perché le nostre piccole imprese siano piene di extracomunitari, e tanti di essi facciano i pony express e distribuiscano pacchi, occupando indegnamente (come suggerirebbe la Lega) posti che potrebbero essere presi dai nostri trentenni che vivono in famiglia.

L'ovvia risposta è che questi trentenni sono magari diplomati o dottori (come bizzarramente si chiamano oggi gli italiani che hanno fatto tre anni d'università) e non possono umiliarsi a distribuire pacchetti. Eppure in tutte le biografie americane di grandi scrittori o uomini politici si legge che, anche dopo gli studi, pur di poter attendere il momento della gloria, costoro hanno lustrato scarpe, lavato piatti o venduto giornali. Perché gli americani sì e gli italiani no? Che qualche ragione non l'abbia pure Padoa-Schioppa e che i virtuosi politici di destra e di sinistra che hanno reagito indignati alle sue parole non debbano smetterla di cercar voti tra i bamboccioni (che probabilmente, essendo bamboccioni, neppure votano più)?

(11 ottobre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO Ma che capirà il cinese?
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 05:47:14 pm
LA BUSTINA DI MINERVA

Ma che capirà il cinese?

di Umberto Eco


Il fatto che il mio editore cinese voglia tradurre una mia raccolta di 'Bustine' del 2000, testimonia del fatto che c'è gente che vuol superare la divisione delle culture e capire quel che capiscono gli 'altri'  Per ragioni a prima vista inspiegabili il mio editore cinese ha deciso di far tradurre anche una raccolta di Bustine di Minerva che avevo riunito in volume nel 2000. Chi legge questa rubrica sa che è piena di riferimenti all'attualità italiana e comunque occidentale e che a leggere una Bustina anche di pochi anni fa già si rischia di non riconoscere nomi o situazioni. Immaginiamoci per un lettore cinese. Infatti ricevo un e-mail dalla traduttrice, che dalle domande che pone si rivela persona informata della cultura italiana, ma che rimane perplessa di fronte a strizzate d'occhio o citazioni lampo, e mi domanda: a quale distributore di benzina a piazzale Loreto si riferisce? Cosa vuol dire Tre Palle un Soldo? Chi era il dottor Chiesa? Chi sono gli editori Zozzogno e Tiscordi? Che cosa significa 'il Palazzo'? Chi sono i Cannibali? Perché il premio Campiello lo decidono gli operatori ecologici delle Tre Venezie? Che cosa è una risposta 'alla Catalano'?

Cinesi a parte, mi chiedo se un nostro ragazzo del liceo sappia oggi cos'era il distributore di benzina di piazzale Loreto, e se la sua mente e il suo cuore - a meno che sia un cinefilo - siano mai stati illuminati dalla visita di Totò agli editori Zozzogno e Tiscordi, dopo che era sceso dal fatidico vagone letto. Ragione di più per dubitare della reazione dei cinesi a questi miei scritti. Il che m'indurrebbe a riflettere su come, in questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistano ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli di cui uno ignora Totò?

Eppure c'è un fatto, ed è che un editore cinese, contro ogni ragionevolezza, è disposto a investire denaro per tradurre le Bustine, il che significa che esisterà un mercato di nicchia anche per quelle - e d'altra parte basta visitare una libreria di Shanghai per trovare in traduzione tutti i libri occidentali, non solo i romanzi, ma persino Derrida o Heidegger, che già pongono problemi a chi li legge in lingua originale. Evidentemente il lettore cinese, anche se non sa chi erano Zozzogno o Tiscordi, prima o poi vuole saperlo, magari attraverso una nota a piè di pagina; forse non capirà bene chi era e cosa ha fatto il dottor Chiesa ma apprenderà che il cadavere di Mussolini è stato appeso per i piedi. Le culture sono ancora divise, ma popolate di gente che vuole superare queste divisioni e capire quel che capiscono 'gli altri'.


In questi giorni mi è capitato di sfogliare gli atti giudiziari del caso Vrain-Denis Lucas, un signore che verso la metà dell'Ottocento aveva prodotto circa 30 mila documenti autografi falsi e 27 mila ne aveva venduti a carissimo prezzo a un grande matematico di quei tempi, Chasles, membro dell'Accademia delle Scienze. Né Chasles (che certamente sarà stato acuto in matematica ma abbastanza ingenuo per tutto il resto) era stato il solo a crederci, perché anche molti dei suoi colleghi accademici ci avevano messo del tempo per decidere che si trattava di falsificazioni, e rozze per giunta.

Certamente Lucas aveva lavorato usando carta antica e riusciva persino a falsificare, sia pure rozzamente, la calligrafia delle varie epoche, ma aveva fatto scrivere su carta filigranata personaggi che non potevano che aver usato pergamene o papiri, come Carlo Magno, e addirittura aveva venduto lettere di Caligola, Cleopatra e Giulio Cesare scritte in francese. Naturalmente del francese di Cleopatra avevano subito dubitato tutti e il professor Chasles aveva indulgentemente avanzato l'ipotesi che si trattasse di copia e traduzione antica di un originale perduto, ma quando erano apparse lettere di Pascal a Galileo e a Newton da cui si deduceva che Pascal era stato il primo a scoprire la gravitazione universale, molti avevano esultato (per patriottismo) senza far caso al fatto che all'epoca gli studiosi di paesi diversi corrispondevano in latino.

Dunque nella civilissima Francia di poco più di centocinquant'anni fa alcuni accademici erano talmente nazionalisti e ignari di (o disinteressati ad) altre culture, da non riuscire a immaginare che nel mondo si parlasse qualcosa di diverso dal francese. E d'altra parte più o meno nella stessa epoca, in Texas, un deputato si era opposto all'introduzione dello studio delle lingue straniere nelle scuole, dicendo: "Se l'inglese era sufficiente per Nostro Signor Gesù Cristo, sarà sufficiente anche per noi". Anche se poi Lucas è stato ovviamente sbugiardato e condannato, l'episodio ci ricorda che per secoli le forze dell'etnocentrismo hanno posto filtri impenetrabili tra culture diverse.

Il fatto che oggi un editore cinese tenti traduzioni impossibili è segno di un atteggiamento diverso. D'altra parte anche noi traduciamo autori cinesi e chissà cosa capiamo veramente di quel che dicono. Ma non importa, sappiamo per intanto che stanno parlando anche loro.

(08 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO - Poggi da Cortina 'La vera storia della Regina di Biancaneve'.
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2007, 06:55:04 pm
Umberto Eco.

Specchio delle sue brame

Stefano Poggi pubblica da Cortina 'La vera storia della Regina di Biancaneve'.

Un libretto extra-vagante, un'avventura nei territori dell'irrilevante ma molto piacevole


È vero. Tempo fa in un'intervista alla 'Süddeutsche Zeitung', dovendo dire quali delle donne della storia dell'arte suscitassero maggiormente la mia ammirazione (in effetti dicevo più prosaicamente con quale sarei andato volentieri a cena) menzionavo insieme alla Dama dall'Ermellino anche la regina Uta di Naumburg. E da allora devo dire che molti tedeschi mi hanno inviato foto e libretti su Uta, ed è bello in fondo idoleggiare una donna morta otto secoli fa e avere tante persone che ti mandano la sua fotografia.

La statua di Uta di Ballenstedt (vissuta nel Dodicesimo secolo e scolpita un secolo dopo) appare quasi in forma di colonna nel duomo di Naumburg ed è stata infinitamente riprodotta perché è diventata quasi un'icona della pangermanesimo neoromantico, a tal punto che apprendo solo ora (lo confesso, e dal libro di cui parlerò) che era stata sfruttata dalla propaganda nazista come prototipo di bellezza ariana ed esempio di arte classica da opporre all'arte degenerata delle avanguardie pluto-giudaico-massoniche. Mi spiace, io amavo Uta in quanto cultore di cose medievali, e continuerò ad amarla, perché il suo viso è davvero bellissimo. Del resto del corpo si sa poco, perché Uta non si presenta nuda come una Venere greca qualsiasi, mediterranea e un poco sudaticcia, ma si erge casta ed altera con "il volto bellissimo incorniciato da una benda che ne esalta l'ovale, le labbra tra il serrato e il dischiuso, il diadema con i gigli, l'ampio mantello con il bavero rialzato e nello stesso momento serrato al corpo con un gesto che appare forse più trepido che imperioso".

Non potendo pubblicare la foto di Uta in questa pagina ho citato la descrizione che ne dà Stefano Poggi il quale (ricordando peraltro anche quella mia dichiarazione d'amore, o invito a cena) pubblica presso l'editore Cortina 'La vera storia della Regina di Biancaneve', un libretto extra-vagante che inizia con il racconto di un pellegrinaggio per le terre che erano state di Nietzsche e poi quasi per caso approda a Naumburg dove, appena vista Uta, l'autore e altri con lui ritengono di aver trovato il ritratto preciso di Grimhilde, la regina cattiva di 'Biancaneve e i sette nani'.

La cosa mi ha disturbato. È pur vero che Grimhilde veste proprio come Uta, ma la sua bellezza è malvagia mentre di Uta si può dire al massimo che è algida, ma soave. Per questo già mi consolavo quando l'autore riporta una diceria per cui a ispirare Grimhilde fosse stata un'attrice degli anni Trenta, Helen Gahagan, che con vesti quasi uguali (ho controllato su Internet) aveva interpretato la mitica 'She', bellezza sublime e maledetta, ispirata al romanzo celeberrimo di Rider Haggard. E la cosa non mi dispiaceva perché lo stesso romanzo ha ispirato quel fumetto di Lyman Young (l'autore di Cino e Franco) che in Italia si era intitolato 'La misteriosa fiamma della Regina Loana' (e qualcuno dei miei venticinque lettori saprà che ha un posto nei miei ricordi infantili).

Ma no, la pista di 'She' non persuade Poggi, che inizia una serrata indagine per dimostrare come Walt Disney, che aveva raccolto molto materiale per il suo film, conoscesse la statua di Uta, come la conoscessero certamente i suoi collaboratori, e come a Uta si sia effettivamente ispirato - evidentemente facendo compiere una rotazione di almeno 180 gradi al personaggio, e trasformandolo da icona di regale venustà a immagine della perversità.

Pare che della cosa si fossero accorti il dottor Goebbels e quelli del suo entourage e che questo sfregio all'estetica ariana abbia fatto sì che 'Biancaneve' non fosse stata acquistata dai circuiti cinematografici tedeschi. E di qui si potrebbe persino sospettare, come i nazisti avrebbero fatto, che lo sfregio fosse intenzionale, visto che Hollywood era notoriamente un covo di ebrei o comunque di comunisti e antifascisti.

Poggi è molto onesto: provvede una sostanziosa bibliografia sulla quale si è documentato, ma avverte: "Non tutte le vicende di cui si è narrato sono autentiche o, comunque, documentate. Alcune sono frutto di una sorta di ragionevole induzione fantastica, attuata partendo dall'utilizzo delle fonti di cui sopra". E pertanto questo, che inizia come il diario di un pellegrino sui cammini di San Giacomo di Compostella e continua come una ricostruzione storiografica, non è un libro che aspiri ad essere 'scientificamente' definitivo. E poiché il sapere se Uta abbia veramente ispirato Grimhilde o meno pare materia di poco momento, si presenta come un libro 'inutile'. Ma è piacevolissimamente inutile, perché racconta di una sorta di ossessione, di un arrabattamento mentale e archivistico per togliersi una soddisfazione che ad altri parrà del tutto bizzarra. Ed è certo che il lettore seguirà questa avventura nei territori dell'irrilevante con molto diletto, lo stesso (credo) che ha provato l'autore nel condurre la sua 'queste' di un Graal a rovescio. Col sospetto che in fondo lui, a cena, sarebbe uscito con Grimhilde - specchio delle sue brame.

(23 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: D. SOLOMON - "Populismo e controllo totale dei media rischio-Berlusconi anche...
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2007, 11:43:41 am
POLITICA

L'INTERVISTA. L'allarme di Umberto Eco: dal futurismo e dal fascismo in poi l'Italia è sempre stata un laboratorio

"Populismo e controllo totale dei media rischio-Berlusconi anche in altri Paesi"

di DEBORAH SOLOMON

 
EBBENE la sua notorietà sia dovuta soprattuto al giallo letterario "Il nome della Rosa", lei è anche un prolifico commentatore in campo politico. Nei suoi saggi, recentemente raccolti sotto il titolo "A passo di gambero", ha lanciato l'allarme contro il pericolo di un "populismo mediatico". Come definirebbe questo termine?
"Il populismo mediatico consiste nel rivolgersi direttamente al popolo attraverso i media. Un politico che ha in mano i media può orientare il corso della politica al di fuori del Parlamento, e persino eliminare la mediazione parlamentare".

Il suo libro è in buona parte un attacco a Silvio Berlusconi, l'ex primo ministro italiano che ha usato il suo impero mediatico per i propri fini politici.
"Dal 1994 al 1995 e dal 2001 al 2006 Berlusconi è stato al tempo stesso l'uomo più ricco d'Italia, il presidente del Consiglio e il proprietario di tre reti televisive, avendo inoltre sotto il suo controllo le tre emittenti di Stato. È un fenomeno che potrebbe accadere, e forse è già in atto in altri Paesi, in base allo stesso meccanismo".

Ma qui in Usa abbiamo la Fcc (la Commissione Federale delle Comunicazioni , ndt) e altri organismi federali creati per impedire la formazione di monopoli che consentirebbero ai politici di controllare la stampa e i canali televisivi del Paese.
"E negli Stati Uniti esiste tuttora, almeno nei principi, una netta separazione tra i media e il potere politico".

Ma allora, perché pensa che non solo l'Italia, ma qualunque altro Paese corra il rischio di cadere sotto il dominio dei media da lei descritto?
"Se all'estero c'è tanto interesse per il caso italiano, è anche perché durante lo scorso secolo l'Italia è stata un laboratorio. A incominciare dai futuristi, che hanno lanciato il loro manifesto nel 1909, per passare al fascismo, sperimentato nel laboratorio italiano e migrato poi in Spagna, nei Balcani e in Germania"

Intende dire che l'idea della Germania nazista nasce dal fascismo italiano?
"Senza dubbio. Così dicono gli storici".

Ma forse solo quelli italiani.
"Se non le sta bene, non lo scriva; per me è indifferente".

Lei pensa dunque che l'Italia sia all'origine di entrambe le tendenze, sia in campo artistico - con la moda del futurismo - che in quello politico, col fascismo?
"Infatti. Perché no?".

Come considera il successore di Berlusconi, Romano Prodi, eletto l'anno scorso, che ha spostato l'asse del governo a sinistra?
"Prodi è un amico. Io lo apprezzo, ma penso che sia stato sopraffatto dai contrasti sorti all'interno della sua stessa maggioranza dopo la sua elezione. Berlusconi ha il vantaggio di essere un grosso attore. Prodi non è un attore; e questo non è un delitto, ma una debolezza".

È un intellettuale, cioè tutt'altro che un uomo d'affari?
"Sì. Prodi è stato docente di economia, e all'inizio degli anni 90 ha anche insegnato nell'ambito di uno dei miei programmi. Poi, all'improvviso, ha deciso di dedicarsi alla politica".

Si riferisce alla facoltà di Scienza delle comunicazioni all'università di Bologna, dove è docente di semiotica?
"Sono andato in pensione proprio questo mese. Ho 75 anni".

E non ha mai pensato di entrare in politica?
"No, perché credo che ognuno debba fare il suo mestiere."

Si considera in primo luogo uno scrittore?
"Penso di essere uno studioso che scrive romanzi, ma solo con la mano sinistra".

Mi chiedo se lei abbia letto il "Codice Da Vinci" di Dan Brown, in cui molti critici hanno visto una versione pop del suo romanzo "Il nome della rosa".
"Sono stato costretto a leggerlo, perché tutti mi facevano domande in proposito. Le rispondo che Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo "Il pendolo di Foucault", in cui si parla di gente che incomincia a credere nel ciarpame occultista".

Ma sembra che lei stesso sia interessato alla cabala, all'alchimia e ad altre pratiche occulte di cui parla nel suo libro.
"No, nel pendolo di Foucault ho rappresentato quel tipo di persone in maniera grottesca. Ecco perché Dan Brown è una delle mie creature."

Per lei è importante che i suoi romanzi continuino a essere letti di qui a cent'anni?
"Scrivere un libro senza preoccuparsi della sua sopravvivenza sarebbe da imbecilli".
da The New York Times Magazine
copyright 2007 Deborah Solomon
(distribuito da New York Times Syndicate)
Traduzione di Elisabetta Horvat


(25 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO - La cocaina dei popoli
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2007, 05:06:33 pm
La cocaina dei popoli

Non sono sicuro che abbia ragione José Saramago quando scrive che se tutti fossimo atei vivremmo in una società più pacifica. Ma qualche riflessione
l'inducono sia il 'Gott mit uns' che il 'God bless America'  GLI ALTRI ARTICOLI

DI UMBERTO ECO


In un recente dibattito dedicato alla semiotica del sacro si era finiti a un certo punto di parlare di quella idea che va da Machiavelli a Rousseau, e oltre, di una 'religione civile' dei Romani, intesa come insieme di credenze e di obblighi capace di tenere insieme la società. È stato fatto notare che da questa concezione, in sé virtuosa, si arriva facilmente all'idea della religione come 'instrumentum regni', espediente che un potere politico (magari rappresentato da miscredenti) usa per tenere buoni i propri sudditi.

L'idea era già presente in autori che avevano esperienza della religione civile dei romani e per esempio Polibio ('Storie' VI) scriveva a proposito dei riti romani che "in una nazione formata da soli sapienti, sarebbe inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c'è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull'Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni. I Romani, pur maneggiando nelle pubbliche cariche e nelle ambascerie quantità di denaro di molti maggiori, si conservano onesti solo per rispetto al vincolo del giuramento; mentre presso gli altri popoli raramente si trova chi non tocchi il pubblico denaro, presso i Romani è raro trovare che qualcuno si macchi di tale colpa".

Se pure i romani si comportavano così virtuosamente in epoca repubblicana, certamente a un certo punto hanno smesso. E si può capire perché secoli dopo Spinoza desse un'altra lettura dello 'instrumentum regni', e delle sue cerimonie splendide e accattivanti: "Ordunque, se è vero che il segreto più grande e il massimo interesse del regime monarchico consistono nel mantenere gli uomini nell'inganno e nel nascondere sotto lo specioso nome di religione la paura con cui essi devono essere tenuti sottomessi, perché combattano per la loro schiavitù come se fosse la loro salvezza. è altrettanto vero che in una libera comunità non si potrebbe né pensare né tentare di realizzare nulla di più funesto" ('Trattato teologico politico').

Di qui non era difficile arrivare alla celebre definizione marxiana per cui la religione è l'oppio dei popoli. Ma è vero che le religioni hanno tutte e sempre questa 'virtus dormitiva'? Di opinione nettamente diversa è per esempio José Saramago che a più riprese si è scagliato contro le religioni come fomite di conflitto: "Le religioni, tutte, senza eccezione, non serviranno mai per avvicinare e riconciliare gli uomini e, al contrario, sono state e continuano a essere causa di sofferenze inenarrabili, di stragi, di mostruose violenze fisiche e spirituali che costituiscono uno dei più tenebrosi capitoli della misera storia umana" (da 'la Repubblica', 20 settembre 2001).

Saramago concludeva altrove che "se tutti fossimo atei vivremmo in una società più pacifica". Non sono sicuro che abbia ragione, ma certo sembra che indirettamente gli abbia risposto papa Ratzinger nella sua recente enciclica 'Spe salvi' dove ci dice che al contrario l'ateismo del XIX e del XX secolo, anche se si è presentato come protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale, ha fatto sì che "da tale premessa siano conseguite le più grandi crudeltà e violazioni della giustizia".

Mi viene il sospetto che Ratzinger pensasse a quei senzadio di Lenin e Stalin, ma dimenticava che sulle bandiere naziste stava scritto 'Gott mit uns' (che significa 'Dio è con noi'), che falangi di cappellani militari benedicevano i gagliardetti fascisti, che ispirato a principi religiosissimi e sostenuto da Guerriglieri di Cristo Re era il massacratore Francisco Franco (a parte i crimini degli avversari, è pur sempre lui che ha cominciato), che religiosissimi erano i vandeani contro i repubblicani che avevano pure inventato una Dea Ragione ('instrumentum regni'), che cattolici e protestanti si sono allegramente massacrati per anni e anni, che sia i crociati che i loro nemici erano spinti da motivazioni religiose, che per difendere la religione romana si facevano mangiare i cristiani dai leoni, che per ragioni religiose sono stati accesi molti roghi, che religiosissimi sono i fondamentalisti musulmani, gli attentatori delle Twin Towers, Osama e i talebani che bombardavano i Buddha, che per ragioni religiose si oppongono India e Pakistan, e che infine è invocando 'God bless America' che Bush ha invaso l'Iraq. Per cui mi veniva da riflettere che forse (se talora la religione è o è stata oppio dei popoli) più spesso ne è stata la cocaina. Forse l'uomo è animale psichedelico.

(07 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO... Una bella Compagnia (dei gesuiti)
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 11:30:33 pm
Umberto ECO

Una bella Compagnia

Sindrome del complotto?

Se volete un esempio su Internet c'è un sito che attribuisce tutti gli eventi del mondo (non solo contemporaneo) al complotto universale dei gesuiti

Ogni volta che in questa Bustina sono tornato sul tema della sindrome del complotto ho ricevuto lettere di persone sdegnate che mi ricordavano che i complotti esistono davvero. Ma certo che sì. Ogni colpo di stato sino al giorno prima era un complotto, si complotta per dare la scalata a una azienda rastrellando a poco a poco le azioni, o per mettere una bomba sulla metropolitana. Di complotti ce ne sono sempre stati, alcuni sono falliti senza che nessuno se ne fosse reso conto, altri hanno avuto successo, ma in generale quello che li caratterizza è che sono sempre limitati quanto a fini e area di efficacia. Quello di cui invece si parla quando si cita la sindrome del complotto è l'idea di un complotto universale (in certe teologie addirittura a dimensione cosmica), per cui tutti o quasi tutti gli eventi della storia sono mossi da un potere unico e misterioso che agisce nell'ombra.

È questa la sindrome del complotto di cui parlava Popper ed è peccato che sia passato quasi inosservatao il libro di Daniel Pipes,'Il lato oscuro della storia' tradotto nel 2005 dall'editore Lindau ma in effetti uscito nel 1997 con un titolo più esplicito, 'Conspiracy' (e come 'Come fiorisce lo stile paranoico e da dove viene'). Il libro si apre con una citazione di Metternich che pare abbia detto, apprendendo della morte dell'ambasciatore russo: "Quali saranno state le sue motivazioni?".

Ecco, la sindrome del complotto sostituisce agli accidenti e alle casualità della storia un disegno, ovviamente malvagio e sempre occulto.

Sono abbastanza lucido per sospettare talora che, a lamentare le sindromi da complotto, forse sto dando prova di paranoia, nel senso che manifesto una sindrome per cui credo che esistano ovunque sindromi da complotto. Ma a rassicurarmi basta sempre una rapida ispezione a Internet. I complottardi sono legione e talora raggiungono vette di raffinato umorismo involontario. L'altro giorno sono capitato sul sito 'www.conspiration.cc/sujets/religion/monde_malade.jesuites.html' dove appare un lungo testo 'Le monde malade des jesuites, Revue Undercover 14', di Joël Labruyère. Come suggerisce il titolo si tratta di un'ampia rassegna di tutti gli eventi del mondo (non solo contemporaneo) dovuti al complotto universale dei gesuiti.

I gesuiti del diciannovesimo secolo, da padre Barruel alla nascita della 'Civiltà cattolica' e ai romanzi di padre Bresciani sono stati tra i principali ispiratori della teoria del complotto giudaico massonico, ed era giusto che fossero ripagati della stessa moneta da parte di liberali, mazziniani, massoni e anticlericali, con la teoria appunto del complotto gesuitico, reso popolare non tanto da alcuni pamphlet, o da libri famosi, a partire dalle 'Provinciali' di Pascal a 'Il gesuita moderno' di Gioberti o agli scritti di Michelet e Quinet, ma dai romanzi di Eugène Sue, 'L'ebreo errante' e 'I misteri del popolo'.

Niente di nuovo quindi, ma il sito di Labruyère porta al parossismo l'ossessione dei gesuiti. Elenco a volo d'uccello perché lo spazio della Bustina è quello che è mentre la fantasia complottarda di Labruyère è omerica. Dunque i gesuiti sono sempre stati intesi a costituire un governo mondiale, controllando sia il papa che i vari monarchi europei, attraverso i famigerati Illuminati di Baviera (che i gesuiti stessi avevano creato denunciandoli poi come comunisti) hanno cercato di far cadere quei monarchi che avevano messo al bando la compagnia di Gesù, sono stati i gesuiti a far affondare il Titanic perché da quell'incidente gli è stato possibile fondare la Federal Reserve Bank attraverso la mediazione dei cavalieri di Malta che essi controllano - e non a caso nel naufraghio del Titanic sono morti i tre ebrei più ricchi del mondo, Astor, Guggenheim e Straus, che alla fondazione di quella banca si opponevano. Lavorando con la Federal Bank i gesuiti hanno poi hanno finanziato le due guerre mondiali che hanno chiaramente prodotto solo vantaggi per il Vaticano. Quanto all'assassinio di Kennedy (e Oliver Stone è chiaramente manipolato dai gesuiti) se non dimentichiamo che anche la Cia nasce come programma gesuitico ispirato agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che i gesuiti la controllavano attraverso la Kgb sovietica, si capisce allora che Kennedy è stato ucciso dagli stessi che avevano mandato a fondo il Titanic.

Naturalmente sono d'ispirazione gesuitica tutti i gruppi neonazisti e antisemiti, c'erano i gesuiti dietro Nixon e Clinton, sono stati i gesuiti a produrre il massacro di Oklahoma City, dai gesuiti era ispirato il cardinale Spellman che fomentava la guerra in Viet Nam, che alla Federal Bank gesuitica ha fruttato 220 milioni di dollari. Naturalmente non può mancare nel quadro l'Opus Dei, che i gesuiti controllano attraverso i cavalieri di Malta.

Devo sorvolare su tanti altri complotti. Ma adesso non chiedetevi più perché la gente legge Dan Brown. Forse ci sono dietro i gesuiti.

(11 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO... Un paese diverso dagli altri
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 04:55:56 pm

Umberto Eco

Un paese diverso dagli altri


Dialogo con un amico straniero sulle dimissioni  di Mastella, sul governo, sulle dichiarazioni fatte  all'estero dai nostri politici, sul ruolo dell'opposizione e quello della maggioranza  Ma che cosa è successo da voi nelle ultime due settimane? mi chiede l'amico straniero. Mah, rispondo, un ministro è stato accusato di concussione. Beh, dice l'amico, niente di strano, è successo anche da noi. Come ha reagito il governo? Gli ha assicurato la sua solidarietà morale, rispondo. Giusto, dice l'amico, il governo deve supporre che, sino a che non sia provato che il ministro ha davvero commesso un crimine, egli sia una persona per bene, altrimenti non l'avrebbero mai cooptato. Piuttosto, continua, l'amico, dimmi che ha fatto il ministro. Rispondo che, per essere libero di tutelare la sua onorabilità e non mettere in imbarazzo il governo, ha dato le dimissioni. L'amico osserva che siamo davvero davanti a una persona degna del massimo rispetto. Così si fa nei paesi civili.

È vero, gli dico, ma è successa una cosa strana. Quel ministro, che si trova evidentemente in aspra polemica con la magistratura che l'ha accusato, ha detto che se il governo non aderirà alla sua polemica gli ritirerà i voti del suo gruppo e lo farà cadere. Osserva l'amico che questo suona un poco come un ricatto: se il ministro aveva dato le dimissioni per potersi difendere liberamente senza coinvolgere il governo, perché allora lo coinvolge? La cosa mi fa specie, dice, anche se comprendo che il vostro è un governo che si regge sull'appoggio esterno, contrattato volta per volta, di vari gruppi, tra cui quello del ministro in questione.

No, correggo: al governo c'è una 'unione' di partiti che si sono presentati alle elezioni sotto la stessa bandiera perché condividevano tutti alcuni sacri principi e tutti si opponevano a quello che consideravano il malgoverno precedente. Mi domanda l'amico: compreso il gruppo del ministro dimissionario? Certo, rispondo. E dunque, insiste l'amico, il ministro di cui si parla aveva aderito alla unione per motivi ideali ed era, sia pure in senso metaforico, disposto a battersi sino all'ultimo per il trionfo di quei principi ideali. E come no, rispondo io. E allora, si stupisce l'amico, perché nel momento in cui viene accusato il ministro non crede più in quei principi ideali e minaccia di far cadere quel governo per sostenere il quale è stato eletto?

Non sapendo cosa rispondere, prego l'amico di cambiare argomento. Egli mi chiede allora come mai quando un nostro uomo politico, compresi gli uomini di governo, fa un viaggio e viene intervistato all'estero, anziché farsi interprete degli interessi del nostro paese presso il paese ospite, rispondendo alle domande dei giornalisti locali, risponde invece alle domande dei giornalisti italiani, che tra l'altro non si vede perché abbiano fatto un viaggio così costoso per domandare al politico cose che avrebbero potuto domandargli in patria. E nel rispondere a quelle domande il politico parla di cose di casa propria, lanciando dei messaggi sovente minacciosi non solo ai suoi avversari ma spesso anche ai propri colleghi di partito o di governo. Mi dice l'amico che nel resto del mondo civile, se un uomo di governo deve fare una dichiarazione importante, non fa del turismo ma resta nel proprio paese e convoca una conferenza stampa o addirittura lancia un messaggio alla nazione, come fa spesso il presidente Bush; oppure parla in parlamento, che è la sede deputata per dichiarazioni che concernono la politica nazionale. Vedi, gli spiego, se il nostro politico parla in una conferenza stampa o in parlamento, il suo discorso viene registrato parola per parola, e dopo non può più smentire quello che ha detto. Invece parlando all'estero, la sua voce arrivando in patria attraverso la mediazione di cronisti, può sempre dire di essere stato frainteso. Ma perché un politico desidera essere frainteso, mi domanda l'amico? Confesso che anche su questo punto non ho una risposta convincente. In ogni caso gli faccio notare che è importante per un nostro politico parlare all'estero, perché noi siamo dei provinciali e quello che si dice a Roma fa meno notizia di quello che si dice a Mombasa. Per questo i nostri politici fanno tanti viaggi all'estero, magari con famiglia - la cui unità va salvaguardata.

Sembrate quasi un paese diverso dagli altri, dice l'amico. Per esempio, perché sin dal primo giorno dopo le elezioni, pare che il fine dell'opposizione nel vostro paese sia fare cadere il governo, tanto che la sua caduta viene richiesta e annunciata ogni giorno? Ma come, domando, il fine di una opposizione non è quello di fare cadere il governo in carica? Assolutamente no, almeno da noi, risponde l'amico. In democrazia il fine dell'opposizione è, poiché il governo è stato eletto, tallonarlo giorno per giorno, per fargli migliorare le leggi, per impedirgli di prevaricare. Se l'opposizione perde tempo ogni giorno per architettare piani per far cadere il governo, non ha tempo per studiare i progetti alternativi che dovrebbe opporgli, o le critiche circostanziate e continue alla sua azione, per correggerla.

Devo ammettere che ha ragione, anche perché da noi, per far cadere il governo, non è indispensabile l'opposizione, basta la maggioranza.

A questo punto devo ammettere che effettivamente sembriamo un paese diverso dagli altri.
(25 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Umberto Eco. Né col Sessantotto né col Settantotto
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 03:38:28 pm
Umberto Eco

Né col Sessantotto né col Settantotto


Quel che sta accadendo col Salone di Torino è un poco come se il Telefono Azzurro, per attirare l'attenzione sull'infanzia maltrattata, fustigasse a sangue alcuni bambini sulla pubblica piazza  Amos OzIniziano le rievocazioni-celebrazioni-glorificazioni-demonizzazioni del Sessantotto. Ne vedremo delle belle. Per cominciare, domenica scorsa un importante quotidiano attribuiva all'onorevole Casini la frase "Il '68 ci ha lasciato in eredità lo slogan 'né con lo Stato né con le Brigate rosse'". Io non mi fido mai di quello che leggo sui giornali ma, anche se Casini non avesse mai pronunciato quella frase, l'avrebbe scritta il cronista che gliela ha attribuita per sintetizzare il suo pensiero, ritenendola sensata. Ora, se vogliamo riflettere sul '68, comportiamoci da storici, non da comari. Una frase del genere non poteva essere pronunciata nel '68 anzitutto perché all'epoca le Brigate rosse non esistevano ancora, e in secondo luogo perché, si dice, fu pronunciata da Leonardo Sciascia (che certamente sessantottino non era) ai tempi dell'affare Moro - e dunque dieci anni dopo.

Se andate ora a ricercarla su Internet vedete che alcuni l'attribuiscono a Lotta continua altri persino a Moravia, troverete che Sciascia ha poi cercato di spiegare in che senso la si poteva intendere, e che all'epoca intorno a questa frase c'era stata amplissima polemica, e dunque se si deve riflettere non dico sul '68, ma su tutto il decennio successivo, che si torni alle fonti, altrimenti ci attende un anno di rievocazioni deliranti tipo "nonno, quand'è l'ultima volta che sei andato in mona?" (e il nonno fa il verso del lupo).

Dopo questa profondissima riflessione, l'ultima che nel corso di quest'anno farò su quell'anno preterito, passiamo a cose più tristi - ma che forse con il sessantottismo deteriore hanno qualche vaga parentela - e mi riferisco all'incrocio di proteste, veti, ukase nati intorno all'invito fatto dal Salone del Libro di Torino a scrittori israeliani, e in particolare a scrittori antiguerrafondai e fondamentalmente pacifisti come Amos Oz, David Grossman o Abraham Yehoshua

Tutti ormai sapete la storia, il Salone di Torino, che nel corso degli anni ha invitato scrittori di tutti i paesi, non dovrebbe invitare gli scrittori israeliani perché il governo di Israele merita numerose censure - alcune delle quali non io, ma gli stessi scrittori israeliani sono disposti a condividere. Ora forse i lettori affezionati di questa rubrica ricorderanno che nel gennaio 2003 avevo denunciato la decisione di Mona Baker, stimabile studiosa di traduttologia e direttrice della rivista 'Translation Studies Abstracts' la quale, non condividendo la politica del governo israeliano (suo diritto) aveva invitato a dimissionare i due studiosi israeliani che facevano parte del comitato direttivo della rivista (e, badiamo, ai quali riconosceva di aver varie volte espresso giudizi critici nei confronti del loro stesso governo) all'insegna di un "richiamo al boicottaggio delle istituzioni di ricerca israeliane".

La decisione della signora Baker era (oltre che vagamente nazista) delirante perché era un poco come se, negli anni Quaranta, un buon democratico antinazista, avesse deciso di mandare al rogo le opere di Thomas Mann, e magari di Goethe. Ma non ci sono limiti al peggio, ed ecco la polemica intorno al Salone del Libro.

Se essa fosse condotta solo da fondamentalisti amici di Bin Laden, niente da obiettare, sono fanatici che non fanno altro che ripetere che se dipendesse da loro su Israele lancerebbero una bomba atomica, e non ci si può attendere da costoro un comportamento da intellettuale illuminato. Ma la protesta contro il salone è venuta anche da rappresentanti della sinistra italiana, come se nulla avessero mai appreso dai roghi nazisti delle opere di arte degenerata, e secoli di cultura umanistica non avessero loro insegnato che un conto è la politica di un governo e un conto è la letteratura o la scienza praticata dai sudditi di quel governo.

Io capisco benissimo il rozzo ragionamento che certi amici della sinistra estrema (che ormai per rotazione di trecentosessanta gradi stanno avvicinandosi pericolosamente alla destra estrema) hanno fatto: siccome bisogna richiamare l'attenzione dei cittadini sulla nefasta politica del governo di Israele, facciamo scoppiare uno scandalo che finirà sulle prime pagine di tutti i giornali. D'accordo, in politica e in tecnica della pubblicità si fa anche così (Berlusconi è maestro), ma quello che sta accadendo col Salone di Torino è un poco come se il Telefono Azzurro, per attirare l'attenzione della pubblica opinione sui maltrattamenti a cui sono sottoposti i bambini, ne fustigasse alcuni a sangue sulla pubblica piazza. Non mi pare che sia così che si fa, perché due torti non fanno una ragione.

Mi pare che stiamo perdendo la sinderesi, che nel De Mauro viene definita come (in filosofia medievale) la naturale capacità dell'animo umano di distinguere immediatamente il bene dal male e di avere consapevolezza della legge morale, ed estensivamente come capacità di giudizio e discernimento, per cui perdere la sinderesi significa perdere la bussola, non essere in grado di ragionare.

(11 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO - Tredici anni mal spesi
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:38:32 pm
Umberto Eco

Tredici anni mal spesi


Diceva Oliver Wendell Holmes jr: "Il segreto del mio successo è che da giovane ho scoperto di non essere Dio". Sono pensieri che mi vengono in questo inizio di campagna elettorale  Oliver Wendell HolmesL'altro giorno un intervistatore mi ha domandato (e molti lo fanno) quale fosse il libro che mi aveva più influenzato nella mia vita. Se nel corso dell'intera mia vita un solo libro mi avesse definitivamente influenzato più degli altri, sarei un idiota - come molti che rispondono a questa domanda. Ci sono libri che sono stati decisivi per i miei vent'anni e altri che hanno deciso dei miei trenta - e attendo con impazienza il libro che sconvolgerà i miei cento anni. Un'altra domanda impossibile è: "Chi le ha insegnato qualcosa di definitivo nella sua vita?". Non so mai rispondere perché (a meno di non dire "papà e mamma") a ogni tornante della mia esistenza qualcuno mi insegnava qualcosa. Potevano essere persone che stessero accanto a me o alcuni cari defunti come Aristotele, San Tommaso, Locke o Peirce.

In ogni caso ci sono stati insegnamenti non libreschi di cui posso dire con sicurezza che hanno cambiato la mia vita. Il primo è stato quello della signorina Bellini, la mia meravigliosa insegnante di prima media, che ci dava, da preparare per il giorno dopo, considerazioni su parole stimolo (come gallina o bastimento) da cui fare partire una riflessione o una fantasia. Un giorno, preso da non so quale demone, ho detto che avrei sviluppato seduta stante qualsiasi tema mi avesse proposto. Lei ha guardato sulla sua cattedra e ha detto "taccuino". Col senno di poi, avrei potuto parlare del taccuino del giornalista, o del diario di viaggio di un esploratore salgariano, eppure sono salito baldanzoso sulla pedana e non ho saputo aprire bocca. La signorina Bellini mi ha insegnato allora che non bisogna mai presumere troppo dalle proprie forze.

Il secondo insegnamento è stato quello di don Celi, il salesiano che mi ha insegnato a suonare uno strumento musicale, e pare che ora vogliano farlo santo (non per questa ragione, che anzi potrebbe essere usata contro di lui dall'avvocato del diavolo). Il 5 gennaio 1945 sono andato tutto pimpante da lui e gli ho detto "Don Celi, oggi compio tredici anni". Lui mi ha risposto in tono burbero: "Molto mal spesi". Che cosa voleva dire con quella battuta? Che giunto a quell'età venerabile dovevo iniziare un severo esame di coscienza? Che non dovevo sperare di essere lodato per aver fatto semplicemente il mio dovere biologico? Forse era solo una normale manifestazione di senso piemontese del contegno, un rifiuto della retorica, persino delle congratulazioni di maniera. Però credo che don Celi sapesse, e mi insegnasse, che un maestro deve sempre mettere in crisi i suoi allievi, e non eccitarli più del dovuto.

A seguito di quella lezione sono stato sempre parco di elogi con chi se li attendeva da me, salvo casi eccezionali di gesta inattese. Forse con questo contegno ho fatto soffrire qualcuno, e se è così ho mal speso non solo i miei primi tredici ma anche i miei primi settantasei anni. Ma ho certamente deciso che il modo più esplicito di esprimere la mia approvazione era non fare un rimprovero. Se non c'è rimprovero significa che qualcuno ha fatto bene. Mi hanno sempre irritato espressioni come 'il papa buono' o 'l'onesto Zaccagnini', che lasciavano solo pensare che gli altri pontefici fossero malvagi e gli altri politici disonesti. Giovanni XXIII e Zaccagnini facevano semplicemente quello che ci si attendeva da loro e non si vede perché dovessero essere particolarmente congratulati.

Ma la risposta di don Celi mi ha anche insegnato a non inorgoglirmi troppo, qualsiasi cosa abbia fatto io, anche se la ritengo giusta, e soprattutto di non andare troppo a inorgoglirsi in giro. Questo significa che non bisogna tendere al meglio? Certamente no, ma in qualche strano modo la risposta di don Celi mi rinvia a un detto di Oliver Wendell Holmes jr. che ho trovato non so più dove: "Il segreto del mio successo è che da giovane ho scoperto di non essere Dio". È molto importante capire di non essere Dio, e dubitare sempre dei propri atti, e ritenere sempre di non avere speso abbastanza bene gli anni vissuti. È l'unico modo per tentare di spendere meglio quelli che restano.

Mi chiederete perché mi vengono in mente queste cose proprio in questi giorni. È che è iniziata la campagna elettorale e in questi casi per avere successo bisogna comportarsi un poco da Dio, e cioè dire delle cose compiute, come il creatore dopo la creazione, che erano 'valde bona', e manifestare un certo delirio di onnipotenza dichiarandosi sicuramente capaci di farne delle migliori (mentre Dio si è contentato di avere creato il migliore dei mondi possibili). Per carità, non moralizzo, per fare una campagna elettorale bisogna fare così, ve lo immaginate un candidato che va a dire ai futuri votanti "sì, sino ad ora ho fatto castronerie, e non sono sicuro che farò meglio in futuro, vi prometto solo che ci provo"? Non sarebbe eletto. Quindi, ripeto, nessun falso moralismo. Solo che ascoltando i vari telecomizi mi viene da pensare a don Celi.

(22 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Un ghiottone di parole
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 04:55:30 pm
Umberto Eco.

Un ghiottone di parole


Camporesi ha studiato costumi e comportamenti connessi col corpo, il cibo, il sangue, le feci, il sesso. Ha scoperto o rivalutato testi ignorati perché si occupavano di cose 'basse'  Dieci anni fa moriva Piero Camporesi, che proprio nei giorni scorsi è stato ricordato in due occasioni. Una a Milano, per l'uscita di un numero a lui dedicato della rivista 'Riga', curato da Marco Belpoliti, l'altra a Forlì, in un convegno di ben tre giorni dedicato alla sua opera e alle sue molte traduzioni in varie lingue. Una Bustina non basta a riportare tutti i titoli delle sue opere, uno più affascinante dell'altro, e andateveli a cercare su Internet.

Camporesi nel corso di una quindicina di volumi ha studiato costumi e comportamenti connessi col corpo, il cibo, il sangue, le feci, il sesso, come farebbe uno storico della vita materiale. Ma gli unici documenti su cui ha sempre lavorato, erano testi che appartengono alla storia della letteratura. Salvo che egli ha scoperto o rivalutato testi che le storie della letteratura hanno per lo più ignorato, perché si occupavano di cose 'basse' come la cucina, la medicina, o l'agricoltura. Camporesi ha passato invece la vita a rileggerli come testimonianze di un modo di vivere, per lo più ignoto e sotterraneo.

Così ci ha raccontato come nei secoli passati il mondo fosse abitato da vagabondi, saltimbanchi, guaritori, ladri, assassini, pazzi illuminati da Dio, falsi lebbrosi e lebbrosi veri, ha ritrovato i sogni millenari di un paese di Cuccagna, nati in popolazioni oppresse dalla fame, ha riscoperto i riti del carnevale, dei Sabba stregoneschi, delle allucinazioni diaboliche, ha riportato alla luce pagine da cui si comprende come nel passato si avesse una idea diversa del proprio corpo, dell'odore di un formaggio, del sapore del latte, ha riletto i passaggi dei predicatori religiosi che parlavano dell'Inferno e dei suoi patimenti (il che significava riscoprire una visione del corpo come luogo e occasione di dolore, supplizio, sofferenze interminabili).


Ha guardato come gli uomini mangiavano, cuocevano, come schioccavano la lingua deglutendo, come si eccitavano sessualmente attraverso unguenti ed elisir, come nel Diciottesimo secolo fossero state accolte quelle bevande esotiche e (allora) meravigliose che erano il caffè e il cioccolato, come lavorassero i minatori, i tessitori, i barbieri, i chirurghi, i medici e i guaritori, quale fosse l'immagine del povero, del diseredato, del mascalzone, del ladro, dell'assassino, del disperato, ci ha parlato del modo in cui i corpi venivano amati, squartati, nutriti, anatomizzati, divorati, rifiutati, umiliati, e si è soffermato su fibre, intestini, bocche, bubboni, vomiti e prelibatezze.

Tutto insieme? Sì, perché Camporesi, che si occupasse di delizie culinarie o di putredini da lazzaretto, era eminentemente un buongustaio di parole, che lo affascinavano sia che parlassero della crema che delle feci. E valga come assaggio questo stralcio, non si sa se ghiotto o schifato, di elogio e condanna del formaggio.

"Per parecchi secoli e da parte di molti si ritenne che la malignità intrinseca del formaggio, la sua 'nequizia', venisse preavvertita e segnalata dal suo odore, per non pochi nauseabondo e stomachevole, indice sicuro di materia 'morticina', di residuo in decomposizione, materia sfatta e deleteria, sostanza putredinosa nociva alla salute e terribile corruttore degli umori. scrematura della parte escrementizia del latte, delle scorie nocive, coagulo della parte infima, melmosa e terrestre del bianco liquido, copula. delle peggiori sostanze, al contrario del burro che ne è la parte migliore, eletta, pura. 'Res foeda, graveolens, immunda, putridaque', il formaggio niente altro è che. cibo da lasciare agli uomini di vanga e ai poveracci. indegno di persone per bene, di cittadini onorati: pasto, in una parola, di straccioni e villani, soliti a mangiare brutti cibi...

I mangiatori di formaggio appaiono a Pietro Lotichio simili a degenerati amatori e sordidi degustatori delle sostanze putrefatte. Cibandosene si metteva in moto un meccanismo incontrollabile di moltiplicazione di quei vermi che, anche normalmente, 'in viscerium latibulis pullulant'. Questa era l'orribile verità: il formaggio generava negli oscuri meandri dei visceri, nelle latebre del budellame umano, incrementandone la preesistente putredine, piccoli, schifosi mostri... Se dalla putredine si formavano spontaneamente, casualmente lumache e chiocciole; se dal letame bovino scaturivano scarafaggi, bruchi, vespe, fuchi; se dalla rugiada uscivano farfalle, formiche, locuste, cicale, come poteva non accadere - si chiedeva il medico tedesco - che negli intestini dell'uomo, viscidi di pituita, di residui di decomposizione, non si verificasse lo stesso processo che dava vita incontrollata e sorprendente (al di fuori della copula e dell'inseminazione dell'uovo) a miriadi di orridi animalcula? Perché non ritenere che anche nel basso ventre, letamaio dell'uomo, non fermentasse la stessa immondizia, la stessa brulicante equivoca fauna dei 'piccoli animali', degli 'animaluzzi', piaga crudele dell'uomo?".

(07 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. C'era una volta Churchill
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 07:42:38 pm
Umberto Eco

C'era una volta Churchill


Tra l'inglese che crede Churchill un personaggio immaginario e Bush che va in Iraq convinto di farcela in quindici giorni non c'è una differenza abissale: sono entrambi casi di offuscamento della dimensione storica  Winston Churchill e sua moglie ClementineLeggevo sul numero de 'L'Internazionale' di inizio marzo un trafiletto dove si racconta di un sondaggio fatto in Gran Bretagna, da cui risulterebbe che un quarto degli inglesi pensa che Churchill sia un personaggio di fantasia, e così accade per Gandhi e Dickens. Molti intervistati (ma non si precisa quanti) avrebbero invece messo tra le persone realmente esistite Sherlock Holmes, Robin Hood ed Eleanor Rigby.

Come prima reazione tenderei a non drammatizzare. Mi interesserebbe anzitutto sapere a quale fascia sociale appartiene il quarto di coloro che non hanno idee chiare su Churchill e Dickens. Se avessero intervistato i londinesi dei tempi di Dickens, quelli che si vedono nelle incisioni delle miserie di Londra di Doré o nelle scene di Hogarth, almeno i tre quarti, sporchi, abbrutiti e affamati, non avrebbero saputo chi era Shakespeare. E neppure mi stupisco che si credano realmente esistiti Holmes o Robin Hood, uno perché esiste un'industria holmesiana che a Londra fa visitare addirittura il suo preteso appartamento di Baker Street, e l'altra perché il personaggio che ha ispirato la leggenda di Robin Hood è esistito davvero (l'unica cosa che lo rende irreale è che al tempo dell'economia feudale si rubava ai ricchi per dare ai poveri, mentre dopo l'avvento dell'economia di mercato si ruba ai poveri per dare ai ricchi). D'altra parte io da bambino credevo che Buffalo Bill fosse un personaggio immaginario sino a che mio padre non mi ha rivelato che non solo era esistito, ma che lui stesso l'aveva visto quando era passato col suo circo nella nostra città, finito per campare dal mitico West alla provincia piemontese.

Però è vero, e ce ne accorgiamo quando si rivolgono domande ai nostri giovani (per non dire a quelli, che so, americani), che le idee sul passato anche prossimo sono molto vaghe. Si è letto di test da cui appariva che qualcuno credeva che Moro fosse un brigatista rosso, De Gasperi un capo fascista, Badoglio un partigiano eccetera. Uno dice: è passato tanto tempo, perché dei diciottenni devono sapere chi era al governo cinquant'anni prima che loro nascessero? Beh, sarà che la scuola fascista ce ne faceva una testa così, ma io a dieci anni sapevo che il primo ministro ai tempi della marcia su Roma (vent'anni prima) era Facta, e a diciott'anni sapevo anche chi erano stati Rattazzi o Crispi, ed era roba del secolo prima.

Il fatto è che è cambiato il nostro rapporto col passato, probabilmente anche a scuola. Una volta ci interessavamo molto al passato perché le notizie sul presente non erano molte, se si pensa che un quotidiano raccontava tutto in otto pagine. Con i mezzi di massa si è diffusa un'immensa informazione sul presente, e si pensi che su Internet posso avere notizie su milioni di cose che stanno accadendo in questo momento (anche le più irrilevanti). Il passato di cui i mezzi di massa ci parlano, come per esempio le vicende degli imperatori romani o di Riccardo Cuor di Leone, e persino la prima guerra mondiale, passano (attraverso Hollywood e industrie affini) insieme al flusso di informazioni sul presente, ed è molto difficile che un utente di film colga la differenza temporale tra Spartaco e Riccardo Cuor di Leone. Parimenti si spappola o perde in ogni caso consistenza la differenza tra immaginario e reale: ditemi voi perché un ragazzo che guarda film alla televisione deve ritenere che Spartaco sia esistito e il Vinicio di 'Quo vadis' no, la contessa Castiglione fosse un personaggio storico ed Elisa di Rivombrosa no, che Ivan il Terribile fosse reale e Ming tiranno di Mongo no, visto che si assomigliano moltissimo.

Nella cultura americana questo appiattimento del passato sul presente è vissuto con molta disinvoltura e vi può accadere persino di incontrare un professore di filosofia che vi dice quanto sia irrilevante sapere che cosa Cartesio abbia detto sul nostro modo di pensare, visto che quello che c'interessa è quanto ne stanno scoprendo oggi le scienze cognitive. Si sta dimenticando che se le scienze cognitive sono arrivate dove sono arrivate è anche perché un certo discorso era iniziato coi filosofi del Seicento, ma soprattutto si rinuncia a trarre dall'esperienza del passato una lezione per il presente.

Molti pensano che il vecchio detto per cui la storia è maestra della vita sia una banalità da maestro deamicisiano, ma è certo che se Hitler avesse studiato con attenzione la campagna di Russia di Napoleone non sarebbe caduto nella trappola in cui è caduto, e se Bush avesse studiato bene le guerre degli inglesi in Afghanistan nell'Ottocento (ma che dico, persino l'ultimissima guerra dei sovietici contro i talebani) avrebbe impostato diversamente la sua campagna afgana.

Può sembrare che tra l'imbecille inglese che crede che Churchill fosse un personaggio immaginario e Bush che va in Iraq convinto di farcela in quindici giorni ci sia una differenza abissale, ma non è così. Si tratta dello stesso fenomeno di offuscamento della dimensione storica.

(21 marzo 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. La nostra ghigliottina quotidiana
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2008, 11:24:06 am
Umberto Eco

La nostra ghigliottina quotidiana


Alcune proposte per i quiz finali della trasmissione di Carlo Conti 'L'eredità' su Rai Uno. Se accolti il gioco potrebbe aumentare ancora la sua già alta popolarità. 

Anche per sfuggire alla campagna elettorale è aumentato il numero delle persone che tra le sette e le otto di sera seguono sul primo canale 'L'eredità', che per chi non lo sapesse è un divertente programma quiz. Molti, anche se si trovano ancora per strada, si affrettano a rientrare entro le otto meno dieci per non perdersi la parte finale, che si chiama 'La ghigliottina'. Ancora per chi non lo sa, al concorrente vengono proposte coppie di parole (e se sceglie quella sbagliata essa cala come una mannaia e dimezza il suo monte premi). Alla fine il concorrente dispone di cinque parole e deve indovinare una sesta parola che in qualche misura sia legata alle cinque proposte, per esempio perché vi appare insieme in una frase fatta.

Per non tirarla in lungo faccio un esempio: sere fa le cinque parole finali erano golfo, archi, prova, San Remo, italiana, e in fondo era facile per una mente sveglia individuare la parola nascosta che era 'orchestra'. Infatti c'è la 'Prova d'orchestra' di Fellini, esistono le orchestre d'archi, ci sono l'orchestra del Festival di San Remo e l'Orchestra Italiana di Arbore. Ma il riferimento più arguto era quello al golfo, perché come è noto nei teatri l'orchestra sta nel cosiddetto golfo mistico.

'La ghigliottina' provoca frenetiche telefonate tra amici, che fanno a gara in tempo reale (come si dice) a chi indovina per primo, e poco manca che gli affezionati vadano in giro con dei nastrini sul petto, come i militari che esibiscono le campagne a cui hanno partecipato.

Salvo che da un po' di tempo il gioco si è fatto sempre più difficile e quando Carlo Conti rivela la parola giusta a tutti cadono le braccia perché appare quasi impossibile che un essere umano (sia pure con una mente educata a cogliere i rapporti tra le cose e le parole) potesse arrivarci. E non si vede perché, non credo per risparmiare quel poco di premio che alla fine (dopo molte ghigliottinature) il concorrente potrebbe aggiudicarsi. Ma, se questo deve essere il gioco, indubbiamente ispirato a profondo sadismo, mi permetto di suggerire alcune versioni capaci di sfidare il più allenato degli adepti.


Propongo per esempio che appaiano in dirittura finale 'fondo, canone, occhi pinti, Gradara, caos'. La soluzione sarebbe 'enfiteusi'. Infatti, potrebbe spiegare Conti, l'enfiteusi è notoriamente il diritto di godimento su un fondo altrui, implica il pagamento di un canone, nel 1561 tal Josepe Ochipinti dal Conte di Modica ebbe concesse in enfiteusi 88 salme di terre a Candicarao, nel diciassettesimo secolo i papi concessero il castello di Gradara in enfiteusi ai signori di Pesaro, e Pirandello è nato nella contrada detta Caos, acquisita dai suoi avi in enfiteusi. Facilissimo.

Altra possibilità: 'Dante, sesquipedale, sontuoso, endecasillabo, convertita'. La soluzione, che quasi viene da sé, sarebbe 'sovramagnificentissimamente'. Infatti questo termine è coniato da Dante nel 'De vulgari eloquentia', è un termine sesquipedale (se questo aggettivo definisce anche - vedi il De Mauro - scritto, discorso eccetera esageratamente lungo e altisonante), significa 'in modo molto sontuoso', è certamente un endecasillabo e con le sue ventisette lettere è più lungo di 'precipitevolissimevolmente', introdotto da Francesco Moneti nel Settecento, nel suo 'La Cortona convertita'.

Propongo anche 'felicita, emetico, farmacista, iperacidità e sotterfugi'. Basta che il concorrente capisca che la prima parola non è felicità bensì il nome della signorina Felicita, e nella poesia che le dedica Gozzano abbandona il negozio di un farmacista uscendo dall'odor d'ipecacuana, l'ipecacuana è un emetico, iperacidità è il sostantivo che nello Zingarelli 2008 segue ipecacuana e infine una storia di ipecacuana appare nell'episodio 'Sotterfugi' della serie del dottor House. Altri termini facili da far indovinare potrebbero essere lucumone, strofanto, zeugma, tyrannosaurus rex, aspidistra, uracile, culleo, monocotiledone, poliorcete.

Ma forse bisogna osare di più. Si potrebbero dare al concorrente da scegliere le coppie tuono-lampo, veglia-sonno, monosillabo-polisillabo, novantanove-cento e allitterazione-onomatopea. La serie finale dovrebbe essere 'tuono, veglia, lungo, novantanove e onomatopea'. Non vedo chi non comprenderebbe subito che si tratta di una onomatopea che definisce il tuono, parola polisillaba di novantanove lettere che appare ne 'La veglia di Finnegans' di Joyce. La soluzione, che mi pare intuitiva, è: 'bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerronntuonnthunntrovarrhounawn-kawntoohoohoor-denenthurnuk'.

Una volta soccorso il concorrente dall'attacco d'asma che conseguirebbe al proferimento del termine risolutivo, e superato l'intasamento delle linee telefoniche dovuto alla soluzione contemporanea di milioni di telespettatori trionfanti, il gioco avrebbe acquistato maggiore popolarità.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Parlare in ritardo
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:20:45 am
Umberto Eco




Le gazzette hanno perso la funzione che avevano all'inizio degli inizi. Una trasformazione che non è colpa di nessuno, è un fatto come il buco nell'ozono. Ma è un fatto imbarazzante  Una coppia legge un quotidianoChissà quanti lettori si sono domandati perché il sommario de 'L'espresso' appare dopo una trentina o una quarantina di pagine dall'inizio, e questa notizia viene data solo a pagina 13. Ma guardate bene cosa c'è prima della pagina del sommario: oltre a pubblicità e alla vignetta di Altan, ci sono le rubriche fisse, una serie di curiosità che vanno sotto il titolo di 'Riservato' e l'annuncio di libri o dischi in vendita con la rivista. Adesso sollevate tutto il fascicolo che inizia col sommario, come se doveste strapparlo via, e vedete che cosa rimane nelle pagine finali: ancora rubriche di vario genere e posta, per finire con Scalfari o con questa Bustina.

Si tratta insomma di pezzi non legati all'attualità strettissima (e cioè ai fatti del giorno prima) e che possono essere inviati, impaginati e stampati con qualche anticipo, perché 'L'espresso' conta più di 200 pagine e, se lo trovate in edicola di solito alla mattina del venerdì, non si può pensare che sia stato stampato tutto la notte precedente. Invece dal sommario in avanti ci sono gli articoli di più stretta attualità, e nel numero che state leggendo vi saranno (presumo) i commenti sulle elezioni appena avvenute. Tutta roba che spesso viene mandata in macchina all'ultimo minuto, insieme al sommario, che deve tener conto di queste 'ultimissime'.

Ed ecco perché questa Bustina ha l'aria di ignorare che ci siano state le elezioni e come siano andate. Semplicemente sto scrivendo e inviando prima del fatale 13 aprile. Ma ecco un vantaggio di tutte queste costrizioni: il settimanale che state leggendo, anche se non può fingere di ignorare quello che è appena avvenuto, e si è affrettato a uscire in anticipo per parlarvi dei risultati elettorali, non essendo di solito obbligato a dire col fiatone quello che è successo il giorno prima, può dedicarsi a inchieste e ad articoli di riflessione e approfondimento. Una volta si diceva: per la strettissima attualità c'è il quotidiano.

Ma davvero il quotidiano ha ancora questa funzione? Già nel 1962 l'immortale Achille Campanile aveva detto che mentre il telegiornale serale, rispetto al quotidiano del giorno dopo, era come un telegramma che si concludesse con 'segue lettera', il quotidiano del giorno dopo era una lettera che avrebbe dovuto concludersi con 'segue telegramma' (ma in verità dovrebbe dire 'vedi telegramma già inviato').

Sto sfogliando un quotidiano che reca in ultima pagina le notizie 'in due minuti'. Davvero si potrebbe evitare di leggere il resto del giornale, perché in quella colonnina si dice tutto quello che occorre sapere. Purtroppo però questo tutto io lo sapevo già perché mi era stato detto la sera prima dal telegiornale. Se la situazione è questa, di che cosa parla allora un grande quotidiano, che conta circa 80 pagine, se non di più, e non può averne di meno per poter ospitare abbastanza pubblicità?

Da un lato deve ripetere ampliandole le notizie date dal telegiornale, tenendo conto che tanti lettori non avranno visto la televisione la sera prima. Ma anche così se la caverebbe in quattro o cinque pagine. Per il resto potrebbe dedicarsi all'approfondimento, alla riflessione sui fatti, alle inchieste, e lo fa (tra l'altro rubando il mestiere ai settimanali). E infine abbonda in pettegolezzo.

Si badi che il pettegolezzo non riguarda solo gli amorazzi di una fotomodella o i tic di un politico rimbambito. Si può fare del pettegolezzo sul dibattito elettorale, sul più atroce dei delitti, si può spettegolare enfatizzando una mezza battuta detta per caso da un ministro, o chiedendosi perché il comune di Roma non chiede scusa alla Chiesa per i cristiani divorati dai leoni al Colosseo. E soprattutto si è portati a far diventare pettegolezzo anche la notizia vera e propria, quando a un fatto rilevante (terremoto, incidente mortale sul lavoro, crisi di compagnia aerea) si dedicano non uno ma almeno quattro articoli, in cui fior di inviati sono obbligati a raccontare e a commentare l'evento da quattro punti di vista diversi - ma essendo fatalmente condotti a ripetere in quattro modi diversi la stessa cosa. E noi leggiamo, spesso soddisfatti di ascoltare queste quattro voci, ma di fatto perdendo tempo per apprendere quattro volte quello che (oltretutto) sapevamo già. Così il giornale diventa come una serata in famiglia, dove il nonno ripete per la milionesima volta la storia di quando aveva subito i bombardamenti, il babbo snocciola i suoi luoghi comuni sulla situazione economica, poi si parla un po' male del vicino notoriamente cornuto, o si commenta la trasmissione televisiva appena vista. Niente di male, anzi bellissima situazione di socializzazione, ma non era questa, all'inizio degli inizi, la funzione delle gazzette, finestre che di colpo e inopinatamente si spalancavano ogni mattina sull'imprevisto.

Su questa trasformazione del giornalismo non si tratta di moraleggiare: non ne ha colpa nessuno perché è un fatto, come il buco dell'ozono, dovuto allo sviluppo tecnologico. Ma è un fatto imbarazzante.

(17 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Un non-compagno che sbaglia
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 04:03:47 pm
Umberto Eco.

Un non-compagno che sbaglia


Da una premessa tutto sommato accettabile, sullo Stato imperialistico delle multinazionali, le Brigate Rosse traevano tre conclusioni sbagliate e deliranti  In un sito Internet che si intitola 'La storia nascosta' si virgoletta una mia presunta dichiarazione a 'El Pais' e mi si fa dire:"Le Brigate rosse avevano un'idea giusta di combattere le multinazionali, ma hanno sbagliato nel credere nel terrorismo". Se ne deduce pertanto che io condividerei la formula 'compagni che sbagliano', e che sosterrei che "le idee erano condivisibili, erano i metodi che non andavano". E conclude: "Se è questo il contributo di riflessione della cultura italiana, a trent'anni dall'assassinio di Aldo Moro, è un film già visto. Purtroppo".

Il sito raccoglie tuttavia anche i commenti dei visitatori e trovo sensato l'intervento di un anonimo che scrive "ho qualche dubbio che il Prof. Eco abbia pronunciato parole così banali. Nel 'Pendolo di Foucault' c'è (tra mille altre cose) una sua personale valutazione degli anni di piombo, che di certo non esalta il mondo del terrorismo. Sarei curioso di sentire le sue parole esatte, e non la versione che ci arriva dai giornali". Invece il tenutario del sito non solo non ha letto né il mio 'Pendolo di Foucault' né gli articoli che scrivevo su 'Repubblica' ai tempi dell'affare Moro e che ho poi ripubblicato nel mio libro 'Sette anni di desiderio' (ed è suo diritto, che difenderò sino alla morte), ma ho il sospetto che non abbia letto neppure la mia intervista al 'Pais' e si sia basato su alcuni trafiletti italiani che ne riassumevano alcune battute. Dedurre da premesse incomplete e fallaci è errore di logica, e non può essere riconosciuto come diritto.

Tuttavia rispondo per rispetto di quel prudente anonimo che invece usa leggere, e per altri che dalla visita a questo sito malizioso potrebbero essere condotti (in buona fede) sul sentiero dell'errore.

Le cose che avevo detto nel corso di quell'intervista spagnola erano le stesse che avevo scritto trent'anni fa. Dicevo che i giornali definivano 'deliranti' i comunicati delle Brigate rosse quando sostenevano che esisteva il cosiddetto Sim, ovvero lo Stato imperialistico delle multinazionali, mentre questa (anche se espressa con una formula un poco folkloristica) era l'unica idea non delirante di tutta la faccenda, salvo che non era la loro, ma l'avevano presa a prestito da molte pubblicazioni europee ed americane, in particolare dalla 'Monthly Review'. Parlare allora di Stato delle multinazionali voleva dire ritenere che gran parte della politica del globo non era più determinata dai singoli governi, bensì da una rete di poteri economici transnazionali che poteva decidere persino delle guerre e delle paci. A quei tempi l'esempio principe era quello delle Sette Sorelle petrolifere, ma oggigiorno anche i ragazzini parlano di globalizzazione e globalizzazione vuole appunto dire che noi mangiamo insalata coltivata nel Burkina Fasu, lavata e impacchettata a Hong Kong, e spedita in Romania per essere distribuita poi in Italia o in Francia. Questo è il governo delle multinazionali, e se l'esempio vi pare banale, pensate come grandi compagnie aeree transnazionali possano determinare le decisioni del nostro governo circa il destino dell'Alitalia.


Quelle che erano veramente deliranti nel pensiero delle Brigate rosse e dei gruppi terroristici affini erano le conclusioni che ne traevano: primo, che per battere le multinazionali si dovesse fare una rivoluzione in Italia, secondo che per metterle in crisi si dovessero ammazzare Moro e tante altre brave persone, terzo che le loro imprese avrebbero spinto le masse proletarie a fare la rivoluzione.

Queste idee erano deliranti anzitutto perché la rivoluzione in un solo paese alle multinazionali non avrebbe fatto né caldo né freddo, e in ogni caso la pressione internazionale avrebbe rapidamente ristabilito l'ordine; secondo perché il peso di un politico italiano, in questo gioco di interessi, era del tutto irrilevante; e terzo perché si doveva sapere che, per quanta gente i terroristi avessero ammazzato, la classe operaia non avrebbe fatto la rivoluzione. E per sapere questo non era necessario prevedere lo svolgimento degli eventi, ma bastava vedere quello che era successo nell'America Latina coi Tupamaros uruguayani e movimenti analoghi (che al massimo avevano convinto i colonnelli argentini a fare non la rivoluzione ma il colpo di Stato), mentre le masse proletarie non muovevano un dito.

Ora chi trae tre conclusioni sbagliate da una premessa tutto sommato accettabile non è un compagno che sbaglia. Se un mio compagno di scuola avesse affermato che il sole gira intorno alla terra o che due più due fa cinque non lo avrei definito un compagno che sbagliava bensì un coglione. Il fatto che oggi ritroviamo persino un terrorista rosso occupato a fare attentati alle moschee nel nome della Lega, mostra appunto che non erano molto assennati.

Pertanto l'unico compagno (ma di chi?) che sbaglia è il signore che gestisce quel sito.

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. «Il grattacielo storto? Prenderà il viagra»
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2008, 03:57:23 pm
VERSO L'EXPO 2015


«Il grattacielo storto? Prenderà il viagra»

Lo scrittore Umberto Eco ha risposto così a chi gli chiedeva un parere sul progetto di Libeskind

MILANO - «Milano è piena di gente che ha il membro storto: ce ne sarà uno in più e prenderà il viagra».

Si è affidato a espressioni di questo tipo lo scrittore Umberto Eco per rispondere a chi gli chiedeva un parere sul grattacielo storto di Daniel Libeskind, che vedrà la luce nel nuovo quartiere di Citylife, a poche centinaia di metri dal giardino intitolato alla memoria dell'editore Valentino Bompiani.

Proprio domenica si è appreso che è allo studio un leggero raddrizzamento della sagoma della torre; ma all'esplicita domanda sul reale gradimento del progetto di Libeskind, sul quale sono piovute le critiche di numerose personalità politiche, tra cui quelle del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, Eco ha risposto: «Non mi occupo di membri».


12 maggio 2008(ultima modifica: 13 maggio 2008)



Titolo: UMBERTO ECO. Considerazioni attuali
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:29:54 pm
Considerazioni attuali

Umberto Eco


Il telefonino fatto ingoiare a un marocchino poi salvato dalla polizia. Un brano di de Tocqueville per le prossime antologie. Il 'Giuramento di Pontida' e l'increscioso Alemanno  Primo pensierino. Ho letto su un quotidiano della settimana scorsa questa notizia straordinaria: "A Roma marocchino ingoia un telefonino e viene salvato dalla polizia". Cioè la polizia passa di lì a tarda sera, vede un tizio per terra che sputa sangue, circondato da connazionali, lo tira su, lo porta all'ospedale, e là gli estraggono dalla gola un Nokia.

Ora mi pare impossibile che (a parte trovata pubblicitaria della Nokia) un essere umano, per quanto alterato, possa ingoiare un cellulare. Il giornale avanzava l'ipotesi che l'episodio fosse avvenuto durante un regolamento di conti tra spacciatori e dunque è più verosimile che il telefonino gli sia stato cacciato in bocca a viva forza, non come ghiottoneria bensì come contrappasso (forse il punito aveva telefonato a qualcuno qualcosa che non doveva).

Il sasso in bocca è sfregio di origine mafiosa e viene ficcato tra le fauci del cadavere di qualcuno che ha rivelato segreti a estranei (c'è anche un film di Giuseppe Ferrara con questo titolo) e non c'è nulla di stupefacente che il costume sia passato ad altri gruppi etnici - d'altra parte la mafia è fenomeno talmente internazionale che anni fa a Mosca qualcuno aveva chiesto alla mia traduttrice russa come si dice 'mafia' in italiano.

Però questa volta non si tratta di un sasso bensì di un cellulare e questo mi sembra altamente simbolico. La nuova criminalità non è più rurale ma urbana, e tecnologica, è naturale che l'ucciso non venga più incaprettato ma, diciamo, 'incyborgizzato'. Non solo, ma cacciare un telefonino in bocca a qualcuno è come cacciargli i testicoli, vale a dire la cosa più intima e personale che possiede, il complemento naturale della sua fisicità, prolungamento dell'orecchio, dell'occhio e spesso anche del pene (vedi la storia del professore pedofilo telefonico). Soffocare qualcuno con il suo telefonino è come strangolarlo con le sue stesse viscere. Tieni, c'è posta per te.


Secondo pensierino. Un senatore della maggioranza vincente ha proposto di rivedere i testi scolastici e, ritengo, anche le antologie. Inizio a raccogliere alcuni brani che dovranno apparire nelle antologie del futuro. L'amico Diego Marconi mi segnala questo interessantissimo brano di Alexis de Tocqueville da quel gran libro che è 'La democrazia in America', ancora buono oggi sotto tanti profili, anche se è stato scritto 173 anni fa. Trascrivo.

"Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare.

Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri... Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto! Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere.

Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo".

Terzo pensierino. Naturalmente ci sono brani che dovranno scomparire dalle stesse antologie. Nel sito ufficiale dei Giovani Padani trovo per esteso, come era pensabile, il 'Giuramento di Pontida' di Berchet. Ma credo che ora andranno censurati questi versi, che metterebbero in seria crisi la Lega, o come minimo renderebbero la nuova alleanza governativa tanto fragile quanto la precedente: "Su! Nell'irto, increscioso Alemanno, - su! Lombardi, puntate la spada: - fate vostra la vostra contrada, - questa bella che il Ciel vi sortì".

(16 maggio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. I ''dottori'' del triennio
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:56:25 pm
Umberto Eco

I ''dottori'' del triennio


La maggior parte delle deprecazioni della nostra università riguardano l'invenzione delle lauree triennali. Ma il problema non è la brevità bensì l'intensità della frequenza. Che da noi non è obbligatoria  L'Università "La Sapienza" di RomaSi addensano sempre più articoli apocalittici sullo sfacelo dell'università italiana. Certamente non è in buona salute l'università di un paese in cui i fondi per la ricerca sono così esigui, e dove gli obblighi di frequenza sono aleatori (siamo uno dei pochi paesi dove ci si può presentare a un esame di fine anno senza aver mai visto il professore - e non perché lui non si è fatto mai vedere, ma perché lo studente non veniva alle lezioni). È vero che certi articoli sono poco attendibili perché sono scritti da raffinati intellettuali che non fanno lo sporco mestiere d'insegnare e quindi parlano di un universo che gli è estraneo - ma cosa non si fa per farsi pagare un'articolessa. Infine la maggior parte delle deprecazioni riguardano l'invenzione della laurea breve.

Si critica la laurea breve perché si seguono una serie di cosiddetti 'moduli' didattici brevissimi, valutati fiscalmente in 'crediti', per i quali non si devono portare più di un dato numero di pagine (a tal punto che gli editori sono stati costretti a ripensare dei manuali a dimensione d'analfabeta) così che la laurea breve si riduce quando va bene a un super liceo.

La laurea breve esiste in tutti i paesi e l'Italia doveva uniformarsi. Quando si legge che John Kennedy era laureato a Harvard questo significa che aveva fatto i suoi tre anni di laurea breve al college. Ora in un triennio universitario americano s'impara poco più di quello che s'imparava da noi in un buon liceo di una volta (là le scuole medie sono pessime). E tuttavia si ritiene che una formazione universitaria di tre anni consenta a un cittadino di realizzare quella 'istruzione superiore' indispensabile per inserirsi poi in una professione. Perché allora tre anni di college in America sono meglio di una nostra laurea breve?

A parte il fatto che là non dicono ai ragazzi che dopo tre anni sono 'dottori' (ma pazienza, per incoraggiare gli studi si potrebbe conferire anche il titolo di Eccellenza o di Satrapo), laggiù si è obbligati a frequentare tutte le lezioni, si vive insieme agli altri ogni giorno, si è in contatto quotidiano e continuo coi professori. Sembra poco ma è tutto. Quindi il problema non è la brevità della laurea bensì l'intensità della frequenza.


Come si può ovviare al fatto che da noi la frequenza non è obbligatoria? Mi rifaccio alla mia esperienza di studente di filosofia negli anni Cinquanta. Anche allora potevi non frequentare, ma ciascuno dei diciotto esami richiesti era estremamente impegnativo. I nostri professori (che, detto incidentalmente, si chiamavano Abbagnano, Bobbio, Pareyson, eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si fossero portati quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda degli anni poteva capitarti di saltare, che so, Hegel, ma avevi portato Spinoza, Locke e Kant (tutte e tre le critiche) e quando ti sei scozzonato su autori di quel calibro sei poi in grado di leggere da solo quelli che hai per caso saltato.

Considerando che alcuni esami implicavano almeno mille pagine e altri un poco meno, alla fine dei diciotto esami si era lavorato su almeno dodicimila pagine, e per un ragazzo che si forma la quantità conta molto. Erano diciotto esami, e per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso era considerato un sottosviluppato) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi, molto impegnativa. Nessuno è mai morto.

Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Per quanto fosse eccitante e più formativo di diciotto mesi di militare dare latino con Augusto Rostagni (che richiedeva un corso monografico sulla letteratura della decadenza, con tutti i testi di Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano e via dicendo, più tutto - dico tutto - Virgilio o tutto Orazio da tradurre all'impromptu), visto che all'epoca si erano già fatti italiano, storia e latino alle medie, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami. Ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), imparando tutto quello che c'era da imparare, leggendo i classici, e senza moduli ridotti. Perché non si è fatto così? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei 'crediti', mentre non era indispensabile. Ma questo è un altro discorso.

(30 maggio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Il "cuore" e lo zingaro
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 05:05:56 pm
Umberto Eco.

Il "cuore" e lo zingaro


Proposte per i compilatori di antologie revisioniste a proposito dei nomadi: un testo di Lombroso e alcuni brani tratti dalla rivista 'La difesa della razza' a cui collaborava anche Giorgio Almirante  Rom e sinti manifestano contro le discriminazioni
a Roma, domenica 8 giugnoContinuo con la proposta di testi da inserire nelle nuove antologie revisioniste per la gioventù italiana. Tema di questa puntata, lo zingaro.

"Sono l'imagine viva di una razza intera di delinquenti, e ne riproducono tutte le passioni ed i vizi. Hanno in orrore (.) tutto ciò che richiede il minimo grado di applicazione; sopportano la fame e la miseria piuttosto che sottoporsi ad un piccolo lavoro continuato; vi attendono solo quanto basti per poter vivere; sono spergiuri anche tra loro; ingrati, vili, e nello stesso tempo crudeli, per cui in Transilvania corre il proverbio, che cinquanta zingari possono esser fugati da un cencio bagnato; incorporati nell'esercito austriaco, vi fecero pessima prova. Sono vendicativi all'estremo grado: uno di questi, battuto dal padrone, per vendicarsene, lo trasportò in una grotta, ne cucì il corpo in una pelle, alimentandolo colle sostanze più schifose, finché morì di gangrena. Per poter saccheggiare Lograno avvelenarono le fonti del Drao: e quando li credettero morti i cittadini entrarono in massa nel paese che fu salvato da uno che l'aveva saputo.

Dediti all'ira, nell'impeto della collera, furono veduti gettare i loro figli, quasi una pietra da fionda, contro l'avversario; e sono, appunto come i delinquenti, vanitosi, eppure senza alcuna paura dell'infamia. Consumano in alcool ed in vestiti quanto guadagnano; sicché se ne vedono camminare a piedi nudi, ma con abito gallonato od a colori, e senza calze, ma con stivaletti gialli. Hanno l'imprevidenza del selvaggio e del delinquente. Si racconta, come una volta, avendo respinto da una trincea gl'Imperiali, gridassero loro dietro: "Fuggite, fuggite, ché se non scarseggiassimo in piombo, avremmo fatto di voi carnificina". E così ne resero edotti i nemici, che ritornando sulla loro via, ne menarono strage.

Senza morale eppure superstiziosi (Borrow) si crederebbero dannati e disonorati se mangiassero anguille o scojattoli, eppure mangiano... carogne quasi putrefatte. Amanti dell'orgia, del rumore, nei mercati fanno grandi schiamazzi; feroci, assassinano senza rimorso, a scopo di lucro; si sospettarono, anni sono, di cannibalismo. Le donne sono più abili al furto, e vi addestrano i loro bambini; avvelenano con polveri il bestiame, per darsi poi merito di guarirlo, o per averne a poco prezzo le carni; in Turchia si danno anche alla prostituzione. Tutte eccellono in certe truffe speciali, quali il cambio di monete buone contro le false, e nello spaccio di cavalli malati, raffazzonati per sani, sicché come fra noi ebreo era, un tempo, sinonimo di usurajo, così, in Spagna, gitano è sinonimo di truffatore nel commercio di bestiame.

Lo zingaro in qualunque stato o condizione si trovi, conserva la sua abituale e costante impassibilità, senza sembrar preoccupato dell'avvenire, vivendo giorno per giorno in una immobilità di pensiero assoluta, ed abdicando ad ogni previdenza". (Cesare Lombroso, L'uomo delinquente, 1876, I, 2).

"Esiste un punto di spiccata analogia fra la loro vita e quella degli ebrei, in quanto ebrei e zingari rappresentano gli unici gruppi etnici costituiti senza espressione alcuna di vita agricola che esistano in Europa. Ma se gli zingari dividono con gli ebrei questa originale prerogativa di assenteismo per tutto ciò che è lavoro agricolo, una profonda diversità intima li contrappone. L'uno, un popolo che ammassa per dominare; l'altro che mendica per vivere". (Vincenzo De Agazio, 'Gli ultimi nomadi', Difesa della razza , 20 giugno 1939).

"Gli zingari appartengono quasi sempre alla razza orientale e i loro meticci sono quasi sempre degli individui asociali, tanto più pericolosi in quanto difficilmente distinguibili dagli europei....

È necessario quindi diffidare di tutti gli individui che vivono vagabondando alla maniera degli zingari e che ne presentano i sopraricordati tratti somatici. Si tratta di individui asociali, differentissimi dal punto di vista psichico dalle popolazioni europee e soprattutto da quella italiana di cui sono note le qualità di laboriosità e attaccamento alla terra. Data l'assoluta mancanza di senso morale di questi eterni randagi si comprende come essi possano facilmente unirsi con gli strati inferiori delle popolazioni che incontrano peggiorandone sotto ogni punto di vista le qualità psichiche e fisiche". (Guido Landra, 'Il problema dei meticci in Europa', Difesa della razza, 5 novembre 1940).

Faccio notare che se Lombroso potrebbe suscitare qualche riserva da parte dei compilatori delle antologie revisioniste, date le sue propensioni socialiste, non dovrebbero esserci diffidenze per gli scritti apparsi su 'La difesa della razza', rivista assai seria a cui collaborava anche Giorgio Almirante, futuro titolare di strada urbana.

(13 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Io essere ballerino riusso...
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:42:35 am
Umberto Eco

Io essere ballerino riusso...


È proprio il testo della poesia di Montale scelto per la maturità a suggerire che il destinatario sia un uomo, con quel 'o lontano'. Quindi gli esperti ministeriali non hanno letto il testo, mentre dal testo potevano capire di che cosa si stava parlando  Ormai la storia del tema su Montale la sanno tutti ma, visto che questa Bustina uscirà otto giorni dopo gli eventi fatali, riassumiamo brevemente. Viene data agli studenti per il tema della maturità una poesia di Montale su un misterioso sorriso. Tutto il ragionamento che segue non vale se non si ha sott'occhio la poesia e pertanto la trascrivo:

Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma.

Francamente, di tutte le rime montaliane, questa è una delle più 'petrose', e già pretendere che un ragazzo della maturità, a cui forse non hanno fatto studiare Montale, possa commentarla mi pare esagerato. Ma come è noto la commissione ministeriale ha fatto di peggio, ha fornito una 'traccia' che (così come accadeva a me nella scuola di un tempo) prescrive praticamente quello che lo studente dovrebbe dire: che la poesia esalta il ruolo salvifico della donna, che il ricordo della donna si condensa nel suo sorriso, eccetera eccetera sino a terminare con l'esortazione a fare osservazioni originali - e quali mai, visto che le cose più originali le ha dette proprio il ministero.

Infatti il lato gustoso della faccenda, come ormai tutti sanno, è dovuto al fatto che il destinatario di quella poesia ('a K.') non era una donna bensì un uomo, e bastasse:
era un ballerino russo e benché tutti ora dicano che era conclamatamente eterosessuale si sa che l'idea del ballerino russo suscita sempre pesanti cachinni e ce n'era sempre uno nei film comici degli anni Cinquanta.

La mia prima reazione, quando ho letto le notizie dei giornali, senza ricordare bene la poesia (so a memoria moltissime liriche di 'Ossi di seppia' ma questa no, segno appunto che è meno cantabile delle altre) è che dovremmo smetterla con i pettegolezzi biografici sugli autori. Gli autori sono, come in questo caso, defunti mentre quello che rimane è il testo. E se il testo parla di un sorriso, senza specificare di chi, il lettore ha il diritto di attribuire quel sorriso a chi vuole, così come chi legge i sonetti shakespeariani sulla 'dark lady' non è obbligato a sospettare che quella signora fosse un giovanotto.

Ma è che, proprio mentre rimuginavo tra me e me sui diritti del testo, sono andato a cercarmi la poesia per intero e ho visto che è proprio il testo a suggerire che il destinatario sia un uomo, con quel 'o lontano' che certamente è un vocativo e neppure con la maggiore buona volontà può essere interpretato come 'da lontano' o 'benché tu stia lontano'. Quindi gli esperti ministeriali non hanno letto il testo, mentre dal testo potevano capire di che cosa si stava parlando anche senza andare a consultare, come suggerisce Mario Baudino su 'La Stampa', l'edizione critica Contini-Bettarini, che mette la poesia a pagina 30 e fornisce avaramente l'informazione su K solo a pagina 872.

Trovo anche esagerate le accuse di omofobia rivolte da qualcuno ai responsabili ministeriali. Se non volevano che gli studenti pensassero che quella poesia era dedicata a un uomo, bastava che ne scegliessero un'altra. No, si è trattato proprio di una lettura insufficiente del testo proposto.

Ma se cerchiamo di essere severi coi ministeriali, non dobbiamo neppure essere indulgenti coi loro critici. Ed ecco che un importante quotidiano nazionale, nel giro di due pagine, in un articolo dice che la poesia è del 1975, mentre come si sa gli 'Ossi di seppia' sono degli anni Venti (e tra l'altro viene precisato altrove nella stessa pagina), e poi dice che la rivelazione su K sarebbe stata fatta a Silvio Ramat dopo che si era laureato 'con' Montale, cosa improbabile perché Montale non è mai stato professore universitario (e infatti Ramat si è laureato, credo, 'su' Montale).

Questo per dire che la disattenzione è un vizio diffuso e un altro quotidiano on line asseriva, sia pure nella fretta del momento, che questo K era un compagno di scuola del poeta. Che dire? Facciamoci quattro sorrisi.

(27 giugno 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Umberto Eco: "La minoranza ha il dovere di manifestare"
Inserito da: Admin - Luglio 02, 2008, 06:21:11 pm
POLITICA

LA LETTERA

Umberto Eco: "La minoranza ha il dovere di manifestare"


Umberto Eco ha inviato questa lettera a Furio Colombo, Paolo Flores d'Arcais, Pancho Pardi, promotori della manifestazione dell'8 luglio in Piazza Navona.



Cari Amici,

mentre esprimo la mia solidarietà per la vostra manifestazione, vorrei che essa servisse a ricordare a tutti due punti che si è sovente tentati di dimenticare:

1) Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare.

2) Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perché questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia.

Umberto Eco

(2 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Chi ha ucciso il mastino di Baskerville?
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2008, 11:44:22 pm
Umberto Eco.

Chi ha ucciso il mastino di Baskerville?


In questi tempi di demonizzazione del dannato relativismo, teniamoci cari gli enunciati narrativi, gli unici che dicono verità che non possono essere revocate in dubbio.

 L'estate scorsa recensivo in questa Bustina 'Come parlare di un libro senza averlo mai letto', di Pierre Bayard, il quale diceva quanto chiunque pratichi la lettura sa, e cioè che al mondo ci sono più libri importanti di quanto possiamo leggere nel corso di una vita, e spesso siamo influenzati profondamente da libri che non abbiamo mai letto e di cui tuttavia sappiamo l'essenziale perché ci è giunto per varie fonti.

Ma la parte più intrigante di quel pamphlet era che, anche dei libri che abbiamo letto davvero, ricordiamo non ciò che dicevano, bensì ciò che leggendoli gli facevamo dire. Bayard, il quale oltre che docente di letteratura è anche psicoanalista, mi pareva non tanto interessato al problema se la gente legga o non legga, quanto piuttosto al fatto che ogni lettura abbia aspetto creativo, e in ogni caso ri-creativo.

Si veda ora questo suo 'Il caso del mastino dei Baskerville' (Excelsior, 15,50 euro) libretto appassionante dove egli, psicoanalizzando punti oscuri del testo di Arthur Conan Doyle, cerca di mostrare come un lettore abbia il diritto di ritenere significative molte ambiguità o reticenze del testo (come fanno del resto gli psicoanalisti) e di concluderne che Sherlock Holmes si era sbagliato nel risolvere quel mistero. Bayard astutamente sceglie un testo che è davvero pieno di punti oscuri e in cui tra l'altro le osservazioni non appaiono fatte direttamente da Holmes ma dal dottor Watson che Bayard definisce senza ambagi come un perfetto idiota. E d'altra parte il 'Mastino' è stato scritto dopo che Doyle aveva fatto morire Holmes, ed era stato poi costretto a risuscitarlo a causa di un plebiscito di folla (belle le pagine su queste forme di identificazione collettiva con personaggi che si sanno fittizi) e pertanto molti imbarazzi di quel libro sembrano dovuti a complessi dell'autore.


Bayard ha fatto lo stesso lavoro su 'The murder of Roger Ackroyd' di Agatha Christie, e anche lì lavora sul velluto perché, come si sa, l'assassino è il narratore, e si ha diritto di prendere con le molle quanto racconta un malandrino di quella fatta. Si noti che quello che fa Bayard è diverso da ciò che ha fatto Philippe Doumenc in 'Lo strano caso di Emma Bovary' (Castelvecchi 2008) in cui l'autore riprende l'indagine dalla morte di Emma per provare che non si era suicidata bensì che era stata uccisa.

Doumenc aggiunge nuovi fatti a quelli raccontati da Flaubert ed è come se avesse scritto (che so) Pinocchio palombaro, un libretto tra i mille che riprendevano le avventure di Pinocchio. Bayard invece non 'riscrive' il libro di Doyle, lo 'rilegge' alla luce di una idea sospettosa. E ritiene di avere il diritto di farlo perché pensa non solo che i personaggi fittizi acquisiscono una vita indipendente dalla volontà del loro autore, ma che ogni lettore esegue un testo a modo proprio - a tal punto che è da mettere in dubbio "una reale comunicazione tra i lettori di uno stesso libro, in quanto costoro effettivamente non stanno parlando del medesimo libro".

Io ritengo che non si debba confondere la lettura globale di un testo (che certamente permette e spesso incoraggia interpretazioni diverse, che riguardano lo stile, le sfumature psicologiche e mille altre cose) e l'atteggiamento che si assume rispetto agli enunciati narrativi (del tipo 'Emma Bovary si è avvelenata' o 'Pinocchio è stato inghiottito da un pescecane'). E tra l'altro Bayard mostra di conoscere molto bene le discussioni in materia. Il problema è che gli enunciati narrativi, all'interno del mondo possibile di un romanzo, vengono presi dal lettore come verità indiscutibile. Questa è anche la terribile bellezza della narrativa: Emma Bovary muore suicida e, per quanto la cosa ci dispiaccia, non possiamo cambiare il suo destino per tutta l'eternità.

Possiamo ovviamente riscrivere un altro romanzo in cui la Bovary viene uccisa, come ha fatto Doumenc, ma ciò che dà (o non dà) sapore alla lettura del rifacimento è proprio il fatto che, contrariamente a ciò che sembra ritenere Bayard, tutti noi conveniamo come un sol uomo che nel mondo possibile di Flaubert la poveretta muore suicida, e stiamo tutti parlando del 'medesimo libro'. Altrimenti perché il rifacimento di Doumenc dovrebbe interessarci, se parlasse di una tizia di cui non sappiamo niente? E perché dovrebbe intrigarci la reinterpretazione di Bayard se parlasse di un 'Mastino' che non è quello che abbiamo letto noi? Possiamo sospettare che Giulio Cesare non sia morto proprio alle Idi di Marzo ma non possiamo dubitare che Didone si sia suicidata per amore di Enea, in quanto nessuno ha il diritto di negare che nel mondo possibile della 'Eneide' accada quello che accade.

In questi tempi di demonizzazione del dannato relativismo, teniamoci cari gli enunciati narrativi, gli unici che dicono verità che non possono essere revocate in dubbio.
(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Segnati a dito
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:30:54 am
UmbertoEco


Segnati a dito

Un giorno nessuno di noi avrà più una faccia ma solo dei dati astratti, algoritmi, come le sbarrette sui prodotti del supermarket. E allora addio a Fantomas, ad Arsenio Lupin, a Rodolfo di Gerolstein...  Naturalmente, ed è premessa doverosa, c'è qualcosa di losco nel voler prendere le impronte digitali ai membri di un solo gruppo (siano essi zingari, testimoni di Geova, filatelici, diabetici o monaci olivetani), e se poi sono bambini peggio ancora. Tuttavia, ed è stato annunciato, tra qualche tempo le prenderanno a tutti e non ci saranno più ragioni per protestare (allora, non ora). D'altra parte io entro negli Stati Uniti solo puntando il mio dito in direzione di un marchingegno elettronico, e non mi sento discriminato perché è una regola generale - anche se in fondo la cosa mi dà un poco noia.

Non c'è niente da fare. Tra breve non solo le impronte digitali ma forse anche il Dna saranno registrati su una specie di carta di credito che conterrà tutti i nostri dati. Allora non ci saranno più problemi per viaggiatrici che insistano a portare il burka, per tanto che la cosa ci dispiaccia, perché non dovranno più mostrare il volto bensì il dito per essere identificate agli imbarchi. E speriamo che non salti fuori una qualche setta fondamentalista che impone ai suoi membri di portare sempre i guanti, perché allora dovremmo inventare ancora qualcosa di diverso.

Non c'è niente da fare, dipende dalla globalizzazione. Sei miliardi di esseri che potenzialmente potrebbero spostarsi da un paese all'altro (e tanti comunque anche se non si calcolano quelli che non ce la fanno a muoversi per malnutrizione) fanno sì che i problemi di identificazione si facciano sempre più difficili. Già ora diciamo che tutti i giapponesi si assomigliano, e loro dicono la stessa cosa di noi. Un amico mi raccontava che a Parigi si era irritato perché dei taxisti orientali non conoscevano certe strade e aveva domandato seccato a uno di loro se non erano obbligati a dare un esame per ottenere la licenza, e quello gli aveva risposto candidamente che, quando un orientale si presenta a un esame ed esibisce un documento con sopra una faccia da orientale, l'esaminatore non si accorge se la persona che ha di fronte non è la stessa della fotografia. E pertanto, lasciava capire il buon tassista, uno solo di loro, il più esperto, dava l'esame per chissà quanti compagni.


Francamente non capisco per quale ipocrisia sino a ora ci si sia accontentati dell'identificazione fotografica. Ciascuno di noi ha la profonda persuasione di non assomigliare affatto alla foto che ha sulla carta d'identità, e quando tempo fa mi sono lasciato crescere la barba ho viaggiato ancora per qualche anno con un passaporto su cui apparivo sbarbato. Nessuno si è mai lamentato, tranne un poliziotto di un paese dell'est, ma poi anche lui ha lasciato correre.

La globalizzazione ha prodotto, o almeno incoraggiato, quel nuovo tipo di guerra che è l'attacco terroristico. Un tempo il nemico lo riconoscevi dall'uniforme, oggi è invece vestito come te e porta l'esplosivo avvolto intorno alla vita sotto la maglietta col coccodrillo. Altra ragione per tentare sistemi d'identificazione più sicuri della foto.

Così un giorno nessuno di noi avrà più una faccia ma solo dei dati astratti, anche perché immagino che su quella carta di credito non apparirà neppure la mia impronta digitale ma solo un algoritmo che la esprime, un poco come le sbarrette sui prodotti del supermercato. Ma non ci sarà niente da fare.

Salvo che finirà tutta una serie di situazioni narrative di cui non si potrà più raccontare se non nei romanzi storici, e anche lì i giovani lettori del prossimo secolo non capiranno neppure cosa significasse un tempo mettersi un paio di baffi finti, una parrucca fluente, una barba da cappuccino, e farsi dei pomelli rossi, degli occhi segnati come dal bistro oppure, come Mannering detto il Barone, inserire dei cuscinetti elastici dentro le guance, o come Fantomas apparire nelle fogge più varie, o come Arsenio Lupin sembrare oggi un raffinato gentiluomo con tanto di caramella e due sottili baffetti, e domani come un operaio in camicione blu, con la barba irsutamente lunga o lungamente irsuta.

Addio conte di Montecristo che si toglie di colpo la parrucca dell'abate Busoni e grida "Io sono Edmond Dantès", addio Rodolfo di Gerolstein che frequentava le bettole parigine travestito da criminale in servizio permanente effettivo per redimere le giovani prostitute soavemente turbercolotiche. Anche a essere il fantasma dell'Opera, che gusto ci sarebbe a portare una maschera sul volto ustionato, se la gente, la polizia, il pubblico dei palchi e persino la donna amata non ti guarderanno il viso bensì la punta del dito? Vi rendete conto? Non si potrà più mentire con il corpo. Segnati a dito. Questo di tanta speme oggi ci resta

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Rinasco rinasco nel milnovecentoquaranta!
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:38:10 pm
Umberto Eco


Rinasco rinasco nel milnovecentoquaranta!


Come negli anni '40, ci sono fascisti al governo. Non solo loro, non più esattamente fascisti, ma che importa, si sa che la storia si dà una prima volta in forma di tragedia e una seconda in forma di farsa  Mussolini e un battaglione fascista nel 1941La vita altro non è che una lenta rimemorazione dell'infanzia. D'accordo. Ma quello che rende dolce questo rimembrare è che, nella lontananza della nostalgia, ci appaiono belli anche i momenti che allora ci sembravano dolorosi, persino il giorno che si è scivolati nel fosso slogandosi un piede, e si è dovuto rimanere a casa per 15 giorni ingessati con la garza imbevuta di bianco d'uovo.

Personalmente ricordo con tenerezza le notti passate nel rifugio antiaereo: ci avevano svegliato nel bel mezzo del sonno più profondo, trascinati in pigiama e cappotto in un sotterraneo umido, tutto in cemento armato, illuminato da lampadine fioche, e giocavamo a rincorrerci mentre sopra le nostre teste esplodevano colpi sordi che non sapevamo se fossero della contraerea o delle bombe.

Le nostre mamme tremavano, dal freddo e dalla paura, ma per noi era una strana avventura. Ecco cos'è la nostalgia.

Pertanto siamo disposti ad accettare tutto ciò che ci ricordi gli orribili anni Quaranta, ed è il tributo che paghiamo alla nostra vecchiaia.

Com'erano le città a quell'epoca? Buie di notte, quando l'oscuramento obbligava i radi passanti a usare lampadine non a pila bensì a dinamo, come il fanale della bicicletta, che si caricava per frizione azionando spasticamente a mano una sorta di grilletto. Ma più tardi era sopravvenuto il coprifuoco, e per strada non si doveva andare.

Di giorno la città era percorsa da reparti militari, meno sino al 1943, quando in città c'era il Regio Esercito accasermato, ma più intensamente ai tempi della Repubblica di Salò, dove nelle metropoli passavano continuamente manipoli e ronde di marò della San Marco o di Brigate Nere, nei paesi più facilmente gruppi di partigiani, gli uni e gli altri armati sino ai denti.

In questa città militarizzata in certe situazioni erano proibiti gli assembramenti, sciamavano ancora torme di Balilla e Piccole Italiane in divisa, e di scolaretti in grembiule nero che uscivano da scuola a mezzogiorno, mentre le mamme andavano a comperare il poco che si trovava nei negozi di alimentari, e se volevi mangiare del pane non dico bianco ma non ributtante e fatto di segatura, dovevi pagare somme considerevoli al mercato nero.


In casa la luce era fioca, per non dire del riscaldamento, limitato alla sola cucina. A notte si dormiva col mattone caldo nel letto e ricordo con tenerezza persino i geloni.

Ora non posso dire che tutto questo sia tornato, certo non integralmente. Ma comincio a riavvertirne il profumo. Tanto per cominciare ci sono fascisti al governo. Non solo loro, non più esattamente fascisti, ma che importa, si sa bene che la storia si dà una prima volta in forma di tragedia e una seconda volta in forma di farsa.

In compenso a quei tempi apparivano sui muri manifesti in cui si vedeva un nero americano ributtante (e ubriaco) che tendeva la mano adunca verso una bianca Venere di Milo. Oggi vedo in televisione volti minacciosi di negri smagriti che stanno invadendo a migliaia le nostre terre e francamente intorno a me la gente è ancora più spaventata di allora.

Sta tornando il grembiule nero nelle scuole, e non ho nulla contro, meglio della T-shirt firmata dei bulli, salvo che avverto in bocca un sapore di madeleine imbevuta di tiglio e come Gozzano mi viene da dire "rinasco, rinasco, nel milnovecento e quaranta". Ho appena letto su un giornale che il sindaco leghista di Novara ha proibito che di notte, nel parco, si riuniscano più di tre persone. Attendo con un brivido proustiano il ritorno del coprifuoco.

I nostri militari si stanno battendo contro ribelli dal volto colorato in Asie (purtroppo non più in Affriche) più o meno orientali. Ma vedo reparti dell'esercito, bene armati e con tute mimetiche, anche sui marciapiedi delle nostre città. L'esercito, come allora, non combatte solo alle frontiere ma fa operazioni di polizia. Mi sembra di ritrovarmi in Roma Città Aperta.

Leggo articoli e odo discorsi assai simili a quelli che leggevo allora su 'La difesa della razza', che non solo attaccavano gli ebrei ma anche zingari, marocchini e stranieri in genere. Il pane sta diventando carissimo. Ci stanno avvertendo che dovremo risparmiare sul petrolio, limitare lo spreco di energia elettrica, spegnere le vetrine di notte. Calano le auto e riappaiono i Ladri di Biciclette. Come tocco di originalità, tra un po' sarà razionata l'acqua.

Non abbiamo ancora un governo al Sud e uno al Nord, però c'è chi sta lavorando in questa direzione.

Mi manca un Capo che abbracci e baci castamente sulla guancia prosperose massaie rurali, ma ciascuno ha i suoi gusti.


(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Pronomi del passato
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:45:44 pm
Umberto Eco


Pronomi del passato


Un tempo si dava del Tu ai parenti e al massimo ad alcuni amici intimissimi. Nel mondo del lavoro si usava il Lei o il Voi con tutti, salvo che con i colleghi più stretti  Quindici giorni fa avevo annotato, sul filo del paradosso, vari aspetti della vita odierna che ci rinviano ai nostri ricordi dei tempi di guerra, tra 1940 e 1945. Però riflettendoci meglio mi sono accorto di quante cose si sta invece perdendo memoria.

Per esempio l'uso comune del Lei (o, durante il fascismo, e nelle campagne, del Voi). Si dava del Tu ai parenti (ma nelle campagne del Piemonte la moglie diceva al marito 'Vui, Pautass'), e al massimo ad alcuni amici intimissimi. Bambini e ragazzi si davano del Tu, anche all'università, sino a quando non entravano nel mondo del lavoro.
 
A quel punto Lei o Voi a tutti, salvo ai colleghi stretti (ma mio padre ha passato quarant'anni nella stessa azienda e tra colleghi si sono sempre dati del Lei). Per un neolaureato, fresco fresco di toga virile, dare del Lei agli altri era un modo non solo di ottenere il Lei in risposta, ma possibilmente anche il Dottor.

Da tempo invece, a un giovanotto sui quarant'anni che entra in un negozio, il commesso o la commessa della stessa età cominciano a dare del Tu. In città perché il commesso ti dia del Lei devi mostrare i capelli bianchi, e possibilmente avere la cravatta. In campagna è peggio: più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente, in un emporio mi sono visto (io settantaseienne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne (che non ha probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali "gentile signorina, come Ella mi dice."
 
Deve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa, tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un "buona giornata" invece di 'ciao', come dicono gli albanesi.

Credo che la confusione tra Tu e Lei sia nata con molti doppiaggi di film americani. Come tutti sanno in inglese si dice 'you' sia per il Tu che per il Voi. In verità gli anglofoni sanno che dire 'you Jim' usando il primo nome, è come dare del Tu, mentre dire 'you Mr. Jim' significa dare del Voi o del Lei. Ma non sempre i doppiatori dei film fanno attenzione a queste cose. Sto finendo di vedere in tv la serie 'I Tudors' dove pare che re, cortigiane, persone normali, si diano del voi anche quando scopano - cose che succedono solo a Buenos Aires.

Evidentemente nell'originale si sentiranno le differenze tra 'your Majesty' e 'you, my dear Jim', ma nella versione italiana, dove tutto è Voi, pare giusto che poi nella vita sia tutto Tu e non ci sia differenza tra parlare al re e parlare a un bambino di due anni.

L'altra cosa che ci rende diversi dal passato è che, quando ero piccolo, nella piccola borghesia si usavano, per parere fini, alcune parole francesi come 'agrément', 'satin', 'bouquet' o 'cadeau'. L'inglese e il francese non li sapeva nessuno, e i nomi stranieri si pronunciavano tutti alla francese, e dunque Scürscill e Sciamberlèn. Però ci si poteva correggere perché gli unici che per contratto dovevano saper pronunciare bene i nomi stranieri erano gli annunciatori della radio.
 
Oggi gli annunciatori radio e televisione storpiano i nomi stranieri in misura insostenibile, non c'è più un cane che sappia fare la 'ü' tedesca o francese, è rimasta classica la gaffe dell'annunciatrice che ha letto 'sine die' come 'sain dai', e l'inglese lo si impara da Ezio Greggio che dice 'uan, ciù, zree!'. Lui esagera apposta, ma le aspiranti veline lo prendono sul serio.

Così tutti usano parole inglesi o calchi dall'inglese, anche quando non se ne sente il bisogno: a parte un governo che fa un ministero per il Welfare, che è roba da dichiararsi cittadino ticinese quando all'estero ti chiedono perché mai (e perché non un ministero della War, uno degli Interieurs e uno del Treasury?), tutti supportano, tutti implementano e (come si usa dire nei migliori ambienti) quant'altro.

È vero che il vizio è antico: noi portiamo lo smoking, oppure il pullover, o il frack e gli americani non sanno di cosa parliamo; ma d'altra parte anche i francesi hanno poetato per decenni sullo 'spleen' e gli inglesi reagivano con 'prego, traduca'. Gli americani, infine, hanno immesso nella loro lingua un mucchio di francesismi, però li sentono imperialisticamente come parole loro, tanto che si racconta che, al ritorno di una riunione in Francia, Bush abbia detto: "È strano, i francesi non hanno una parola nella loro lingua per entrepreneur".

Tornando alle cose scomparse, sono scomparse le signorine. Non si sente più dire con tono piccato 'prego, signora, non signorina' e nemmeno 'scusi, signorina'. Si dice 'ehi tu!'.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Via le vie!
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 11:03:20 pm
Umberto Eco

Via le vie!

Dedicare una strada a Craxi o a Mussolini. Ciclicamente la questione torna alla ribalta. Ci vorrebbe una legge che proibisce di intitolare una strada a chi non sia morto da almeno cento anni 


Va bene che d'estate e specie intorno a ferragosto non vi sono molte novità di cui parlare, tranne alcuni massacri in Georgia, che fanno meno notizia delle olimpiadi, ma sono stato colpito in queste settimane dalla ripresa di un tema che oserei definire ormai eterno. Da qualche parte si è tornato a discutere perché qualcuno voleva dedicare una strada a qualche personaggio compromesso col fascismo, o a figure controverse come quella di Bettino Craxi - o cancellare il nome di un'altra strada, forse in Romagna dove, passando per i piccoli centri, si è colpiti dall'abbondanza di vie Carlo Marx e vie Lenin. Francamente la cosa è diventata insopportabile e c'è un unico modo per uscirne: una legge che proibisca di intitolare una strada a chi non sia morto da almeno cento anni.

Naturalmente con la legge dei cento anni, a parte Carlo Marx, nel 2045 ci sarà qualcuno che intitolerà una via a Benito Mussolini, ma pazienza, i nostri nipoti allora quarantenni (per non dire di eventuali pronipoti) avranno idee confuse sul personaggio. Oggi i buoni cattolici romani passeggiano tranquillamente per via Cola di Rienzo, senza sapere che non solo ha avuto anche lui il suo piazzale Loreto, ma che a intitolargli una strada così importante sono stati i massoni post-risorgimentali per far dispetto al papa.

C'è inoltre da considerare, almeno per rispetto a persone defunte, che intitolare a qualcuno una strada è il modo più facile per condannarlo alla pubblica dimenticanza e a un fragoroso anonimato. Tranne rari casi, come Garibaldi o Cavour, nessuno sa chi sono i personaggi a cui è stata intitolata una piazza o un viale - e se una volta lo si sapeva, il personaggio ha finito per diventare nella memoria collettiva una via e basta. Nella mia città natale sono passato migliaia di volte per via Schiavina senza mai chiedermi chi fosse costui (lo so ora, era un annalista ottocentesco), per via Chenna (so chi era perché ho a casa la sua opera sui vescovadi di Alessandria, 1785), per non dire di Lorenzo Burgonzio (apprendo solo ora su Internet che era l'autore di un 'Le notizie istoriche in onore di Maria Santissima della Salve', Vimercati Editore, 1738).


Sfido molti milanesi che abitano nelle vie Andegari, Cusani, Bigli o Melzi d'Eril a dire chi fossero coloro che hanno meritato quell'onore; forse qualcuno che ha studiato sa che Francesco Melzi d'Eril è stato vice presidente della Repubblica italiana nel periodo napoleonico, ma credo che il pedone normale, che non sia storico di professione, sappia assai poco sulle famiglie Cusani, Bigli o Andegari (tra l'altro alcuni sostengono che il nome provenga dalla voce celtica 'andeghee', che significa 'biancospino').

Non solo la toponomastica condanna alla 'damnatio memoriae', ma può accadere che il nome di un personaggio per bene venga associato a una via malfamata, e che il nome dell'infelice venga nei secoli dei secoli usato per riferimenti salaci. Riandando alla Torino dei miei tempi universitari, ricordo che via Calandra era maliziosamente (e, per i benpensanti, tristemente) associata a ben due case di tolleranza, mentre intendeva onorare Edoardo Calandra, rispettabile scrittore ottocentesco. E piazza Bodoni, che pure onorava un grande tipografo, ed era sede dell'insigne conservatorio, era allora ritrovo notturno di omosessuali (e cercate di capire che cosa volesse dire negli anni Cinquanta) per cui il toponimo veniva a indicare per metonimia (contenente per il contenuto) chi si dedicava a piaceri diversi dalla tipografia e dalla musica classica. Per non dire che a Milano il bordello più frequentato dalla soldataglia era in via Chiaravalle e nessuno poteva più pronunciare senza un sogghigno il nome di quella nobile e famosa abbazia.

Ma allora che nomi daremo alle strade? I pubblici amministratori dovranno fare qualche sforzo di fantasia, perché non potranno pescare nel repertorio familiare dei Bottai o degli Italo Balbo, ma dovranno andare a riscoprire, che so, Salvino degli Armati, probabile inventore degli occhiali, o Bettizia Gozzadini (prima donna a insegnare in un'università nella Bologna medievale), o addirittura Uguccione della Faggiola e Facino Cane, che non erano stinchi di santo ma nemmeno Balbo lo era. D'altra parte New York sopravvive benissimo con strade che hanno solo dei numeri, il che non è tanto diverso da quando a Milano si battezzava una strada via Larga. E ci sono nelle cento città d'Italia bellissime salite del Grillo, vie dell'Orso o della Spiga, vie del Colle, e si potrebbero aggiungere via dei Tigli (in fondo ce n'è una anche a Berlino), via degli Ontani, e via botanizzando

(05 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Indietro a tutta forza!
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:32:47 am
Umberto Eco


Indietro a tutta forza!


Stiamo assistendo a un interessante regresso tecnologico. Ora il progresso può anche significare fare due passi indietro, come tornare all'energia eolica invece del petrolio  In una vecchia Bustina avevo avvertito che stiamo assistendo a un interessante regresso tecnologico. Si era anzitutto messa sotto controllo l'influenza disturbante del televisore grazie al telecomando, con cui lo spettatore poteva lavorare di zapping, entrando così in una fase di libertà creativa, detta 'fase di Blob'. La liberazione definitiva dalla televisione si era avuta col videoregistratore, con cui si realizzava l'evoluzione verso il Cinematografo. Inoltre col telecomando si poteva azzerare l'audio tornando ai fasti del film muto. Intanto Internet, imponendo una comunicazione eminentemente alfabetica, aveva liquidato la temuta Civiltà delle Immagini. A questo punto si potevano eliminare addirittura le immagini, inventando una sorta di scatola che emettesse solo suoni, e che non richiedesse neppure il telecomando. Io allora credevo di scherzare immaginando la scoperta della radio, ma (evidentemente ispirato da un Nume) vaticinavo l'avvento dell'I-Pod.

Infine l'ultimo stadio era stato raggiunto quando alle trasmissioni via etere, con le pay-tv, si era dato inizio alla nuova era della trasmissione via cavo telefonico, passando dalla telegrafia senza fili alla telefonia con i fili, fase completamente realizzata da Internet, superando Marconi e tornando a Meucci.

Avevo ripreso questa mia teoria della marcia all'incontrario nel mio libro 'A passo di gambero' dove applicavo questi principi anche alla vita politica (e d'altra parte in una Bustina recente ho notato che stiamo tornando alle notti del 1944, con pattuglie militari per le strade, e bambini e maestre in divisa). Ma è avvenuto di più.

Chiunque ha dovuto comperare recentemente un nuovo computer (diventano obsoleti in tre anni) si è reso conto che poteva trovare solo quelli con già installato Windows Vista. Ora basta leggere sui vari blog in Internet cosa gli utenti pensano di Vista (non mi azzardo a riferirlo per non finire in tribunale), e cosa ti dicono gli amici caduti in quella trappola, per fare il proposito (magari errato, ma fermissimo) di non comperare un computer con Vista. Ma se volete una macchina aggiornata di ragionevoli proporzioni, dovete sorbirvi Vista. Oppure ripiegate su un clone grande come un Tir, assemblato da un venditore volonteroso, che installa ancora Windows XP e precedenti. Così la vostra scrivania sembra un laboratorio Olivetti con l'Elea 1959.

Io credo che i produttori di computer si siano accorti che le vendite diminuiscono sensibilmente perché l'utente, pur di non avere Vista, rinuncia a rinnovare il computer. E allora cos'è successo? Per capirlo dovete andare su Internet e cercare 'Vista Downgrading' o simili. Lì vi si spiega che, se avete comperato un nuovo computer con Vista, pagandolo quel che vale, sborsando una somma additiva (e non così facilmente, ma passando attraverso una procedura che mi sono rifiutato di capire), dopo molte avventure, potreste avere di nuovo la possibilità di fruire di Windows XP o precedenti.

Chi usa i computer sa cosa è l'upgrading, è una cosa che ti consente di aggiornare il tuo programma sino all'ultimo perfezionamento. Di conseguenza il downgrading è la possibilità di riportare il tuo computer, avanzatissimo, alla felice condizione dei programmi più vecchi. Pagando. Prima che su Internet si inventasse questo bellissimo neologismo, su un normale dizionario Inglese-Italiano si trovava che 'downgrade' come sostantivo significa declino e ribasso, o versione ridotta, mentre come verbo vuole dire retrocedere, degradare, ridimensionare e svilire. Quindi ci viene offerta la possibilità, previo molto lavoro e una certa somma, di svilire e degradare qualcosa che avevamo pagato una certa somma per avere. La cosa sarebbe incredibile se non fosse vera (ne ha anche parlato spiritosamente Giampaolo Proni sulla rivista online 'Golem-L'indispensabile' - http://www.golemindispensabile.it/), e in linea si trovano centinaia di poveretti che stanno lavorando come pazzi e pagando quel che si deve per degradare il loro programma. Quando arriveremo allo stadio che, per una somma ragionevole, il loro computer sarà cambiato in un quaderno con calamaio e penna con pennino Perry?

Ma la faccenda non è solo paradossale. Ci sono progressi tecnologici oltre i quali non si può andare. Non si può inventare un cucchiaio meccanico, quello di 2 mila anni fa va ancora bene così. Si è abbandonato il Concorde, che pure faceva Parigi-New York in tre ore. Non sono sicuro che abbiano fatto bene, ma il progresso può anche significare fare due passi indietro, come tornare all'energia eolica invece del petrolio e cose del genere. Siate tesi al futuro! Indietro a tutta forza!

(19 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Abbasso l'Itaglia
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2008, 03:51:07 pm
Umberto Eco


Abbasso l'Itaglia


Per rovinare il Paese pensavamo ci volesse un secolo. Invece ci si è arrivati molto prima. E con il consenso della maggioranza degli italiani  Delle celebrazioni papaline a Porta Pia si è già detto abbastanza e basterebbe l'articolo di Scalfari su questa stessa pagina la settimana scorsa. Noto solo che il monumento al bersagliere lo aveva fatto erigere Mussolini nel 1932. Alemanno, Alemanno, non c'è più religione. Comunque sono indotto a tornare sull'episodio perché esso si inserisce in una serie di fenomeni di regresso storico di cui in alcune mie Bustine, come l'invenzione del 'downgrading' e il fatto che ci pare di essere tornati al 1944, con le pattuglie di soldati per le strade e maestri e alunni in divisa. Nel caso del XX Settembre invece di tornare a Windows XP si è tornati a Pio IX.

In una bustina di circa un anno fa rilevavo l'infittirsi su Internet di siti antirisorgimentali e filo borbonici. Ora appare sui giornali che un terzo degli italiani è favorevole alla pena di morte. Stiamo tornando al livello degli americani (fuck you Beccaria), dei cinesi e degli iraniani. Altro commovente ritorno al passato è il bisogno sempre più urgente di riaprire la case di tolleranza, non dei locali moderni adatti al caso ma 'quelle' case di una volta, con gli indimenticabili pisciatoi all'ingresso e la maîtresse che gridava "ragazzi in camera, non facciamo flanella!". Certo che se tutto potesse avvenire con l'oscuramento e magari il coprifuoco sarebbe più gustoso. A proposito, il concorso per le veline non fa pensare al sogno ricorrente delle ballerine di fila dell'indimenticabile avanspettacolo?

Nei primi anni Cinquanta, Roberto Leydi e io avevamo deciso di fondare una società antipatriottica. Era un modo di scherzare sull'educazione che avevamo ricevuto durante l'infausta dittatura, che la Patria ce l'aveva condita in tutte le salse, sino alla nausea. Inoltre stavano risorgendo gruppi neofascisti, e infine la televisione aveva un solo canale in bianco e nero e bisognava pure trovare un modo di passare le serate.

La società antipatriottica assumeva come proprio inno la marcia di Radetzky e si proponeva ovviamente di rivalutare la figura morale di quella limpida figura di antirisorgimentale; si auspicavano referendum per la restituzione del Lombardo Veneto all'Austria, di Napoli ai Borboni e naturalmente di Roma al papa, la cessione del Piemonte alla Francia e della Sicilia a Malta; si sarebbero dovuti abbattere nelle varie piazze d'Italia i monumenti a Garibaldi e cancellare i nomi delle vie intitolate sia a Cavour che a martiri e irredentisti vari; nei libri scolastici si dovevano insinuare fieri dubbi sulla moralità di Carlo Pisacane e di Enrico Toti. E via discorrendo. La società si era sciolta di fronte a una scoperta sconvolgente. Per essere veramente antipatriottici e volere la rovina d'Italia sarebbe stato necessario rivalutare il Duce, e cioè chi l'Italia l'aveva rovinata davvero, e dunque avremmo dovuto diventare neofascisti. Ripugnandoci questa scelta, avevamo abbandonato il progetto.

Noi allora facevamo per ridere ma quasi tutto quello che avevamo allora immaginato sta realizzandosi - anche se non ci era neppure passato per testa di voler fare con la bandiera nazionale quello che poi Bossi ha annunciato di voler fare, e non ci era venuta in mente l'idea veramente sublime di celebrare coloro che avevano ammazzato i bersaglieri a Porta Pia. A quei tempi c'erano i democristiani al governo che si occupavano di tenere la chiesa a freno per proteggere la laicità dello Stato, e il massimo di neo-clericalismo era stato l'appoggio dato da Togliatti al famigerato articolo 7 della Costituzione che riconosceva i patti lateranensi.

Già da un po' di anni si era sciolto il movimento dell'Uomo Qualunque che aveva sollecitato per un certo periodo sentimenti antiunitari, diffidenze verso una Roma corrotta e ladrona, o contro una burocrazia statale di fannulloni che succhiavano il sangue della brava gente e laboriosa. Non ci passava neppure per l'anticamera del cervello che atteggiamenti del genere sarebbero stati un giorno quelli dei ministri della Repubblica. Non avevamo avuto l'idea luminosa che per svuotare di ogni dignità e potere reale il parlamento bastava fare una legge per cui i deputati non venissero eletti dal popolo ma nominati prima delle elezioni dal capo. Ci pareva che auspicare un ritorno graduale alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni fosse idea troppo fantascientifica.

Volevamo disfare l'Italia, ma gradualmente, e pensavamo ci volesse almeno un secolo. Invece ci si è arrivati molto prima, e oltre all'Italia si sta persino disfacendo l'Alitalia. Ma la cosa più bella è stata che l'operazione non è dipesa dal colpo di Stato di una punta di diamante, dei pochi generosi idealisti che eravamo, ma si sta realizzando col consenso della maggioranza degli italiani.

(03 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Dei d'America
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 11:56:55 am
Umberto Eco.


Dei d'America


Prevale la tendenza a offrire i voti dei credenti a politici che, indifferenti ai valori religiosi, siano disposti a concedere il massimo alle richieste più rigide della chiesa che li sostiene  Uno dei maggiori divertimenti del visitatore europeo negli Stati Uniti è sempre stato sintonizzarsi la domenica mattina sui canali tv dedicati alle trasmissioni religiose. Chi non ha mai visto queste assemblee di fedeli rapiti in estasi, di pastori che lanciano anatemi e di gruppi di femmine che assomigliano a Woopy Goldberg e danzano ritmicamente gridando 'Oh Jesus', ne ha avuto forse un'idea vedendo recentemente 'Borat', ma ha creduto che si trattasse di una invenzione satirica, così come lo era la rappresentazione del Kazakistan. No, quello di Sacha Baron Cohen era un caso di 'candid camera', egli aveva ripreso quello che stava davvero accadendo intorno a lui. Insomma una di queste cerimonie dei fondamentalisti americani fa apparire il rito della liquefazione del sangue di San Gennaro come una riunione di studiosi dell'Illuminismo.

Alla fine degli anni Sessanta avevo visitato in Oklahoma la Oral Roberts University (Oral Roberts era uno di questi telepredicatori carismatici) dominata da una torre con una piattaforma rotante: i fedeli mandavano donazioni e, a seconda della somma, la torre emetteva nell'etere le loro preghiere. Per essere assunto come insegnante nell'università si doveva rispondere anzitutto a un questionario in cui appariva anche questa domanda: 'Do you speak in tongues?' ovvero 'avete il dono delle lingue, come gli apostoli?'. Si diceva di un giovane professore che aveva gran bisogno di lavoro, aveva risposto 'not yet, non ancora', ed era stato assunto in prova.

Le chiese fondamentaliste erano antidarwiniane, antiabortiste, sostenevano la preghiera obbligatoria nelle scuole, all'occorrenza erano antisemite e anticattoliche, in molti stati segregazioniste, ma sino a pochi decenni fa rappresentavano in fondo un fenomeno abbastanza marginale, limitato all'America profonda della 'Bible belt'. Il volto ufficiale del paese era rappresentato da governi attenti a separare politica e religione, dalle università, da artisti e scrittori, da Hollywood.

Nel 1980 Furio Colombo aveva dedicato ai movimenti fondamentalisti il suo 'Il Dio d'America', ma il libro era stato visto da molti più come una profezia pessimistica che non come il rapporto su una realtà preoccupantemente in crescita. Ora Colombo ha ripubblicato il libro (allegato alla 'Unità' di qualche settimana fa) con una nuova introduzione che questa volta nessuno potrà scambiare per una profezia. Secondo Colombo la religione ha fatto il suo ingresso nella politica americana nel 1979 nel corso della campagna che opponeva Carter a Reagan. Carter era un buon liberale ma era cristiano fervente, di quelli detti 'born again', rinati alla fede. Reagan era un conservatore, ma ex uomo di spettacolo, gioviale, mondano, e religioso solo perché andava in chiesa alla domenica. Ora era accaduto che l'insieme delle sette fondamentaliste si fosse schierato con Reagan, e Reagan aveva ripagato accentuando le sue posizioni religiose, per esempio nominando alla corte suprema giudici contrari all'aborto.

Ma del pari i fondamentalisti avevano iniziato a sostenere tutte le posizioni della destra, avevano sostenuto la lobby delle armi, si erano opposti alla assistenza medica e, attraverso i loro predicatori più fanatici, avevano sostenuto una politica bellicista, presentando persino la prospettiva di un olocausto atomico come necessario per sconfiggere il regno del male. Oggi la decisione di McCain, di scegliere una donna nota per le sue tendenze dogmatiche come vice presidente, e il fatto che almeno all'inizio i sondaggi abbiano premiato la sua decisione, va proprio in questa direzione.

Colombo fa però osservare che, mentre in passato i fondamentalisti si opponevano ai cattolici, ora i cattolici, e non solo in America, vanno sempre più avvicinandosi alle posizioni dei fondamentalisti (si veda per esempio il curioso ritorno all'antidarwinismo quando ormai la Chiesa aveva per così dire firmato un ampio armistizio con le teorie evoluzionistiche). E in effetti che la chiesa italiana si sia schierata non con il cattolico praticante Prodi, ma con un laico divorziato e gaudente, lascia pensare che anche in Italia predomini la tendenza a offrire i voti dei credenti a politici che, indifferenti ai valori religiosi, siano disposti a concedere il massimo alle richieste dogmaticamente più rigide della chiesa che li sostiene.

Viene da riflettere su un discorso del carismatico Pat Robertson nel 1986: "Voglio che voi pensiate a un sistema di scuole in cui l'insegnamento umanistico sarà completamente bandito, una società in cui la chiesa fondamentalista avrà assunto il controllo delle forze che determinano la vita sociale".

(17 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Voglia di morte
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 03:45:28 pm
Umberto Eco


Voglia di morte

La storia è stata ed è piena di persone che per religione, ideologia, o qualche altro motivo sono state pronte a morire per ammazzare, o più verosimilmente ad ammazzare per morire  Circa tre anni fa in una di queste bustine accennavo al libro di Robert Pape, 'Dying to win. The strategy and logic of suicide terrorism'. Da un lato vi si diceva che il terrorismo suicida nasce solo in territori occupati e come reazione all'occupazione (il terrorismo suicida si sarebbe arrestato, per esempio in Libano, appena terminata l'occupazione) ma dall'altro vi si ricordava che non è fenomeno solo musulmano - e Pape citava le Tigri Tamil dello Sri Lanka, e ventisette terroristi suicidi in Libano, tutti non islamici, laici e comunisti o socialisti.

D'altra parte gli anarchici italo-americani avevano pagato a Bresci, che andava a uccidere Umberto I, un biglietto di sola andata; nei primi secoli del cristianesimo c'erano i Circoncellioni, che assalivano i viandanti per avere il privilegio del martirio, e più tardi i Catari praticavano quel suicidio rituale che si chiamava 'endura'. Per arrivare infine alle varie sette dei giorni nostri (tutte del mondo occidentale), sulle quali ogni tanto si legge di intere comunità che scelgono il suicidio di massa. La storia è stata ed è piena di persone che per religione, ideologia, o qualche altro motivo sono state pronte a morire per ammazzare, o più verosimilmente ad ammazzare per morire. Visto che l'istinto di conservazione ce l'hanno tutti, e per superare questo istinto non basta l'odio per il nemico, non è così facile capire la personalità del kamikaze potenziale.

Tuttavia non ogni fenomeno terroristico ha comportato il suicidio. Non certo i terrorismi 'nazionalisti' (vedi irlandesi e baschi) dove, sia pure mettendo in conto l'eventualità di morire nel corso di un'azione, l'intento è di nuocere al nemico quanto più possibile senza mettere a rischio la propria vita. E pareva non ci fosse impulso suicida nel terrorismo italiano - anzi, a dirla tutta, gran parte di coloro ha poi cercato di salvare la pelle e di diminuire la propria pena denunciando i compagni. Non solo ma, tranne l'operazione di guerriglia vera e propria compiuta con il rapimento di Moro, l'azione del terrorista era sempre abbastanza sicura visto che si trattava di sparare a qualcuno privo di scorta mentre usciva di casa o saliva in macchina.


Se non c'era stata una pulsione suicida che cosa aveva allora spinto qualcuno a darsi alla clandestinità e a praticare l'omicidio politico? Si badi bene che ogni spiegazione ideologica tiene poco perché non solo oggi, col senno di poi, ma già allora qualsiasi persona di buon senso poteva capire che nessuna azione terroristica avrebbe potuto battere quello che i terroristi eleggevano a loro nemico principale, lo Stato delle multinazionali.

'Il vento dell'odio' di Roberto Cotroneo (Mondadori, euro 18) sembra puntare a un'altra lettura - e naturalmente in forma di romanzo perché non può appoggiarsi a documenti ma solo ipotizzare delle storie di famiglia. Cotroneo immagina due storie di famiglia abbastanza eccezionali, visto che uno dei suoi eroi negativi è figlio di un ex fascista diventato spia dei servizi segreti e l'altra di un militante di sinistra ambiguamente compromesso con traffici non limpidissimi con l'Est. Ma credo che la sua spiegazione della scelta terroristica come dovuta a impulsi autodistruttivi e a una reazione a problemi familiari si possa anche applicare a storie di famiglie ben più piatte e normali - anzi, meglio ancora.

Questa è la lettura a cui inizialmente il romanzo invita, almeno per le prime ottanta pagine, salvo che dopo compie un salto. Si passa dalla psicoanalisi alla dietrologia e inizia una storia paranoide e mozzafiato che vede dietro ai terroristi una immensa ragnatela di servizi variamente deviati in cui poco conta la connotazione ideologica e l'appartenenza nazionale, il tutto che si dipana tra Argentina e Parigi ma con un sottofondo amaro e continuo che è (terzo tema del romanzo) la permanenza di un eterno fascismo italiano.

Onestamente credo che sia il tema numero due quello che affascinerà maggiormente il lettore, ma chi come me attendeva un altro svolgimento troverà in vari momenti riconfermato quello che il romanzo gli suggeriva sin dall'inizio: che anche nel terrorismo nostrano funzionasse (sotterraneo ma potentissimo) un impulso suicida, "un'attrazione irresistibile verso la morte, quella data agli altri e quella che poteva capitare anche a noi". E quando uno dei protagonisti guarda morire un poliziotto a cui sparava l'ultimo colpo alla nuca, si dice: "Non lo facevamo perché volevamo un mondo migliore ma perché eravamo noi che volevamo morire, perché in quegli occhi ho visto me stesso, ho visto la mia ansia, la mia paura, il mio stare dentro quel vuoto, quell'odio di un paese irrisolto".

(31 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. ''Rasista mi? Ma se l'è lü che l'è negher!''
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 10:29:05 pm
Umberto Eco.


''Rasista mi? Ma se l'è lü che l'è negher!''


Dire che Obama è 'un nero' è una palese verità, dire che 'è nero' è già un'allusione al colore della pelle, dire che è abbronzato è una maligna presa in giro  Barack ObamaSi saranno forse calmate le discussioni a livello nazionale ma non a livello internazionale. Da amici di vari paesi accade di ricevere ancora e-mail in cui ci chiedono come mai il presidente Berlusconi abbia potuto commettere la storica gaffe, quando ha scherzato sul fatto che il nuovo presidente degli Stati Uniti, oltre che giovane e prestante, era anche abbronzato. Numerose persone si sono sforzate di dare una spiegazione per l'espressione usata da Berlusconi. Per i malevoli si andava dall'interpretazione catastrofica (Berlusconi voleva insultare il neo presidente) a quella formato 'trash': Berlusconi sapeva benissimo di fare una gaffe ma sapeva anche che il suo elettorato è quello che adora queste gaffe e lo trova simpatico proprio per questo. Quanto alle interpretazioni benevole andavano da quelle ridicolmente assolutorie (Berlusconi, devoto delle lampade abbronzanti, voleva lodare Obama), a quelle appena indulgenti (ha fatto una battuta innocente, non esageriamo).

Quello che gli stranieri non capiscono è perché Berlusconi, invece di difendersi dicendo che è stato frainteso e voleva dire altro (che sarebbe poi la sua tecnica abituale), ha insistito nel rivendicare la liceità della sua espressione. Ora l'unica risposta vera è che Berlusconi era effettivamente in buona fede, pensava di avere detto una cosa normalissima, e non vede ancora adesso che cosa ci fosse di male. Ha detto (pensa lui) che Obama era nero; e non è forse nero, e nessuno lo nega? Viene in mente la battuta dell'affittacamere milanese che rifiutava di dare il monocamera a un africano: 'Rasista a mi? Ma se l'è lü che l'è negher!'. A parte le battute, Berlusconi sembra sottintendere: che Obama sia nero è evidente, tutti gli scrittori neri in America si sono detti felici perché un nero va alla Casa Bianca, da tempo i neri di America ripetono che 'black is beautiful', nero e abbronzato sono la stessa cosa e quindi si può dire che 'tanned is beautiful'. O no? No. Vi ricorderete che i bianchi americani chiamavano 'negro' (pronuncia 'nigro') gli originari dell'Africa, e quando volevano esprimere il loro disprezzo dicevano 'nigger'. Poi i neri hanno ottenuto di essere chiamati 'black'; ma ancora oggi dei neri possono dire, per provocazione o per scherzo, che sono 'nigger'. Salvo che possono dirlo loro, ma se lo dice un bianco gli rompono la faccia. Così come ci sono dei gay che per qualificarsi provocatoriamente usano espressioni ben più denigratorie, ma se le usa uno che gay non è, come minimo si offendono.


Ora, dire che un nero è andato alla Casa Bianca costituisce una constatazione e può essere detto sia con soddisfazione che con odio, ma può essere detto da chiunque. Definire invece un nero come abbronzato è un modo di dire e non dire, e cioè di suggerire una differenza, senza osare chiamarla col suo nome. Dire che Obama è 'un nero' è una palese verità, dire che 'è nero' è già una allusione al colore della pelle, dire che è abbronzato è una maligna presa in giro.

Certo che Berlusconi non voleva creare un incidente diplomatico con gli Stati Uniti. Ma ci sono dei modi di dire o di comportarsi che servono a distinguere persone di diverse estrazioni sociali o diverso livello culturale. Sarà snobismo, ma in certi ambienti una persona che dice 'manàgment' è immediatamente connotata in senso negativo, e così chi dice 'università di Harvard' senza sapere che Harvard non è un luogo (poi ci sono addirittura quelli che pronunciano 'Haruard'); e dagli ambienti più esclusivi viene bandito chi scriva 'Finnegan's Wake' con il genitivo sassone. Un pochino come un tempo si individuavano come persone di bassa estrazione coloro che alzavano il mignolo mentre sollevavano il calice, se gli si offriva un caffè dicevano "a buon rendere" e invece di dire "mia moglie" dicevano "la mia signora".

Talora il comportamento tradisce un ambiente di origine: ricordo di un personaggio pubblico noto per la sua austerità che, alla fine di un mio discorso all'apertura di una mostra, è venuto a stringermi cordialmente la mano dicendomi "professore, non sa quanto mi ha fatto godere". Gli astanti hanno sorriso imbarazzati ma quella brava persona, avendo sempre frequentato persone timorate di Dio, non sapeva che quella espressione ormai si usa solo in senso carnale. Per quanto riguarda lo spirito si dice "è stato veramente un godimento intellettuale". "E non è la stessa cosa?", direbbe Berlusconi. No, i modi di dire non sono mai la stessa cosa.

Semplicemente Berlusconi non frequenta certi ambienti dove si sa che si può nominare l'origine etnica ma non alludere alla tinta della pelle, così come non si deve mangiare il pesce con il coltello.

(14 novembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Mumble mumble crash
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2008, 10:39:29 pm
Umberto Eco.


Mumble mumble crash


Il bello dell'onomatopea del fumetto è che non solo evoca il rumore originario col suono del termine o pseudo termine linguistico, ma ne rappresenta graficamente l'intensità  Arf arf bang crack blam buzz cai spot ciaf ciaf clamp splash crackle crackle crunch deleng gosh grunt honk honk cai meow mumble pant plop pwutt roaaar dring rumble blomp sbam buizz schranchete slam puff puff slurp smack sob gulp sprank blomp squit swoom bum thump plack clang tomp smash trac uaaaagh vrooom ..

Credo di appartenere alla prima generazione per cui questo linguaggio è stato familiare, spontaneo, immediato. Le onomatopee dei fumetti non c'erano nelle vignette del 'Corriere dei piccoli' su cui erano cresciuti i nostri genitori, appaiono con i fumetti americani de 'L'avventuroso' e poi col fumetto all'italiana. Abbiamo giocato gridando bang bang e zip zip, e abbiamo pronunciato suoni che ci evocavano certamente un rumore, un evento, senza sapere che in inglese erano anche parole, come mumble, clap, splash, slurp o rumble. Ci stupiva, e se ne discuteva, che le carabine facessero crack crack solo nei fumetti di Cino e Franco (altrove facevano bang o altri suoni) e non ci rendevamo conto che anche il quel caso il suono, in sé abbastanza iconico, era pur sempre una parola che poteva stare per schiocco o colpo.

L'idea che l'onomatopea oltre che immagine aurale di un suono potesse essere anche suggerimento lessicale è apparsa in Italia, se non sbaglio, solo con Jacovitti, che ha decisamente italianizzato il gioco e iniziato a scrivere 'schiaff schiaff'. Il bello dell'onomatopea del fumetto è che non solo evoca il rumore originario col suono del termine o pseudo termine linguistico, ma ne rappresenta graficamente l'intensità, come a dire che c'è una enorme differenza tra un semplice 'bum', un 'BUM' scritto a grandi caratteri e un 'boOOM', dove le lettere diventano via via sempre più visibili e carnose (e in tal caso l'esplosione è apocalittica).

Ho sempre amato le onomatopee dei fumetti e una volta ne ho raccolto circa 150 e le ho passate a Eugenio Carmi e a Cathy Berberian. Ne è uscito un libro-disco dove Carmi aveva dato delle onomatopee una rappresentazione visiva, quasi a renderne evidenti il timbro e le vibrazioni, e Cathy aveva elaborato quel pezzo prodigioso, poi eseguito dappertutto e ancora oggi oggetto di culto, noto come 'Stripsody', dove la musica era fatta solo dai suoni dei fumetti (ovvero dalla sua voce incredibile che li rendeva cantabili). Ma si giocava ancora su un numero limitato di onomatopee - e già credevo di averne individuate molte.

Ora Roman Gubern e Luis Gasca pubblicano un monumentale 'Diccionario de onomatopyas del cómic' (Madrid, Cattedra), più di 400 pagine in buona parte a colori, dove le onomatopee riprodotte e commentate sono più di mille. Anche questa rassegna sarebbe insufficiente, se si considera che Jacovitti vi appare solo tre volte e per tre modestissimi e prevedibili bang, un tompt e un hug, mentre avrebbe avuto ben altro da offrire, tanto per citare, blomp, prà (per un colpo di pistola secco), pamt, ponfete, slappete, cianft, svòff, ciunft, badabanghete, sdenghete, flup e (capolavoro) PÚgno.

Ma, Jacovitti a parte, nel libro di rumori ce ne sono abbastanza per giustificare il titolo dell'introduzione, 'De la onomatopeya como una bella arte'. I due autori non esitano a radicare la loro ricerca in una tradizione antichissima e più che rispettabile, il 'Cratilo' di Platone, dove come si sa viene iniziata la millenaria diatriba se le parole siano in qualche modo prodotte a imitazione delle cose che designano. Gasca e Gubern non riescono a evitare di citare Rimbaud con le sue vocali colorate, faccenda che col cratilismo non ha nulla a che vedere ma rinvia soltanto agli splendidi meccanismi allucinatori di quello spiritato ragazzo. Ma per il resto, benché a volo d'uccello, l'analisi dell'onomatopea fumettistica è fatta con acume, e il volume considera e registra anche fenomeni grafici come i 'sensogrammi', per esempio il ronfare del dormiente rappresentato dal tronco segato, o i casi che direi di onomatopea termica, come quando la nuvoletta stessa cola in stalattiti per suggerire il gelo, equivalendo così visivamente al suono 'brrrrivido'. Per non dire degli usi dell'onomatopea fatti da Roy Lichtenstein.

Gasca e Gubern osservano inoltre che l'uso inglese di legare il semantico col fonosimbolico ha portato i fumettisti d'oltreoceano a usare anche come suggerimento di suoni parole che di fatto non hanno alcuna somiglianza col rumore che nominano. Così noi ormai sentiamo come onomatopeico il chuckle chuckle, che significa sogghignare sotto i baffi. Aggiungerei anche il celebre mumble mumble che è bofonchiare o borbottare ma che, per virtù di Paperon dei Paperoni, è diventato il tipico rumore che fa chi rimugina tra sé e sé. Fanno rumore i pensieri? Nel fumetto sì.

(28 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Chiedere scusa
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 03:38:50 pm
Umberto Eco.

Chiedere scusa


Siamo in un periodo di facce di bronzo, in cui individui sotto inchiesta per azioni truffaldine si mostrano tranquillamente nei locali più famosi o in tv e rilasciano autografi  Avete mai provato a cercare su Internet la voce 'chiede scusa'? Sono un milione e 590 mila voci (di scusa) e tra le prime trovo: la chiesa chiede scusa per i preti pedofili, Gwyneth Paltrow chiede scusa agli animalisti, Giampiero Mughini chiede scusa ad Alex Del Piero, la chiesa anglicana chiede scusa a Darwin, la Virginia chiede scusa per il dramma della schiavitù, Ronaldo chiede scusa ma assicura di non essere gay, Kaladze ritratta e chiede scusa, la Warner Bros chiede scusa ai fan di Harry Potter, Apple chiede scusa per i disservizi (come Trenitalia), uno dei giovani aggressori di Tong Hong-shen, l'operaio tessile cinese picchiato a Tor Bella Monaca, si è recato in visita da Gianni Alemanno a chiedere scusa, il governo canadese ha chiesto ufficialmente scusa agli indiani Inuit per le violenze di cui sono stati vittima almeno 150 mila bambini indigeni, il sindaco di Zagabria chiede scusa a Udine, a nome dello Stato Matilde Pugliaro ha chiesto scusa per quello che è successo nella caserma di Bolzaneto nei giorni del G8, Rahm Emanuel, futuro capo di staff di Barack Obama, ha chiesto scusa per alcuni commenti anti-arabi fatti dal padre Benjamin, Schifani chiede scusa a Veltroni, la Fiat chiede scusa a Pechino per la pubblicità della Delta, il governo australiano ha chiesto scusa agli aborigeni.

Siccome in questo milione e mezzo di richieste di scusa Internet annota anche quelle degli anni scorsi, ricordiamoci che Berlusconi aveva chiesto scusa a Veronica, Benedetto XVI aveva chiesto scusa a Maometto, Giovanni Paolo II aveva chiesto scusa a Galileo (al che la terra si era gaiamente rimessa a girare intorno al sole).

Ma la notizia più fresca è questa: in un'intervista alla rete televisiva Abc, Bush ha chiesto scusa al popolo americano per avere intrapreso senza alcuna ragione la campagna in Iraq (dove sono morti più di 4 mila soldati americani, alcune centinaia di alleati, alcune centinaia di migliaia di iracheni e civili vari, e via, senza contare i feriti). Ha chiesto scusa di questo massacro perché si è reso conto che i terroristi non abitavano lì e che Saddam non preparava armi atomiche. Era colpa della 'intelligence' (da non tradurre come 'intelligenza').

Non ho capito se questa voga del chiedere scusa segnali una ventata di umiltà cristiana o non piuttosto di sfacciataggine: tu fai qualcosa che non dovresti fare, poi chiedi scusa e te ne lavi le mani. Viene in mente la vecchia barzelletta del cowboy che cavalca nella prateria, sente una voce dal cielo che gli impone di andare ad Abilene, arriva e la voce gli dice di entrare nel saloon, poi di puntare tutto il suo denaro alla roulette sul numero cinque, sia pure titubando, sedotto dalla voce celeste, il cowboy obbedisce, esce il 18 e la voce sussurra: "Mi spiace, abbiamo perso".

Comunque c'è di peggio, ci sono coloro con la faccia di bronzo che non domandano neppure scusa. Siamo in un periodo di facce di bronzo, in cui individui sotto inchiesta per azioni truffaldine si mostrano tranquillamente nei locali più famosi o in tv e rilasciano autografi, chi ha messo sul lastrico padri di famiglia e madri vedove continua a circolare imperterrito sull'aereo personale, chi è stato eletto con un colpo di mano a una funzione dove nessuno lo vuole continua a non alzare il sedere dalla sedia duramente conquistata e si fa persino la barba ogni giorno per mostrare la faccia in tv.

E ci sono gli impuniti storici. Forse vi ricorderete che quando Bush ha iniziato l'attacco all'Iraq molti hanno protestato, e addirittura i francesi si sono dissociati. A quel punto (non dico in America dove tutti erano ancora scossi per l'11 settembre, e reagivano cambiando nome nei ristoranti alle patate fritte che là si chiamavano French Fries), ma qui da noi voci virtuosissime si sono levate trattando da terroristi e quinte colonne di Bin Laden tutti coloro che vedevano con preoccupazione l'attacco americano.

Non solo, ma quando tempo dopo Bush ha trionfalmente annunciato che la guerra in Iraq era finita e vinta (altra patetica menzogna, e tra l'altro evidente a ogni persona di buon senso) i suoi sostenitori italiani hanno scritto articoli ironici rivolgendosi ai dubbiosi di un tempo e dicendo: "Vedete che avevamo ragione noi?". Argomento del tutto delirante perché, anche ammesso che una guerra la si sia vinta, ciò non significa affatto che si avevano buone ragioni per farla. All'inizio Hitler vinceva sempre, eppure aveva torto. Ora amerei sapere e vedere come reagiranno le facce di bronzo di casa nostra nel momento in cui Bush chiede scusa per i suoi errori.

(12 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Pensieri virtuosi per Natale
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2008, 05:35:38 pm
Umberto Eco.


Pensieri virtuosi per Natale


La scorsa Bustina parlavo del vezzo ormai troppo diffuso di 'chiedere scusa', prendendo a pretesto la richiesta di scuse per l'Iraq da parte di Bush pentito. Fare una cosa che non si dovrebbe e poi limitarsi a chiedere scusa non è sufficiente. Bisogna, tanto per cominciare, promettere di non farlo più. Bush non invaderà l'Iraq una seconda volta perché gli americani lo hanno gentilmente sollevato dall'incarico, ma forse se potesse lo farebbe ancora. Molti, che gettano il sasso e nascondono la mano, chiedono scusa proprio per continuare come prima. È che chiedere scusa non costa niente.

Un poco come la storia dei pentiti. Una volta chi si pentiva delle sue malefatte anzitutto riparava in qualche modo, poi si dedicava a una vita di penitenza, si rifugiava nella Tebaide a percuotersi il petto con sassi appuntiti, andava a curare i lebbrosi nell'Africa Nera. Oggi il pentito si limita a denunciare i suoi ex compagni, poi o gode di particolari cure con nuova identità in confortevoli appartamenti riservati, o esce in anticipo dal carcere e scrive libri, concede interviste, incontra capi di Stato e riceve lettere appassionate da fanciulle romantiche.

Sappiate che su 'http://www.sms-pronti.com/sms_scuse_3.htm ' trovate un sito dedicato alle 'Frasi per chiedere scusa'. La più lapidaria è 'S.C.U.S.A. Sono Chiaramente Uno Stronzo Ameno'. Su http://news2000.libero.it/noi2000/nc63.html, intitolato 'L'arte di chiedere scusa' (in effetti dedicato solo alle scuse per tradimento amoroso) si legge: "La regola più importante, quella universale, è di non sentirsi mai perdenti quando si chiede scusa. Chiedere perdono non è sinonimo di debolezza, ma di controllo e di forza, vuol dire tornare subito dalla parte della ragione, spiazzando il partner che si trova così costretto ad ascoltare. Ammettere i propri errori è anche un gesto liberatorio: aiuta a portare all'esterno le emozioni senza reprimerle e a viverle più intensamente". Come volevasi dimostrare: chiedere scusa è prender forza per ricominciare da capo.

Il problema è che, se chi ha fatto qualcosa di male è ancora vivente, chiede scusa di persona. Ma se è morto? Quando Giovanni Paolo II ha chiesto scusa per il processo a Galileo ha indicato la strada. Anche se l'errore l'aveva commesso un suo predecessore (o il cardinal Bellarmino), le scuse le chiede il legittimo erede. Ma non sempre è chiaro chi erede legittimo sia. Per esempio, chi deve chiedere scusa per la strage degli innocenti? Il colpevole è stato Erode, che governava a Gerusalemme: quindi l'unico suo legittimo erede è il governo israeliano. Invece, contrariamente a quanto ha finito col farci credere san Paolo, i veri e diretti responsabili della morte di Gesù non sono gli infami giudei, bensì il governo romano, e ai piedi della croce c'erano i centurioni e non i farisei. Scomparso un Sacro Romano Impero, unico erede rimasto del governo romano è lo Stato italiano, e pertanto sarà Napolitano a dover chiedere scusa per la crocifissione.

Chi chiede scusa per il Vietnam? È incerto se il prossimo presidente degli Stati Uniti o qualcuno della famiglia Kennedy, magari la simpatica Kerry. Per la rivoluzione russa e l'assassinio dei Romanov non ci sono dubbi perché l'unico vero fedele e legittimo erede del leninismo e dello stalinismo è Putin. E per la strage di San Bartolomeo? È la Repubblica francese in quanto erede della monarchia, ma siccome all'epoca la mente di tutta la faccenda era stata una regina, Caterina de' Medici, oggi il compito di chiedere scusa toccherebbe a Carla Bruni.

Ci sarebbero poi casi imbarazzanti. Chi chiede scusa per i guai combinati da Tolomeo, vero ispiratore della condanna di Galileo? Se, come si dice, è nato a Tolemaide che è in Cirenaica, lo scusante dovrebbe essere Gheddafi, ma se è nato ad Alessandria dovrebbe essere il governo egiziano. Chi chiede scusa per i campi di sterminio? Gli unici eredi viventi del nazismo sono i vari movimenti naziskin e questi non hanno proprio l'aria di volersi scusare, anzi, se potessero lo rifarebbero di nuovo.

E chi chiede scusa per l'assassinio di Matteotti e dei fratelli Rosselli? Il problema è chi siano oggi i 'veri' eredi del fascismo, e confesso che la questione m'imbarazza.

(24 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Reliquie per l'anno nuovo
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 04:46:55 pm
Umberto Eco.

Reliquie per l'anno nuovo


Conservarle non è un vezzo cristiano ma è stato tipico di ogni religione e cultura. Ecco quel che ho trovato navigando su Internet. Dal capo di San Giovanni Battista al Prepuzio di Gesù  Armando Torno, sul 'Corriere della sera' del 3 gennaio scorso, si intratteneva non solo sulle reliquie sacre ma anche su quelle laiche, dalla testa di Cartesio al cervello di Gorkij. Quello di conservar reliquie non è, come si crede comunemente, un vezzo cristiano, ma è stato tipico di ogni religione e cultura. Gioca nel culto delle reliquie una sorta di pulsione che definirei mito-materialistica, per cui si può ritrovare qualcosa del potere di un grande o di un santo toccando pezzi del suo corpo, dall'altro un normale gusto antiquario (per cui il collezionista è disposto a spendere capitali non solo per avere la prima copia edita di un libro famoso, ma anche quella appartenuta a una persona importante) e infine (come accade sempre più spesso nelle aste americane) i 'memorabilia' che possono essere sia i guanti (veri) di Jacqueline Kennedy sia quelli (falsi) indossati da Rita Hayworth in 'Gilda'. Infine c'è il fattore economico: il possesso di una reliquia famosa era nel Medioevo una preziosa risorsa turistica perché attraeva flussi di pellegrini, così come oggi una discoteca nell'entroterra riminese attrae turiste tedesche e russe. D'altra parte ho visto molti turisti a Nashville, Tennessee, venuti per ammirare la Cadillac di Elvis Presley. E dire che non era l'unica, perche ne cambiava una ogni sei mesi.

Forse preso da quello spirito natalizio di cui dicevo nella scorsa Bustina, all'Epifania, invece di andare (come tutti) su Internet per intercettare filmini porno, essendo di spirito umorale e bizzarro ho deciso di navigarvi alla ricerca di reliquie famose.

Per esempio, ora sappiamo che il capo di San Giovanni Battista è conservato nella Chiesa di San Silvestro in Capite a Roma, ma una tradizione precedente lo voleva nella cattedrale d'Amiens. Comunque il capo custodito a Roma sarebbe senza la mandibola, conservata nella cattedrale di San Lorenzo a Viterbo. Il piatto che ha accolto la testa del Battista è a Genova, nel tesoro della cattedrale di San Lorenzo, assieme alle ceneri del Santo, ma parte di queste ceneri sono anche conservate nella antica Chiesa del Monastero delle Benedettine di Loano, mentre un dito si troverebbe nel Museo dell'Opera del Duomo di Firenze, un braccio nella cattedrale di Siena, la mandibola a San Lorenzo in Viterbo. Dei denti uno sta nella cattedrale di Ragusa e un altro, insieme ad una ciocca di capelli, a Monza. Nessuna notizia degli altri trenta. Un'antica leggenda voleva che in qualche cattedrale fosse conservata la testa del Battista all'età di dodici anni, ma non mi risulta esista alcun documento ufficiale che confermi la diceria.

La Vera Croce è stata trovata a Gerusalemme da Sant'Elena, madre di Costantino. Sottratta dai Persiani nel VII secolo, recuperata dall'imperatore bizantino Eraclio, è stata poi portata dai Crociati sul campo di battaglia contro il Saladino. Malauguratamente ha vinto il Saladino, e della croce si sono perse le tracce per sempre. Tuttavia ne erano già stati prelevati vari frammenti. Dei chiodi, uno sarebbe conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. La corona di spine, a lungo conservata a Costantinopoli, è stata suddivisa nell'intento di donare almeno una spina a chiese e santuari diversi. La Sacra Lancia, già appartenuta a Carlo Magno e ai suoi successori, oggi si trova a Vienna. Il Prepuzio di Gesù era esposto a Calcata (Viterbo) fino a che nel 1970 il parroco ne ha comunicato il furto.

Ma hanno rivendicato il possesso della stessa reliquia Roma, Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Charroux, Conques, Langres, Anversa, Fécamp, Puy-en-Velay, Auvergne. Il sangue scaturito dalla ferita al costato, raccolto da Longino, sarebbe stato portato a Mantova, ma altro sangue è conservato nella Basilica del Sacro Sangue a Bruges. La Sacra Culla è a Santa Maria Maggiore (Roma), mentre come è noto la Sacra Sindone è a Torino. Le fasce del bambino Gesù sono ad Aquisgrana. La tovaglia usata da Cristo per la lavanda dei piedi degli Apostoli è sia nella chiesa romana di San Giovanni in Laterano sia in Germania, ad Acqs, ma non è escluso che Gesù abbia usato due tovaglie o abbia lavato i piedi due volte. In molte chiese sono conservati i capelli o il latte di Maria, l'anello delle nozze con Giuseppe sarebbe a Perugia, ma quello di fidanzamento è a Notre-Dame di Parigi.

A Milano si conservavano le spoglie dei Re Magi, ma nel XII secolo Federico Barbarossa le ha prese come bottino di guerra e portate a Colonia. Modestamente, ho raccontato questa storia nel mio romanzo 'Baudolino', ma non pretendo di far credere chi non crede.

(09 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Le contraddizioni dell'antisemita
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:31:03 pm
Umberto Eco.

Le contraddizioni dell'antisemita


Se l'ebreo sta di passaggio a casa sua gli dà noia, se sta fermo a casa propria gli dà noia lo stesso. E quel posto non è stato conquistato con la violenza bensì nel corso di lente migrazioni  Daniel BarenboïmDaniel Barenboïm ha chiesto a un gran numero di intellettuali di tutto il mondo di firmare un appello sulla tragedia che si sta consumando in Palestina. L'appello a prima vista è quasi ovvio, e chiede in fondo che si solleciti con tutti i mezzi possibili una mediazione energica. Ma è significativo che parta da un grande artista israeliano: segno che anche le menti più lucide e pensose di Israele chiedono che si rinunci a chiedersi da che parte stanno la ragione o il torto, e si dia vita alla convivenza di due popoli. Se è così, si potrebbero capire manifestazioni di protesta politica contro il governo israeliano, se non fosse che esse vanno di solito sotto il segno dell'antisemitismo. Se non sono i partecipanti stessi a fare professione esplicita di antisemitismo sono ormai i giornali su cui leggo, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, 'manifestazione antisemita ad Amsterdam' e cose del genere. La cosa sembra ormai così normale che pare anormale trovarla anormale. Però domandiamoci se definiremmo antiariana una manifestazione politica contro il governo Merkel, o antilatina una manifestazione contro il governo Berlusconi.

Non sarà nello spazio di una Bustina che si potrà trattare il millenario problema dell'antisemitismo, delle sue risorgenze per così dire stagionali, delle sue varie radici. Un atteggiamento che sopravvive per duemila anni ha qualcosa della fede religiosa, del credo fondamentalista, lo si potrebbe definire una delle tante forme di fanatismo che hanno ammorbato il nostro pianeta nel corso dei secoli. Se tanti credono nell'esistenza del diavolo che complotta per indurci a dannazione, perché non si dovrebbe credere al complotto ebraico per la conquista del mondo?

Ma mi piacerebbe fare un rilievo sul fatto che l'antisemitismo, come tutti gli atteggiamenti irrazionali e ciecamente fideistici, vive di contraddizioni, non le avverte, ma anzi se ne nutre senza imbarazzo. Per esempio nei classici dell'antisemitismo ottocentesco circolavano due luoghi comuni, entrambi usati a seconda dei casi: uno che l'ebreo, per il fatto di vivere in luoghi stretti e oscuri, era più sensibile dei cristiani a infezioni e malattie (e dunque pericoloso), l'altro che per misteriose ragioni si dimostrava più resistente a pestilenze e altre epidemie, oltre a essere sensualissimo e spaventosamente fecondo, e quindi era pericoloso come invasore del mondo cristiano.

C'era un altro luogo comune che veniva ampiamente trattato sia da destra che da sinistra, e prendo a modelli sia un classico dell'antisemitismo socialista (Toussenel, 'Les Juifs rois de l'époque' del 1847) che un classico dell'antisemitismo cattolico legittimista (Gougenot de Mousseaux, 'Le Juif, le judaïsme et la judaïsation des peuples chrétiens' del 1869). In entrambi si nota che gli ebrei non si sono mai dati all'agricoltura, rimanendo quindi avulsi dalla vita produttiva dello stato in cui soggiornavano; in compenso si erano completamente dedicati alla finanza e cioè al possesso dell'oro perché, essendo nomadi per natura, e pronti ad abbandonare lo stato che li ospitava, trascinati dalle loro speranze messianiche, potevano facilmente trasportare con sé ogni loro ricchezza.

Passeremo sotto silenzio che altri testi antisemiti dell'epoca, sino ai famigerati Protocolli, li accusavano di attentare alla proprietà fondiaria per impadronirsi dei campi - abbiamo detto che l'antisemitismo non teme le contraddizioni. Ma sta di fatto che una caratteristica saliente degli ebrei israeliani è che hanno coltivato le loro terre di Palestina con metodi modernissimi costruendo fattorie modello e che se si battono è proprio per difendere un territorio su cui vivono stanzialmente. Ed è proprio questo che se non altro l'antisemitismo arabo rimprovera loro, tanto è vero che si pone come progetto principale quello di distruggere lo stato di Israele.

Insomma per l'antisemita se l'ebreo sta di passaggio a casa sua gli dà noia, se sta fermo a casa propria gli dà noia lo stesso. So benissimo naturalmente quale è l'obiezione: quel posto dove sta Israele era territorio palestinese. Ma non è stato conquistato con la violenza e la decimazione degli autoctoni, come l'America del Nord, o addirittura con la distruzione di alcuni Stati retti da un loro legittimo monarca, come l'America del Sud, bensì nel corso di lente migrazioni e installazioni a cui nessuno si era opposto.

In ogni caso, se dà noia l'ebreo che, ogni volta che critichi la politica di Israele, ti accusa di antisemitismo, una sensazione ben più inquietante fanno coloro che traducono immediatamente ogni critica alla politica israeliana in termini di antisemitismo.

(23 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Sulla labilità dei supporti
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2009, 05:25:29 pm
Umberto Eco.


Sulla labilità dei supporti


Foto, pellicole, dischetti, cd-rom, dvd: non sappiamo quanto durino. Servono certo, ma i vecchi libri sono garanzia di memoria quando loro andranno in tilt  Domenica scorsa, nella giornata conclusiva della Scuola per Librai intitolata a Umberto ed Elisabetta Mauri, a Venezia, si è (tra l'altro) parlato della labilità dei supporti dell'informazione. Sono stati supporti di informazione scritta la stele egizia, la tavoletta d'argilla, il papiro, la pergamena e ovviamente il libro a stampa. Il quale ultimo ha mostrato sinora di sopravvivere bene per cinquecento anni, ma solo se si tratta di libri fatti con carta di stracci. Da metà Ottocento si è passati alla carta di legno, e pare che questa abbia una durata massima di settant'anni (e infatti basta prendere in mano giornali o libri del dopoguerra per vedere come molti di essi si sbriciolano appena li si sfoglia). Pertanto da tempo si fanno convegni e si studiano mezzi di vario tipo per salvare tutti i libri che affollano le nostre biblioteche, e uno dei più gettonati (ma quasi impossibile da realizzare per ogni libro esistente) è la scannerizzazione di tutte le pagine e il loro trasporto su supporto elettronico.

Ma qui viene fuori un altro problema: tutti i supporti per il trasporto e la conservazione dell'informazione, dalla foto alla pellicola cinematografica, dal disco sino alla chiavetta Usb che usiamo nel nostro computer, sono più deperibili del libro. Di alcuni di essi lo sappiamo: nelle vecchie audiocassette dopo un poco il nastro si attorcigliava, si tentava di disattorcigliarlo inserendo la matita nel buchino, ma spesso con risultati nulli; le videocassette perdono facilmente i colori e la definizione, e se le si usano troppe volte per studio, facendole andare avanti e indietro, si rovinano ancor prima. Abbiamo però avuto tempo ad accorgerci di quanto potesse durare un disco in vinile senza sfregiarsi troppo, ma non abbiamo avuto tempo di verificare quanto dura un Cd-rom dato che, salutato come invenzione che avrebbe sostituito il libro, è subito uscito dal mercato perché agli stessi contenuti si poteva accedere on line e a costo più conveniente. Non sappiamo quanto durerà un film in Dvd, sappiamo solo che talora inizia già a fare le bizze quando lo facciamo girare troppe volte. Così non abbiamo fatto in tempo ad accorgerci quanto potessero durare i dischi flessibili da computer: prima che lo scoprissimo sono stati sostituiti dalle dischette rigide, e queste dai dischi riscrivibili, e questi ancora dalle chiavette Usb. Con la sparizione dei vari supporti sono spariti anche i computer capaci di leggerli (credo che nessuno abbia più in casa un computer in cui ci sia la fessura per un floppy disk) e, se uno non ha per tempo trasferito sul supporto successivo tutto quello che aveva sul precedente (e via così, presumibilmente per sempre, ogni due o tre anni) lo ha irrimediabilmente perduto (a meno che non conservi in cantina una decina di computer obsoleti, uno per ogni supporto scomparso).

Quindi di tutti i supporti meccanici, elettrici ed elettronici o sappiamo che sono rapidamente perituri, o non sappiamo ancora quanto durino e probabilmente non lo sapremo mai.

Infine, basta uno sbalzo di corrente, un fulmine in giardino o qualche altro incidente assai più banale per smagnetizzare una memoria. Se ci fosse un black out abbastanza duraturo non potrei più usare alcuna memoria elettronica. Se pur avessi registrato sulla mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte, non potrei leggerlo alla luce di una candela, su di una amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate. E se mi cadono il computer o l'e-book dal quinto piano sono matematicamente sicuro di aver perso tutto, mentre se cade un libro al massimo si sfascia.

I supporti moderni sembrano mirare più alla diffusione dell'informazione che alla sua conservazione. Il libro invece è stato strumento principe della diffusione (si pensi al ruolo che ha avuto la Bibbia a stampa per la riforma protestante) ma al tempo stesso anche della conservazione. È possibile che tra qualche secolo l'unico modo per avere notizie sul passato, smagnetizzatisi tutti i supporti elettronici, sia ancora un bell'incunabolo. E, fra i libri moderni, sopravvivranno i molti fatti in carta pregiata, o quelli che ora vengono proposti da molti editori in 'free acid paper'.

Non sono un passatista. Su un hard disk portatile da 250 giga ho registrato i massimi capolavori della letteratura universale e della storia della filosofia: è molto più comodo ricuperare da lì in pochi secondi una citazione da Dante o dalla 'Summa Theologica' che non alzarsi e andare a prelevare un volume pesante da scaffali troppo alti. Ma sono lieto che quei libri rimangano nei miei scaffali, garanzia di memoria per quando gli strumenti elettronici andranno in tilt.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Perché ho il diritto di scegliere la mia morte
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2009, 11:11:17 am
LE IDEE

Perché ho il diritto di scegliere la mia morte

di UMBERTO ECO


BENCHE' il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall'altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.

Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell'altro, ma per protestare contro l'attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d'accordo.

Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi?
Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza.

In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro. Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all'esternazione.

Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma.

Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile - segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).

In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas...

Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall'eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l'avevo pensata era perché un poco ci credevo. Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero - e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un'anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che - morte e definitivamente alcune cellule - altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo.

Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l'alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita?

Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo. Visto che c'è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo.

Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere?

A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell'umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me.

La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all'infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre.

La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l'orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l'inferno - e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell'inferno.

Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell'incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale?

Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D'Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l'inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso.
E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale - e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità?

Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l'hanno amata più di quanto l'abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte. E all'amore che una morte può incarnare. "Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, - da la quale nullu homo vivente po' skappare: - guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; - beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, - ka la morte secunda no 'l farrà male".

(12 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Sulla labilità dei supporti
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:26:49 pm
Umberto Eco.


Sulla labilità dei supporti


Foto, pellicole, dischetti, cd-rom, dvd: non sappiamo quanto durino. Servono certo, ma i vecchi libri sono garanzia di memoria quando loro andranno in tilt  Domenica scorsa, nella giornata conclusiva della Scuola per Librai intitolata a Umberto ed Elisabetta Mauri, a Venezia, si è (tra l'altro) parlato della labilità dei supporti dell'informazione. Sono stati supporti di informazione scritta la stele egizia, la tavoletta d'argilla, il papiro, la pergamena e ovviamente il libro a stampa. Il quale ultimo ha mostrato sinora di sopravvivere bene per cinquecento anni, ma solo se si tratta di libri fatti con carta di stracci. Da metà Ottocento si è passati alla carta di legno, e pare che questa abbia una durata massima di settant'anni (e infatti basta prendere in mano giornali o libri del dopoguerra per vedere come molti di essi si sbriciolano appena li si sfoglia). Pertanto da tempo si fanno convegni e si studiano mezzi di vario tipo per salvare tutti i libri che affollano le nostre biblioteche, e uno dei più gettonati (ma quasi impossibile da realizzare per ogni libro esistente) è la scannerizzazione di tutte le pagine e il loro trasporto su supporto elettronico.

Ma qui viene fuori un altro problema: tutti i supporti per il trasporto e la conservazione dell'informazione, dalla foto alla pellicola cinematografica, dal disco sino alla chiavetta Usb che usiamo nel nostro computer, sono più deperibili del libro. Di alcuni di essi lo sappiamo: nelle vecchie audiocassette dopo un poco il nastro si attorcigliava, si tentava di disattorcigliarlo inserendo la matita nel buchino, ma spesso con risultati nulli; le videocassette perdono facilmente i colori e la definizione, e se le si usano troppe volte per studio, facendole andare avanti e indietro, si rovinano ancor prima. Abbiamo però avuto tempo ad accorgerci di quanto potesse durare un disco in vinile senza sfregiarsi troppo, ma non abbiamo avuto tempo di verificare quanto dura un Cd-rom dato che, salutato come invenzione che avrebbe sostituito il libro, è subito uscito dal mercato perché agli stessi contenuti si poteva accedere on line e a costo più conveniente. Non sappiamo quanto durerà un film in Dvd, sappiamo solo che talora inizia già a fare le bizze quando lo facciamo girare troppe volte. Così non abbiamo fatto in tempo ad accorgerci quanto potessero durare i dischi flessibili da computer: prima che lo scoprissimo sono stati sostituiti dalle dischette rigide, e queste dai dischi riscrivibili, e questi ancora dalle chiavette Usb. Con la sparizione dei vari supporti sono spariti anche i computer capaci di leggerli (credo che nessuno abbia più in casa un computer in cui ci sia la fessura per un floppy disk) e, se uno non ha per tempo trasferito sul supporto successivo tutto quello che aveva sul precedente (e via così, presumibilmente per sempre, ogni due o tre anni) lo ha irrimediabilmente perduto (a meno che non conservi in cantina una decina di computer obsoleti, uno per ogni supporto scomparso).

Quindi di tutti i supporti meccanici, elettrici ed elettronici o sappiamo che sono rapidamente perituri, o non sappiamo ancora quanto durino e probabilmente non lo sapremo mai.

Infine, basta uno sbalzo di corrente, un fulmine in giardino o qualche altro incidente assai più banale per smagnetizzare una memoria. Se ci fosse un black out abbastanza duraturo non potrei più usare alcuna memoria elettronica. Se pur avessi registrato sulla mia memoria elettronica tutto il Don Chisciotte, non potrei leggerlo alla luce di una candela, su di una amaca, in barca, nella vasca da bagno, in altalena, mentre un libro mi consente di farlo anche nelle condizioni più disagiate. E se mi cadono il computer o l'e-book dal quinto piano sono matematicamente sicuro di aver perso tutto, mentre se cade un libro al massimo si sfascia.

I supporti moderni sembrano mirare più alla diffusione dell'informazione che alla sua conservazione. Il libro invece è stato strumento principe della diffusione (si pensi al ruolo che ha avuto la Bibbia a stampa per la riforma protestante) ma al tempo stesso anche della conservazione. È possibile che tra qualche secolo l'unico modo per avere notizie sul passato, smagnetizzatisi tutti i supporti elettronici, sia ancora un bell'incunabolo. E, fra i libri moderni, sopravvivranno i molti fatti in carta pregiata, o quelli che ora vengono proposti da molti editori in 'free acid paper'.

Non sono un passatista. Su un hard disk portatile da 250 giga ho registrato i massimi capolavori della letteratura universale e della storia della filosofia: è molto più comodo ricuperare da lì in pochi secondi una citazione da Dante o dalla 'Summa Theologica' che non alzarsi e andare a prelevare un volume pesante da scaffali troppo alti. Ma sono lieto che quei libri rimangano nei miei scaffali, garanzia di memoria per quando gli strumenti elettronici andranno in tilt.

(06 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Il futurismo non è stata una catastrofe
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 03:29:20 pm
Umberto Eco

Il futurismo non è stata una catastrofe


Riflessioni sulla mostra di Milano. I grandi eventi di cui i fatti sono diventati simbolo stavano maturando per lento gioco di influenze, crescite e disfacimenti. Le catastrofi di domani maturano già oggi  Carlo Carrà Il cavaliere rossoNel centenario del Manifesto Futurista molte mostre si sono aperte per ricordare e rivalutare il movimento, e sono note le polemiche sul modo in cui la mostra di Parigi avrebbe considerato i futuristi come epigoni del cubismo mentre le varie esposizioni italiane cercano di sottolineare la loro originalità e diversità. Tra tutte le mostre mi sembra spicchi per vari motivi quella organizzata a Palazzo Reale a Milano.

Non ricordo quale giornale, nel recensirla, si è lamentato che vi mancassero i grandi incunaboli del movimento, come a dire il 'Dinamismo di un foot-baller' di Boccioni o i 'Funerali dell'anarchico Galli' di Carrà, ma la cosa non dovrebbe disturbare, e non perché quelle sono opere che si sono viste esposte molte volte, ma perché la mostra fa vedere qualche cosa di meglio e di più. Invece di certe opere maggiori fa vedere che cosa c'era prima del futurismo e accanto a esso, specie nella Milano in cui si è sviluppato prima di approdare in Francia.

La mostra si diffonde anche sul dopo-futurismo, sino ad alcuni nostri importanti contemporanei, ma, se è ovvio che una tradizione artistica crei sempre delle influenze, è meno ovvio quello che accadeva prima del fatidico 1909.

In fondo noi siamo stati abituati a pensare che prima ci fossero i realisti alla Michetti che piacevano a D'Annunzio, i ritrattisti per signore alla Boldini, i simbolisti o i divisionisti decadenti alla Previati, tutti che piacevano ai buoni borghesi che frequentavano musei e gallerie; e poi di colpo ci sarebbe stato uno scossone inatteso, uno di quei rivolgimenti rapidi che mutano la storia, come le rivoluzioni, o la natura, come i cataclismi, e sono apparse le avanguardie storiche, tra cui in Italia il futurismo.

Molti conoscono la teoria matematica delle 'catastrofi' teorizzata da Thom: una catastrofe, in tal senso, è come una brusca 'piega' per cui prima non c'era niente e dopo c'è tutto, o viceversa. In tal senso sono catastrofi il sonno o la morte (monsieur de la Palisse un momento prima di morire era ancora vivo) ma anche, secondo alcune interpretazioni, vari eventi storici come per esempio le sommosse, o moti come una rivolta nelle carceri (e sarebbe catastrofe anche una guarigione miracolosa). Ora la mostra milanese ci fa toccare con mano che il futurismo non è stato una catastrofe.


Basta guardare le opere esposte per accorgersi come (per non dire delle forme in liquefazione di uno scultore di fine Ottocento come Medardo Rosso) nei primi anni del Novecento, e prima che appaiano i grandi capolavori del futurismo, proprio mentre Carrà, Balla o Boccioni dipingono ancora i loro quadri figurativi (in cui la critica ha da tempo riconosciuto i germi del futurismo a venire) l'annuncio del dinamismo futurista si annida là dove di solito non lo si attende o non lo si andava a cercare.

Nel 1904 Pellizza da Volpedo fa un 'Automobile al passo del Penice' dove l'automobile quasi non si vede ma si vede una strada che scorre per veloci striature di pennello, nel 1907 Previati dipinge un 'Carro del sole' che al suo estenuato simbolismo unisce una rappresentazione tangibile del movimento veloce e convulso dell'astro. E sono solo alcuni esempi, ma è come se gli ultimi simbolisti come Alberto Martini annunciassero i futuristi e i futuri futuristi tenessero ancora d'occhio divisionisti e simbolisti.

Per non dire di un Angelo Romani che tra 1904 e 1907 elabora ritratti e forme indefinibili chiamate 'Urlo' e 'Libidine' che non riesco a definire se non simbo-futu-espressio-astrattiste, molto più azzardate dei dipinti futuristi a venire, - e si capisce allora perché il Romani aderirà al manifesto futurista per poi dissociarsene, come se oscuramente cercasse altre cose.

La mostra milanese suggerisce molte riflessioni al di là della vicenda dei movimenti artistici. È che siamo stati abituati, dalla storia detta 'evenemenziale', a vedere tutti i grandi eventi storici appunto come catastrofi: quattro sanculotti danno l'assalto alla Bastiglia e scoppia la rivoluzione francese, qualche migliaio di scalzacani (ma pare che la foto sia stata artefatta) danno l'assalto al Palazzo d'Inverno e scoppia la rivoluzione russa, sparano a un arciduca e gli alleati si accorgono di non potere convivere con gli Imperi Centrali, ammazzano Matteotti e il fascismo decide di trasformarsi in dittatura.

Invece sappiamo che i fatti che sono serviti di pretesto o, per così dire, di segnalibro per poter fissare l'inizio di qualcosa, avevano un'importanza minore, e che i grandi eventi di cui sono diventati simbolo stavano maturando per lento gioco di influenze, crescite e disfacimenti.

La storia è lutulenta e viscosa. Cosa da tenere sempre a mente, perché le catastrofi di domani stanno sempre maturando già oggi, sornionamente.

(20 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. La leggenda della terra piatta
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2009, 10:44:46 am
LA POLEMICA

La leggenda della terra piatta

di UMBERTO ECO


Una interpretazione che trova le sue radici nelle polemiche positivistiche ottocentesche, vuole che il Medioevo abbia rimosso tutte le scoperte scientifiche dell'antichità classica per non contraddire la lettera delle sacre scritture. È vero che alcuni autori patristici hanno cercato di dare una lettura assolutamente letterale della Scrittura là dove essa dice che il mondo è fatto come un tabernacolo. Per esempio nel IV secolo Lattanzio (nel suo Institutiones divinae), su queste basi si opponeva alle teorie pagane della rotondità della terra, anche perché non poteva accettare l'idea che esistessero degli Antipodi dove gli uomini avrebbero dovuto camminare con la testa all'ingiù.
E idee analoghe aveva sostenuto Cosma Indicopleuste, un geografo bizantino del VI secolo, che nella sua Topografia Cristiana, sempre pensando al tabernacolo biblico, aveva accuratamente descritto un cosmo di forma cubica, con un arco che sovrastava il pavimento piatto della Terra.

Ora, che la terra fosse sferica, tranne alcuni presocratici, lo sapevano già i greci, sin dai tempi di Pitagora, che la riteneva sferica per ragioni mistico-matematiche. Lo sapeva naturalmente Tolomeo, che aveva diviso il globo, ma lo avevano già capito Parmenide, Eudosso, Platone, Aristotele, Euclide, Archimede, e naturalmente Eratostene, che nel terzo secolo avanti Cristo aveva calcolato con una buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre.

Tuttavia si è sostenuto (anche da parte di seri storici della scienza) che il Medioevo aveva dimenticato questa nozione antica, e l'idea si è fatta strada anche presso l'uomo comune, tanto è vero che ancora oggi, se domandiamo a una persona anche colta che cosa Cristoforo Colombo volesse dimostrare quando intendeva raggiungere il levante per il ponente, e che cosa i dotti di Salamanca si ostinassero a negare, la risposta, nella maggior parte dei casi, sarà che Colombo riteneva che la terra fosse rotonda, mentre i dotti di Salamanca ritenevano che la terra fosse piatta e che dopo un breve tratto le tre caravelle sarebbero precipitate dentro l'abisso cosmico.

In verità a Lattanzio nessuno aveva prestato troppa attenzione, a cominciare da Sant'Agostino il quale lascia capire per vari accenni di ritenere la terra sferica, anche se la questione non gli sembrava spiritualmente molto rilevante. Caso mai Agostino manifestava seri dubbi sulla possibilità che potessero vivere esseri umani ai presunti antipodi. Ma che si discutesse sugli antipodi è segno che si stava discutendo su un modello di terra sferica.
Quanto a Cosma, il suo libro era scritto in greco, una lingua che il medioevo cristiano aveva dimenticato, ed è stato tradotto in latino solo nel 1706. Nessun autore medievale lo conosceva.

Nel VII secolo dopo Cristo Isidoro di Siviglia (che pure non era un modello di acribìa scientifica) calcolava la lunghezza dell'equatore in ottantamila stadi. Chi parla di circolo equatoriale evidentemente assume che la terra sia sferica.

Anche uno studente di liceo può facilmente dedurre che, se Dante entra nell'imbuto infernale ed esce dall'altra parte vedendo stelle sconosciute ai piedi della montagna del Purgatorio, questo significa che egli sapeva benissimo che la terra era sferica, e che scriveva per lettori che lo sapevano. Ma della stessa opinione erano stati Origene e Ambrogio, Beda, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, Ruggero Bacone, Giovanni di Sacrobosco, tanto per citarne alcuni. La materia del contendere ai tempi di Colombo era che i dotti di Salamanca avevano fatto calcoli più precisi dei suoi, e ritenevano che la terra, tondissima, fosse più ampia di quanto il nostro genovese credesse, e che quindi fosse insensato cercare di circumnavigarla. Naturalmente né Colombo né i dotti di Salamanca sospettavano che tra l'Europa e l'Asia stesse un altro continente.

Tuttavia proprio nei manoscritti di Isidoro appariva la cosiddetta mappa a t, dove la parte superiore rappresenta l'Asia, in alto, perché in Asia stava secondo la leggenda il Paradiso terrestre, la barra orizzontale rappresenta da un lato il Mar Nero e dall'altro il Nilo, quella verticale il Mediterraneo, per cui il quarto di cerchio a sinistra rappresenta l'Europa e quello a destra l'Africa. Tutto intorno sta il gran cerchio dell'Oceano. Naturalmente le mappe a t sono bidimensionali, ma non è detto che una rappresentazione bidimensionale della terra implichi che la si ritenga piatta, altrimenti a una terra piatta crederebbero anche i nostri atlanti attuali. Si trattava di una forma convenzionale di proiezione cartografica, e si riteneva inutile rappresentare l'altra faccia del globo, ignota a tutti e probabilmente inabitata e inabitabile, così come noi oggi non rappresentiamo l'altra faccia della Luna, di cui non sappiano nulla.
Infine, il Medioevo era epoca di grandi viaggi ma, con le strade in disfacimento, foreste da attraversare e bracci di mare da superare fidandosi di qualche scafista dell'epoca, non c'era possibilità di tracciare mappe adeguate. Esse erano puramente indicative. Spesso quello che preoccupava maggiormente l'autore non era di spiegare come si arriva a Gerusalemme, bensì di rappresentare Gerusalemme al centro della terra.

Infine si cerchi di pensare alla mappa delle linee ferroviarie che propone un qualsiasi orario in vendita nelle edicole. Nessuno da quella serie di nodi, in se chiarissimi se si deve prendere un treno da Milano a Livorno (e apprendere che si dovrà passare per Genova), potrebbe estrapolare con esattezza la forma dell'Italia. La forma esatta dell'Italia non interessa a chi deve andare alla stazione (...).
Si veda ora questa immagine del Beato Angelico nel duomo di Orvieto. Il globo (di solito simbolo del potere sovrano) tenuto in mano da Gesù rappresenta una Mappa a T rovesciata. Se si segue lo sguardo di Gesù si vede che egli sta guardando il mondo e quindi il mondo è rappresentato come lo vede lui dall'alto e non come lo vediamo noi, e quindi capovolto. Se una mappa a T appare sulla faccia di un globo vuole dire che essa era intesa come rappresentazione bidimensionale di una sfera.


(23 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Maledetti romeni
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 12:30:56 am
Umberto Eco


Maledetti romeni


Lo erano la Franzonescu di Cogne, i coniugi di Erba Olindu e Roza, Sindoara e Calvuli. E poi Badalamentu, Provenzanul, Liggiu. Hanno distrutto l'immagine di un paese di persone oneste.

Il Viminale ha cercato di emettere alcuni comunicati imbarazzati secondo cui, a proposito dei casi di stupro, nel 60,9 per cento sono responsabili cittadini italiani (e peraltro i sociologi sapevano già che la stragrande maggioranza degli stupri avviene in famiglia, e bene hanno fatto Berlusconi, Casini, Fini e altri a divorziare, per evitare situazioni così drammatiche). Per il resto, visto che sono di moda i romeni, pare che essi siano responsabili solo per il 7,8 per cento mentre un buon 6,3 per cento se lo aggiudicano i marocchini (che peraltro, come ci hanno insegnato Moravia e Sophia Loren, la loro parte l'avevano già fatta più di 60 anni fa).

Non ce la vengano a raccontare. E allora le ronde? Le facciamo contro i bergamaschi? Sarà opportuno ricordare la nefasta partecipazione dei romeni, subito dopo la guerra, alla strage di Villarbasse, ma per fortuna allora esisteva ancora la pena di morte e giustamente sono stati fucilati La Barberu, Johann Puleu, Johan L'Igntolui, e Franzisku Sapuritulu. Romena era certo Leonarda Cianciullui, la saponificatrice e, come dice il nome chiaramente straniero, romena doveva essere Rina Fort, l'autrice della strage di via San Gregorio nel 1946. Per non dire dell'origine romena della contessa Bellentani (che da nubile faceva Eminescu) che nel 1948 sparava sull'amante a Villa d'Este.

Romena non era Maria Martirano ma certamente lo era il sicario Raoul Ghianu che, su mandato di Giovanni Fenarolu, l'ha uccisa nel 1958 (tutti ricorderanno il delitto di via Monaci) e romeno era il maestro Arnaldu Graziosul che nel 45 aveva ucciso, si dice, la moglie a Fiuggi. Romeno era il Petru Cavalleru che con la sua gang aveva compiuto un'audace e sanguinosa rapina a Milano, e romeni erano i membri della sciagurata banda di via Osoppo. Benché mai scoperti, romeni erano gli attentatori della Banca dell'Agricoltura (certamente romeni erano Fredu e Venturu) e gli autori della strage alla stazione di Bologna. Romeni erano stati i sospetti di corruzione di giudici come il Previtului e il Berluschescu, romeno il ragazzo Masu che nel 1991 aveva ammazzato i genitori e i due ragazzi Erika (tipico nome extracomunitario) e Omar (romeno e musulmano per giunta!) che avevano ucciso madre e fratello di lei a Novi Ligure.


Romena era senza ombra di dubbio la signora Franzonescu di Cogne, i due coniugi di Erba Olindu e Roza, romeni erano sia Sindoara e Calvuli che i loro uccisori, romeni i banchieri che recentemente hanno portato al fallimento tanti risparmiatori, romeni i bambini di Satana, romeni i miserabili che gettavano pietre dai ponti dell'autostrada, romeni i sacerdoti pedofili, romeno l'assassino del commissario Calabresi, romeni i rapitori e uccisori di Moro, Casalegno, Bachelet, Tobagi, Biagi e altri, romeni gli assassini di Pecorelli e la banda della Uno bianca, e per concludere romeni gli assassini di Mattei, del bandito Giuliano, di Pisciotta, di Mauro De Mauro, dei fratelli Rosselli e di Matteotti.

Romeni erano Giulianu e gli autori della strage di Portella delle Ginestre, i colpevoli del caso Wilma Montesi (ricordate il cupo Piccionului?) gli sparatori dei morti di Reggio Emilia, i golpisti del Piano Solo; romeni erano i compagni di merende del mostro di Scandicci, gli autori degli attentati a Falcone e a Borsellino e del massacro di piazza della Loggia a Brescia, della strage dell'Italicus e di quella di Ustica, dell'omicidio Pasolini (forse anche Rom); romeni i gambizzatori di Montanelli, i commandos di via Fani e gli assassini di Moro, Coco, Occorsio, Alessandrini, Guido Rossa, Peppino Impastato, Pippo Fava, Piersanti Mattarella, Mino Pecorelli, Giorgio Ambrosoli, Ezio Tarantelli, Salvo Lima, don Pino Puglisi, Ilaria Alpi, Massimo d'Antona, Carlo Giuliani; romeni erano ovviamente l'attentatore del papa (agente dell'associazione Lupu Grigiu) e i massacratori di Dalla Chiesa e signora, romeno il rapitore di Emanuela Orlandi. Romeni infine tutti gli appartenenti al clan di Timisoara, Badalamentu, Provenzanul, Liggiu, Bontadeu, Rijnara, romeni gli strangolatori nazifascisti Tutu e Concutellului, evidentemente aderenti alle Guardie di Ferro di Codreanu.

Questi romeni hanno distrutto l'immagine di un paese di persone oneste, timorate di Dio, aliene dalla violenza, rispettose delle differenze etniche, religiose e politiche. Meno male che finalmente ci siamo accorti che i colpevoli erano loro altrimenti avremmo continuato a scavare tra i faldoni delle procure italo-sovietiche senza cavarne nulla, mentre ora con una buona organizzazione di ronde leghiste potremo finalmente ripristinare legge e ordine in questo nostro sfortunato paese.

(06 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Berlusconi e Pistorius
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2009, 12:07:43 pm
Umberto Eco.


Berlusconi e Pistorius


Nell'uso del corpo da parte del premier prevale l'elemento 'cyborg', l'alterazione dei propri tratti naturali, dai trapianti piliferi ai lifting  Silvio BerlusconiLa letteratura su Berlusconi è abbastanza ampia. Tra i pamphlets più recenti segnalo quello che ho appena visto in bozze (uscirà presso Manifestolibri) 'Fenomenologia di Silvio Berlusconi', di Pierfranco Pellizzetti, che spazia dall'estetica alla sessualità del leader, con intemerata cattiveria. Già uscito è invece 'Il corpo del capo' di Marco Belpoliti (Guanda, 12 euro) che considera solo un aspetto peculiarissimo del personaggio, il suo rapporto col proprio corpo e la rappresentazione che egli continuamente ne dà.

Benché possa sembrare strano, non tutti i capi hanno un corpo: basti pensare a un grande leader come De Gasperi, di cui certo chi ha vissuto negli anni Cinquanta ricorda la bruttezza grifagna, ma limitata ai tratti del viso. Andate a vedere il suo monumento a Trento, egli non ha corpo a tal segno che scompare sotto un abito Facis stazzonato. Ma d'altra parte non avevano corpo (al massimo un volto riconoscibile) i leader del passato, da Nenni a Fanfani, e persino Togliatti il cui indubitabile carisma era per lo più di carattere intellettuale.

Ma questo vale anche per gli altri paesi: nessuno si ricorda del corpo di quasi tutti i presidenti francesi, salvo quello di de Gaulle (ma semplicemente a causa della statura e del naso quasi caricaturali), degli inglesi rimane l'immagine di Churchill, ma più che altro la faccia di buon bevitore con sigaro, per il resto solo un vago ricordo d'obesità; nessuna corporalità aveva Roosevelt (se non in senso negativo, perché era disabile), Truman sembrava un agente delle assicurazioni, Einsenhower uno zio, e il primo a giocare sul proprio fisico (ma, ancora una volta, solo col volto) è stato Kennedy, che ha vinto su Nixon per qualche inquadratura televisiva ben centrata.

Avevano un corpo i grandi leader del passato? Ad alcuni, come ad Augusto, lo ha regalato la statuaria, di altri si può supporre che avessero preso il potere perché erano forti e dotati di qualche ascendente non sul popolo (che non aveva occasione di vederli) ma sul loro entourage. Per il resto provvedeva la leggenda, per esempio attribuendo ai monarchi francesi la virtù di guarire la scrofola. Ma non credo che Napoleone abbia trascinato i suoi soldati al massacro per virtù somatica.


Perché un capo assuma un corpo e della immagine di quel corpo si occupi quasi maniacalmente (si badi, non solo il viso, tutto il corpo) bisogna attendere l'era delle comunicazioni di massa, a cominciare dalla fotografia.

Ed ecco che si può iniziare, come fa del resto Belpoliti, a studiare il rapporto di Mussolini col proprio corpo, talmente consustanziale al suo potere che, per sancirne la caduta, si deve per così dire rovesciare il suo ascendente somatico e sfregiarne il corpo appendendolo a testa in giù.

Se ci sono analogie tra Berlusconi e Mussolini (intendiamoci, per non scandalizzare nessuno, non perché Berlusconi sia 'fascista', ma perché come Mussolini vuole stabilire un rapporto populistico con la folla, scavalcando le istituzioni parlamentari, abolendole in un caso, svilendole nell'altro) è proprio nella cura quasi maniacale della propria immagine. Non intendo seguire le analisi di Belpoliti che si svolgono di preferenza sulla fotografia, dai tempi in cui Berlusconi cantava sulle navi ai giorni nostri, e al massimo lamento che a tanta abbondanza di analisi non corrisponda quell'abbondanza di immagini che il lettore è portato a desiderare (ce ne sono una ventina, veramente 'parlanti', ma dopo questo assaggio si vorrebbe davvero di più).

Come indicazioni di lettura suggerirò le belle analisi delle mani, del sorriso, la inattesa e provocatoria trattazione sul lato femminile del personaggio, gli ovvi sviluppi sulla cultura del narcisismo (Belpoliti fa ricorso ad autorità e fonti di vario genere, da Jung a Foucault e a Sennett), le annotazioni sull'uso della famiglia come prolungamento (sempre accessorio) della propria corporalità.

Caso mai la differenza fondamentale tra Mussolini e Berlusconi è che il primo, divise a parte, usava il proprio corpo, torso nudo compreso, come mamma lo aveva fatto, al massimo accentuando baldanzosamente la propria calvizie, mentre in Berlusconi prevale l'elemento 'cyborg', la progressiva alterazione dei propri tratti naturali (Belpoliti accenna ad una singolare analogia tra Berlusconi e Oscar Pistorius, il corridore con le gambe artificiali), dai trapianti piliferi ai lifting, per consegnarsi ai propri devoti in una immagine mineralizzata che si vorrebbe senza età. Aspirazione all'eterno curiosa per chi alla fine Belpoliti analizza come "stella permanente dell'effimero".

(20 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. La lista aperta
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:10:48 am
Umberto Eco

La lista aperta

La proposta della lista aperta per i concorsi universitari, di cui si parla ormai da vent'anni, potrebbe finalmente diventare realtà  Un fantasma si aggira per l'Italia, e da almeno vent'anni: è la proposta della lista aperta per i concorsi universitari. Adesso pare che finalmente l'idea venga presa sul serio. Era ora. Non pretendo di essere stato il primo, ma sono tra coloro che propongono la lista aperta da quasi vent'anni. In ogni caso ritrovo una Bustina del marzo 1994 dove si racconta che con alcuni colleghi si era proposta la lista aperta al ministero competente (credo che ci fosse il governo Ciampi). Ma evidentemente non se n'era fatto nulla.

Il problema è che ci si lamenta, e giustamente, che i concorsi universitari si prestano a varie disfunzioni anche (si badi) escludendo i casi su cui sì è parlato negli ultimi mesi, di nepotismo e favoreggiamento di parenti, amanti e così via (che in realtà si verificano solo in certe facoltà e non dappertutto). Il difetto sta però nel manico, e cioè nel pretendere che la decisione sia presa da una commissione nazionale, che debba vincere il migliore, e che sia sospetta la preferenza preliminare dell'ateneo nei confronti di dati candidati.

In quel vecchio articolo facevo un esempio. Supponiamo che il Collegio di La Flèche (tenuto dai gesuiti) bandisca una cattedra di filosofia e scienza. Si presentano Cartesio, Pascal, e un certo signor D'Arçons, il quale (per spiegare il fenomeno delle maree) sosteneva che la terra non gira intorno a se stessa, ma sussulta da nord a sud. Se fossimo in America, il collegio di La Flèche chiederebbe alcune lettere di raccomandazione a persone stimate (poniamo Gassendi e padre Mersenne) e poi deciderebbe quale dei candidati fa al caso proprio.

In Italia si farebbe invece un concorso nazionale, con una commissione eletta sempre su scala nazionale. Escludiamo il caso, sempre possibile, che per motivi politici o sessuali alcuni commissari disonesti riescano a dare la cattedra a D'Arçons. Potrebbero tuttavia odiare a tal punto i gesuiti da imporre a La Flèche proprio Pascal che dei gesuiti ha detto tutto il male possibile. Ma se i commissari fossero tutti persone per bene, chi dovrebbero designare come 'il migliore'?


Si vede bene come sia Cartesio che Pascal siano l'uno migliore dell'altro a seconda del punto di vista. E qui interviene il diritto dell'ateneo che ha chiesto il posto. Facciamo un esempio in campo scientifico, dove sembra che la designazione del 'migliore' sia più facile. Per una cattedra di oncologia il migliore sarebbe certamente uno studioso che ha finalmente scoperto il vaccino contro il cancro e per questo ha preso il premio Nobel. E tuttavia l'ateneo in questione potrebbe non avere bisogno di un genio del genere. Ha già (poniamo) uno dei massimi cancerologi viventi, salvo che costui si occupa, giustamente, della ricerca e di alcuni seminari ad alto livello, ma è totalmente inadatto a interagire coi ragazzi dei primi anni.

E l'università non ha bisogno di un altro numero uno, bensì di un buon numero due, che magari non abbia ancora fatto ricerche originalissime ma sia didatticamente perfetto, generoso con gli studenti, disposto a seguirli e a incoraggiarli. In tal caso l'unico vincolo dovrebbe essere che l'ateneo non scelga come preteso numero due un numero zero, solo perché cugino del rettore.

E qui entra in campo la lista aperta. Ogni tot anni, per quella fascia concorsuale (ordinati o associati, e magari anche ricercatori) una commissione nazionale stila una lista aperta (e cioè senza vincoli di numero) di studiosi che si ritiene possano degnamente insegnare, anche se non sono tutti necessariamente il numero uno nel loro campo. Dopo gli atenei sceglieranno i professori da quella lista.

Quali sono le obiezioni? Che in una lista aperta dei commissari maneggioni o stupidi possono fare entrare anche il cretino (nel nostro caso il signor D'Arçons). Certamente, nessuna legge umana è mai riuscita a evitare che un cretino assuma posti di responsabilità. Ma la lista aperta impedisce di fare fuori i bravi (come si lamenta per gli attuali concorsi) perché un commissario, per dire che Cartesio o Pascal sono indegni di entrare nella lista, dovrebbe esporsi con un pubblico e ragionato giudizio, sapendo bene che rischia di diventare come quel critico ottocentesco che aveva definito la Quinta di Beethoven "un'orgia di frastuono e di volgarità".

Se poi un ateneo vuole proprio prendersi in casa D'Arçons e segue sempre una politica del genere, a poco a poco si squalificherà. Naturalmente a questo punto si dovrebbe discutere sul valore legale del titolo di laurea, affinché quello dell'ateneo che si è autosqualificato non sia per legge pari a quello in cui insegnano o Cartesio o Pascal. Ma di questo, sospetto, si parlerà solo nei prossimi vent'anni.

(03 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Inviate Aristotele
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:45:16 pm
Umberto Eco.


Inviate Aristotele


Il facsimile dell'edizione del 1551 di 'Retorica' e 'Poetica', fa più di 37 mila KB. Speditelo a seccatori artigianali e industriali che vi riempiono di spam. È il piacere della vendetta  Una ricerca della McAfee, di cui hanno parlato tutti i giornali, ha appurato che il fenomeno dello Spam, e cioè dei messaggi indesiderati che ci vengono inviati per e-mail, produce un consumo di energia enorme. Un solo messaggio genera 0,3 grammi di biossido di carbonio, pari alle emissioni di un'auto che percorre un metro di strada. Pare che tutto lo spam in circolazione consumi 33 miliardi di chilowattora di energia ogni anno, il che equivarrebbe a quanto consumano tre milioni di automobili o due milioni e mezzo di abitazioni, da cui un effetto serra di 17 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Salto altri tecnicismi, e mi limito a osservare che lo spam, dunque, non si limita a essere una seccatura e spesso un modo per carpirci informazioni, ma influisce negativamente sulla nostra salute.

A quanto pare nessuna autorità al mondo è in grado di ridurre lo spam, e anche i filtri che alcuni di noi hanno attivato servono sino a un certo punto perché molti messaggi non richiesti passano attraverso le loro maglie e pare che lo spreco maggiore di energia consista proprio nell'aprirli o eliminarli manualmente.

Sono cose che fanno rabbia e uno pensa come può difendersi da solo. In mancanza di meglio, viene voglia di vendicarsi. Così mi è venuta una idea - e naturalmente mi attendo che centinaia di esperti mi rispondano dimostrandomi che è irrealizzabile o dannosa, e avverto che cestinerò queste lettere (considerandole spam), perché intendo solo lanciare una provocazione.

Dividiamo dunque coloro che ci mandano messaggi indesiderati tra seccatori industriali e seccatori artigianali. Immagino che i seccatori industriali abbiamo molti mezzi per neutralizzare la mia protesta, ma ci sono migliaia di seccatori artigianali, come quello che in un italiano dubitosissimo vi dice che avete vinto un premio e vi chiede i vostri dati, o il malese che ha ricevuto una eredità enorme che per qualche ragione non può ritirare e vi chiede di partecipare al cinquanta per cento al suo recupero, naturalmente inviando una certa somma come garanzia, eccetera eccetera.


I seccatori artigianali forse non hanno neppure la banda larga e non so se vi è capitato di ricevere da un imbecille un intero volume di seicento pagine, corredato di fotografie a colori, mentre non eravate a casa vostra collegato ad Alice o a Fastweb, ma in una stanza d'albergo o in un casolare di campagna, con il risultato che per scaricare quell'immondizia il vostro computer rimaneva bloccato per un'ora.

Ora a questo tipo di seccatori si può rispondere allegando la Bibbia di Gerusalemme. La trovate su http://www.liberliber.it/biblioteca/b/bibbia/index.htm e così come vi arriva è lunga 1.226 pagine e conta 11.574 KB. Ma se in due secondi la mettete a spazio 2 e corpo 20 arrivate subito a 6.556 pagine e a più di 14 mila KB. È un bel malloppo, se avete la banda larga lo fate partire in pochi minuti e inoltre potreste far lavorare il computer di notte, ma se chi lo riceve non ha la banda larga sono guai. Se poi non solo io ma anche soltanto qualche centinaio di utenti facessero lo stesso, lo sciagurato sarebbe praticamente immobilizzato.

Lo so che così facendo contribuirei ad aumentare l'inquinamento. Ma se per caso, nel giro di qualche settimana, questa risposta convincesse una certa quantità di seccatori a desistere, alla fin fine il prezzo energetico pagato sarebbe inferiore al guadagno finale. E poi, pereat mundus, il piacere della vendetta non sopporta calcoli meschini.

Naturalmente con non molta fatica si potrebbe anche fare di meglio. Il facsimile dell'edizione 1551 di 'Retorica' e 'Poetica' di Aristotele, in Adobe, fa più di 37 mila KB e pari dimensioni ha la 'Summa Teologica' in edizione bilingue. La 'Anatomy of Melancholy' di Burton in Adobe fa circa 32 mila KB, 'I misteri di Parigi' di Sue in edizione francese Adobe da solo fa 76.871 KB e quindi quasi sei volte la Bibbia. Che se poi avete una macchina efficiente e la fate lavorare di notte, potete spedire tutti i testi che ho citato, insieme.

Insomma, anche una organizzazione industriale che si vedesse arrivare alcune migliaia di Bibbie o di misteri di Parigi, qualche pensierino dovrebbe farcelo. Preciso inoltre che, per vedere quanto tempo mi occorreva, la prima Bibbia me la sono mandata al mio indirizzo. Non riuscivo a trovarla nella posta in arrivo e mi sono accorto che qualche sistema di filtraggio me l'aveva inviata automaticamente nella posta eliminata. Ma credo che il tempo di scarico sia stato lo stesso, e quindi il disturbo arrecato al destinatario sia ugualmente consistente.

(30 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. My heart belongs to daddy
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2009, 11:57:31 pm
Umberto Eco


My heart belongs to daddy


A proposito della ragazzina napoletana che chiama Berlusconi 'papi' è impossibile non ricordare l'immortale canzone di Cole Porter resa celebre da Marilyn Monroe e Eartha Kitt 
Pensierino numero uno.
Leggo che il nostro primo ministro ha detto che non c'è nulla di male nel candidare donne fisicamente non sgradevoli. Il problema è come si dicono le cose.

Tutti conoscono la barzelletta del gesuita e del domenicano che stanno facendo gli esercizi spirituali e il gesuita, mentre recita il breviario, fuma beatamente.
Il domenicano gli chiede come possa fare così, e quello gli risponde che ha chiesto il permesso ai suoi superiori. L'ingenuo domenicano dice che anch'egli ha chiesto il permesso e gli è stato negato.

"Ma come lo hai domandato?", gli chiede il gesuita. E il domenicano "Posso fumare mentre prego?". Era ovvio che gli fosse stato risposto di no.
Invece il gesuita aveva chiesto "Posso pregare mentre fumo?" e i superiori gli avevano detto che si può pregare in qualsiasi circostanza.

Se Berlusconi avesse detto che non c'è nulla di male se una candidata alle elezioni è anche bella, tutti, femministe comprese, avrebbero applaudito.
Ma ha fatto capire che non c'era nulla di male se una bella ragazza veniva candidata alle elezioni, e lì casca l'asino.
Forse è male candidare una ragazza solo perché è bella.


Pensierino numero due. A proposito della faccenda della ragazzina napoletana che chiama Berlusconi 'papi', certamente è male farci su cattivi pensieri.
Tuttavia è impossibile non ricordare una immortale canzone di Cole Porter, resa celebre da Marilyn Monroe e da Eartha Kitt, 'My heart belongs to daddy', in cui una ragazzina con una voce molto sexy racconta come non possa avere giusti rapporti coi ragazzi della sua età perché il suo cuore appartiene a 'daddy' e cioè a 'papi'.

Molto inchiostro è stato speso sulla passione di questa ragazza (incesto, pedofilia, attaccamento ai valori familiari?) e le idee in proposito restano oscure - tra l'altro, Cole Porter era una lenza. Detto questo la canzone è molto bella e molto sensuale, ed è curioso che Apicella non la conoscesse.


Pensierino numero tre. Pare che lo stesso primo ministro abbia detto che noi non vogliamo diventare una civiltà multietnica per cui bisogna, come vuole la Lega, intensificare i controlli sull'immigrazione. A prima vista sembra abbia detto la stessa cosa di Fassino, che bisogna controllare gli immigrati clandestini e aiutare quelli in regola.

Ma c'era dietro un'altra idea, e cioè che la decisione diventare o no una civiltà multietnica sia una decisione volontaria. Come se la Roma imperiale (e prima ancora) avesse deciso se voleva essere invasa dai barbari o no. I barbari, quando premono alle frontiere, entrano, e basta. La saggezza della Roma imperiale (che le ha permesso di sopravvivere per qualche secolo) è stata di fare leggi per legittimare gli insediamenti barbarici, dando la cittadinanza a coloro che si installavano pacificamente entro i confini dell'impero - e persino ammettendoli nell'esercito. Così ha avuto imperatori illirici e africani, una nuova religione fondata da un turco chiamato Saulo, e tra i suoi ultimi pensatori un berbero di nome Agostino.

Quando masse enormi premono ai confini del nostro mondo per entrare non si può fare finta che la decisione se ammetterli o no dipenda noi. A parte il fatto che se l'Italia avesse dato nei decenni scorsi una immagine di sé povera e smandrappata, forse migliaia di africani (e di balcanici) non avrebbero mai pensato di venirci.

Il fatto è che vedevano la televisione italiana, massime Mediaset, in cui il nostro appariva come un paese popolato di gnocche favolose, e in cui bastava rispondere che Garibaldi non era un ciclista per guadagnare gettoni d'oro. Era ovvio che allora tutti si buttassero a nuoto per arrivare qui, senza sapere che avrebbero dovuto poi dormire in una scatola di cartone nei sotterranei della stazione e stuprare, se andava bene, signore sessantenni.


Pensierino numero quattro. Leggo che gli hackers non solo entrano nella memoria delle banche, ma ormai stanno mettendo a repentaglio i servizi segreti di mezzo mondo, penetrando anche nei siti della Cia.

Prevedibile. Ora immagino che fra poco (o forse già ora) in linea parleranno solo gli adulteri, beatamente ignari del fatto che il coniuge tradito possa sapere tutto quel che si dicono, e gli imbecilli che amano vedersi svuotato il conto corrente. I servizi segreti, invece, avranno da tempo abbandonato Internet.

Spedire un messaggio segreto da Londra il martedì mattina in modo che sia ricevuto subito a New York è comodo, ma in fondo un agente segreto che parta da Londra alle nove arriva a New York entro mezzogiorno ora locale. E allora è molto più comodo recare il messaggio in un tacco della scarpa, impararlo a memoria, o al massimo infilarlo nello sfintere. Suvvia, a passo di gambero verso il progresso!

(14 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO: quale libro regalerei a Berlusconi? Lolita...
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:26:58 am
Umberto Eco: quale libro regalerei a Berlusconi? Lolita...
 
 
MADRID (19 maggio) - «Che libro regalerebbe a Silvio Berlusconi?» ha chiesto questo pomeriggio un giornalista spagnolo a Umberto Eco, a Madrid per ricevere la medaglia d'oro del Circulo de las Bellas Artes: «viste le ultime notizie, gli regalerei Lolita» di Nabokov, ha risposto lo scrittore e semiologo, riferisce l'agenzia Efe.

«Sarcastico e simpatico» secondo la stampa spagnola a Eco, 77 anni, sono state poste domande sul «caso italiano» e sul presidente del Consiglio. «Che cosa è successo per cui gli italiani mantengono Berlusconi al potere?» gli è stato chiesto. «Non è successo nulla, gli italiani sono fatti così», ha risposto Eco. «Prima appoggiarono il fascismo. Poi lo abbandonarono quando già c'era un milione di cittadini morti. Poi abbiamo avuto 50 anni di democrazia cristiana, e ora si vota una persona che racconta barzellette e si comporta come un caudillo» ha detto ancora, secondo quanto riferito da Efe.

Eco ha anche affermato, a proposito della tv pubblica, che «in Italia non esiste, perché è sotto il controllo di Berlusconi, e quindi si è trasformata in privata». Interrogato sul terrorismo ha poi detto che «è chiaro, anche se non piace, che il terrorismo è un'espressione di violenza quando non c'è la guerra. Se non vuoi il terrorismo, fai la guerra, dicono. Per esempio quando c'era il Vietnam non c'era il terrorismo».
 
da ilmessaggero.it


Titolo: UMBERTO ECO. Il nemico della stampa
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 10:34:08 pm
Il nemico della stampa

di Umberto Eco


Il premier vuole imbavagliare l'informazione. E nella nostra società malata la maggioranza degli italiani sembra pronta ad accettare anche questo strappo. Ma il famoso intellettuale dice: 'Io non ci sto'.  Umberto EcoSarà il pessimismo della tarda età, sarà la lucidità che l'età porta con sé, ma provo una certa esitazione, frammista a scetticismo, a intervenire, su invito della redazione, in difesa della libertà di stampa. Voglio dire: quando qualcuno deve intervenire a difesa della libertà di stampa vuole dire che la società, e con essa gran parte della stampa, è già malata. Nelle democrazie che definiremo 'robuste' non c'è bisogno di difendere la libertà di stampa, perché a nessuno viene in mente di limitarla.

Questa la prima ragione del mio scetticismo, da cui discende un corollario. Il problema italiano non è Silvio Berlusconi. La storia (vorrei dire da Catilina in avanti) è stata ricca di uomini avventurosi, non privi di carisma, con scarso senso dello Stato ma senso altissimo dei propri interessi, che hanno desiderato instaurare un potere personale, scavalcando parlamenti, magistrature e costituzioni, distribuendo favori ai propri cortigiani e (talora) alle proprie cortigiane, identificando il proprio piacere con l'interesse della comunità. È che non sempre questi uomini hanno conquistato il potere a cui aspiravano, perché la società non glielo ha permesso. Quando la società glielo ha permesso, perché prendersela con questi uomini e non con la società che li ha lasciati fare?

Ricorderò sempre una storia che raccontava mia mamma che, ventenne, aveva trovato un bell'impiego come segretaria e dattilografa di un onorevole liberale - e dico liberale. Il giorno dopo la salita di Mussolini al potere quest'uomo aveva detto: "Ma in fondo, con la situazione in cui si trovava l'Italia, forse quest'Uomo troverà il modo di rimettere un po' d'ordine". Ecco, a instaurare il fascismo non è stata l'energia di Mussolini (occasione e pretesto) ma l'indulgenza e la rilassatezza di quell'onorevole liberale (rappresentante esemplare di un Paese in crisi).


E quindi è inutile prendersela con Berlusconi che fa, per così dire, il proprio mestiere. È la maggioranza degli italiani che ha accettato il conflitto di interessi, che accetta le ronde, che accetta il lodo Alfano, e che ora avrebbe accettato abbastanza tranquillamente - se il presidente della Repubblica non avesse alzato un sopracciglio - la mordacchia messa (per ora sperimentalmente) alla stampa. La stessa nazione accetterebbe senza esitazione, e anzi con una certa maliziosa complicità, che Berlusconi andasse a veline, se ora non intervenisse a turbare la pubblica coscienza una cauta censura della Chiesa - che sarà però ben presto superata perché è da quel dì che gli italiani, e i buoni cristiani in genere, vanno a mignotte anche se il parroco dice che non si dovrebbe.

Allora perché dedicare a questi allarmi un numero de 'L'espresso' se sappiamo che esso arriverà a chi di questi rischi della democrazia è già convinto, ma non sarà letto da chi è disposto ad accettarli purché non gli manchi la sua quota di Grande Fratello - e di molte vicende politico-sessuali sa in fondo pochissimo, perché una informazione in gran parte sotto controllo non gliene parla neppure?

Già, perché farlo? Il perché è molto semplice. Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all'epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell'antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l'onore dell'Università e in definitiva l'onore del Paese.

Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.

Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto

(09 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Al diavolo la classe operaia
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 05:02:35 pm
Al diavolo la classe operaia

di Umberto Eco


Come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato ma sopportato?  Quelli della mia generazione, che hanno affrontato il Sessantotto tra i trentacinque e i quarant'anni, troppo anziani per essere studenti in rivolta e troppo giovani per essere vegliardi che sfuggivano il confronto, sono stati a lungo ricattatati della classe operaia. Voglio dire, non dalla classe stessa, poverini che avevano i loro problemi, ma dai suoi adoratori borghesi di sinistra che, appellandosi alla nascita di una scienza proletaria, ti chiedevano che senso avesse occuparsi ancora di Dante, di Kant o di Joyce. E siccome si voleva, in modo o nell'altro, continuare a parlarne anche in una facoltà occupata (bastava volerlo ed era possibilissimo) ci si sforzava di mostrare come, nel lungo periodo, anche la conoscenza di Dante o di Joyce poteva contribuire al riscatto della classe operaia.

Figuriamoci il sollievo di molti di noi quando hanno scoperto che era finito il periodo in cui gli operai non avevano nulla da perdere tranne le proprie catene, perché ormai, avendo da perdere il televisore, il frigorifero, la piccola cilindrata e la visione di molte veline ogni sera, votavano per Berlusconi e Bossi - deviando il proprio sdegno dai capitalisti agli extracomunitari. Il comportamento dei proletari di un tempo era diventato quello tipico del sottoproletariato. Finalmente, si era esclamato, non dobbiamo più farci carico della classe operaia! Sono più poveri adesso di alcuni anni fa? Sono loro che hanno preferito le ronde ai sindacati. Liberi dal ricatto della classe operaia scriveremo ora non solo su Dante, ma persino sul Burchiello e, come il protagonista di 'A rebours' metteremo sul nostro tappeto persiano una tartaruga dal carapace incrostato di rubini, turchesi, acquamarine e crisoberilli verde asparago.

Malumori a parte, la classe operaia è diventata invisibile: gli operai, come ha detto Ilvo Diamanti, non fanno più massa critica e ci accorgiamo che ci sono solo quando muoiono sul lavoro. Trovo questa citazione quasi all'inizio di un irritatissimo e amarissimo pamphlet di Furio Colombo, 'La paga' (Saggiatore, 14). Dal titolo e da una immagine piuttosto stakanovista di copertina si penserebbe a un altro discorso sulla classe operaia, ma in questo libello non si nomina la classe operaia come se, ormai, con la squalifica dei sindacati, la fine delle ideologie, la nascita di nuovi partiti che hanno assorbito da destra le scontentezze che erano un giorno di sinistra, queste denominazioni avessero perso ogni interesse. In questo libro non si parla della scomparsa della classe dei lavoratori, ma della scomparsa del lavoro.

L'idea può apparire bizzarra, ma a ben pensarci tra deregolamentazione, crollo degli imperi finanziari, caduta delle Borse, manager che abbandonano l'ufficio con la scatola di cartone sotto il braccio e un bonus stratosferico nel portafoglio, si diffonde dappertutto, nelle dichiarazioni ufficiali e nella politica spicciola, il disprezzo del lavoro. Eccessivo pare sempre alla Confindustria il costo del lavoro, le aziende fanno il massimo per dissolvere i grandi centri produttivi in una pluralità di persone che non si conoscono tra loro, siedono in provincia a un computer, e lavorano a progetto senza garanzie di continuità, la trasformazione delle grandi compagnie da luoghi dove si produceva (e quindi si aveva bisogno di manodopera specializzata) a pacchetti da vendere e rivendere, e quindi più appetibili sul mercato finanziario quanto più si sono alleggerite dei costi del lavoro, ha reso accettabile senza indignazione e stupore le campagne contro i sindacati (ormai considerati sanguisughe parassitarie) e persino contro gli stessi lavoratori. E qui, anche forse troppo fedele al programma di un pamphlet, ecco la descrizione di un ministro Brunetta il cui vero obiettivo "non è portare giustizia e meritocrazia nella pubblica amministrazione" bensì "denigrare il lavoro, umiliarlo, ridicolizzarlo e sbugiardarlo, mostrare il lato infido e un po' ignobile dei lavoratori pubblici".

Ma, intenzioni di Brunetta a parte, ecco che si delinea un altro fenomeno: se un tempo il problema era provvedere a chi lavorava un sufficiente tempo libero, oggi viene regalato a tutti un 'tempo vuoto', quello dell'attesa di un primo impiego, tra un licenziamento e la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo, tra l'inizio e la fine di un periodo di cassa integrazione. Insomma, come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato, ma sopportato come un incidente dalla vita ormai brevissima, quando una miracolosa automazione senza neppure più operatori alla consolle avrà risolto i problemi economici, e tutti godremo di una libera e infinita circolazione di 'subprimes'?

(10 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Il complotto lunare
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:52:51 pm
Il complotto lunare

di Umberto Eco


Quelli che sostengono che lo sbarco sulla Luna fu una montatura non tengono conto che gli unici che avevano interesse a sbugiardare gli americani erano i russi. E se i russi sono stati zitti...

 Non so se quella notte sia stata più faticosa per Armstrong e Aldrin o per me (o per Tito Stagno che la seguiva per tutti noi). Erano esattamente quarant'anni fa, nel momento in cui scrivo, e io mi trovavo in campagna nel Monferrato.

Naturalmente quella sera siamo rimasti attaccati tutti alla televisione sino alle dieci e rotti, quando l'Eagle è atterrato ovvero allunato. Poi i bambini erano piccoli, non si sapeva quando gli astronauti sarebbero sbarcati, si faceva tardi, e a poco a poco tutti quelli che erano con me sono andati a dormire, tanto sulla Luna si era già arrivati. Io invece sono rimasto sveglio sino alle 4.56 e anche dopo, quando gli astronauti hanno finalmente messo piede sul suolo.

Non valeva la pena di andare a dormire perché dovevo poi partire in macchina per Firenze dove alle undici avevo un seminario. Così ai primi chiarori dell'alba ho spento la tv, ho bevuto quattro caffè forti, e sono salito in macchina. Dovevo puntare su Milano e di lì prendere l'autostrada del Sole. Dopo qualche chilometro su una strada campestre non asfaltata ho bucato. Drogato, addormentato, rinstupidito, ho dovuto prendere il crick e cambiare la gomma, e poi guidare sino a Firenze. Una notte indimenticabile.

E ora mi vengono a dire che era tutta una montatura. La storia in verità è vecchia, ma ovviamente si riaccende con la celebrazione del quarantennio. Bart Sibrel, uno dei sostenitori della teoria del complotto, ha persino affrontato, tempo fa Aldrin, imponendogli di giurare sulla bibbia che sulla Luna c'era stato, e si è preso un pugno in faccia. Vero.

I termini della teoria del complotto sono noti. Così come la distruzione delle torri gemelle non è stata opera di fondamentalisti arabi ma di Bush, (senza calcolare che se la cosa l'avesse organizzata un casinista come Bush le torri sarebbero ancora in piedi), parimenti il viaggio sulla Luna non è mai avvenuto: si è trattato di un montaggio televisivo fatto in studio e tutto il mondo c'è cascato.


I teorici del complotto portano prove fotografiche (ombre sbagliate, bandiere che si muovono al vento eccetera), la Nasa ha risposto con argomentazioni convincenti, la prova migliore che l'allunaggio è avvenuto, si dice, è che tutta l'impresa ha coinvolto centomila o più persone ed è impossibile che nessuno abbia mai aperto bocca.

A parte queste lepidezze la prova scientificamente inoppugnabile è una sola: gli unici che potevano controllare se lo sbarco era avvenuto (perché avevano già inviato lassù delle telecamere e avevano altre sofisticate possibilità di monitoraggio), e gli unici che avevano tutto l'interesse a sbugiardare gli americani, erano i russi. Se i russi sono stati zitti significa che lo sbarco sulla Luna era vero. Fine del dibattito.

Fine del dibattito a fil di logica, ma non a filo di credulità. Basta controllare quante trasmissioni televisive vanno in onda con indagini su misteri e complotti triti e ritriti, dai cerchi nel grano all'Atlantide, dal Graal alle trame dei Templari, da non siamo soli nell'universo a essi sono tra noi, per rendersi conto di come il mercato della credulità renda sempre moltissimo - altrimenti non si spiegherebbe come mai torme di turisti vanno a Parigi a visitare i luoghi del 'Codice da Vinci', come se la gente percorresse la Toscana per trovare il Campo dei Miracoli dove Pinocchio ha seppellito le sue monete.

Perché la gente ha bisogno di misteri in cui credere? A parte la frase citatissima di Chesterton (da che la gente non crede più in Dio non è che non creda più a nulla ma al contrario crede a tutto), pare che uno degli istinti della nostra specie sia rifiutare le spiegazioni economiche per cercarne altre più complesse e consolatorie.

Nel senso che se a qualcuno è andato male un affare, o un esame, non accetta la spiegazione più ovvia (che è stata colpa sua) ma pensa che la colpa sia stata di qualcun altro che gli voleva male. E se la persona amata ci ha piantato non è perché si è stancata di noi che siamo passabilmente noiosi, ma perché un rivale le ha propinato un filtro amoroso.

Vi ricordate il caso Moro? Che all'epoca esistessero dei trenta-quarantenni che dirigevano un'industria o che prendevano il premio Nobel non è stato sufficiente a spiegare come mai degli altri trenta-quarantenni fossero riusciti a mette a segno con indubbia efficienza il rapimento di via Fani. Eh no, si diceva, ci deve essere dietro la mano di qualcuno più saggio e astuto, il Grande Vecchio.

Il sospetto era ovviamente sbagliato, perché il Grande Vecchio stava all'epoca studiando il modo di far lacrimare una madonna pellegrina.(24 luglio 2009)
 
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Pensieri in bella copia
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2009, 07:04:00 pm
Pensieri in bella copia

di Umberto Eco


La tragedia è cominciata ben prima di pc e telefonini. Quando le stilografiche dai deliziosi pennini Perry vennero sostituite nel dopoguerra dalle biro. La scrittura perse anima e stile

 Una decina di giorni fa Maria Novella De Luca e Stefano Bartezzaghi hanno occupato tre pagine di 'Repubblica' (ahimè, a stampa) per occuparsi del declino della calligrafia. Ormai lo si sa, tra computer (quando lo usano) e sms, i nostri ragazzi non sanno più scrivere a mano se non con uno stentato stampatello. In una intervista una insegnante dice anche che fanno tanti errori di ortografia, ma questo mi sembra un altro problema: i medici conoscono l'ortografia e scrivono male, e si può essere calligrafo diplomato e non sapere se si scrive 'taccuino', 'tacquino' o 'taqquino' come 'soqquadro'.
In verità io conosco bambini che vanno in buone scuole e scrivono (a mano e in corsivo) abbastanza bene, ma gli articoli che citavo parlano del 50 per cento dei nostri ragazzi e si vede che per indulgenza della sorte io frequento l'altro 50 (del resto è lo stesso che mi capita in politica).

Il problema è piuttosto che la tragedia è iniziata molto prima del computer e del telefonino. I miei genitori scrivevano con una grafia leggermente inclinata (tenendo il foglio di traverso) e una lettera era, almeno per gli standard di oggi, una piccola opera d'arte. È verissimo che vigeva la credenza, probabilmente diffusa da chi aveva una pessima scrittura, che la bella calligrafia era l'arte degli sciocchi, ed è ovvio che avere una bella calligrafia non significa necessariamente essere molto intelligenti, ma - insomma - era gradevole leggere un biglietto o un documento scritto come dio comanda (o comandava).

Anche la mia generazione è stata educata a scrivere bene, e i primi mesi in prima elementare si facevano le aste, esercizio che poi è stato considerato ottuso e repressivo, e tuttavia educava a tenere fermo il polso per poi arabescare, coi deliziosi pennini Perry, lettere panciute e grassocce da un lato e fini dall'altro. Ovvero, non sempre, perché sovente dal recipiente dell'inchiostro, con cui si lordavano i banchi scolastici, i quaderni, le dita e gli abiti, emergeva attaccata al pennino una morchia immonda - e ci volevano dieci minuti per eliminarla, con molte e sporchevoli contorsioni.

La crisi è iniziata nel dopoguerra con l'avvento della biro. A parte il fatto che le biro dell'inizio sporcavano moltissimo anch'esse e se, subito dopo aver scritto, passavi il dito sulle ultime parole, ne veniva fuori uno sbaffo. E quindi scappava la voglia di scrivere bene. In ogni caso, anche a scriver pulito, la scrittura a biro non aveva più anima, stile e personalità.

Ma perché si deve ancora rimpiangere la bella calligrafia? Sapere scrivere bene e in fretta alla tastiera educa alla rapidità del pensiero, spesso (anche non sempre) il correttore automatico ci sottolinea in rosso 'dotore', e se l'uso del telefonino induce le giovani generazioni a scrivere 'T 6 xduto?' in luogo di 'ti sei perduto?', non dimentichiamo che i nostri antenati sarebbero inorriditi vedendo che noi scriviamo 'gioia' in luogo di 'gioja', 'io avevo' in luogo di 'io aveva', e i teologi medievali scrivevano 'respondeo dicendum quod', cosa che avrebbe fatto impallidire Cicerone.

Il fatto è che, lo si è detto, l'arte della calligrafia educa al controllo della mano e al coordinamento tra polso e cervello. Bartezzaghi ricorda che la scrittura a mano vuole che si componga la frase mentalmente prima di scriverla, ma in ogni caso la scrittura a mano, con la resistenza della penna e della carta, impone un rallentamento riflessivo. Molti scrittori, anche se abituati a scrivere al computer, sanno che talora vorrebbero poter incidere come i sumeri su una tavoletta di argilla, per poter pensare con calma.

I ragazzi scriveranno sempre più al computer e al telefonino. Tuttavia l'umanità ha imparato a ritrovare come esercizio sportivo e piacere estetico quello che la civiltà ha eliminato come necessità. Non ci si deve più spostare a cavallo ma si va al maneggio; esistono gli aerei ma moltissime persone si dedicano alla vela come un fenicio di tremila anni fa; ci sono i trafori e le ferrovie ma la gente prova piacere a scarpinare per passi alpini; anche nell'era delle e-mail c'è chi fa raccolta di francobolli; si va in guerra col Kalashnikov ma si fanno pacifici tornei di scherma..

Sarebbe auspicabile che le mamme inviassero i bambini a scuole di bella calligrafia, impegnandoli in gare e tornei, e non solo per la loro educazione al bello ma anche per il loro benessere psicomotorio. Di queste scuole ne esistono già, basta cercare 'scuole calligrafia' su Internet. E forse per qualche precario potrebbe diventare un affare.(06 agosto 2009)

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Ho sposato Wikipedia?
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 10:57:36 am
Ho sposato Wikipedia?

di Umberto Eco


Quanto ci si deve fidare dell'enciclopedia on line? Ecco cosa mi è capitato e alcune regole per accertare l'esattezza delle informazioni  Ciascuno di noi, ormai, mentre lavora e ha bisogno di controllare un nome o una data, ricorre su Internet a Wikipedia. Per l'ormai sparuto manipolo dei profani ricordo che Wikipedia è una enciclopedia 'on line' che viene scritta e riscritta continuamente dai suoi stessi utenti. Vale a dire che se voi cercate la voce, che so, 'Napoleone' e vedete che una notizia è incompleta o scorretta, vi registrate, la correggete, e la voce viene salvata così, con la vostra integrazione.

Naturalmente questo permetterebbe a malintenzionati o a pazzi di diffondere notizie false, ma la garanzia dovrebbe essere data proprio dal fatto che il controllo è fatto da milioni di utenti. Se un malintenzionato va a correggere che Napoleone non è morto a Sant'Elena ma a Santo Domingo, di colpo milioni di benintenzionati interverrebbero a correggere la illecita correzione (e poi credo che, dopo alcune azioni legali di persone che si erano viste calunniare da ignoti, una sorta di redazione eserciti un controllo almeno sul tipo di correzioni che appaiano chiaramente diffamatorie). In tal senso Wikipedia sarebbe un bell'esempio di quello che Charles Sanders Peirce chiamava la Comunità (scientifica) la quale per una sorta di felice omeostasi espunge gli errori e legittima le nuove scoperte portando così avanti, come lui diceva, la torcia della verità.

Ma se questo controllo collettivo potrebbe funzionare su Napoleone potrà funzionare su un John Smith qualsiasi? Facciamo l'esempio di una persona un poco più nota di John Smith e meno di Napoleone, e cioè chi scrive. All'inizio sono intervenuto a correggere la voce che mi riguardava perché recava date errate o false notizie (per esempio diceva che ero il primo di tredici fratelli, mentre la cosa era accaduta a mio padre). Poi ho smesso, perché ogni volta che per curiosità andavo a rivedere la mia voce trovavo altre piacevolezze messe da chissà chi. Ora alcuni amici mi hanno avvertito che Wikipedia dice che ho sposato la figlia del mio editore
Valentino Bompiani. La notizia non è per nulla diffamatoria ma - nel caso lo fosse per le mie care amiche Ginevra ed Emanuela - sono intervenuto a eliminarla.

In questo mio caso non si può neppure parlare di un errore comprensibile (come la storia dei tredici figli), né dell'accettazione di una vociferazione corrente: a nessuno era mai venuto in mente che io mi fossi accasato in tal modo, e quindi l'ignoto co-autore di Wikipedia interveniva per rendere pubblica una sua privata fantasia, senza che gli fosse mai passato per la mente di controllare almeno la notizia su qualche fonte.

Quanto ci si deve fidare di Wikipedia, allora? Dico subito che io mi fido perché la uso con la tecnica dello studioso di professione: consulto su un certo argomento Wikipedia e poi vado a confrontare con altre due o tre siti: se la notizia ricorre tre volte ci sono buone probabilità che sia vera (ma bisogna fare attenzione che i siti che consulto non siano parassiti di Wikipedia, e ne ripetano l'errore). Un altro modo è vedere la voce di Wikipedia sia in italiano sia in un'altra lingua (se avete difficoltà con l'urdu, ci sarà sempre certamente il corrispettivo inglese): sovente le due voci coincidono (una è la traduzione dell'altra) ma talora differiscono, e può essere interessante rilevare una contraddizione, che potrebbe indurvi (contro ogni vostra religione del virtuale) ad alzarvi e andare a consultare una enciclopedia cartacea.

Ma io ho fatto l'esempio di uno studioso che ha imparato un poco come si lavora confrontando le fonti tra loro. E gli altri? Quelli che si fidano? I ragazzini che ricorrono a Wikipedia per i compiti scolastici? Si noti bene che la cosa vale anche per qualsiasi altro sito, così che da gran tempo io avevo consigliato, anche a gruppi di giovani, di costituire un centro di monitoraggio di Internet, con un comitato formato da esperti sicuri, materia per materia, in modo che i vari siti fossero recensiti (o in linea, o con una pubblicazione a stampa) e giudicati quanto ad attendibilità e completezza. Ma facciamo subito un esempio, e non cerchiamo il nome di un personaggio storico come Napoleone (per cui Google mi dà 2.190.000 di siti), ma di un giovane scrittore diventato noto solo da un anno, e cioè da quando ha vinto lo Strega 2008, Paolo Giordano, autore de 'La solitudine dei numeri primi'. I siti sono 522.000. Come si fa a monitorarli tutti?

Si era pensato una volta di monitorare soltanto i siti su un solo autore su cui gli studenti potrebbero sovente cercare informazioni. Ma se prendiamo Peirce, che ho appena citato, i siti che lo riguardano sono 734.000.

Ecco un bel problema che, per ora, è ancora senza soluzione.

(04 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Pensierini di fine estate
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 12:00:50 am
Pensierini di fine estate

di Umberto Eco


A proposito del 'caso Boffo', di Noemi Letizia e dell'inno di Mameli  Pensierino numero uno Vorrei precisare che la vita privata del dottor Boffo non mi interessa. Vorrei pure precisare che non intendo discutere se 'Il Giornale' ha fatto bene o male a rivelare fatti privati della vita del dottor Boffo per delegittimarlo in quanto critico del presidente del Consiglio. Ciascuno fa il suo mestiere secondo il mandato ricevuto. Non intendo neppure dire se gli appunti rivolti al dottor Boffo siano veri o falsi, perché non ho strumenti per verificarlo, e inoltre non mi compete. Non posso tuttavia evitare di rilevare che l'argomento usato per delegittimare il dottor Boffo è stata una accusa o insinuazione di omosessualità. È assolutamente vero che alcuni decenni fa un'accusa del genere poteva rovinare la vita di un uomo e specie di un politico (e talora l'ha rovinata), ma appunto negli ultimi decenni si era diffusa una diversa visione dei diritti sessuali di ciascuno, per cui a nessuno verrebbe più in mente di mettere in imbarazzo un proprio avversario politico dicendogli 'tu sei un frocio'. Ebbene, è stato fatto. Un ritorno al passato, forse dovuto a nostalgia. Ciascuno invecchiando rimpiange i tempi della propria infanzia.

Pensierino numero due Vorrei precisare che i rapporti o non rapporti tra il presidente del Consiglio e Noemi Letizia non mi interessano, ovvero non è il mio compito stabilire di che natura essi siano o siano stati, o non siano stati. Reagisco solo a una intervista che la fanciulla in questione ha rilasciato a una giornalista americana, in cui ha detto (in sostanza) che da tempo aspirava a una carriera artistica e voleva andare a Hollywood, e ora che "è diventata nota" può sperare che da laggiù la chiamino. Sto pensando alla Lollobrigida o alla Loren o a Gassman che, per essere chiamati a Hollywood si sono fatti la loro gavetta con bellissimi film italiani (tra l'altro migliori e più famosi negli annali del cinema di quelli fatti a Hollywood). Si presumeva che persino una fiera degli attori come Hollywood si basasse ancora su criteri di eccellenza artistica. La ragazza Noemi pensa invece che basti diventare 'nota' ed è evidente che sul tipo di notorietà non sottilizza. Si può diventare noto anche sparando sulla folla e tutto sommato la graziosa Noemi non è arrivata a questi estremi.

C'è chi si mette dietro la telecamera e fa ciao ciao con la manina. Spera di diventare 'noto', anche se lo diventa solo presso gli amici del Bar Sport. La signora D'Addario ha realizzato un tipo di notorietà più internazionale e infatti è stata chiamata a esibirsi in un night club, o balera, o cabaret parigino. Non credo arriverà a Hollywood, che non ha sfruttato neppure Monica Lewinsky. Ma insomma, è il concetto di notorietà che è cambiato. Quando ero piccolo mi insegnavano che se la gente parlava dei tuoi fatti personali era una vergogna, ed era una infamia finire sulla bocca di tutti. Ora invece diventare noti è il fine della vita. D'altra parte, Erostrato ha incendiato il tempio di Diana in Efeso purché parlassero di lui e, maledizione, siamo ancora qui a parlarne. Forse ha ragione Noemi.

Pensierino numero tre L'estate ha visto anche rinfocolarsi la discussione sull'inno di Mameli, e a questo argomento ho persino dedicato una Bustina. Ma adesso dimentichiamo per un momento che l'inno non piace a Bossi, perché non possiamo parlar male dei dialetti solo perché ne parla bene Bossi, e bene di Mameli solo perché Bossi ne parla male.

Anzitutto, siccome negli inni conta più la musica delle parole, l'inno di Mameli è l'inno di Michele Novaro. L'attribuiamo a Mameli perché il giovanotto è morto a ventidue anni difendendo la Repubblica romana, mentre Novaro è spirato serenamente a sessantatré anni. Se Novaro fosse morto trentenne a Roma, e Mameli novantenne nella Genova natia, lo chiameremmo inno di Novaro.

Ora le parole di Mameli sono quello che sono, ma se ci mettessimo a far le pulci alle parole della Marsigliese il risultato sarebbe lo stesso. E nessuno poi vieterebbe che si facesse un concorso nazionale per parole diverse. Ma quello che rende buffo l'inno di Mameli è la fretta con cui si ritiene di doverlo cantare, così che si immagina che chi lo intona, anche se fossero Napolitano, Cossiga, Andreotti o Rita Levi Montalcini, dovrebbero cantarlo correndo, come un manipolo di bersaglieri.

Ora, avete mai provato a cantare l'inno lentamente, come se fosse 'Good save the Queen', 'Deutschland über alles' o 'Star spangled banner'? O miracolo! Diventa ampio, solenne, quasi meglio di 'Va pensiero', e chi lo canta ci fa una dignitosa figura. Basta dare una disposizione alle bande militari ed è fatta.

Ci avevate mai pensato?


(17 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Teste d'Uovo
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:05:31 am
Teste d'Uovo

di Umberto Eco


Gli arnesi da sottogoverno, i portaborse della politica, che non hanno mai letto a sufficienza, non sanno che esistono gli intellettuali di destra. Vedono solo quelli di sinistra e solo quando fanno in qualche modo opposizione
 
Si è tornato a discutere nelle settimane scorse su espressioni come 'culturame', che pare siano state pronunciate di nuovo, dopo decenni. Sono espressioni note, di solito usate da uomini di governo per deprezzare intellettuali di opposizione. 'Culturame' viene coniato, mi pare, da Scelba, che credeva solo nella logica dello sfollagente, ma Spiro Agnew, il vice di Nixon, aveva parlato di 'effete snobs' che a un dipresso voleva dire snob effeminati, e ricordava quei settimanali umoristici fascisti dove si metteva in scena il gagà che parlava 'nell'evve', o l'intellettuale fuori del tempo che scriveva 'povesie'. D'altra parte già vigeva nel mondo anglosassone, per delegittimazioni analoghe, l'espressione 'testa d'uovo'. E sempre nel corso delle lotte politiche del dopoguerra a destra si era ricuperata una definizione usata da Lenin per altri fini, come 'utili idioti', per riferirla agli intellettuali che simpatizzavano per le forze di sinistra.

Dunque si tratta di cose note. A tal punto che incoraggiano l'idea che il disprezzo del mondo intellettuale sia caratteristico della destra e che, come corollario, non esistano intellettuali a destra, ma siano tutti all'opposizione. Naturalmente un intellettuale è sempre in qualche modo all'opposizione di qualcosa, ma si può essere all'opposizione di molte cose anche militando a destra. Sono esistiti grandissimi intellettuali conservatori, o addirittura reazionari; e 'reazionario' non è una brutta parola, com'era ai tempi di Peppone e Don Camillo, perché ci sono stati pensatori ed artisti che hanno vagheggiato un ritorno a qualche Tradizione, o a un Antico Regime - e questo vuole dire reazionario, non uno che vuole affamare gli operai o che è necessariamente fascista. In tal senso un gran reazionario era Dante, che non era intellettuale da buttar via, e ai tempi nostri abbiamo letto molti autori che non hanno fatto altro che criticare la Modernità, il mondo della tecnica, le utopie rivoluzionarie. Non solo, ma recentemente da destra si è andati a individuare dei propri 'eroi' intellettuali che stavano per definizione a sinistra, come è accaduto (e forse non a torto) con
Pasolini, in quanto difensore di uno stato di natura preindustriale.

Pochi lo ricorderanno, ma negli anni Settanta si era molto parlato della rinascita di una cultura di destra, era persino uscita una rivista che si intitolava 'La Destra', e se le edizioni del Borghese avevano rispolverato i 'Pensieri' di Adolf Hitler e si erano ridotte a pubblicare 'Parlar chiaro' di Spiro Agnew (definito 'il più reazionario vicepresidente degli Stati Uniti, l'uomo che dice ad alta voce quello che Nixon dice sottovoce') un editore come Rusconi aveva pubblicato molti rappresentanti del pensiero di destra, da Mishima a Vintila Horia, da Prezzolini a Panfilo Gentile, e si era riscoperto un vero 'grande' del pensiero reazionario come De Maistre.

Insomma, se si vogliono trovare grandi scrittori che erano o sono di destra, conservatori o reazionari che fossero o siano, basta guardarsi in giro, e volendo si possono trovare anche dei grandi scrittori fascisti e antisemiti come Céline o Pound, o i classici nemici della modernità come Sedlmayr, per non dire di Heidegger, o gli adepti di sapienze primordiali come Guénon. Insomma basta sfogliare i cataloghi degli editori 'democratici' senza andare a ricuperare le annate de 'La voce della fogna', e assistere persino ai tentativi di ricupero di autori di destra da parte della sinistra, come è accaduto talora con Junger o Spengler. E allora? Gli autori di destra che ho nominato non sono culturame?

La verità è che pensiamo che la 'destra' sia una entità omogenea, mentre anche lì ci sono gli intellettuali, che riconoscono i 'loro' ma, proprio perché sono intellettuali, non cascano facilmente nell'uso di cliché come culturame o snob effeminati per bollare gli avversari.
E poi ci sono gli altri, gli arnesi da sottogoverno, i portaborse della politica, gli uomini interessati solo al potere (o ai soldi), che in realtà non hanno mai letto a sufficienza, e semplicemente non sanno che esistono gli intellettuali di destra. Vedono solo quelli di sinistra, e solo nel momento in cui fanno in qualche modo opposizione. E allora è ovvio che, nella loro mente monocamerale, intellettuale diventi sinonimo di oppositore e, come diceva Goering, quando sentono parlare di cultura tirino fuori la pistola. E anche se l'attribuzione a Goering è dubbia, la battuta appare peraltro nel dramma nazista 'Schlageter' di Hanns Johst: 'Wenn ich Kultur höre ... entsichere ich meinen Browning'. Ma chi tira fuori la pistola ignora l'origine dotta della citazione. Non leggono, non leggono.

(01 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Curiosi e bizzarri
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:22:25 pm
Curiosi e bizzarri

di Umberto Eco

Dal trattato sul gemito della colomba del cardinal Ballarmino, all'opera sull'immobilità della terra di Pierre Sindico, a "La vita sessuale di Robinson Crosue" di Michel Gall
 

Un appassionato di libri antichi come Mario Praz, nel 1931 rilevava quale piacere fosse per il bibliofilo leggere cataloghi d'antiquariato librario così come si leggono libri gialli. "State sicuri - diceva - che nessuna lettura ha mai generato azione così rapida e commossa, come la lettura di un catalogo interessante". Egli però subito dopo lasciava intravedere come si possano dare letture rapide e commosse anche di cataloghi ininteressanti.

Ora, se ci può essere un catalogo poco interessante che contenga solo edizioni minori di Dante, pandette o opere di teologi controriformisti, all'appassionato appaiono interessantissimi cataloghi detti in antiquariato di 'Varia e Curiosa', che elencano opere di pazzi letterari, visionari, geni giustamente falliti e scomparsi da tutte le bibliografie per molte e motivate ragioni. Avevo commentato un catalogo del genere anni fa, proprio su questa Bustina, ma ne escono di continuo, specie in Francia, e non resisto alla tentazione di sfogliare coi miei gentili lettori il recente 'Livres curieux et bizarres' dei Libraires Associés (anche per dimenticare almeno per poco le tristezze della cronaca).

Tra le opere dagli intenti certamente seri trovo un trattato sul gemito della colomba del cardinal Bellarmino (sì, quello di Galileo), uno sulla localizzazione del paradiso terrestre di Huet (che lo mette a Bassora, in contrasto con tutta una tradizione che lo voleva all'Estremo Oriente, e dunque si capisce cosa volesse Bush invadendo l'Iraq), l'opera di Pierre Sindico sull'immobilità della terra (1878), e scopro che Ricciotto Canudo, che conoscevo solo come serio teorico del cinema (e inventore della definizione 'settima arte') per il resto era eroe di guerra e si era occupato di Metafisica Musicale delle Civiltà.

Non manca una bella sezione sulle lingue madri dell'antichità, come la lingua parlata da Adamo (il druidico per
John Cleland, 1776), il basco come lingua di Cam per Pedro Nada, 1885, per non dire delle lingue artificiali come la Langue Bleue di Bollak, 1900, il 'Sillabayre' di Jallais, del 1923, con istruzioni per il funzionamento di una macchina per leggere (sic), il codice napoleonico messo in versi da Anonimo nel 1811, e di tal Radiguel 'La civiltà primitiva ritrovata con tutti i suoi archivi nel Paradiso Terrestre al paese d'Eden o Bretagna'.

Passando ad altri argomenti sarei tentato di leggere 'La vita sessuale di Robinson Crusoe' di Michel Gall (1977) dove si sottolinea con quale soddisfazione l'illustre naufrago avesse trovato Venerdì più cooperativo della capre - per inciso, il libro alla prima edizione era andato sotto sequestro giudiziario. Il catalogo annuncia come eccitante antologia del sadomasochismo (allietata da incisioni che non lasciano spazio all'immaginazione) il 'De sanctorum martyrum cruciatibus' di Antonius Gallonius (1602) dove il pio pretesto sarebbe quello di documentare i tormenti subiti dai martiri. Meno fedele alle cronache della santità il recente 'Sex in smurfenland' (1980) che altro non è che una rivisitazione dei Puffi in chiave pornografica - e il catalogo annuncia che non ci si deve preoccupare se il testo è in olandese perché le immagini sono comprensibilissime. Un dottor Brennus ne 'L'acte bref' (1907) si diffonde sull'incontinenza spasmodica, e Del padre Sinistrari d'Ameno (inquisitore secentesco) conoscevo 'De la demonialité' che però è considerato da vari bibliofili un falso (ispirato dal célèbre bibliofilo Paul Lacroix, poi scritto nel 1875 da Isidore Liseux), pubblicato per solleticare la curiosità morbosa dei lettori dell'epoca intorno ai convegni sessuali tra femmine e incubi e succubi. Ora però vedo che il Sinistrari è anche stato autore di un 'De sodomia tractatus' (molto considerato ancor oggi nei siti gay di Internet) dove l'aspetto più sapido sarebbe la sua teoria della sodomia lesbica tramite clitoride (organo su cui il pio francescano aveva idee abbastanza vaghe, ritenendo che fosse presente solo in alcune donne, che potesse spuntare in età giovanile, e che talora servisse alla tribade per depositare il proprio seme in un altro corpo femminile).

Per finire trovo la traduzione francese ('La domination du moine') di quello che dovrebbe essere 'Clelia', romanzo di Giuseppe Garibaldi, scritto (come lui dice nella prefazione) per ricordare i valorosi caduti sui campi di battaglia, denunciare alla gioventù italiana "le turpitudini ed i tradimenti dei governi e dei preti" e "infine campare anche col mio guadagno. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato". Per chi vuol dissacrare la storia patria, 'Clelia' va letto, almeno quanto 'Claudia Particella, l'amante del cardinale' di Benito Mussolini.

(15 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
 


Titolo: UMBERTO ECO. Lo strano caso dei calzini turchesi
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 03:30:21 pm
La bustina di Minerva

Lo strano caso dei calzini turchesi

di Umberto Eco


Quando eventi o dati vengono raccontati 'come se' fossero una denuncia, tutti avvertiamo il messaggio come una vera denuncia. Proprio quello che è capitato al giudice Mesiano  Il servizio di Mattino 5 sul giudice MesianoAvrò avuto circa dieci anni quando davanti a un bar sono stato avvicinato da una signora distinta, con pelliccia, che mi aveva detto : "Scusa giovanotto, mi sono fatta male a una mano e non posso scrivere una lettera urgente. Me la scriveresti tu? Ti darò un lira". Da generoso balilla avevo risposto che le avrei reso quel servizio ma gratis, e la signora aveva insistito perché prendessi almeno un gelato. Quindi aveva iniziato a dettare. Il tenore della lettera era molto strano e a metà dettatura avevo cominciato a subodorare del marcio, ma non potevo più fermarmi. Quando ho raccontato il fatto a casa, mia madre è impallidita e ha esclamato: "Mio Dio, ti hanno fatto scrivere una lettera anonima!" e quel grido minacciava terribili sventure giudiziarie per me e per la famiglia tutta.

Ho cercato di calmare la mamma dicendole che, in fin dei conti, quella lettera non sembrava gran che criminale, perché diceva un gran bene della persona che denunciava. Ecco il fatto. La lettera era indirizzata a un certo signor X (che tra l'altro avevo individuato perché era un noto commerciante della città con tanto di insegna sulla via principale) e la scrivente gli diceva di sapere che egli stava per chiedere in matrimonio la signorina Y. Ma (fatto singolare per una lettera anonima) il messaggio continuava precisando che della signorina Y non si poteva dire niente di male, che anzi era di famiglia, oltre che rispettabile, danarosa, e che era simpaticamente nota in città.

Sin da allora, pur essendo poco più che bambino, ma già lettore di romanzi gialli e affini, sapevo perché si scrivesse una lettera anonima: per denunciare le malefatte di qualcuno, non per parlarne bene. Se pure la mia signora in pelliccia fosse stata la madre o la zia della signorina Y, di cui avesse voluto favorire le nozze, come poteva pensare che il signor X avrebbe preso sul serio una denuncia anonima delle virtù della sua futura sposa?


E però, crescendo in età e saggezza, mi sono reso conto che la manovra della misteriosa signora in pelliccia non era priva di una sua logica, ovviamente perversa. Se ti arriva una lettera anonima dove si parla di una certa persona, per poco che di quella persona ti si dica, la si avvolge immediatamente in un'aura di sospetto. Che cosa voleva dire che la signorina Y era simpaticamente nota in città? A quali occulte fonti di guadagno si alludeva informando che la sua famiglia era danarosa?

Ho così capito che quando un evento, o una serie di dati, in sé banalissimi e inoffensivi, vengono raccontati 'come se' fossero una denuncia, tutti avvertiamo il messaggio come una denuncia. Una denuncia oscura, certo, dai confini sfumati, ma perché altrimenti l'ignoto scrivente si sarebbe preoccupato di farci sapere quelle cose se fossero state inoffensive?

Detta in breve, se io fossi stato lo stimato commerciante signor X avrei subito rinunciato alla mia richiesta di matrimonio, per non rischiare di mettermi in casa (e ancor peggio, nel letto) una persona di cui si stava già parlando sin troppo. La signorina Y era troppo chiacchierata.

Ora ci sono certamente accuse, anonime o meno, che puntano su un crimine manifesto (il tale è pedofilo, ha rubato denaro pubblico, va a letto con vostra moglie o vostro marito, è legato a Osama); sono le più praticate ma, vorrei dire, le più ingenue, perché basta un piccolo particolare a mostrarne eventualmente la falsità e a renderle inoffensive. Ma le più pericolose sono quelle che non accusano di nulla e lasciano tutto l'onore del sospetto al destinatario. Esse non sono impugnabili. Ma sono pericolose.

Pensavo alla signora in pelliccia leggendo le settimane scorse del magistrato sorpreso a fumare, ad andare dal barbiere, a sedere su una panchina con calzino turchese. Si diceva male di lui? Per nulla. Ma perché andava in calzini turchesi dal barbiere e, soprattutto, perché qualcuno si premurava di dircelo come per inviarci un messaggio in codice?

Ci vuole poco a gettare su una persona un'ombra di sospetto. Pensate se 'Repubblica' invece di svelare la storia del compleanno di Noemi avesse detto e documentato: "Venerdi scorso il presidente del Consiglio è andato a passeggiare in piazza Navona, ha incontrato suo cugino e insieme hanno preso un birra.". Aggiungendo: "Che storia curiosa, non vi pare?". A quest'ora Berlusconi, assediato da vaghe allusioni e trafitto da sguardi sospettosi anche da parte dei suoi fedeli, sarebbe già stato obbligato a dare le dimissioni.

(30 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Il crocefisso, simbolo quasi laico
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 12:06:10 pm
Il crocefisso, simbolo quasi laico

di Umberto Eco


Eliminare le immagini religiose dalle scuole non incide sulla forza della fede. Nelle nostre università non c'è il crocefisso nelle aule, ma tanti studenti aderiscono a Comunione e liberazione
 
Non mi ricordo come e perché ma la polemica sul crocefisso nelle scuole aveva già infuriato circa sei anni fa. A distanza di tanto tempo, salvo il fatto che si profila un contrasto tra governo italiano e Chiesa, da un lato, e Unione europea dall'altro, i termini del problema non sono gran che cambiati.

La Repubblica francese proibisce l'esibizione di simboli religiosi nelle scuole dello Stato, ma alcune delle grandi correnti del cattolicesimo moderno sono fiorite proprio nella Francia repubblicana, a destra come a sinistra, da Charles Peguy e Léon Bloy a Maritain e Mounier, per arrivare sino ai preti operai, e se Fatima è in Portogallo, Lourdes è in Francia. Quindi si vede che, anche eliminando i simboli religiosi dalle scuole, questo non incide sulla vitalità dei sentimenti religiosi.

Nelle università nostre non c'è il crocefisso nelle aule, ma schiere di studenti aderiscono a Comunione e liberazione. Di converso, almeno due generazioni di italiani hanno passato l'infanzia in aule in cui c'era il crocefisso in mezzo al ritratto del re e a quello del duce, e sui trenta alunni di ciascuna classe parte sono diventati atei, altri antifascisti, altri ancora, credo la maggioranza, hanno votato per la Repubblica.

Però, mentre era sbagliato citare nella costituzione europea solo la tradizione cristiana, perché l'Europa è stata influenzata anche dalla cultura pagana greca e dalla tradizione giudaica (e che è la Bibbia?), è peraltro vero che la storia delle sue varie nazioni è stata segnata da credenze e simboli cristiani, così che le croci si trovano sui gonfaloni di molte città italiane magari governate per decenni dai comunisti, su stemmi gentilizi, su numerose bandiere nazionali (inglese, svedese, norvegese, danese, svizzera, islandese, maltese e così via) in modo tale che è divenuto un segno spogliato di ogni richiamo religioso. Non solo, un cristiano sensibile dovrebbe indignarsi per il fatto che una croce in oro orna sia il petto villoso dei maschiacci romagnoli specializzati in turiste tedesche, che la scollatura di molte signore di facili costumi (ricordiamo che il cardinal Lambertini, vedendo una croce sul seno fiorente di una bella dama, faceva salaci osservazioni sulla dolcezza di quel calvario). Portano catenelle con croci ragazze che vanno in giro con l'ombelico scoperto e la gonna all'inguine. Se fossi il papa chiederei che un simbolo così oltraggiato scomparisse, per rispetto, dalle aule scolastiche.

Visto che il crocefisso, salvo quando appare in chiesa, è diventato un simbolo laico, e in ogni caso neutro, è più bigotta la Chiesa che vuole tenerlo o l'Unione Europea che vuole toglierlo?

Parimenti la mezzaluna musulmana appare nelle bandiere dell'Algeria, della Libia, delle Maldive, della Malaysia, della Mauritania, del Pakistan, di Singapore, della Turchia e della Tunisia, eppure si parla dell'entrata in Europa di una Turchia che porta quel simbolo religioso sulla bandiera, e se un monsignore cattolico viene invitato a tenere una conferenza in un ambiente musulmano, accetta di parlare in una sala decorata con versetti del Corano.

Che dire ai non cristiani che ormai abitano in modo consistente l'Europa? Che esistono a questo mondo degli usi e costumi, più radicati delle fedi o delle rivolte contro ogni fede, e gli usi e costumi vanno rispettati. Per questo se visito una moschea mi tolgo le scarpe, altrimenti non ci vado. Per questo una visitatrice atea è tenuta, se visita una chiesa cristiana, a non esibire abiti provocanti, altrimenti si limiti a visitare i musei. La croce è un fatto di antropologia culturale, il suo profilo è radicato nella sensibilità comune. Chi emigra da noi deve anche familiarizzarsi con questi aspetti della sensibilità comune del paese ospite. Io so che nei paesi musulmani non si deve consumare alcol (tranne che in luoghi deputati come gli hotel per europei) e non vado a provocare i locali tracannando whisky davanti a una moschea.

L'integrazione di un'Europa sempre più affollata di extracomunitari deve avvenire sulla base di una reciproca tolleranza. Io credo che un ragazzo musulmano non debba essere disturbato da un crocefisso in aula, se per il resto le sue credenze vengono rispettate e specialmente se l'ora di religione si trasformasse in un'ora di storia delle religioni in cui si parla anche di quello in cui lui crede.

Naturalmente, a voler veramente scavalcare il problema, si potrebbe mettere nelle scuole una croce nuda e cruda, come accade di trovare anche nello studio di un arcivescovo, per evitare il richiamo troppo evidente a una religione specifica. Ma scommetto che una trovata così ragionevole sarebbe intesa come un cedimento. Quindi, continuiamo a litigare.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. I re magi, questi sconosciuti
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2009, 03:53:29 pm
I re magi, questi sconosciuti

di Umberto Eco


Perché è necessario, al di là di ogni considerazione religiosa, che i ragazzi abbiano a scuola una informazione di base su idee e tradizioni delle varie religioni 
Quasi per caso mi è accaduto di assistere negli ultimi giorni a due episodi, una quindicenne che sfogliava molto interessata un libro di riproduzioni d'arte, e altri due quindicenni che stavano visitando (affascinati) il Louvre. Tutti e tre erano nati ed erano stati educati in paesi rigorosamente laici e in famiglie di non credenti.
Questo faceva sì che vedendo 'La zattera della Medusa' capissero che alcuni sventurati erano appena sfuggiti a un naufragio, o che i due personaggi dell'Hayez che si vedono a Brera fossero due innamorati, ma non riuscivano a realizzare perché l'Angelico avesse rappresentato una ragazza a colloquio con una checca alata o perché un signore sciamannato discendesse a balzelloni da una montagna portandosi addosso due lastre di pietra pesantissime ed emanando raggi luminosi dalle corna.

Naturalmente i ragazzi riconoscevano qualcosa in una natività o in una crocifissione, perché avevano già visto qualcosa di simile ma, se nel presepe si inserivano tre signori con mantello e corona, già non sapevano chi fossero e da dove venissero. È vero che questo succedeva anche a Matteo, ma non è questo il punto.

È impossibile capire diciamo i tre quarti dell'arte occidentale se non si conoscono i fatti dell'Antico e del Nuovo Testamento e le storie dei santi. Chi è una ragazza con gli occhi su un piattino, viene dalla notte dei morti viventi? E un cavaliere che taglia in due un capo di abbigliamento fa una campagna anti-Armani?

Quindi succede che, in molte situazioni culturali, ragazzi e ragazze imparano a scuola tutto sulla morte di Ettore ma niente su quella di San Sebastiano, tutto magari sulle nozze di Cadmo e Armonia ma niente sulle nozze di Cana. In certi paesi c'è una forte tradizione di lettura della Bibbia, e i bambini sanno tutto sul vitello d'oro, ma niente sul lupo di San Francesco. In altri posti li si è imbottiti di vie crucis e li si è tenuti all'oscuro della 'mulier amicta solis' dell'Apocalisse.

Ma il peggio avviene ovviamente quando un occidentale (e non solo i quindicenni) ha a che fare con rappresentazioni di altre culture - tanto più invadenti oggi quando la gente viaggia in paesi esotici mentre gli abitanti di quei paesi vengono a installarsi da noi. Non parlo delle reazioni perplesse di un occidentale di fronte a una maschera africana, o delle sue risate davanti a dei Buddha oppressi dalla cellulite (tra l'altro costoro, interrogati, sono pronti a rispondere che Buddha è il dio degli orientali così come Maometto è il dio dei musulmani); è che molti dei nostri vicini di casa sarebbero disposti a pensare che la facciata di un tempio indiano è stata disegnata dai comunisti per rappresentare quello che avveniva a Villa Certosa, e scuotono la testa quando vedono che gli stessi indiani prendono sul serio un signore accovacciato con la testa di elefante, senza rendersi conto che loro non trovano niente da ridire in una persona divina rappresentata come colomba.

Pertanto, al di là di ogni considerazione religiosa, e anche dal punto di vista più laico del mondo, occorre che i ragazzi abbiano a scuola una informazione di base su idee e tradizioni delle varie religioni. Pensare che non sia necessario equivale a dire che non bisogna insegnargli chi fossero Giove o Minerva perché erano solo fole per le vecchiette del Pireo.

Ora il voler risolvere l'educazione alle religioni con l'educazione a una singola religione (tanto per fare un esempio, quella cattolica in Italia) è culturalmente pericoloso perché, da un lato, non si può impedire ad alunni non credenti o figli di non credenti, di non assistere a quell'ora, così perdendo anche un minimo di elementi culturali fondamentali; e dall'altro viene esclusa dall'educazione scolastica ogni accenno ad altre tradizioni religiose. Non solo, ma anche l'ora di religione cattolica potrebbe risolversi in uno spazio di discussione etica, rispettabilissima, sui doveri verso i nostri simili o su cosa sia la fede, trascurando quelle notizie che ci permettono di distinguere una Fornarina da una Maddalena pentita.

È pur vero che quelli della mia generazione hanno studiato tutto su Omero e niente sul Pentateuco, e abbiamo avuto anche pessime lezioni di storia dell'arte al liceo, così come ci insegnavano tutto sul Burchiello e niente su Shakespeare - e nonostante questo ce la siamo cavata, perché evidentemente c'era qualcosa nell'ambiente che ci faceva pervenire sollecitazioni e notizie. Ma quei tre quindicenni di cui dicevo, che non sapevano riconoscere i Re Magi, mi suggeriscono che anche l'ambiente di informazioni utili ne trasmetta sempre meno, e molte invece d'inutilissime.

Che i Re Magi ci tengano le loro sei sante mani sulla testa.

(26 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. I re magi, questi sconosciuti
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:50:08 pm
I re magi, questi sconosciuti

di Umberto Eco


Perché è necessario, al di là di ogni considerazione religiosa, che i ragazzi abbiano a scuola una informazione di base su idee e tradizioni delle varie religioni  Quasi per caso mi è accaduto di assistere negli ultimi giorni a due episodi, una quindicenne che sfogliava molto interessata un libro di riproduzioni d'arte, e altri due quindicenni che stavano visitando (affascinati) il Louvre. Tutti e tre erano nati ed erano stati educati in paesi rigorosamente laici e in famiglie di non credenti. Questo faceva sì che vedendo 'La zattera della Medusa' capissero che alcuni sventurati erano appena sfuggiti a un naufragio, o che i due personaggi dell'Hayez che si vedono a Brera fossero due innamorati, ma non riuscivano a realizzare perché l'Angelico avesse rappresentato una ragazza a colloquio con una checca alata o perché un signore sciamannato discendesse a balzelloni da una montagna portandosi addosso due lastre di pietra pesantissime ed emanando raggi luminosi dalle corna.

Naturalmente i ragazzi riconoscevano qualcosa in una natività o in una crocifissione, perché avevano già visto qualcosa di simile ma, se nel presepe si inserivano tre signori con mantello e corona, già non sapevano chi fossero e da dove venissero. È vero che questo succedeva anche a Matteo, ma non è questo il punto.

È impossibile capire diciamo i tre quarti dell'arte occidentale se non si conoscono i fatti dell'Antico e del Nuovo Testamento e le storie dei santi. Chi è una ragazza con gli occhi su un piattino, viene dalla notte dei morti viventi? E un cavaliere che taglia in due un capo di abbigliamento fa una campagna anti-Armani?

Quindi succede che, in molte situazioni culturali, ragazzi e ragazze imparano a scuola tutto sulla morte di Ettore ma niente su quella di San Sebastiano, tutto magari sulle nozze di Cadmo e Armonia ma niente sulle nozze di Cana. In certi paesi c'è una forte tradizione di lettura della Bibbia, e i bambini sanno tutto sul vitello d'oro, ma niente sul
lupo di San Francesco. In altri posti li si è imbottiti di vie crucis e li si è tenuti all'oscuro della 'mulier amicta solis' dell'Apocalisse.

Ma il peggio avviene ovviamente quando un occidentale (e non solo i quindicenni) ha a che fare con rappresentazioni di altre culture - tanto più invadenti oggi quando la gente viaggia in paesi esotici mentre gli abitanti di quei paesi vengono a installarsi da noi. Non parlo delle reazioni perplesse di un occidentale di fronte a una maschera africana, o delle sue risate davanti a dei Buddha oppressi dalla cellulite (tra l'altro costoro, interrogati, sono pronti a rispondere che Buddha è il dio degli orientali così come Maometto è il dio dei musulmani); è che molti dei nostri vicini di casa sarebbero disposti a pensare che la facciata di un tempio indiano è stata disegnata dai comunisti per rappresentare quello che avveniva a Villa Certosa, e scuotono la testa quando vedono che gli stessi indiani prendono sul serio un signore accovacciato con la testa di elefante, senza rendersi conto che loro non trovano niente da ridire in una persona divina rappresentata come colomba.

Pertanto, al di là di ogni considerazione religiosa, e anche dal punto di vista più laico del mondo, occorre che i ragazzi abbiano a scuola una informazione di base su idee e tradizioni delle varie religioni. Pensare che non sia necessario equivale a dire che non bisogna insegnargli chi fossero Giove o Minerva perché erano solo fole per le vecchiette del Pireo.

Ora il voler risolvere l'educazione alle religioni con l'educazione a una singola religione (tanto per fare un esempio, quella cattolica in Italia) è culturalmente pericoloso perché, da un lato, non si può impedire ad alunni non credenti o figli di non credenti, di non assistere a quell'ora, così perdendo anche un minimo di elementi culturali fondamentali; e dall'altro viene esclusa dall'educazione scolastica ogni accenno ad altre tradizioni religiose. Non solo, ma anche l'ora di religione cattolica potrebbe risolversi in uno spazio di discussione etica, rispettabilissima, sui doveri verso i nostri simili o su cosa sia la fede, trascurando quelle notizie che ci permettono di distinguere una Fornarina da una Maddalena pentita.

È pur vero che quelli della mia generazione hanno studiato tutto su Omero e niente sul Pentateuco, e abbiamo avuto anche pessime lezioni di storia dell'arte al liceo, così come ci insegnavano tutto sul Burchiello e niente su Shakespeare - e nonostante questo ce la siamo cavata, perché evidentemente c'era qualcosa nell'ambiente che ci faceva pervenire sollecitazioni e notizie. Ma quei tre quindicenni di cui dicevo, che non sapevano riconoscere i Re Magi, mi suggeriscono che anche l'ambiente di informazioni utili ne trasmetta sempre meno, e molte invece d'inutilissime.

Che i Re Magi ci tengano le loro sei sante mani sulla testa.

da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Addio Pennsylvania zero zero five
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 11:12:00 am
Addio Pennsylvania zero zero five

di Umberto Eco


Un pensierino sulla proposta di Brunetta di pubblicizzare i compensi dei conduttori televisivi. E uno sulla evoluzione dei numeri del telefono. Che diventeranno immemorizzabili
 
Primo pensierino. Ho letto anch'io delle varie reazioni alla proposta del ministro Brunetta, e cioè di pubblicizzare nei titoli di testa (o di coda) i compensi ricevuti dai conduttori della Rai. Nulla da ridire, anche perché la cosa non dovrebbe riguardarmi. Tutte le forme di trasparenza sono le benvenute in un società, come si dice, liberale e aperta al libero mercato. Salvo che il ministro Brunetta aggiunge che i compensi dovrebbero essere uguali per tutti, indipendentemente dal numero di spettatori che un conduttore riesce a coinvolgere.

Francamente mi sembra un bel ritorno allo stalinismo, anzi al marxismo leninismo dei vecchi tempi, ai vecchi principi del comunismo, a ciascuno secondo i suoi bisogni e da ciascuno secondo le sue capacità. Salvo che almeno ai più bravi Stalin dava la dacia. In Rai niente dacia, Brunetta è più vicino a Pol Pot.

Ma il problema non è questo. È che la proposta riguarda la Rai, servizio pubblico, e non Mediaset. Che cosa dovrebbe derivarne, se il principio fosse applicato? La Rai pagherebbe tutti eguale, ed è ovvio che la media si allineerebbe verso il basso. Con i compensi stracciati della Rai, Mediaset potrebbe abbassare i suoi, tenendoli però oculatamente differenziati e sempre a un livello tale che nessuno dei suoi bravi conduttori sia tentato di passare alla Rai. Anzi, saranno i conduttori Rai di maggior successo che a quel punto avrebbero tutto l'interesse a passare armi e bagagli a Mediaset. In Rai resterebbero solo i meno popolari. Ed ecco che a quel punto, se io fossi Berlusconi, è a Brunetta che regalerei la dacia, perché il piano di smantellamento della Rai in favore di Mediaset è mirabile, efficace, e appare persino virtuoso. Ma che una dacia, due!

Pensierino numero due. A causa del mio radicato risentimento verso i telefonini (ma in realtà anche verso i telefoni fissi e verso chiunque abbia la pessima idea di telefonarmi, invece di astenersi da questa brutale pratica, come ormai io faccio da tempo) sono stato colto da incontenibile allegrezza leggendo una notizia su '
Repubblica' del 3 dicembre scorso: in Inghilterra hanno finito o stanno per finire i numeri di telefono.

Come mai? I numeri non sono forse infiniti? Certo, e sapete come sia folle domandarsi quale sia il più alto numero dispari. E con una infinità di numeri non si possono ottenere fantastilioni di combinazioni? E come no. Salvo che sarebbe imbarazzante, per chiamare i pompieri, digitare un numero di ottantamila cifre, ed ecco perché polizia, pompieri, ambulanze hanno di solito numeri cortissimi. Ma anche per il resto, oltre le otto cifre attuali, il numero non è tanto indigitabile quanto immemorizzabile. Ed ecco quindi la storia inglese. Non ci sono più o stanno per finire numeri maneggiabili da assegnare a telefoni fissi, e dunque si dovrà sia razionarli che usare prefissi differenziati (come a dire che Roma non sarebbe più 06 ma molti altri numeri, a seconda del rione, che so, o delle iniziali del cliente). E si noti che questo sta accadendo per i telefoni fissi, perché in fin dei conti gli utenti del telefonino non sono ancora in numero astronomico. Ma stanno crescendo, e se una volta c'era un solo fisso per tutta la famiglia, oggi può già accadere che in una famiglia di cinque persone ciascuno abbia almeno due telefonini. Pertanto, tra un poco, andranno in crisi anche i telefonini.

Inchieste rassicuranti ci dicono che la situazione italiana non è così drammatica; a Londra i telefoni crescono a causa dei molti immigrati integratissimi, qui da noi ci pensa la Lega a rispedirli in mare e telefonino neppure a pensarci. Ma domani?

È una vicenda ciclica tipica della società tecnologica. Le automobili sono state inventate per permetterci di andare più in fretta ma ormai sono loro che ci obbligano ad andare adagio, per cui siamo costretti a lasciarle in garage e a girare in bicicletta. Passavo l'altro giorno da Reims, con le strade tutte in subbuglio. Mi hanno spiegato che scavano per cercare le vecchie rotaie dei tram. I tram li avevano aboliti perché non lasciavano circolare le macchine, ora li si rimettono in funzione proprio per impedire alle macchine di circolare.

Godo immaginandomi folle di individui, ormai incapaci di stare in silenzio almeno quando camminano da soli, privati non del loro telefonino, ma dei numeri altrui, impossibilitati a comunicare l'inessenziale di cui vivono, ridotti al fantasma che avevano dimenticato di essere.

Davvero, ogni tanto la vita è bella.

(10 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Tintura di odio
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 04:13:44 pm
Tintura di odio

di Umberto Eco


L'attentato è un rischio quasi fisiologico legato alla funzione dell'uomo politico. Nel nostro caso non si tratta di una passione forte ma di una diarrea del comportamento
 
L'attentato a Berlusconi ha subito suscitato il discorso dell'odio, da chi auspica la fine della spirale dell'odio, a Berlusconi che ha visto l'attentato come risultato di una campagna d'odio verso di lui, a Di Pietro che lo ha visto come risultato delle campagne d'odio suscitate per primo da Berlusconi. Se si pensa che l'Italia si è qualificata attraverso i secoli come un paese dominato dall'odio tra città e città e dall'odio reciproco tra i singoli (e il primo piagnone a lamentarsi dell'odio a cui era fatto segno è stato proprio il padre Dante) non ci si potrebbe che associare al discorso dell'odio. Troppo odio, quanto odio.

Ma è proprio vero? Negli altri paesi le persone non si odiano tra di loro e la politica non viene mai fatta all'insegna dell'odio? La civilissima Francia ha avuto due vampate d'odio unite da un secolare e continuo crepitare di piccole combustioni, tra il grande momento della rivoluzione, dove i politici, dopo aver tagliato la testa al re, se la tagliavano tra di loro, e l'immenso massacro della Comune, dove le due fazioni si trucidavano a vicenda e si fucilavano all'angolo della strada donne e bambini.
La guerra di secessione ha soltanto inaugurato un odio razziale americano durato (se è davvero finito) sino a ieri, nella guerra civile spagnola l'odio si è manifestato in modi orrendi, chi sventrava le monache e chi decimava gli anarchici, e taccio su tante vampate d'odio durante la guerra civile russa, e su quello che accade ancor ora tra varie tribù africane, eccetera eccetera. Noi della specie umana siamo insomma esseri inclini all'odio, tanto quanto siamo inclini al sesso, al pianto, al riso o alla religione, siamo fatti così e basta - altrimenti non sarebbe suonato così inedito e scandaloso il richiamo evangelico all'amore.

Che cosa caratterizza allora la politica italiana attuale? Il modo smandrappato in cui la rivalità (e l'odio che spesso ne consegue) si manifesta in modo incivile, perché c'è una differenza tra chiedere con serietà la testa di Danton e mangiare mortadella in parlamento, pascolare maiali nei pressi di luoghi di culto musulmani, ridurre i giudizi politici a osservazioni sui costumi sessuali, il pronunziare parolacce anziché apoftegmi (prova ne sia che se interroghiamo un nostro politico scopriamo che sa cosa vogliono dire vari termini dialettali per il membro virile ma non cosa voglia dire apoftegma). Qui siamo, come diceva giorni fa il 'Guardian', a una 'politics alla puttanesca'.

E allora l'attentato a Berlusconi? Tranne mi pare uno o due giornali che, per dovere di testimonianza storica, hanno dedicato un taglio basso alla storia degli attentati, nell'emozione generale nessuno ha ricordato che l'attentato fa parte del curriculum di quasi ogni personalità politica di rilievo (e talora persino di personaggi dello spettacolo, vedi John Lennon).
Ci ricordiamo ovviamente di quelli mortali, da Lincoln a Umberto I e ai Kennedy, ma ci siamo dimenticati che ad attentati sono stati fatti segno Napoleone I e Napoleone III, vari ministri e sovrani ottocenteschi, nel secolo scorso Togliatti, Giovanni Paolo II, Chirac, Carlo d'Inghilterra, Reagan, e via dicendo, sino a considerare attentato (per la dinamica del gesto) persino la scarpata a Bush. E tranne casi assai rari (come la matrice anarchica dell'attentato di Gaetano Bresci) nella stragrande maggioranza l'attentato viene compiuto da uno squilibrato, privo persino di motivazioni se non quella, di solito, di voler salire agli onori della cronaca - e il caso Tartaglia, che prima attenta e poi scrive un lettera di scuse, è tipico di questi gesti, in cui spesso l'attentatore chiede perdono alla sua vittima e sembra che voglia diventarne amico, visto che pensa di aver stabilito con essa un rapporto privilegiato.
E d'altra parte, se l'attentato non fosse quasi un rischio fisiologicamente legato alla funzione dell'uomo politico, non si vedrebbe perché costui abbia una scorta: la scorta è come un vaccino, che si prende proprio perché si sa che il virus è in agguato.

Forse a giustificare l'idea che la società italiana sia pervasa dall'odio basterebbe questo esplodere del discorso dell'odio di fronte a un problema appunto 'fisiologico'. Ma continuo a pensare che non si tratti di odio, bensì di smagliatura (certamente tragica) di un tessuto civile, di una perdita progressiva di ogni controllo, di svalutazione dei termini (così come i media ormai da tempo dicono che qualcuno 'tuona' quando di fatto semplicemente afferma o sostiene). Il che è certamente peggio dell'odio.

L'odio sarebbe ancora una passione forte, mentre qui siamo di fronte a una diarrea del comportamento.



(22 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Sbatti il mostro su dieci pagine
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 11:47:56 pm
Sbatti il mostro su dieci pagine

di Umberto Eco


I giornali per riempire 60 pagine, e avere la pubblicità che ti consente di vivere, devono sparare la notizia in più articoli col risultato di parlare dieci volte dello stesso evento nello stesso giorno
 
Sul 'Venerdì' di 'Repubblica' della settimana scorsa Michele Serra si è trovato nella difficile situazione di rispondere a un lettore che gli diceva (riassumo e integro a memoria e a modo mio): tv e giornali ci dicono che siamo tutti stravolti dall'odio, e poi quando parlo coi miei vicini di casa o i compagni di lavoro trovo gente tranquilla e pacifica che non odia nessuno; vedo un talk show e pare che tutti vogliano sopraffarsi, e poi nella vita di tutti i giorni, salvo qualche piccolo atto di maleducazione, trovo gente rispettosa dell'interlocutore, che chiede scusa se ti urta; leggo di un razzismo dilagante e poi trovo persone che mollano un euro al nero che vuole vendergli la rosa, e non gli sparano addosso; eccetera.
Non saranno i media che dipingono la vita peggiore di quello che è, non solo ma (integro sempre a modo mio) ci istigano a comportarci peggio di quanto saremmo portati a fare?

Serra ha risposto a lume di buon senso e sottoscrivo pienamente la sua risposta: è vero, è così, ma immaginiamo un mondo in cui non ci siano tv e giornali e siamo privati di qualsiasi notizia: sarebbe migliore? E quindi cerchiamo di essere più critici e selettivi coi mass media, e di sopravvivere in questo caos.

Ma com'è che giornali e televisioni sono diventati così perversi da dipingerci un mondo peggiore di quello che è? La verità è che le cose vanno così sin dall'invenzione dei giornali: se volete un atto di accusa contro la stampa andatevi a leggere 'Le illusioni perdute' di Balzac, e vedrete che i nostri vizi attuali hanno radici antiche. La stampa dei miei nonni e dei miei genitori sguazzava nelle cronache criminali e trascinava per mesi, anzi per anni, la diatriba su Bruneri e Canella, a petto della quale i delitti di Garlasco e di Cogne sono delle meteore. Il salto è stato di quantità e non di qualità - ma sappiamo bene che le mutazioni quantitative, oltre un certo limite, diventano mutazioni qualitative.

È verissimo che le Tribune Politiche degli anni Cinquanta e Sessanta erano modelli di educazione e civiltà, ma questo succedeva perché c'era un solo dibattito alla settimana e su un solo canale. Passate a sette dibattiti quotidiani su sette canali e vedrete che o si grida o nessuno ti ascolta. Ricordo che una volta a un amico che stava per iniziare una trasmissione in tv avevo consigliato una idea rivoluzionaria: tieni in tasca un telecomando per cui, se un tizio interrompe mentre un altro parla, gli togli l'audio, e quello rimane in video a fare scena muta come un cretino. Vedrai che smettono di parlarsi addosso. L'amico mi ha ringraziato entusiasta, ma poi ha continuato a fare come tutti gli altri: devono avergli detto che se la gente non si parla addosso gli spettatori si annoiano e cambiano canale.

I guai della quantità sono molteplici: se un tempo il quotidiano aveva quattro pagine (parlo dei beati tempi di guerra) oggi ne ha in media 60, e non è che al mondo succedano più cose - anzi, a essere obiettivi, ne succedevano di più tra il 1943 e il 1945, dall'Olocausto alla bomba atomica. Per riempire queste 60 pagine, e avere la pubblicità che ti consente di vivere, devi magnificare la notizia, sbattere il mostro non solo in prima ma anche in seconda e terza pagina, col risultato di parlare dieci volte dello stesso evento nello stesso giorno, dal punto di vista di dieci inviati, e dando l'impressione che gli eventi siano dieci. Ma perché devi avere pubblicità per riempire sessanta pagine? Per potere fare sessanta pagine. E perché devi fare sessanta pagine? Per avere pubblicità abbastanza per farle.

Come capite, dal ricatto della quantità non si esce, ma a scapito della qualità. Serra diceva: impariamo a essere selettivi, ed è quello che avrei detto io, educhiamo i ragazzi a leggere criticamente i giornali, a sceverare, come si dice, il grano dal loglio. Ci vuole più educazione scolastica alla lettura.

Ma sta emergendo che (probabilmente a causa di questo abboffo quantitativo) i giovani non leggono più i giornali, che si avviano a diventare hegelianamente la preghiera quotidiana del pensionato. La vittoria dei quotidiani sui settimanali, la loro cosiddetta 'settimanalizzazione' (fenomeno quantitativo dovuto al fatto che la televisione serale sottrae al quotidiano il privilegio della notizia inedita) da un lato ha messo in crisi i settimanali, ma dall'altro sta rendendo illeggibili i quotidiani, e i giovani si buttano su Internet.

Non è che Internet sia meno minato dal problema della quantità (perché rende impossibile sceverare l'attendibile dall'inattendibile), ma almeno dà l'impressione (falsa) di poter scegliere ciò che si vuole sapere.

Per cui grande è la confusione sotto il cielo e se qualcuno mi domandasse un consiglio da saggio, la saggezza mi imporrebbe di dire che non ce l'ho.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Eco: hanno fatto una figura da cioccolatai
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2010, 09:55:36 am
26/1/2010 (7:44)  - IL CASO

Eco: hanno fatto una figura da cioccolatai

Umberto Eco, ieri a Venezia per la presentazione del suo ultimo libro
   
Il semiologo impietoso

JACOPO IACOBONI

Che figura da cioccolatai hanno fatto a Bari questi dirigenti del Pd...». Sono le 11,50 e Umberto Eco è nel caffè al piano terra del museo di Punta della Dogana, il gioiello restaurato da Tadao Ando tra Canal Grande e Canale della Giudecca. Il più importante scrittore italiano, con un gruppetto che lo accompagna, ha appena finito un caffè e si dirige verso l'ascensore.

È a Venezia perché tra poche ore presenterà, a Palazzo Grassi, il suo ultimo libro, «Vertigine della lista». Naturalmente, non di liste elettorali si parla nel brillante saggio, ma il giorno dopo le primarie del centrosinistra la tentazione di sapere come la pensa è troppo forte. Parlare di altre, liste.

E lui non si sottrae allo scambio di battute. Non è un’intervista, chiarisce, «questa chiacchierata». Nondimeno l'analisi è come al solito acuminata. «A Bari hanno fatto una figura da cioccolatai, non era difficile prevedere la vittoria di Vendola, no?», sospira mentre, giacca pesante di lana verde, scarpe robuste, bastone anti-mal di schiena alla mano, sta uscendo dall’ascensore e sale l’ultima rampa di scale che conduce al Belvedere interno. Gli illustrano l’unica opera collocata lassù, un elefante di polistirolo espanso appeso al soffitto a cassettoni, «Man on the Moon» di Mark Handforth. Non è la cosa più bella che ci sia qui dentro, ma il grande semiologo è come sempre curiosissimo.

Verrebbe da chiedergli se anche i dirigenti del Pd non vivano un po’ sulla luna; specie quelli che si ritengono unici professionisti della politica. D'Alema si era speso molto, professor Eco, per la candidatura di Francesco Boccia contro Nichi Vendola, il risultato non gli dà ragione, lei che impressione aveva stamattina leggendo i giornali? Mentre ridiscende le scale Eco accenna un sorriso amaro: «D'Alema non ne ha indovinata una da quarant'anni, si presenta come il più esperto di tutti, in realtà le ha sempre sbagliate tutte». Giudizio che arricchisce con un stoccata: «Non ne indovina una da quando non finì il corso di laurea alla Normale. Da lì è stato un susseguirsi di errori».

In «Vertigine della lista» Eco enumera una gran quantità di liste letterarie. Spesso sono elenchi compilati per il puro, caotico gusto della cantabilità della lista. Il caos, insomma, ha un senso paradossale. In politica, però, sarebbe meglio evitarlo. Perché il Pd continua a incappare in vicende come quella pugliese? «D’Alema, è convinto di essere uno stratega, in realtà ha distrutto tutto quello che ha toccato», e mentre lo dice Eco rotea un po’ nell’aria il bastone, quasi minaccioso. «Io ero tra quelli riuniti a Gargonza, e ricordo benissimo com'è andata la storia successiva. Checché ne dica, D'Alema ha grandi responsabilità anche nella caduta del governo di centrosinistra».

Scorrono opere a volte solo bizzarre, altre volte toccanti. L'intellettuale che più ha studiato i meccanismi della citazione si sofferma divertito dinanzi a un grande campo di calcio verde (al posto dei giocatori, omini in divisa militare, o in abito arabo) sovrastato da un meteorite enorme, appeso al soffitto. Si chiama «A Football Match of June 14th», è opera di un cinese, Huang Yong Ping, che aveva letto due notizie disparate e le aveva messe insieme. Di nuovo il grande filo del caos della postmodernità. Mentre sta per arrivare all'ultima sala, Eco confida «è molto bello il lavoro fatto da Tadao Ando».

A dispetto delle tante polemiche anti-Cacciari in laguna. C’è il tempo per un'ultima domanda, nutre qualche residua speranza nel Pd? «Lo dissi subito, fin dalla nascita, che non ci credevo, la fusione è nata fredda, e non laica. Com’è andata lo vediamo. Occorrerà trovare qualcos’altro. Io non so cosa», sospira. Non vuole parlare, invece, di come s’evolve il berlusconismo. Intorno i suoi accompagnatori stanno prenotando al molo di Madonna della Salute il taxi dell’acqua. Anche questa visita, come forse una stagione della sinistra, è finita.

da lastampa.it


Titolo: UMBERTO ECO. C'è chi gli gira il sole
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:40:49 pm
C'è chi gli gira il sole

di Umberto Eco


Ancora negli anni '60 c'era chi contestava le foto della Nasa sostenendo che l'intero programma spaziale era una montatura e lo sbarco sulla Luna una finzione
 
Edoardo Boncinelli ha tenuto una serie di Lezioni Magistrali all'Università di Bologna sulla teoria della evoluzione (origini e sviluppi) e una delle cose che mi ha colpito non sono tanto le prove ormai indiscutibili dell'evoluzionismo (sia pure nei suoi sviluppi neo-darwiniani) quanto il fatto che in proposito corrano molte idee ingenue e confuse non solo da parte dei suoi oppositori, ma anche da parte di chi le condivide: per esempio l'idea che per il darwinismo l'uomo discenda dalla scimmia (caso mai, dico io, vedendo gli episodi di razzismo dei nostri tempi, si è tentati di commentare, come aveva fatto Dumas a un moscardino che ironizzava sul suo meticciato: "Io forse discendo dalla scimmia ma voi, signore, voi vi risalite".)

Il fatto è che la scienza si confronta sempre con l'opinione comune, la quale è sempre meno evoluta di quanto si pensi. Tutti noi, persone educate, sappiamo che la terra gira intorno al sole e non viceversa, e tuttavia nella vita quotidiana ci comportiamo in termini di cosiddetta percezione ingenua e diciamo tranquillamente che il sole sorge, tramonta, è alto nel cielo. Ma quante sono le persone 'educate'? Nel 1982 un sondaggio fatto in Francia dalla rivista 'Science et vie' rivelava che per un francese su tre era il sole che girava intorno alla terra.

Traggo la notizia da 'Les cahiers de l'institut' (4, 2009), dove l'Institut è un istituto internazionale per la ricerca e l'esplorazione dei 'Fous littéraires' e cioè di tutti gli autori più o meno matti che sostengono tesi improbabili. La Francia è all'avanguardia su questo tema e in due antiche bustine (del 1990 e del 2001) mi ero intrattenuto su questo genere bibliografico, anche in morte del massimo esperto in materia, André Blavier. Ma ora in questo numero dei 'Cahiers' Olivier Justafré si intrattiene sui negatori del moto terrestre e della sfericità del nostro pianeta.

Che si negasse l'ipotesi copernicana ancora a fine Seicento, e anche da parte di studiosi illustri, non fa specie, ma la mole di studi uscita tra Ottocento e Novecento è abbastanza impressionante. Justafré si limita a opere francesi, ma bastano e avanzano, dall'abate Matalène che nel 1842 dimostrava che il sole aveva soltanto un diametro di 32 centimetri (peraltro idea già sostenuta da Epicuro, ma ventidue secoli prima) a Victor Marcucci, per cui la terra era piatta con la Corsica al centro.

E pazienza per l'Ottocento. Ma sono del 1907 lo 'Essai de rationalisation de la science experimentale' di Léon Max (libro edito da una seria libreria scientifica) e del 1936 'La terre ne tourne pas' di tal Raioviotch, il quale aggiunge che il sole è più piccolo della terra benché più grande della luna (mentre un abate Bouheret nel 1815 sostenesse il contrario). Del 1935 è l'opera di Gustave Plaisant (che si definisce 'ancien polytechnicien') dal drammatico titolo 'Tourne-t-elle?' (e cioè, ma la terra gira davvero?) e addirittura del 1965 un libro di Maurice Ollivier (anche lui 'ancien élève de l'Ecole Polytechnique') sempre sulla immobilità della terra.

L'articolo di Justafré cita fuori di Francia solo l'opera di Samuel Birley Rowbotham dove si dimostra che la terra è un disco con il polo nord al suo centro, e che dista dal sole 650 chilometri. L'opera di Rowbotham era uscita come opuscolo nel 1849, con il titolo 'Zetetic Astronomy: Earth Is Not a Globe (Astronomia Zetetica: la Terra non è un globo') ma nel corso di trent'anni era passata a una versione di 430 pagine e aveva dato origine a una Universal Zetetic Society sopravvissuta sino alla prima guerra mondiale

Nel 1956 un membro della Royal Astronomical Society, Samuel Shenton, aveva fondato la Flat Earth Society, proprio per raccogliere l'eredità della Universal Zetetic Society. La Nasa negli anni Sessanta aveva prodotto foto della terra vista dallo spazio, e a quel punto nessuno poteva più negare che avesse forma sferica, ma Shenton aveva commentato che foto del genere potevano ingannare solo un occhio inesperto: l'intero programma spaziale era una montatura, e lo sbarco sulla Luna era stata una finzione cinematografica che tendeva a ingannare l'opinione pubblica con la falsa idea di una Terra sferica. Il successore di Shenton, Charles Kenneth Johnson, ha proseguito a denunciare il complotto contro la Terra Piatta, scrivendo nel 1980 che l'idea di un globo rotante era una cospirazione contro cui si erano battuti Mosè e Colombo... Una delle argomentazioni di Johnson era che se la Terra fosse stata una sfera, allora la superficie di una grande massa d'acqua avrebbe dovuto essere curva, mentre lui aveva controllato le superfici dei laghi Tahoe e Salton senza trovare alcuna curvatura.

E allora ci stupiamo che ci siano ancora gli antievoluzionisti?

(22 gennaio 2010)

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ce-chi-gli-gira-il-sole/2119770/18


Titolo: UMBERTO ECO. Indovinala grillo
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2010, 11:26:10 am
 
OPINIONI

Indovinala grillo

di Umberto Eco

Immaginate che ci sia un medico che ogni volta che prescrive una medicina, il malato muore. Nessuno ci andrebbe più. Non capita con gli indovini e i politici che le sbagliano quasi tutte ma la gente continua a credergli
 

Di solito maghi, indovini o astrologi usano espressioni ambigue che vanno bene in ogni caso. Chi si sente dire "sei una persona mite, ma che sa farsi valere", gode nel vedersi riconosciute queste due virtù, anche se sono mutuamente contraddittorie. Per questo i maghi prosperano. Ma che dire dei vaticini puntuali che sfacciatamente (e regolarmente) vengono smentiti dai fatti?

Il Cicap, e cioè il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, svolge regolarmente ogni anno un monitoraggio sulle previsioni astrologiche dell'anno precedente - e per il 2009 potrete trovare un lungo rapporto su www.cicap.org/astrologia2009, e un riassunto sulla rivista 'Scienza & Paranormale'.

L'interprete di Nostradamus Luciano Sampietro, ha previsto un attentato mortale al papa nel 2009, Peter Van Wood sul periodico 'Nero su Bianco' ha preconizzato (per il 2009), terremoti in Grecia, Croazia, Indonesia e Amsterdam, ma per fortuna niente in Italia. Il mago Otelma aveva annunciato per Obama pericoli per la sua incolumità personale in autunno, La sensitiva Teodora Stefanova sul sito 'Quotidianonet' aveva avvertito che il prossimo segretario generale della Nato sarebbe stato Solomon Passy, l'Almanacco di Barbanera aveva avvisato che la Cina avrebbe trovato una soluzione per la situazione del Tibet, Johnny Traferri alias mago Johnny ('La Nazione') aveva predetto a Obama un attentato in marzo e aveva aggiunto che "si verificheranno suicidi collettivi, si ucciderà persino un grande uomo della televisione e nello sport ci sarà un lutto tremendo".

Per l'Italia l'astrologa Horus ('Venerdì di Repubblica') aveva anticipato che verso la fine dell'anno si sarebbero realizzate le importanti riforme sempre annunciate, per Luisa De Giuli (Tgcom, Mediaset on line) entro giugno 2009 gli sforzi legislativi per riequilibrare gli squilibri sociali avrebbero avuto successo, per l'astrologo Mauro Perfetti ('Quelli che il calcio') "il Torino si sarebbe salvato dalla serie B", per l'astrologa
Meredith Duquesne ('Le Matin online') la storia d'amore tra Carla Bruni e Sarkozy non sarebbe durata oltre il settembre 2009 (ma dopo ha precisato: "Ma non posso affermarlo: non sono una veggente". Meno male) e infine l'astrologa Sirio ('Italia allo specchio') ha proclamato che Fabrizio Corona avrebbe abbandonato Belen Rodriguez, e Barbara Massimo ('Novella 2000') che si sarebbero sposati Leonardo DiCaprio e George Clooney.

Ora immaginate che ci sia un medico che, ogni volta che prescrive una medicina, l'ammalato muore. O che si sappia che il tale avvocato perde tutte le cause. Nessuno andrebbe più da loro. Invece con gli indovini ciascuno è in grado di verificare a fine anno che le hanno sbagliate quasi tutte eppure si continua a leggere gli astrologi e a pagare i maghi anche per l'anno seguente. Evidentemente la gente non vuole sapere, bensì soddisfare il bisogno di credere, anche se si credono cose evidentemente sbagliate. Che dire? Gli dei accecano coloro che vogliono perdere. E, in fin dei conti, il comportamento con maghi e astrologi riflette anche quello con i politici che appaiono in televisione.

Naturalmente ogni tanto gli astrologi ci azzeccano, ma ciascuno di noi potrebbe mettersi a fare il loro mestiere se formulasse previsioni come queste, tutte regolarmente apparse in qualche sede: punte molto alte di violenza da parte di fondamentalisti e terroristi, rapporti difficili tra Israeliani e Palestinesi, alcuni scandali per appalti in Italia, Rocco Buttiglione può continuare a barcamenarsi ma sempre con maggiore fatica, per Veltroni non saran tutte rose e fiori, Leoluca Orlando c'è chi sta peggio di lui, per Umberto Bossi la salute continuerà a meritare un occhio di riguardo, Giulio Andreotti se c'è qualcosa che può fregarlo è la ruota del tempo, Lamberto Dini chi vivrà vedrà (questa squisitezza è dell'astrologa Antonia Bonomi). Il mago Otelma prevedeva per il Partito democratico un destino amaro e inquietante, e in Rai mutamenti nell'organigramma a favore del centrodestra. Ciliegina finale: "I parcheggi sarà sempre meno facile trovarli".

Ultima notizia del Cicap. La sensitiva Rosemary Altea, che anni fa da Maurizio Costanzo aveva messo alcuni sventurati in contatto coi loro cari defunti, è stata truffata di 200 mila dollari dalla sua dipendente Denise M. Hall. Come ha fatto a non prevederlo? Ci ricorda la storiella di quello che davanti a una porta, su cui c'è scritto 'indovino', bussa. E una voce dal di dentro chiede: "Chi è?".

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Taci, sporco intellettuale
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 06:40:58 pm
Taci, sporco intellettuale

di Umberto Eco

Nella loro lettera al 'Corriere della Sera' contro Galli della Loggia, Bondi, La Russa e Verdini mostrano nei loro geni memorie di antichi vezzi polemici
 
Questa mia bustina esce solo ogni 15 giorni, così che, se qualcosa mi sta a cuore, devo attendere due settimane per parlarne. Ma non è mai troppo tardi. Dunque, a inizio marzo, sul 'Corriere della sera', Ernesto Galli della Loggia (che non è un pericoloso comunista) aveva scritto alcune cose che suonavano critiche nei confronti del Pdl, ed ecco che Sandro Bondi, Ignazio La Russa e Denis Verdini, che di quel partito sono coordinatori, il 4 marzo scrivevano una lettera allo stesso quotidiano per esporre il loro dissenso.

Non entro nel merito della questione, libero un opinionista di criticare un partito politico e liberi alcuni uomini politici di ribattere a quelle critiche. Quello che m'interessa è una scelta lessicografica, fatta dai tre rappresentanti del Partito della Libertà.

Scrivevano essi: "Vi sono critiche. come quelle dell'editoriale di ieri del Corriere, che finiscono purtroppo per essere sterili in quanto non scaturiscono da un'onesta riflessione sulla realtà, bensì da un pensiero auto-referenziale, come direbbero gli intellettuali". Che le critiche di Galli della Loggia fossero tipiche di un 'intellettuale' emergeva anche da brani successivi della lettera, dove si diceva che chi avanza critiche come quelle si comporta "come se i fatti non esistessero, in un ambiente praticamente sterile in compagnia unicamente dei suoi libri prediletti e delle sue personalissime elucubrazioni".

La faccenda curiosa è che, se per intellettuale è qualcuno che agisce col pensiero piuttosto che con l'azione manuale, allora fanno lavoro intellettuale non solo i filosofi e i giornalisti, ma anche i banchieri, gli assicuratori e, certamente, gli uomini politici come Bondi (che tra l'altro scrive poesie), La Russa e Verdini i quali, a quanto mi risulta, non si guadagnano da vivere zappando la terra. Che se poi intellettuale è non solo chi lavora col pensiero, ma chi col pensiero svolge attività critica (qualsiasi cosa critichi e comunque lo faccia) ancora una volta i firmatari della lettera dovrebbero ritenersi esempi di lavoro intellettuale.

Ma è che la parola 'intellettuale' ha particolari connotazioni storiche. Benché qualcuno abbia scoperto che appare per la prima volta nel 1864 nel 'Chevalier des Touches' di Barbey d'Aurevilly, nel 1879 in Maupassant e nel 1886 in Leon Bloy, essa viene usata sistematicamente nel corso del famigerato affare Dreyfus, almeno dal 1888 quando un gruppo di scrittori, artisti e scienziati come Proust, Anatole France, Sorel, Monet, Renard, Durkheim, per non dire di Zola che scriverà poi il suo micidiale 'J'accuse', si dichiarano convinti che Dreyfus sia stato vittima di un complotto, in gran parte antisemita, e chiedono la revisione del suo processo. Costoro vengono definiti intellettuali da Clemenceau ma la definizione viene subito ripresa in senso denigratorio da rappresentanti del pensiero reazionario come Barrès e Brunetière per indicare delle persone che, invece di occuparsi di poesia, scienza o altre arcane specialità (insomma, dei fatti loro), ficcano il naso in questioni di cui non sono competenti, come i problemi di spionaggio internazionale e di giustizia militare (che va lasciata appunto ai militari).

L'intellettuale era dunque per gli antidreyfusardi qualcuno che viveva tra i suoi libri e le sue astrazioni fumose e non aveva contatti con la realtà concreta (e quindi era meglio stesse zitto). Questa valutazione peggiorativa, si desume dalle polemiche dell'epoca ma appare singolarmente analoga alle espressioni usate nella lettera di Bondi, La Russa, Verdini.

Ora non oso pensare che i tre firmatari della lettera, benché certamente intellettuali anche loro (così da ostentare di conoscere il significato del termine 'auto-referenziale'), lo siano a tal punto da aver contezza delle polemiche di centovent'anni fa. Semplicemente hanno nei loro geni memorie di antichi vezzi polemici, come quello appunto di ritenere (sporco) intellettuale chiunque la pensi (e dunque pensi) diversamente da te.

Viene alla mente quello sfortunato presule che anni fa, per denunciare (benemeritamente) la mafia, aveva parlato di sinagoga di Satana - e gli ebrei si erano sentiti offesi. Invano i suoi difensori avevano ricordato che l'espressione era stata usata nel Vangelo di Giovanni; ma era stata usata appunto in funzione antigiudaica, e come tale l'espressione era stata ripresa nelle polemiche antisemite del cattolicesimo reazionario ottocentesco. E dunque si trattava di un modo di dire che si trascinava dietro l'odore delle proprie origini, anche se usata nell'enfasi di una predicazione benintenzionata.

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. I sessant'anni di charlie brown
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 09:44:14 am
I sessant'anni di charlie brown

di Umberto Eco


Charles Monroe Schulz è stato un grande poeta che ci ha continuamente raccontato, con due colpi di matita, la sua versione della condizione umana
 
La prima (e purtroppo l'ultima) volta che l'ho incontrato, appena mi sono seduto al tavolo di quel bar, mi ha guardato con la sua faccia di fanciullo anziano o di anziano fanciullo, e mi ha chiesto: "Cosa ne pensa di Gesù Cristo?".

Adesso potrei lanciare un concorso per chi indovina chi fosse il personaggio, ma sarebbe difficile trovare un vincitore, quindi svelo l'arcano. Quel signore era Charles Monroe Schulz, l'autore dei Peanuts ovvero il padre di Charlie Brown. Ho saputo dopo che nella vita ha avuto momenti di interesse per i problemi religiosi, e altri, diremo, più laici, e mi diceva l'altra settimana sua moglie Jeannie che domande del genere lui spesso le faceva semplicemente perché era interessato alla gente, e voleva sapere che cosa pensavano. Non so, è che chi legge (e rilegge) i Peanuts non vi trova mai riferimenti espliciti a problemi religiosi e ad ansie metafisiche - e come potrebbero averne dei bambini che apparentemente sono ossessionati solo dal baseball?

E tuttavia di Charlie Brown si è scritto che "è capace di variazioni di umore di tono shakespeariano", la copertina di 'Linus' è senza ombra di dubbio l'oggetto transizionale di Winnicott, alle spalle di Lucy, di Schroeder e persino di Snoopy si agita l'ombra di Freud, mentre Pig Pen, dai capelli perennemente intristiti di forfora e le scarpe senza remissione infangate pronuncia parole degne di Beckett quando dice "su di me si addensa la polvere di innumerevoli secoli".

Insomma, Charles Schulz, che continuamente si stupiva che persone che lui considerava dei geni lo ammirassero, apparentemente disinteressato alle vicende del mondo e alle contraddizioni del suo tempo, è stato un grande poeta che ci ha continuamente raccontato, con due colpi di matita, la sua versione della condizione umana. Non so cosa Schulz davvero pensasse di Gesù Cristo, ma la sua era certo una forma di incantata religiosità.

Incanto irripetibile. Ed è stato naturale che avesse proibito che qualcuno dopo la sua morte facesse rivivere i suoi personaggi (come quasi sempre fa la macchina dell'industria dell'intrattenimento). Come accade ai classici, i Peanuts non possono essere aggiornati ma solo continuamente ripubblicati e riletti (tra parentesi, se esistesse ancora qualcuno che non li ha mai presi sul serio, ricordo che tutte le storie di Charlie Brown sono ora ripubblicate dalla Baldini Castoldi Dalai).

Una settimana fa, per celebrare i sessant'anni di Charlie Brown, si sono riuniti a Bologna in un'aula universitaria, insieme a Jeannie Schulz, che ha rievocato con grazia episodi della vita di suo marito, e a Fulvia Serra, direttrice di 'Linus' negli anni Ottanta, i pochi superstiti di coloro che avevano introdotto i Peanuts in Italia: Annamaria Gandini che aveva affiancato l'indimenticabile Giovanni prima per pubblicare in volume le strisce di Charlie Brown, nel 1963 (e io ne avevo scritto l'introduzione) e poi per dare vita nel 1965 alla rivista 'Linus' - e anche qui (scomparsi con Giovanni Gandini altri protagonisti di quegli anni sessanta come Franco Cavallone e Ranieri Carano) i superstiti eravamo Salvatore Gregorietti (che di 'Linus' aveva disegnato le copertine), e io che sul primo numero della rivista avevo chiacchierato con Elio Vittorini e Oreste del Buono, parlando della grandezza di Schulz.

Leggendo i resoconti giornalistici della serata bolognese vedo che mi viene attribuita l'idea che Schulz fosse più grande di Salinger. Certamente mi sento di condividere questa idea, perché Salinger rimane legato a una stagione, e al linguaggio giovanile di quegli anni, mentre Schulz gode invece dell'eternità di quei lirici greci che studiavamo a scuola e che ci raccontavano che "dormono gli uccelli dalle lunghe ali". Ma la comparazione era dovuta proprio a Vittorini, che già aveva pubblicato dei comics nel 'Politecnico', e aveva in quegli anni convinto Mondadori a ospitare in una collana di narratori stranieri le strisce del 'B.C.' di Hart.

Diceva Vittorini di Schulz: "Senza andare nel difficile, io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo. Certamente. Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario. Salinger è un 'patetico' che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz, dove l'infanzia è il 'signifiant', il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo maturo, un po' come Johnny Hart (quello di 'B.C'.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra".

(31 marzo 2010)
espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. La distinzione tra culture non è più netta.
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 04:04:22 pm
Alto medio basso

di Umberto Eco

La distinzione tra culture non è più netta.

Più che l'oggetto cambia lo sguardo, impegnato o disattento.

E per un udito disattento si può usare Wagner come colonna sonora dell'Isola dei famosi
 

Nel supplemento culturale di 'Repubblica' di sabato scorso, Angelo Aquaro e Marc Augé, in occasione dell'apparizione del libro 'Mainstream' di Frédéric Martel, riprendevano (a proposito di nuove forme di globalizzazione della cultura) una questione che si riapre regolarmente ogni tanto, ma sempre da nuovi punti di vista, e cioè quale sia ormai la linea di discrimine tra Cultura Alta e Cultura Bassa. Se a qualche giovane, che ascolta indifferentemente Mozart e musica etnica, la distinzione può parere bizzarra, ricorderò che il tema era addirittura bollente verso la metà del secolo scorso, e che anzi Dwight Macdonald in un bellissimo e aristocraticissimo saggio del 1960 ('Masscult e Midcult') identificava non due ma tre livelli.

La cultura alta era rappresentata, tanto per capirci, da Joyce, Proust, Picasso, mentre quello che veniva chiamato Masscult era dato da tutta la paccottiglia hollywoodiana, dalle copertine del 'Saturday Evening Post' e dal rock (Macdonald era di quegli intellettuali che non tenevano in casa il televisore, mentre i più aperti al nuovo lo tenevano in cucina). Ma sempre Macdonald delineava un terzo livello, il Midcult, una cultura media rappresentata da prodotti d'intrattenimento che prendevano a prestito anche stilemi dell'avanguardia, ma che era fondamentalmente Kitsch. E, tra i prodotti Midcult, MacDonald poneva per il passato Alma Tadema e Rostand, e per i tempi suoi Somerset Maugham, l'ultimo Hemingway, Thorton Wilder - e probabilmente ci avrebbe messo moltissimi libri pubblicati con successo da Adelphi, che accanto a testimonianze di cultura alta che più alta non si può, allinea autori come Maugham, appunto, Marai e il sublime Simenon (Macdonald avrebbe classificato il Simenon non-Maigret come Midcult e il Simenon-Maigret come Masscult).

Però la divisione tra
cultura popolare e cultura aristocratica è meno antica di quanto si pensi. Augé cita il caso dei funerali di Hugo a cui avevano partecipato centinaia di migliaia di persone (Hugo era Midcult o cultura alta?), alle tragedie di Sofocle andavano anche i pescivendoli del Pireo, 'I promessi sposi', appena apparso, ha avuto una serie impressionante di edizioni pirata, segno della sua popolarità - e ricordiamoci il fabbro che storpiava i versi di Dante, facendo arrabbiare il poeta, ma dimostrando al tempo stesso che la sua poesia era nota persino agli analfabeti. È vero che i romani abbandonavano una rappresentazione di Terenzio per andare a vedere gli orsi, ma in fondo anche oggi molti intellettuali raffinatissimi rinunciano a un concerto per vedere la partita.

Il fatto è che la distinzione tra due (o tre) culture si fa netta solo quando le avanguardie storiche si pongono come fine quello di provocare il borghese, e quindi eleggono a valore la non-leggibilità, o il rifiuto della rappresentazione.

Questa frattura si è conservata sino ai tempi nostri? No, perché musicisti come Berio o Pousseur hanno preso molto sul serio il rock e molti cantanti rock conoscono la musica classica più di quanto si pensi, la Pop Art ha sconvolto i livelli, il primato dell'illeggibilità spetta oggi a molto fumetto estremamente raffinato, molta musica degli spaghetti western viene rivisitata come musica da concerto, basta guardare un'asta notturna alla televisione per vedere come spettatori chiaramente non sofisticati (chi compra un quadro via televisione non è evidentemente un membro della élite culturale) acquista tele astratte che i loro genitori avrebbero definito come dipinti dalla coda di un asino e, come dice Augé, "tra cultura alta e cultura di massa c'è sempre uno scambio sotterraneo, e molto spesso la seconda si nutre della ricchezza della prima" (salvo che io aggiungerei: "e viceversa").

Caso mai oggi la distinzione dei livelli si è spostata dai loro contenuti o dalla loro forma artistica al modo di fruirli. Voglio dire che la differenza non sta più tra Beethoven e 'Jingle bells'. Beethoven che diventa suoneria per il telefonino o musica da aeroporto (o da ascensore) viene fruito nella disattenzione, come avrebbe detto Benjamin, e quindi diventa (per chi lo usa così) molto simile a un motivetto pubblicitario. Al contrario un jingle nato per pubblicizzare un detersivo può diventare oggetto di attenzione critica, e di apprezzamento per una sua trovata ritmica, melodica o armonica.

Più che l'oggetto cambia lo sguardo, c'è lo sguardo impegnato e lo sguardo disattento, e per uno sguardo (o udito) disattento si può proporre anche Wagner come colonna sonora per l'Isola dei famosi. Mentre i più raffinati si ritireranno ad ascoltare su un antico vinile 'Non dimenticar le mie parole'.

(15 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. Ipazziammo!
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 12:02:21 am
Ipazziammo!

di Umberto Eco

Il film 'Agorà' di Amenabar sulla filosofa, matematica e astronoma Ipazia fatta a pezzi dal vescovo Cirillo, ha scatenato una guerra di religione e ha fatto gridare al complotto. Che non c'è
 
È difficile che con il battage pubblicitario e la serie di dibattiti intorno al film 'Agorà' di Alejandro Amenabar qualcuno non abbia almeno sentito nominare Ipazia. Comunque, per coloro ancora poco informati dei fatti, dirò che all'alba del quinto secolo d. C., in un impero in cui anche l'imperatore ormai è cristiano, in una Alessandria dove si scontrano l'ultima aristocrazia pagana, il nuovo potere religioso rappresentato dal vescovo Cirillo e una vasta comunità ebraica, vive e insegna Ipazia, filosofa neoplatonica, matematica e astronoma, bellissima (si diceva) e idolatrata dai suoi allievi. Una banda di parabalani, talebani cristiani dell'epoca, milizia personale del vescovo Cirillo, si scaglia su Ipazia e la fa letteralmente a pezzi.

Di Ipazia non rimangono opere (forse Cirillo le ha fatte distruggere), e pochissime testimonianze, vuoi cristiane che pagane. Tutte più o meno ammettono che Cirillo qualche responsabilità ce l'aveva. A lungo Ipazia cade nel dimenticatoio, sinché viene rivalutata dal Seicento in avanti, e particolarmente dagli illuministi, come martire del libero pensiero, celebrata da Gibbon, Voltaire, Diderot, Nerval, Leopardi, e via via sino a Proust e a Luzi, sino che diventa icona del femminismo.

Il film non è certo tenero coi cristiani e con Cirillo (anche se non cela le violenze dei pagani e degli ebrei) e si è subito diffusa la voce che le forze oscure della reazione in agguato stessero per impedirne la circolazione in Italia, così che era partita una sottoscrizione di migliaia di firme. Per quello che ho capito, la distribuzione italiana era piuttosto esitante a far circolare un film che forse avrebbe suscitato forti opposizioni da parte cattolica, compromettendone la circolazione, ma quelle firme l'hanno decisa a tentare l'avventura. Ma non è del film che voglio occuparmi (filmicamente ben fatto, malgrado alcuni vistosi anacronismi) bensì della sindrome del complotto che ha scatenato.

Navigando per Internet ho trovato attacchi cattolici, in cui si protestava contro chi voleva mostrare solo il lato violento delle religioni (ma il regista ripete che il suo obiettivo polemico era il fondamentalismo di ogni sorta), ma nessuno ha tentato di negare che Cirillo, che non era solo uomo di chiesa ma anche personaggio politico, fosse stato un duro, con gli ebrei come coi pagani. Non è un caso se santo e dottore della chiesa lo ha fatto quasi millecinquecento anni dopo Leone XIII, un papa ossessionato dal nuovo paganesimo rappresentato dalla massoneria e dai liberali mangiapreti che dominavano nella Roma dei suoi tempi. Ed è imbarazzante la celebrazione di Cirillo tenuta il 3 ottobre 2007 da papa Ratzinger, il quale loda "la grande energia" del suo governo senza spendere due righe per assolverlo da quell'ombra che la storia ha fatto pesare su di lui.

Cirillo mette a disagio tutti: su Internet trovo Rino Camilleri (già difensore del Sillabo) che a garantire l'innocenza di Cirillo chiama in causa Eusebio di Cesarea. Eccellente testimone, salvo che Eusebio era morto settantacinque anni prima del supplizio di Ipazia e quindi non aveva potuto testimoniare nulla. Dico, se si deve scatenare una guerra di religione, almeno si consulti Wikipedia.

Ma veniamo al complotto: circolano su Internet varie notizie sulla censura attuata (da chi?) per celare lo scandalo Ipazia. Per esempio si denuncia che il volume otto della 'Storia della filosofia greca e romana' di Giovanni Reale (Bompiani) dedicato al Neoplatonismo, con notizie su Ipazia, sia misteriosamente scomparso dalle librerie. Una telefonata alla Bompiani mi ha chiarito che è vero che di tutta la serie dei dieci volumi gli unici due esauriti (e che quindi saranno ristampati) sono il sette e l'otto, certamente perché toccano argomenti come il 'Corpus Hermeticum' e alcuni aspetti del neoplatonismo che non interessano solo chi si occupa di filosofia ma arrazzano tutti i dissennati che si impicciano di scienze occulte vero o presunte. Ma poi sono andato a vedere nei miei scaffali questo famigerato volume otto e ho visto che Reale, il quale è uno storico della filosofia e si occupa solo di testi consultabili, mentre di Ipazia non ci è rimasto nulla, dedica a Ipazia sette righe (dico sette) dove si limita a dire il poco che seriamente si sa. E allora perché censurarlo?

Ma la teoria del complotto va oltre e sempre su Internet si dice che sono scomparsi dalle librerie tutti i libri sul neoplatonismo, asineria da far sghignazzare qualsiasi studente del primo anno di filosofia. Insomma, se volete sapere qualche cosa di serio su Ipazia, cercate in linea 'enciclopediadelledonne.it' con una bella voce di Sylvie Coyaud sul tema e, per qualcosa di più erudito, chiedete a Google 'Silvia Ronchey Ipazia' e troverete pane (non censurato) per i vostri denti.

(29 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ipazziammo/2126072/18


Titolo: UMBERTO ECO. Boicottiamo i latinisti israeliani?
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2010, 11:07:21 pm
Boicottiamo i latinisti israeliani?

di Umberto Eco

Non sono d'accordo con il mio amico Gianni Vattimo che ha firmato l'appello secondo cui "gli accademici e intellettuali israeliani hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi"
 
Nel gennaio 2003 in una Bustina mi rammaricavo che la rivista inglese "The Translator", diretta da Mona Baker, stimata curatrice di una Encyclopedia of Translation Studies avesse deciso (per protestare contro la politica di Sharon) di boicottare le istituzioni universitarie israeliane, e pertanto aveva chiesto a due studiosi israeliani, che facevano parte del comitato direttivo della rivista, di dare le dimissioni. Per inciso i due studiosi erano notoriamente in polemica con la politica del loro governo, ma la cosa a Mona Frank non faceva né caldo né freddo.
Osservavo che occorre distinguere tra la politica di un governo (o addirittura tra la costituzione di uno Stato) e i fermenti culturali che agitano un certo paese. Implicitamente rilevavo che considerare tutti i cittadini di un paese responsabili della politica del loro governo era una forma di razzismo. Tra chi si comporta così e chi afferma che, siccome alcuni palestinesi commettono attentati terroristici, bisogna bombardare tutti i palestinesi, non c'è alcuna differenza.
Ora è stato presentato a Torino un manifesto della Italian Campaign for the Academic & Cultural Boycott of Israel in cui, sempre per censurare la politica del governo israeliano, si sostiene che "le università, gli accademici e gli intellettuali israeliani, nella quasi totalità, hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi e sono complici delle loro politiche. Le università israeliane sono anche i luoghi dove si realizzano alcuni dei più importanti progetti di ricerca, a fini militari, su nuove armi basate sulle nanotecnologie e su sistemi tecnologici e psicologici di controllo e oppressione della popolazione civile".
Pertanto si chiede di astenersi dalla partecipazione in ogni forma di cooperazione accademica e culturale, di collaborazione o di progetti congiunti con le istituzioni israeliane; di sostenere un boicottaggio globale delle istituzioni israeliane a livello nazionale e internazionale, inclusa la sospensione di tutte le forme di finanziamento e di sussidi a queste istituzioni.

Non condivido affatto la politica del governo israeliano e ho visto con molto interesse il manifesto di moltissimi ebrei europei (JCall) contro l'espansione degli insediamenti israeliani (manifesto che, con le polemiche che ha suscitato, mostra come ci sia una accesa dialettica su questi problemi nel mondo ebraico, dentro e fuori Israele). Ma trovo mendace l'affermazione per cui "gli accademici e gli intellettuali israeliani, nella quasi totalità, hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi", perché tutti sappiamo di quanti intellettuali israeliani abbiano polemizzato e polemizzino su questi temi.
Dobbiamo astenerci di ospitare in un congresso di filosofia ogni filosofo cinese per il fatto che il governo di Pechino censura Google?
Posso capire che (per uscire dall'imbarazzante argomento israeliano ) se si apprende che i dipartimenti di fisica dell'università di Teheran o di Pyongyang collaborano attivamente alla costruzione della bomba atomica di quei paesi, i dipartimenti di fisica di Roma o di Oxford preferiscano interrompere ogni rapporto istituzionale con quei luoghi di ricerca. Ma non capisco perché debbano interrompersi i rapporti coi dipartimenti di storia dell'arte coreana o di letteratura persiana antica.
Vedo che ha partecipato al lancio del nuovo appello al boicottaggio il mio amico Gianni Vattimo. Ora facciamo (per assurdo!) l'ipotesi che in alcuni paesi stranieri si diffonda la voce che il governo Berlusconi attenta al sacro principio democratico della divisione dei poteri delegittimando la magistratura, e si avvale del sostegno di un partito decisamente razzista e xenofobo. Piacerebbe a Vattimo che, in polemica con questo governo, le università americane non lo invitassero più come visiting professor, e speciali comitati per la difesa del diritto provvedessero a eliminare tutte le sue pubblicazioni dalle biblioteche Usa? Io credo che griderebbe all'ingiustizia e affermerebbe che fare così è come giudicare tutti gli ebrei responsabili di deicidio solo perché il Sinedrio quel venerdì santo era di malumore.
Non è vero che tutti i rumeni sono stupratori, tutti i preti pedofili e tutti gli studiosi di Heidegger nazisti. E quindi qualsiasi posizione politica, qualsiasi polemica nei confronti di un governo, non deve coinvolgere un intero popolo e una intera cultura. E questo vale in particolare per la repubblica del sapere, dove la solidarietà tra studiosi, artisti e scrittori di tutto il mondo è sempre stato un modo per difendere, al di là di ogni frontiera, i diritti umani.

(13 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/boicottiamo-i-latinisti-israeliani/2127031/18


Titolo: INTERCETTAZIONI. Umberto Eco noi contro la legge
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2010, 06:10:42 pm
Noi contro la legge

di Umberto Eco

Le norme sulle intercettazioni. Il controllo dei tg della tv pubblica. E prima il lodo Alfano, i tagli alla scuola... Berlusconi trasforma le istituzioni un passo dopo l'altro, con lentezza. Perché i cittadini assorbano i cambiamenti come naturali. Così al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato

È nota la definizione della democrazia come sistema pieno di difetti ma di cui non si è ancora trovato nulla di meglio. Da questa ragionevole assunzione discende, per la maggior parte della gente, la convinzione errata che la democrazia (il migliore o il meno peggio dei sistemi di governo) sia quello per cui la maggioranza ha sempre ragione. Nulla di più falso. La democrazia è il sistema per cui, visto che è difficile definire in termini qualitativi chi abbia più ragione degli altri, si ricorre a un sistema bassamente quantitativo, ma oggettivamente controllabile: in democrazia governa chi prende più consensi. E se qualcuno ritiene che la maggioranza abbia torto, peggio per lui: se ha accettato i principi democratici deve accettare che governi una maggioranza che si sbaglia.

Una delle funzioni delle opposizioni è quella di dimostrare alla maggioranza che si era sbagliata. E se non ce la fa? Allora abbiamo, oltre a una cattiva maggioranza, anche una cattiva opposizione. Quante volte la maggioranza può sbagliarsi? Per millenni la maggioranza degli uomini ha creduto che il sole girasse intorno alla terra (e, considerando le vaste aree poco alfabetizzate del mondo, e il fatto che sondaggi fatti nei paesi più avanzati hanno dimostrato che moltissimi occidentali ancora credono che il sole giri) ecco un bel caso in cui la maggioranza non solo si è sbagliata ma si sbaglia ancora. Le maggioranze si sono sbagliate a ritenere Beethoven inascoltabile o Picasso inguardabile, la maggioranza a Gerusalemme si è sbagliata a preferire Barabba a Gesù, la maggioranza degli americani sbaglia a credere che due uova con pancetta tutte le mattine e una bella bistecca a pasto siano garanzie di buona salute, la maggioranza si sbagliava a preferire gli orsi a Terenzio e (forse) si sbaglia ancora a preferire "La pupa e il secchione" a Sofocle. Per secoli la maggioranza della gente ha ritenuto che esistessero le streghe e che fosse giusto bruciarle, nel Seicento la maggioranza dei milanesi credeva che la peste fosse provocata dagli untori, l'enorme maggioranza degli occidentali, compreso Voltaire, riteneva legittima e naturale la schiavitù, la maggioranza degli europei credeva che fosse nobile e sacrosanto colonizzare l'Africa.

In politica Hitler non è andato al potere per un colpo di Stato ma è stato eletto dalla maggioranza, Mussolini ha instaurato la dittatura dopo l'assassinio di Matteotti ma prima godeva di una maggioranza parlamentare, anche se disprezzava quell'aula «sorda e grigia». Sarebbe ingiusto giocare di paradossi e dire dunque che la maggioranza è quella che sbaglia sempre, ma è certo che non sempre ha ragione. In politica l'appello alla volontà popolare ha soltanto valore legale ("Ho diritto a governare perché ho ricevuto più voti") ma non permette che da questo dato quantitativo si traggano conseguenze teoriche ed etiche ("Ho la maggioranza dei consensi e dunque sono il migliore").

In certe aree della Sicilia e della Campania i mafiosi e i camorristi hanno la maggioranza dei consensi ma sarebbe difficile concluderne che siano pertanto i migliori rappresentati di quelle nobilissime popolazioni. Recentemente leggevo un giornalista governativo (ma non era il solo ad usare quell'argomento) che, nell'ironizzare sul caso Santoro (bersaglio ormai felicemente bipartisan), diceva che costui aveva la curiosa persuasione che la maggioranza degli italiani si fosse piegata di buon grado a essere sodomizzata da Berlusconi. Ora non credo che Berlusconi abbia mai sodomizzato qualcuno, ma è certo che una consistente quantità di italiani consente con lui senza accorgersi che il loro beniamino sta lentamente erodendo le loro libertà. Erodere le libertà di un paese significa di solito mettere in atto un colpo di Stato e instaurare violentemente una dittatura. Se questo avviene, gli elettori se ne accorgono e, se pure non hanno la forza di zione di colpo di Stato che è con lui cambiata. Al colpo di Stato si è sostituito lo struscio di Stato. All'idea di una trasformazione delle strutture dello Stato attraverso l'azione violenta il genio di Berlusconi è stato ed è quello di attuarle con estrema lentezza, passettino per passettino, in modo estremamente lubrificato.

Pensate alla inutile violenza con cui il fascismo, per fare tacere la voce scomoda di Matteotti, ha dovuto farlo ammazzare. Cose da medioevo. Non sarebbe bastato pagargli una buona uscita megagalattica (e tra l'altro non con i soldi del governo ma con quelli dei cittadini che pagano il canone)? Mussolini era davvero uomo rozzissimo. Quando una trasformazione delle istituzioni del Paese avviene passo per passo, e cioè per dosi omeopatiche, è difficile dire che ciascuna, presa di per sé, prefiguri una dittatura - e infatti quando qualche cassandra lo fa viene sbertucciata. Il fatto è che per un nuovo populismo mediatico la stessa dittatura è un sistema antiquato che non serve a nulla. Si possono modificare le strutture dello Stato a proprio piacere e secondo il proprio interesse senza instaurare alcuna dittatura.

Si può dire che il lodo Alfano prefiguri una tirannia? Sciocchezze. E calmierare le intercettazioni attenta davvero alla libertà d'informazione? Ma suvvia, se qualcuno ha delitto lo sapranno tutti a giudizio avvenuto, e l'evitare di parlare in anticipo di delitti solo presunti rispetta se mai la privatezza di ciascuno di noi. Vi piacerebbe che andasse sui giornali la vostra conversazione con l'amante, così che lo venisse a sapere la vostra signora? No, certo. E se il prezzo da pagare è che non venga intercettata la conversazione di un potente corrotto o di un mafioso in servizio permanente effettivo, ebbene, la nostra privatezza avrà bene un prezzo. Vi pare nazifascismo ridurre i fondi per la scuola pubblica? Ma dobbiamo risparmiare tutti, e bisogna pur dare l'esempio a cominciare dalle spese collettive. E se questo consegna il paese alle scuole private? Non sarà la fine del mondo, ce ne sono delle buonissime. È stalinismo rendere inguardabili i telegiornali delle reti pubbliche? No, se mai le vecchie dittature facevano di tutto per rendere la radio affettuosissima. Ma se questo va a favore delle reti private? Beh, vi risulta che Stalin abbia mai favorito le televisioni private?

Ecco, la funzione dei colpi di Stato striscianti è che le modificazioni costituzionali non vengono quasi percepite, o sono avvertite come irrilevanti. E quando la loro somma avrà prodotto non la seconda ma la terza Repubblica, sarà troppo tardi. Non perché non si potrebbe tornare indietro, ma perché la maggioranza avrà assorbito i cambiamenti come naturali e si sarà, per così dire, mitridatizzata. Un nuovo Malaparte potrebbe scrivere un trattato superbo su questa nuova tecnica dello struscio di Stato. Anche perché di fronte a essa ogni protesta e ogni denuncia perde valore provocatorio e sembra che chi si lamenta dia corpo alle ombre.

Pessimismo globale, dunque? No, fiducia nell'azione benigna del tempo e della sua erosione continua. Una trasformazione delle istituzioni che procede a piccoli passi può non avere tempo per compiersi del tutto, a metà strada possono avvenire smandrappamenti, stanchezze, cadute di tensione, incidenti di percorso. È un poco come la barzelletta sulla differenza tra inferno tedesco e inferno italiano. In entrambi bagno nella benzina bollente al mattino, sedia elettrica a mezzogiorno, squartamento a sera. Salvo che nell'inferno italiano un giorno la benzina non arriva, un altro la centrale elettrica è in sciopero, un altro ancora il boia si è dato malato… Tagliare la testa al re o occupare il Palazzo d'Inverno è cosa che si fa in cinque minuti. Avvelenare qualcuno con piccole dosi d'arsenico nella minestra prende molto tempo, e nel frattempo chissà, vedrà chi vivrà. Per il momento, resistere, resistere, resistere.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/noi-contro-la-legge/2127975//1


Titolo: UMBERTO ECO. A Vattimo non rimprovero di usare male i congiuntivi.
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2010, 08:33:18 am
Congiuntivi e pestaggi

Umberto Eco

A Vattimo non rimprovero di usare male i congiuntivi.

Ma se per gli errori di qualcuno si condanna una intera categoria, o un popolo, non si farà dell'antisemitismo ma certamente si fa del razzismo.
 

Quindici giorni fa ho protestato contro un invito al boicottaggio delle istituzioni accademiche e degli intellettuali israeliani, firmato anche dal mio amico Gianni Vattimo. Io non mettevo in questione il dissenso che si può manifestare nei confronti della politica del governo israeliano, ma dicevo che non si può sostenere, come faceva l'appello, che "gli accademici e gli intellettuali israeliani, nella quasi totalità, hanno svolto e svolgono un ruolo di sostegno dei loro governi". Tutti sappiamo quanti intellettuali israeliani polemizzino su questi temi.
Ora ricevo una cortese lettera di Vattimo e al tempo stesso altri messaggi di lettori che condividono le sue idee. Vattimo scrive: "Mi sento come uno a cui venga rimproverato l'uso improprio di un congiuntivo - capisco quanto le parole e la sintassi siano importanti per te semiotico - in una discussione sul pestaggio della Diaz... La domanda essenziale era: quanti intellettuali italiani del tuo calibro o, scusa, poco meno hanno preso pubblicamente posizione sul massacro di Gaza? E adesso quanti protestano per Chomsky fermato alla frontiera?".

Ma io a Vattimo non rimproveravo, a proposito del pestaggio alla Diaz, di usare male i congiuntivi, bensì di voler pestare per ritorsione tutti i poliziotti italiani. Idea che, immagino, dovrebbe essere respinta da ogni persona di buon senso. Se per gli errori di qualcuno si condanna una intera categoria, o addirittura un popolo, forse non si farà dell'antisemitismo ma certamente si fa del razzismo. La domanda essenziale di cui egli parla non era perché non si parla di Gaza (faccenda atroce) o dell'esecrabile proibizione di transito a Chomsky (che tra l'altro si era pronunciato contro il boicottaggio). La domanda essenziale riguardava il boicottaggio.
Tutte le lettere che ho ricevuto si sforzano di elencarmi tutti gli argomenti contro la politica del governo israeliano, dimenticando che io stesso ho detto di non condividerla. Ma il mio articolo chiedeva se, sulla base di un rifiuto della politica di un governo, si possono mettere al bando della comunità intellettuale internazionale tutti gli studiosi, gli scienziati, gli scrittori del paese dove quel governo governa.

Pare che i miei obiettori non vedano alcuna differenza tra i due problemi. Per esempio Vattimo, per sottolineare che nell'idea del boicottaggio c'è dell'antisionismo ma non dell'antisemitismo, mi scrive: "Sarebbero antisemiti i tanti ebrei antisionisti che sentono la loro religiosità ebraica minacciata proprio da questa politica di potenza?". Ma è proprio questo il punto. Se si ammette, e sarebbe difficile non farlo, che ci sono tanti ebrei (anche in Israele, si badi) che rifiutano la politica di potenza del loro governo, perché allora bandire un boicottaggio globale che coinvolge anche loro?
Sono di questi giorni due brutte notizie. Una è che nelle scuole degli estremisti religiosi israeliani sono state vietate le tragedie di Sofocle, "Anna Karenina", le opere di Bashevis Singer e l'ultimo romanzo di Amos Oz. Qui non c'entra il governo, c'entrano i talebani locali, e sappiamo che ci sono dei talebani dappertutto (c'erano persino dei talebani cattolici che mettevano Machiavelli all'indice). Ma allora (seconda brutta notizia) perché i boicottatori torinesi si sono comportati da talebani quando hanno protestato perché si voleva dare il premio del Salone del Libro (come poi è stato dato) a Oz? Insomma, Amos Oz non lo vogliono a Mea Shearim (il quartiere dei fondamentalisti di Gerusalemme) e non lo vogliono a Torino (città sacra alla Sindone). Dove deve andare questo ebreo errante?
Vattimo insiste nel dire che essere antisionista non è essere antisemita. Ci credo. So benissimo che quando due anni fa ha affermato che ormai era lì lì per credere ai "Protocolli dei savi di Sion" aveva solo voluto fare una di quelle battute provocatorie in cui eccelle - perché nessuna persona sensata e di buoni studi può leggere i "Protocolli" e ritenere che quell'insieme di autodenunce che si contraddicono tra loro sia opera autentica (e che i Savi Anziani di Sion fossero così coglioni). Ma Vattimo si sarà accorto che su Internet, accanto ai siti dove si condanna la sua uscita, ve ne sono moltissimi che invece ci gongolano. Ogni battuta estremistica rischia sempre di stimolare il consenso dei dissennati.

Ma Vattimo (e come lo capisco) alle battute non sa rinunciare, e conclude: "Ahmadinejad come minaccia di distruzione di Israele? Ma qualcuno ci crede davvero?". Beh, sarò un sentimentale, ma a me un tizio che vuole fare sparire una nazione dalla faccia del mondo un poco di paura la fa. Per le stesse ragioni per cui mi preoccupo per l'avvenire dei palestinesi.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/congiuntivi-e-pestaggi/2127826/18


Titolo: UMBERTO ECO. Tra dogmatismo e fallibilismo
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2010, 12:12:01 pm
Tra dogmatismo e fallibilismo

Umberto Eco

Quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, si comporta in modo dogmatico
 

Sul "Corriere della sera" di domenica scorsa Angelo Panebianco scriveva sui possibili dogmatismi della scienza. Sono fondamentalmente d'accordo con lui e vorrei solo mettere in evidenza un altro aspetto della questione.
Dice in sintesi Panebianco che la scienza è per definizione antidogmatica, perché sa di procedere per tentativi ed errori e perché (aggiungerei con Peirce, che ha ispirato Popper) il suo principio implicito è quello del "fallibilismo", per cui sta sempre all'erta nel correggere i propri sbagli. Essa diventa dogmatica nelle sue fatali semplificazioni giornalistiche, che trasformano in scoperta miracolistica e verità assodata quelle che erano solo caute ipotesi di ricerca. Ma rischia anche di diventare dogmatica quando accetta un criterio inevitabile, e cioè che la cultura di un'epoca sia dominata da un "paradigma", come non solo quelli darwiniano o einsteiniano, ma anche quello copernicano, a cui ogni scienziato si attiene proprio per espungere le follie di chi si muove al di fuori di esso, compresi i matti che ancora sostengono che il sole gira intorno alla terra. Come la mettiamo col fatto che l'innovazione avviene proprio quando qualcuno riesce a mettere in questione il paradigma dominante? Quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, non si comporta in modo dogmatico?
La questione è drammatica. I paradigmi vanno sempre difesi o sempre contestati? Ora una cultura (intesa come sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi, eredità storica condivisi da un gruppo umano particolare) non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Vale per una cultura quello che vale per la nostra vita individuale.
Borges ha scritto la novella "Funes el memorioso" dove racconta di un personaggio che ricorda tutto, ogni foglia che ha visto su ogni albero, ogni parola che ha udito nel corso della sua vita, ogni refolo di vento che ha avvertito, ogni sapore che ha assaporato, ogni frase che ha letto. Eppure (anzi, proprio per questo) Funes è un completo idiota, un uomo bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttare via. Il nostro inconscio funziona perché butta via. Poi, se c'è qualche inghippo, si va dallo psicoanalista per recuperare quel poco che serviva e che per sbaglio abbiamo buttato via. Ma tutto il resto per fortuna è stato eliminato e la nostra anima è esattamente il prodotto della continuità di questa memoria selezionata. Se avessimo l'anima di Funes saremmo persone senz'anima.
Così fa una cultura e l'insieme dei suoi paradigmi è il risultato dell'Enciclopedia condivisa, fatta non solo di ciò che si è conservato ma anche, per così dire, del tabù su ciò che si è eliminato. In base a questa enciclopedia comune poi si discute. Ma perché ci possa essere discussione comprensibile da tutti occorre partire dai paradigmi esistenti, se non altro per dimostrare che essi non tengono più. Senza la negazione del paradigma tolemaico, che rimaneva di sfondo, il discorso di Copernico sarebbe rimasto incomprensibile.
Ora Internet è come Funes. Come totalità di contenuti disponibili in modo disordinato, non filtrato e non organizzato, esso permette a ciascuno di costruirsi una propria enciclopedia, ovvero il proprio libero sistema di credenze, nozioni e valori, in cui possono essere compresenti, come accade nella testa di molti esseri umani, sia l'idea che l'acqua sia H2O sia quella che il sole giri intorno alla terra. In teoria, quindi, si potrebbe arrivare all'esistenza di sei miliardi di enciclopedie differenti e la società umana si ridurrebbe al dialogo frantumato di sei miliardi di persone ciascuna delle quali parla una lingua diversa, che solo chi sta parlando capisce.
L'ipotesi è per fortuna solo teorica, ma lo è proprio perché la comunità scientifica vigila affinché circolino linguaggi comuni, sapendo che per rovesciare un paradigma è necessario che ci sia un paradigma da rovesciare. Difendere i paradigmi provoca certamente il rischio del dogmatismo ma è su questa contraddizione che si basa lo sviluppo del sapere. Per evitare conclusioni affrettate concordo con ciò che diceva lo scienziato citato in fine da Panebianco: "Non so, è un fenomeno complesso, devo studiarlo".

(10 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tra-dogmatismo-e-fallibilismo/2128687/18


Titolo: UMBERTO ECO. Il lessico del populismo
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 09:21:01 am
L'opinione

Il lessico del populismo

Umberto Eco

"Mettere le mani nelle tasche degli italiani". "Esporre alla gogna mediatica". "La magistratura vuole sovvertire il voto". Sono alcuni esempi di espressioni stravolte dal berlusconismo

(25 giugno 2010)

Nel sito di Libertà e Giustizia (http://www.libertaegiustizia.it) Gustavo Zagrebelsky ha iniziato una rubrica aperta ai navigatori, un Lessico del Populismo, e cioè un'analisi di quelle espressioni che una volta significavano una cosa, o niente, ma che nell'attuale temperie politica vengono usate con tutt'altra connotazione. Per non farla troppo difficile, passo subito alla prima voce del lessico, dovuta appunto a Zagrebelsky, "Mettere le mani nelle tasche degli italiani".

È noto infatti che uno dei principali appelli che il nostro presidente del consiglio, instauratore dell'ormai cosiddetto "populismo mediatico", rivolge al suo "popolo" è la constatazione che pagare le tasse è doloroso (il che è vero) e che chi ce le fa pagare è cattivo (il che non è vero, perché ogni Stato serio si appella al contributo dei cittadini); non solo, ma il presidente ha anche detto che, se le tasse ci paiono troppe, è scusabile e comprensibile evadere il fisco - e se qualcuno ritiene che questa cosa non l'abbia detta (perché sarebbe suo dovere morale e costituzionale dire il contrario), esistono le dovute registrazioni televisive (non le intercettazioni!). Per inciso Berlusconi ha anche proposto varie volte di abbassare le tasse, ma sciaguratamente non l'ha mai fatto. Bisogna però dargli atto di non averle alzate, specie in momenti come questo, quando bisognerebbe ricuperare denaro, e i sacrifici ha preferito farli fare agli statali (che secondo i sondaggi non votano per lui) piuttosto che a chi guadagna di più.

Come si fa allora a indurre la "gente" a pensare che chi fa pagare le tasse (non il governo attuale, certo, perché le tasse le hanno inventate gli altri, probabilmente i comunisti) commette un furto? Usando l'espressione "mettere le mani nelle tasche degli italiani" che, come dice Zagrebelsky "sottintende l'idea che imposte e tasse siano scippi e furti e che i governanti, chiedendo di partecipare alle spese pubbliche si comportino da delinquenti... Questa espressione è la negazione dell'idea di cittadinanza, che comprende diritti e doveri di solidarietà, secondo la legge. Essa infatti parla demagogicamente agli italiani e non democraticamente ai cittadini (italiani)".

A seguito della proposta di Zagrebelsky, Sandra Bonsanti ha commentato "Condividere la memoria storica" e Giuseppe Volpe sia "Essere radicati nel territorio" che "Esporre alla gogna mediatica". A pensarci bene quest'ultima abusatissima espressione non suonerebbe ingiusta quando venisse applicata a qualcuno che, perfettamente innocente, viene di colpo presentato dai giornali, per vendere copie, come il mostro da sbattere in prima pagina, e si pensi al dolorosissimo caso Tortora. Ma come viene usata oggi essa suona a sanzione dei casi in cui, di un uomo politico doverosamente si dice che ha commesso abusi e che per questo è diventato oggetto di una inchiesta della magistratura. Come dice Volpe, "una personalità integerrima se la ride di qualsiasi insinuazione o presunto fatto i media diffondano sul suo conto. Adirà le vie legali individualmente... non tanto per difendere se stesso quanto, colpendo il deviante, ... per difendere la correttezza dell'informazione. Ma l'uomo integerrimo, appunto, colpisce il falsario, non invoca la mordacchia... Se questo non accade è forse, anche, perché uomini integerrimi ce ne sono troppo pochi? O è perché di falsari ce n'è troppi?".

Maria Grimaldi analizza l'ormai storico "Scendere in campo" ed Elisabetta Rubini "La magistratura vuole sovvertire il voto", osservando che la frase viene usata, dagli esordi del berlusconismo, per censurare l'operato dei giudici quando le indagini riguardano il premier, "come se il voto superasse e rendesse superfluo - ed anzi addirittura inaudito - il ruolo di controllo svolto dalla magistratura nei confronti di tutti i cittadini... Da notare che con la frase in questione Berlusconi non critica i giudici per aver operato male: la censura si colloca a priori rispetto ad una valutazione della qualità del controllo giudiziario e mira a contrapporre il voto popolare - quasi una grazia divina - alla molesta interferenza dei giudici, presentata come illegittima e persino eversiva".

Non ho più spazio. Mi piacerebbe analizzare ancora "Il presidente del consiglio non ha poteri" di Filippo di Robilant (che palesemente significa che il presidente del consiglio vorrebbe impadronirsi anche dei poteri che la Costituzione non gli consente), e alcuni primi interventi dei lettori. Così come amerei anche occuparmi di termini che a sinistra hanno avuto il loro significato letteralmente capovolto, come liberale, riformista, moderato, eccetera. Ma sarà per un'altra volta.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-lessico-del-populismo/2129700/18


Titolo: UMBERTO ECO. Una volta qui era tutta città
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 10:47:35 am
Una volta qui era tutta città

Umberto Eco

Ovvero, come divertirsi a rovesciare i luoghi comuni. Tipo: gli albini hanno la musica nel sangue, Bergamo ladrona, gli voglio un male dell'anima, Venezia è l'Amsterdam del Sud. Un giochetto geniale da cui è nato un libro, ma può andare avanti quasi all'infinito

(12 luglio 2010)

Il curatore è incerto (AlFb) perché dice subito di aver usato vari suggerimenti dei suoi corrispondenti su un blog, il prefatore è (e come, se no?) Stefano Bartezzaghi, l'editore Einaudi e il titolo "Scusa l'anticipo, ma ho trovato tutti verdi". Per il lettore duro di comprendonio, si tratta del rovesciamento di un luogo comune,"scusa il ritardo, ma era un semaforo rosso dopo l'altro". Ecco il gioco: si raccolgono 500, dico cinquecento luoghi comuni, cose che ciascuno di noi dice tutti giorni magari senza rendersene conto, e se ne crea il rovesciamento. Il più ovvio è che Venezia sia l'Amsterdam del sud, il più geniale è "gli albini hanno la musica nel sangue".

Cito solo alcuni rovesciamenti, pescandoli quasi a caso.
A volte la fantasia supera la realtà, Premetto che sono razzista, L'altro papa era un grande teologo, questo ha un rapporto più profondo con la gente, Le droghe pesanti sono l'anticamera delle canne, Gli voglio un male dell'anima, Meglio cento giorni da leone che uno da pecora, Imparando si sbaglia, Il papà è sempre il papà, Fa' come se fossi a casa mia, Direi di darci del lei, Chi gode si accontenta, Sono rimbambito, sì, ma non sono vecchio, Ignora te stesso, Non è l'umidità, è la temperatura, La frutta andrebbe mangiata durante i pasti, Per me l'arabo è matematica, Perché bere l'acqua del rubinetto, a Roma per esempio l'acqua in bottiglia è buonissima, Guarda quella pecorella, sembra una nuvola. L'1 per cento del nostro corpo è formato d'acqua, Abbiamo preso solo una pizza e una birra ma abbiamo speso pochissimo, Non riesco a dimagrire, eppure mangio moltissimo, Non sempre il film è meglio del libro, Alberto Sordi può essere considerato l'erede di Verdone, L'assassino è sempre il padrone di casa, Il maestro ha superato l'allievo, Luttazzi fa ridere, ma dovrebbe cercare di essere più volgare, Il successo mi ha cambiato, In fondo Mussolini ha fatto anche molte schifezze, Ormai un euro è uguale a 2 mila lire, La mafia esiste, Diecimila per gli organizzatori, centomila per la questura, Una volta qui era tutta città, In Italia vivono molti argentini, A Roma ci sono più parcheggi che auto, Certo che i tedeschi sono proprio disorganizzati, Parigi è brutta però i francesi sono simpaticissimi, Bisogna saper vincere, Se ci sono eterosessuali nel calcio, io non ne ho mai visti, Ormai per curarsi conviene rimanere in Italia, Morire è un po' partire, Il cervello ti frigge la tv, Chiocciola libero punto it, tutto maiuscolo e tutto staccato, Non porto il telefonino, l'ora la guardo sull'orologio, Userei anche Linux ma è troppo facile, Le macchine svedesi cacciano sempre qualche rumorino dopo qualche anno, i PC hanno un design più accattivante del MAC.

Finito il divertimento, e nata la voglia di continuare la serie (per esempio: "come si fa a governare, se tutti remano nella mia stessa direzione?", "Bergamo ladrona", "Io sono il lavato a secco del Signore", "Ormai nel mondo d'oggi nessuno sa più che cosa stai facendo", "A Rimini stanno tutti sulla spiaggia e non mettono mai piede in discoteca", o "Mangano per me era un delinquente", "Aveva trasferito tutti i suoi capitali a Battipaglia"), ci si accorge che di questi luoghi comuni noi, che ci crediamo così originali e creativi, ne pronunciamo a catena ogni giorno. Anzitutto perché riflettono spesso un'ovvia verità, e non c'è nulla di male a dire la verità, anche se nota a tutti, poi perché hanno funzione "fatica".
La funzione fatica del linguaggio (dico per coloro che non conoscono Jakobson a memoria), è quella di mantenere il contatto anche se non si trasmettono informazioni, richieste, ordini. Hanno funzioni fatiche le frasi fatte che si dicono incontrandosi o accomiatandosi, come "bella giornata, come sta, piacere, salve" e così via, ma hanno funzione fatica, appunto, anche i luoghi comuni, che in affetti non dicono nulla che l'interlocutore non sappia già (come "si rende conto che siamo in giugno, non ci sono più le stagioni"), ma servono appunto a dirgli che abbiamo l'intenzione di stabilire un rapporto di cortesia (per quanto non impegnativo) e che la pensiamo come lui o lei.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-volta-qui-era-tutta-citta/2130631/18


Titolo: UMBERTO ECO. Tenersi per mano
Inserito da: Admin - Luglio 26, 2010, 10:28:26 am
Tenersi per mano

di Umberto Eco

L'andar sottobraccio delle coppie è caduto in disuso come il cappello alla Bogart.

Perché ora l'uso del mano-nella-mano, che sembrava riservato ai bambini e ai gay, si è esteso anche agli etero?

(23 luglio 2010)

La scienza deve basarsi su osservazioni empiriche, ma soprattutto deve procedere per tentativo ed errore (ipotesi e ripulsa dell'ipotesi), e infine deve basarsi non su di una sola osservazione, ma su molte, e ripetute, possibilmente fatte da studiosi diversi, che si controllano a vicenda, ciascuno ferocemente inteso a falsificare l'ipotesi altrui. Ecco perché quanto sto dicendo non ha valore scientifico, perché si basa su osservazioni personali, sia pure ripetute, fatte mentre sto seduto al tavolino di un bar all'aperto, in una via pedonale, e con la coda dell'occhio osservo la gente che mi passeggia accanto sul marciapiede.
Inoltre le osservazioni riguardano solo una sola città, e può darsi che a cento chilometri di distanza le cose vadano diversamente. Insomma, questo non è modo di far scienza. Non mi resta che incoraggiare i miei venticinque lettori a condurre osservazioni analoghe, a notarle sul loro taccuino, con la minuzie con cui Perec annotava ogni evento che avesse luogo nel corso della stessa giornata in Place Saint-Sulpice - e poi ne riparleremo.

Dunque, la mia ipotesi è che negli ultimi anni le coppie eterosessuali non vadano più a braccetto ma tenendosi per mano, e il fenomeno sia peraltro limitato a una precisa fascia sociale. Nel mondo occidentale ai tempi miei (vale a dire ai tempi dei miei genitori, ma ho osservato un comportamento analogo ancora nel gennaio 1998 a Bologna all'angolo tra via San Vitale e via Petroni) le coppie (fidanzati o coniugati che fossero) andavano tenendosi sottobraccio.
Non sarei sicuro che l'uso valesse anche per le classi molto alte: dovrei controllare, non ricordo foto di Vittorio Emanuele III a braccetto con la regina Elena, ma forse dipendeva dalla differenza d'altezza. In ogni caso nell'ambito della borghesia, almeno media e piccola, l'uso era di norma almeno quanto il cappello per signore e il cappellino per la signora. Tenersi a braccetto era segno di confidenza, di famigliarità, d'affetto (almeno esibito) e in qualche modo di possesso esclusivo.
Ora le coppie si tengono per mano. Quest'uso che sembrava riservato agli adulti con bambini e ai gay, si è esteso alle coppie eterossessuali adulte ma, si badi, non tanto tra giovanissimi (non ricordo di aver visto ragazze con l'ombelico scoperto che tengono per mano ragazzi dai capelli azzurri - anche perché di solito stanno fermi sull'angolo delle strade a passarsi la lingua in bocca) quanto tra persone oltre i trenta, con un infittirsi dell'uso nelle coppie di una certa età - tanto che vedere molti signori obesi tenere per mano una partner affetta da nanismo fa un poco la stessa impressione che facevano un tempo quelli che in seconda classe mangiavano arance sul sedile di fronte.

Anche in questo caso, secondo me il fenomeno è limitato alle classi inferiori. Credo che nessuno abbia mai visto Gianni Agnelli che teneva per mano donna Marella. Si tengono per mano persone senza cravatta, con quei curiosi cappelli di lana tirati sulla fronte che farebbero apparire cretino anche Einstein, di solito con maglioni alla Marchionne, piccoli commercianti o coltivatori diretti (forse votanti per la Lega, ma non escluderei qualche ex comunista), operai o statali di bassa categoria.
Mi domando se improvvisamente, tra piccola borghesia e alto proletariato, nelle persone di età si siano riaccesi furori erotici giovanili, se rifiorisca il mito della coppia unita come polemica contro divorzio e aborto, o se si tratti di un modello televisivo che non riesco a individuare, come il chiamare le figlie, a seconda dei decenni, Tamara, Samanta o Gessica.
Non ho mai visto tenersi per mano coppie bellissime, di quelle che ti volti a guardare lui o lei secondo i tuoi gusti. Che il tenere assicurati a sé i propri partner sia per alcuni un modo di non perdere l'unica persona che li ha un giorno gratificati di qualche attenzione sessuale? Il rassegnarsi a un legame sciaguratamente infrangibile? Un atto di resa al destino? Oppure un rigurgito di tenerezza per compensare l'incedere inesorabile della tarda età e il livello insufficiente del reddito?

Non lo so, ma la scomparsa dell'andar sottobraccio è come il declino del cappello alla Humphrey Bogart, che ormai si vede solo nei polizieschi ancora in bianco e nero - e credo che ai giovanissimi faccia la stessa impressione del cilindro in un drammone dell'Ottocento. Oppure io mi seggo abitualmente nel bar sbagliato, nella via sbagliata, nella città sbagliata e forse nel pianeta sbagliato.
Direte: ma a te che t'importa? Non ci sono oggi cose più serie di cui occuparsi? No.

   
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da l'espresso


Titolo: UMBERTO ECO Non fate il funerale ai libri
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 08:45:44 am
Non fate il funerale ai libri

di Umberto Eco

L'iPad, il Kindle e le altre tavolette sono strumenti eccellenti, ma non sperate di liberarvi dei volumi di carta. Anzi, ne vedremo sempre di più, in tutto il mondo

(05 agosto 2010)

L iPad Apple L'iPad AppleÈ sperabile che, quando questa Bustina uscirà, la buriana si sia calmata, ma mentre scrivo la mia estate è ossessionata da intere pagine culturali dei quotidiani i quali discutono se eventuali contratti degli autori per mettere le loro opere sui vari Kindle o IPad non preludano alla definitiva scomparsa del libro e delle librerie. Un quotidiano ha persino messo in bella evidenza una foto dei "bouquinistes" del Lungosenna dicendo che questi venditori di libri (vecchi) sono quindi destinati a sparire, senza considerare che, se davvero non si stampassero più libri, fiorirebbe proprio un ghiotto mercato librario "vintage" e le bancarelle, unico posto dove si potrebbero trovare i libri di una volta, vivrebbero di nuova vita.

In realtà la domanda se siamo arrivati al tramonto del libro è iniziata con l'avvento del personal computer (e fanno ormai trent'anni), tanto che alla fine Jean-Claude Carrière e io ci siamo stancati di rispondervi e abbiamo pubblicato una lunga conversazione intitolata provocatoriamente "Non sperate di liberarvi dei libri".

Sostenere un lungo avvenire per il libro non significa negare che certi testi di consultazione siano più comodi da trasportare su una tavoletta, che un presbite possa leggere meglio un giornale su un supporto elettronico dove può amplificare il corpo tipografico a piacere, che i nostri ragazzi possano evitare di inrachitirsi portando chili di carta nello zainetto. E neppure si vuole sostenere a ogni costo che per leggere "Guerra e pace" sotto l'ombrellone sia più comoda la forma-libro; io ne sono convinto, ma i gusti sono gusti, e auguro solo a chi ha gusti diversi di non incappare in una giornata di blackout. Ma la vera ragione per cui i libri avranno lunga vita è che abbiamo la prova che sopravvivono in ottima salute libri stampati più di cinquecento anni fa, e pergamene di duemila anni, mentre non abbiamo alcuna prova della durata di un supporto elettronico. Nel giro di trent'anni il disco floppy è stato sostituito dal dischetto rigido, questo dal dvd, il dvd dalla chiavetta, nessun computer è più in grado di leggere un floppy degli anni Ottanta e quindi non sappiamo se quanto c'era sopra sarebbe durato non dico mille anni ma almeno dieci. Quindi, meglio conservare la nostra memoria su carta.

Inoltre c'è una bella differenza tra toccare e sfogliare un libro fresco e odoroso di stampa e tenere in mano una chiavetta. Oppure tra ricuperare in cantina un testo di tanti anni fa che reca le nostre sottolineature e le nostre note a margine, facendoci rivivere antiche emozioni, e rileggere la stessa opera, in Times New Roman corpo 12, sullo schermo del computer. E anche ammesso che chi prova piaceri del genere sia una minoranza, su sei miliardi di abitanti del pianeta (ma saranno otto entro quindici anni), ci saranno abbastanza appassionati da sostenere un fiorente mercato del libro. E se poi usciranno dalle librerie e vivranno solo su Kindle o IPad i libri usa e getta, i best sellers da leggere in treno, gli orari ferroviari o le raccolte di barzellette su Totti o sui carabinieri, tanto meglio, tutta carta risparmiata.

Anni fa deprecavo che nelle vecchie e ombrose librerie di un tempo chi vi entrava per curiosità fosse affrontato da un signore severo che domandava che cosa cercasse, e il malcapitato, intimidito, usciva subito. E giustamente trovavo più incoraggianti le nuove librerie-cattedrale dove si può stare seduti o accovacciati per ore a scoprire e sfogliare di tutto. Ora però, se le tavolette elettroniche assorbiranno tutto il mercato dei libri usa e getta, potrebbero ritornare buone le librerie de tempi andati, dove gli affezionati andranno a cercare i libri che non si gettano. E poi, ricordo che anche in quelle librerie un ragazzo che faceva amicizia col libraio poteva lo stesso sostare per ore a curiosare tra gli scaffali.
Infine ricordiamo che mai, nel corso dei secoli, un nuovo mezzo ha sostituito totalmente il precedente. Neppure il maglio ha sostituito il martello. La fotografia non ha condannato a morte la pittura (se mai ha scoraggiato il ritratto il paesaggio e incoraggiato l'arte astratta), il cinema non ha ucciso la fotografia, la televisione non ha eliminato il cinema, il treno convive benissimo con auto ed aereo.

Dunque avremo una diarchia tra lettura su schermo e lettura su carta, e in ogni caso aumenterà in modo astronomico il numero delle persone che impareranno a leggere - visto che persino gli sms sono potenti strumenti di alfabetizzazione dei ripetenti. E, se aumenterà l'analfabetismo di ritorno nella vecchia Europa decadente e malthusiana, avremo miliardi di nuovi lettori in Asia e in Africa. E, per chi leggerà a cavalcioni del ramo di un albero nella foresta subtropicale, andrà sempre meglio un libro di carta che uno elettronico.

   
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Titolo: UMBERTO ECO. Mariti di mogli ignote
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2010, 03:53:33 pm
Mariti di mogli ignote

di Umberto Eco

Quale è stata l'influenza di Gemma Donati su Dante, di Helena su Cartesio, per non dire delle tantissime altre mogli di cui la storia tace?

(20 agosto 2010)

L'Enciclopedia delle donne (http://www.enciclopediadelledonne.it) registra un gran numero di donne, da Caterina da Siena a Tina Pica, tra le quali moltissime ingiustamente dimenticate; e d'altra parte sin dal 1690 Gilles Ménage nella sua storia delle donne filosofe ci parlava di Diotima la socratica, Arete la cirenaica, Nicarete la megarica, Iparchia la cinica, Teodora la peripatetica (nel senso filosofico del termine), Leonzia l'epicurea, Temistoclea la pitagorica, di cui sappiamo pochissimo. È giusto che tante di costoro siano state sottratte ora all'oblio.
Quello che manca è una enciclopedia delle mogli. Si dice che dietro a ogni grand'uomo ci sia una gran donna, a partire da Giustiniano e Teodora per arrivare, se volete, a Obama e Michelle (è curioso che non sia vero l'inverso, si vedano le due Elisabette d'Inghilterra); ma in generale delle mogli non si parla. Dall'antichità classica in avanti più delle mogli contavano le amanti. Clara Schumann o Alma Mahler hanno fatto più notizia per le loro vicende extra o post matrimoniali. In fondo l'unica moglie che si cita sempre come tale è Santippe, e per parlarne male.

Mi è capitato tra le mani un testo di Pitigrilli, che infarciva le sue storie di citazioni erudite, sovente sbagliando i nomi (Yung invece di Jung, regolarmente) e più spesso ancora gli aneddoti, che andava a pescare in chissà quali effemeridi. In questa pagina ricorda il monito di San Paolo, "melius nubere quam uri", sposatevi proprio se proprio non ce la fate più (ecco un buon consiglio per i preti pedofili) ma osserva che la maggior parte dei grandi, come Platone, Lucrezio, Virgilio, Orazio e altri, erano scapoli. Ma non è vero, o almeno non del tutto.
Per Platone va bene, da Diogene Laerzio sappiamo che scriveva solo epigrammi per giovanotti molto carini, anche se tra le sue discepole aveva preso due donne, Lastenia e Assiotea, e se diceva che l'uomo virtuoso deve prender moglie. Si vede che pesava su di lui il matrimonio mal riuscito di Socrate. Però Aristotele prima aveva sposato Pizia, e poi dopo la morte di lei si era unito a Erpillide, non si capisce bene se come moglie o come concubina, ma vivendo con lei more uxorio, a tal punto da ricordarla affettuosamente nel suo testamento - a parte il fatto che da lei aveva avuto Nicomaco, quello che ha poi dato il nome a una delle Etiche.
Orazio non ha mai avuto né moglie né figli, ma sospetto, dato quello che scriveva, che qualche scappatella se la concedesse, e Virgilio pare fosse così timido da non osare dichiararsi, ma si sussurra che avesse avuto una relazione con la moglie di Vario Rufo. Però Ovidio si sposa tre volte. Di Lucrezio le fonti antiche non ci dicono quasi nulla; un accenno di San Gerolamo lascia pensare che avesse commesso suicidio perché un filtro d'amore lo aveva condotto alla follia (ma il santo aveva interesse a dichiarare pazzo un ateo pericoloso), e di lì la tradizione medievale e umanistica han ricamato su una misteriosa Lucilia, moglie o amante che fosse, maga o donna innamorata che aveva chiesto il filtro a una maga; si diceva anche che Lucrezio il filtro se lo fosse propinato da solo, ma in ogni caso la Lucilia non ci fa una bella figura. A meno che non avesse ragione Pomponio Leto, secondo cui Lucrezio si sarebbe ucciso perché infelicemente innamorato di tale Asterisco (sic).
Andando avanti nei secoli, Dante ha continuato a fantasticare su Beatrice, ma si era sposato con Gemma Donati, anche se non ne parla mai. Tutti pensano che Cartesio fosse scapolo (essendo morto troppo presto e con una vita molto movimentata), ma in effetti aveva avuto una figlia, Francine (morta a soli 5 anni) da una domestica conosciuta in Olanda, Helena Jans van der Strom, che si era tenuta come compagna per alcuni anni, anche se riconoscendola solo come colf. Però, contrariamente ad alcune calunnie, aveva riconosciuto la figlia - e secondo altre fonti aveva avuto anche altre avventure.
Insomma, dando per celibatari gli ecclesiastici e i personaggi più o meno dichiaratamente omosessuali come Cyrano de Bergerac (mi scuso di dare una notizia così atroce ai fedeli di Rostand) o Wittgenstein, che un grande sia stato scapolo lo si sa di sicuro solo per Kant. Non si direbbe, ma persino Hegel era sposato, anzi, pare sia stato anche sciupafemmine, con un figlio naturale, e buona forchetta. Per non dire di Marx, legatissimo alla moglie Jenny von Westphalen.

Un problema rimane: quale è stata l'influenza di Gemma su Dante, di Helena su Cartesio, per non dire delle tantissime altre mogli di cui la storia tace? E se tutte le opere di Aristotele le avesse scritte in realtà Erpillide? Non lo sapremo mai. La Storia, scritta dai mariti, ha condannato le mogli all'anonimato.


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Titolo: UMBERTO ECO. Lo strano caso dell'ignoto commensale
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 09:17:15 am
Lo strano caso dell'ignoto commensale

Umberto Eco

Pranzo in un ristorante cinese e "il Giornale" ci scrive un trafiletto: si legge che le bacchette sono "una passione comune al gotha progressista" e, udite udite, ero con un ospite sconosciuto

(03 settembre 2010)

Appena ora mi cade sotto gli occhi un trafiletto da "il Giornale" del 13 luglio. Meglio tardi che mai. Dice: "Al professore piace la cucina fusion. Umberto Eco, considerato un punto di riferimento del pensiero di sinistra, è stato avvistato sabato scorso a Milano, all'ora di pranzo, seduto a tavola con un ignoto commensale al ristorante di specialità asiatiche di via San Giovanni sul Muro. Locale sobrio ma non certo esclusivo, ecco i "classici" preferiti dall'autore del "Nome della rosa": nel menu riso cantonese, spaghetti di soia al curry e pollo con verdure e bambù, oltre a ricette più sperimentali. Quella di armeggiare con le bacchette deve essere una passione comune al gotha progressista. Nello stesso ristorante cino-meneghino, infatti, era già stato adocchiato di recente anche Guido Rossi, giurista, già senatore, ex presidente Telecom e commissario straordinario della Figc durante la rovente estate di Calciopoli nel 2006. La Cina è più vicina. Basta aggiungere un posto a tavola".

Niente di straordinario. Ci sono cronisti che campano raccontando piccoli aneddoti, e siccome non posso sospettare che l'estensore del trafiletto si apposti ogni giorno in un ristorante cinese "non esclusivo" (in cui cioè sarebbe difficile sorprendere a lume di candela, che so, Paola Binetti con Rocco Siffredi, o Carla Bruni col ministro Brunetta), non rimane da ritenere che anche l'aspirante dagospia lo frequenti normalmente, visto che è bene illuminato, pulito, e alla portata economica di chi si trova ai gradini più modesti di una gerarchia redazionale. Annoiato di mangiare per l'ennesima volta involtini primavera, l'anonimo deve aver fatto un balzo sulla sedia all'idea di aver imbroccato uno scoop straordinario che avrebbe cambiato la sua carriera.

Non c'è niente di più normale che andare in un ristorante cinese, ed è più normale ancora che vi andiamo sia Guido Rossi che io. Non sapevo che ci andasse anche lui, ma quel ristorante è a cento metri dalle nostre rispettive abitazioni, e quindi è ovvio che ci si vada, se proprio non si vuole gustare l'orchidea ai ricci di mare da Cracco-Peck per poche centinaia di euro.

Perché dare una notizia così priva di interesse, peggio del cane che morde l'uomo, addirittura come dire che il cane abbaia?
Provo a fare ipotesi. Anzitutto bisogna diffondere sospetti, sia pure vaghi, su chi non condivide le tue idee. Ricorderete tutti l'episodio della trasmissione televisiva "Mattino 5" che ha pedinato e mostrato il magistrato Mesiano (colpevole di una sentenza sul Lodo Mondadori che è dispiaciuta al nostro presidente del consiglio) mentre passeggiava, fumava qualche sigaretta, andava dal parrucchiere e infine sedeva su una panchina mostrando dei calzini turchesi, tutte cose che il commento audio definiva "stranezze", e quindi indici del fatto che il magistrato fellone non doveva essere sano di mente.

Si diceva male di lui? Per nulla. Ma perché andava in calzini turchesi dal barbiere (quando i cittadini per bene ci vanno al massimo in calzini amaranto), e soprattutto perché qualcuno si premurava di dircelo come per inviarci un messaggio in codice? È una tecnica giornalistica non da premio Pulitzer ma che può avere qualche presa su persone che indossano calzini corti.

Probabilmente al "Giornale" stanno pensando a un elettore di una certa età, che con la moglie mangia solo quattro spaghetti in bianco e verdura cotta e che inorridisce di fronte alla notizia che qualcuno vada a mangiare come i cinesi (che notoriamente prediligono scimmie e cani); o vivente in remoti villaggi dove di ristoranti cinesi non si è mai sentito parlare; o sospettoso di ogni cosa che abbia a che fare con etnie troppo invasive e figuriamoci i cinesi; o (e lo si dice) che ritenga l'uso delle bacchette "una passione comune al gotha progressista", perché le persone moderate usano la forchetta come ha insegnato la mamma; o che addirittura pensi che in Cina ci sia ancora Mao e che quindi mangiare cinese significhi proclamare (e il trafiletto lo suggerisce) che, come nel Sessantotto, la Cina è vicina (nota bene, è davvero vicina, ora, ma ormai per ragioni più di destra che di sinistra).

Inoltre che cosa vuole dire che ero a tavola con "un ignoto commensale"? Chi era costui di cui mi ingegnavo a non palesare il nome con appositi cartelli? Da dove veniva? Perché si incontrava con me (dopo essersi magari incontrato il mese prima con Guido Rossi)? Perché in un ristorante cinese, come in un romanzo di Dashiell Hammett, e non alle Colline Pistoiesi o Alla bella Napoli?
Ecco che cosa fa il "gotha progressista". Meno male che la stampa vigila.

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Titolo: UMBERTO ECO. El me' Aristòtil
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:18:07 pm
El me' Aristòtil

di Umberto Eco

Tornare alla conoscenza del dialetto è fondamentale per conservare le nostre radici.

Ma sostituire i dialetti alle lingue nazionali significa ripiombare nel ghetto intere popolazioni

(17 settembre 2010)

Non ci crederete, ma chiedendo su Internet una voce poco comune (Marin Mersenne, un contemporaneo di Cartesio) mi sono ritrovato un testo di Wikipedia in piemontese. Incuriosito, ho cercato meglio, e ho trovato che moltissime voci si possono trovare tradotte (oltre che in tutte le lingue di nazioni che siedono all'Onu, alcune in alfabeti per noi illeggibili) anche in Asturiano, Sardo, Siciliano, Corso, Galiziano, Interlingua, Maori, Occitano, Swahili, Veneto, Volapük, Yoruba e Zulù. Naturalmente sono stato attratto dai dialetti italiani e, lasciato da parte il buon padre Mersenne, che troverebbe impreparati molti dei miei lettori, mi sono appuntato su Aristotele che, essendo il maestro di color che sanno, è anche il maestro dei lettori de "L'espresso". Di lui si dice in piemontese che "Aristòtil a l'era nassù a Stagira (an Macedònia) dël 384 aGC e a l'é mòrt a Calcis (ant l'Eubéa) dël 322 aGC. A l'ancamin dissìpol ëd Platon, Aristòtil a fonda tòst soa pròpia scòla filosòfica a Atene, ël Licéo. Soa curiosità anteletual a l'ha tocà tuti ij domini dla conossensa". Come neppure Camilleri oserebbe, si annota in siciliano che "Ntô 348/7, annu dâ morti di Platoni, ntô mumentu 'n cui lu filòsufu Spiusippu veni disignatu a succèdiri ô mastru ntâ dirizzioni dâ scola, Aristòtili abbannuna l'Accadèmia nzèmmula a Senucrati. Havi nizziu accussì lu pirìudu di li viaggi: Aristòtili suggiorna prima a Atarneu, pressu lu tirannu Ermia, appoi a Mitileni, nta l'isula di Lesbo; 'n stu pirìudu si didica â ricerca e forsi macari ô nzignamentu (sècunnu Jaeger avissi funnatu a Assu, nzèmmula ê filòsufi Senucrati, Erastu, Còriscu na sorta di succursali di l'Accadèmia)".

Giunti al sardo si specifica che "Custu artìculu est unu abotzu. Lu podes modificare e lu fàghere mannu e bellu. Agiudanos!". Ma in veneto si apprende che "e òpere de Aristotele e se divide in scriti acroamàtisi o exotèrisi, chei i xé spunti per e lesion del fi- òxofo, e esotèrisi, fati per el pùblico. Sti ùltemi i xé un grupo de dià oghi, un protrètico (testo chel conségia a fi oxofia) e un su a fi oxofia. I exotèrisi invese i xé dixisi in testi de metafìxica, in quatòrdexe libri, chei demostra a progresiva destinsion del pensièr de Aristotele da queo del maestro Platon, i ga come tema prinsipal a sostansa". Trovo in Bân-lâm-gú che "Chit phin bûn-chiun s chit ê phí-á-kián", e non posso che consentire. È però curioso che manchi la versione in lombardo, segno che l'iniziativa non risale ai sindaci leghisti che mettono i nomi delle strade in dialetto (o costoro non hanno mai sentito parlare di Aristotele). Ora, devo confessare che sentir dire in piemontese che "Aristòtil ant J'analìtich (anté che analìtich a l'é lòn che al di d'ancheuj a l'é dit lògica), a definiss ël silogism, na sòrt dë schema lògich. A men-a anans cost ëstudi con d'arflession an sla dimostrassion e l'andussion", mi fa una certa tenerezza. Ma me la fa perché mi ricorda quando al liceo ci si divertiva a ridire in dialetto quel che i professori ci insegnavano in italiano. Salvo che parlavano meglio dialetto, e quindi ci facevano più ridere, quelli che in casa non avevano mai parlato italiano, e quindi alla maturità se la sarebbero cavata meno bene, non dico in italiano, ma persino in filosofia, perché non sapevano esprimere con chiarezza i concetti.

Infatti il dialetto, ottimo per il comico, il familiare, il concreto quotidiano, il nostalgico-sentimentale, e spesso il poetico, alle nostre orecchie deprime i contenuti concettuali nati e sviluppatisi in altra lingua. Chiedetevi perché "il pensiero di Aristotele ha come tema principale la sostanza", tradotto in tedesco non fa ridere, e tradotto in veneto sembra Arlecchino servo di due padroni. Inoltre chi fosse pur capace di riassumere tutto Aristotele in piemontese, non riuscirebbe a raccontarlo a chi parlasse non dico siciliano ma persino lombardo - se si pensa che una volta, leggendo una raccolta di poesie dialettali in alessandrino, mi sono trovato a un certo punto imbarazzato di fronte a una poesia scarsamente comprensibile, e ho poi scoperto che era scritta nel dialetto di Casalbagliano, che da Alessandria dista soltanto sei chilometri.
Le lingue nazionali sono servite nel corso della storia a unificare le culture locali, e nel bailamme di dialetti africani cara grazia che sia esistito lo swahili in cui diverse genti di etnie diverse hanno potuto comprendersi e fare affari. Tornare alla conoscenza del dialetto (o non perderla) è fondamentale per conservare le nostre radici, ma sostituire i dialetti alle lingue nazionali, come vogliono alcuni sconsiderati, significa ripiombare nel ghetto tante popolazioni che avevano avuto la possibilità di guardare al di là dei confini del loro villaggio.

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Titolo: UMBERTO ECO. La virginiana e l'iraniana
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 03:57:36 pm
La virginiana e l'iraniana

di Umberto Eco

Mobilitazione per Sakineh Ashtiani, silenzio per Teresa Lewis. Ma se i nostri pensieri non fossero torbidi dovremmo dire che non si deve ammazzare nessuno, neppure in modo indolore

(01 ottobre 2010)

Da pochi giorni, in Virginia, Teresa Lewis è stata uccisa con una iniezione letale, e nessuno è andato in prigione perché questa signora era stata legittimamente condannata a morte. Aveva tentato di ammazzare marito e figlio adottivo, e lo aveva fatto senza permesso. Coloro che l'hanno uccisa lo hanno invece fatto col consenso delle autorità. Per cui bisognerebbe riformulare il quinto comandamento come "Non ammazzare senza permesso". In fondo da secoli benediciamo le bandiere dei soldati che, inviati alla guerra, hanno licenza di uccidere, come James Bond.

Ora pare che Ahmadinejad, il quale sta per far lapidare una donna (se non l'avrà già fatto quando leggerete questa bustina) abbia reagito agli appelli, arrivati dall'Occidente, dicendo: "Vi lamentate perché noi vogliamo ammazzare legalmente una donna iraniana, mentre ammazzate legalmente una donna americana"?

Naturalmente gli è stato obiettato che la donna americana aveva cercato di uccidere suo marito, mentre l'iraniana lo ha solo cornificato. E che l'americana è stata uccisa in modo indolore, mentre l'iraniana sarebbe uccisa in modo dolorosissimo. Però una risposta del genere verrebbe a sottintendere due cose: che è giusto ammazzare un'assassina mentre per un'adultera basterebbe una separazione legale senza alimenti; e che si può ammazzare secondo la legge purché in modo poco doloroso. Mentre quello che si dovrebbe invece sostenere, se i nostri pensieri non fossero torbidi, è che non si deve ammazzare neppure un'assassina, e non si deve ammazzare neppure per legge e neppure se l'esecuzione è poco dolorosa, persino se avvenisse iniettando una droga che procura uno sballo delizioso.
Come reagire se paesi poco democratici chiedono a noi cittadini di paesi democratici di non occuparci delle pene di morte loro visto che abbiamo le pene di morte nostre?

La situazione è molto imbarazzante e mi piacerebbe anzi sapere se il numero degli occidentali, tra cui addirittura una first lady francese, che hanno protestato contro la pena di morte iraniana hanno anche protestato contro la pena di morte americana. A naso direi di no, perché di condanne a morte negli Stati Uniti, per non dire della Cina, ce ne sono moltissime e ci abbiamo fatto il callo, mentre è naturale che l'idea di una donna massacrata a colpi di pietra faccia più effetto. Mi rendo conto che quando mi hanno chiesto di dare una firma per impedire la lapidazione dell'iraniana l'ho subito fatto, ma mi era sfuggito che nel frattempo stavano ammazzando una virginiana.

Avremmo ugualmente protestato se la donna iraniana fosse stata condannata a una pacifica iniezione letale? Ci indigniamo per la lapidazione o per la morte inflitta a chi non ha violato il quinto bensì solo il sesto comandamento? Non so, è che le nostre reazioni sono sovente istintive e irrazionali.
In agosto era apparso su Internet un sito dove si insegnavano vari modi per cucinare un gatto. Scherzo o cosa seria che fosse, tutti gli animalisti del mondo erano insorti. Io sono un devoto del gatto (uno dei pochi esseri viventi che non si lascia sfruttare dal proprio padrone ma al contrario lo sfrutta con cinismo olimpico, e la cui affezione alla casa prefigura una forma di patriottismo) e pertanto rifuggirei con orrore da uno stufato di gatto. Però trovo egualmente grazioso, anche se forse meno intelligente, il coniglio, eppure lo mangio senza riserve mentali.
Mi scandalizzo vedendo le case cinesi dove i cani girano in libertà, magari giocando coi bambini, e tutti sanno che saranno mangiati a fine anno, ma nelle nostre fattorie si aggirano i maiali, che mi dicono siano animali intelligentissimi, e nessuno si preoccupa che ne debbano nascere prosciutti.
Che cosa ci induce a giudicare certi animali immangiabili, altri protetti da una loro caratteristica quasi antropomorfa, e altri mangiabilissimi, come i vitellini di latte e gli agnellini che pure da vivi ci ispirano tanta tenerezza?

Siamo veramente (noi) animali stranissimi, capaci di grandi amori e spaventosi cinismi, pronti a proteggere un pesciolino rosso e a far bollire viva un'aragosta, a schiacciare senza rimorsi un millepiedi ma a giudicare barbara l'uccisione di una farfalla. Così usiamo due pesi e due misure per due condanne a morte, ovvero ci scandalizziamo per una e facciamo finta di non sapere dell'altra.
Certe volte si è tentati di dar ragione a Cioran, e ritenere che la creazione, sfuggita dalle mani di Dio, sia dipesa da un Demiurgo maldestro e pasticcione, forse un poco alcolizzato, che si era messo al lavoro con idee molto confuse.

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Titolo: UMBERTO ECO. Il Paese dei dottori laureati al parcheggio
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2010, 10:41:54 pm
LE IDEE

Il Paese dei dottori laureati al parcheggio

di UMBERTO ECO

LA CLASSICA laurea quadriennale italiana, con una tesi finale che talora (anche se non sempre) poteva tener testa alle tesi di PhD di altre università, era un unicum italiano. Negli altri paesi in genere c'è un primo corso triennale alla fine del quale si prende, come in Francia, una license o come nei paesi anglosassoni un BA, o baccellierato. Poi si può fare quello che in America si chiama master (ma non è esattamente quello che è ora un nostro master) e, per chi ha una vocazione alla ricerca, il PhD alla fine del quale, e solamente alla fine del quale, si viene nominati Dottore (lasciamo da parte i dottorati francesi di vari cicli perché c'è da perderci la testa). Essere Dottore, in America, è così importante, che in certe situazioni formali, per onorare uno studioso, non lo si chiama "Professor" Smith bensì "Doctor" Smith. Il Professor può essere anche un laico assunto a contratto, il Doctor ha conseguito il massimo titolo accademico.
Non vi dico i guai quando un nostro laureato andava a proseguire i suoi studi all'estero. La laurea italiana con la sua tesi di dimensioni mostruose valeva un PhD americano? Di solito si diceva di no. Valeva solo un BA? Era un'ingiustizia. Si poteva equipararla a un Master? Era da discutere.
Ecco perché non era assurdo che, con la riforma Berlinguer, si tentasse una equiparazione dei titoli e dei periodi di studio.

La riforma era partita inoltre dalla persuasione che in Italia il numero degli studenti iscritti che non si laureavano fosse alto perché la laurea quadriennale, con il fantasma della imponente tesi finale, incoraggiava gli abbandoni o quei fuori corso chiamati "studenti in sonno". Ora si scopre che gli studenti italiani tardano anche a terminare il triennio. È una iattura, di cui andranno meglio analizzate le cause, ma di cui non è responsabile il sistema 3+2.
Veniamo alla seconda iattura. Su questo stesso numero di Alfabeta Gigi Roggero mi fa dire (ma onestamente aggiunge "grosso modo") che ci volevano più laureati anche se meno preparati. Non credo di aver mai detto così, avrò detto che ci volevano più laureati anche se con un anno di meno, ed è cosa molto diversa. Infatti quando si discuteva della 3+2 ero convinto (come lo sono ancora) che in tre anni ci si possa preparare molto bene, e meglio di quanto non avvenga in un triennio americano che, per poter ricuperare su una high school disastrosa, di non solito non insegna più di quanto non faccia (o non facesse) un nostro buon liceo (e l'aspetto positivo di un BA non è nella profondità degli insegnamenti, ma nel fatto che i ragazzi vivono in college, con frequenza obbligatoria, con la possibilità di avvicinare i professori quando lo desiderano).

Come in tre anni ci si possa preparare in modo eccellente lo spiego subito, partendo dalla mia personale esperienza di studente di filosofia negli anni cinquanta. All'epoca, per la laurea quadriennale, occorreva dare diciotto esami. I nostri professori (che, detto incidentalmente, erano personaggi della taratura di Abbagnano, Bobbio, Pareyson eccetera) si erano messi tutti d'accordo in modo che alla fine dei quattro anni, tra un esame e l'altro, si riuscisse a portare (oltre ai corsi monografici) quasi tutti i classici della filosofia, da Platone a Heidegger. A seconda del quadriennio in cui capitavi poteva accaderti di saltare, che so, Hegel, ma quando ti eri scozzonato su Aristotele, Spinoza o Kant (tutte e tre le critiche) eri poi in grado di leggere da solo il resto.
Di questi diciotto pesantissimi esami, per laurearsi entro il quadriennio (chi andava fuori corso o era studente lavoratore o era incappato nella classica nevrosi da tesi) se ne davano cinque in ciascuno dei primi tre anni, e tre nell'ultimo, per avere tempo da dedicare alla tesi. Nessuno è mai morto di fatica.
Ora, se quei quattro anni dovevano formare un esperto in filosofia, c'erano molti esami che con la filosofia non c'entravano, come latino, italiano, o quattro di storia. Visto che all'epoca queste materie si erano già fatte molto bene al liceo, si sarebbero potuti eliminare almeno tre di quegli esami, ed ecco che si sarebbe arrivati a quindici esami di materie filosofiche, liquidabili in tre anni (senza tesi finale), e leggendo ugualmente i classici e non dei riassunti.

Perché non si è fatto così per l'attuale triennio e si è presupposto di avere a che fare con adolescenti sottosviluppati? Perché si è data un'interpretazione restrittiva e fiscale dei "crediti". I crediti sono un modo di quantificare il lavoro svolto dallo studente, in modo che se si sposta all'estero si sappia a quale livello di studio parificarlo. Si è deciso di calcolare i crediti in base alle ore passate a casa a studiare (una stupidaggine, o una finzione) o al numero di pagine da portare per l'esame. Inoltre, per giustificare il lavoro di molti vecchi e giovani docenti, si sono stabiliti tanti moduli con un numero di ore assai limitato. Ed ecco che, in base ai crediti a cui ha diritto per quel modulo, lo studente non deve studiare più di  -  diciamo  -  cento pagine, al punto da protestare se il docente gli dà un testo di centoventi pagine. Gli editori si sono riciclati facendo libri di testo tisicuzzi, e così lo studente è stato incoraggiato a leggere poco, in fretta, e ad accumulare crediti (che sono misura soltanto quantitativa) a scapito della qualità del suo apprendimento. Mentre, se proprio ci si voleva attenere all'uso europeo dei crediti, bastava legarli al numero e al risultato degli esami; se qualcuno dà due esami in luogo di uno, e col massimo dei voti, non interessa sapere quanto abbia studiato a casa; o ha studiato più degli altri, o è più sveglio, e gli si diano dunque tutti crediti che si è guadagnato, ma non gli si diminuisca il peso del lavoro, perché deve imparare a faticare.

Ho persino il sospetto che con criteri così severi forse si laureerebbero più ragazzi, perché si troverebbero di fronte a una sfida e non sarebbero incoraggiati a rigirarsi i pollici. Ma se poi non si laureano in tempo si deve anche ritenere che, tranne ovviamente le eccezioni folgoranti, arrivino già sottosviluppati dalla media superiore, come risulta dai test che denunciano ignoranze abissali  -  e quindi bisognerebbe mettere in discussione anche quanto avviene prima dei diciott'anni.

A rendere inoltre risibile il 3+2 c'è poi la storia grottesca del "dottore". In tutti gli altri paesi si è dottore solo dopo il dottorato di ricerca e dunque dopo almeno otto anni di studio. Con i diplomi precedenti si è solo Mister, Herr o Monsieur. Alcuni di noi avevano sconsigliato di seguire il vecchio andazzo e di definire già dottore chi terminava il biennio della laurea magistrale; ma il legislatore, forse anche sotto la pressione di tutte le mamme e i babbi d'Italia, con il Decreto del 22 ottobre 2004, n.2707 ha infine stabilito: "A coloro che hanno conseguito, in base agli ordinamenti didattici di cui al comma 1, la laurea, la laurea magistrale o specialistica e il dottorato di ricerca, competono, rispettivamente, le qualifiche accademiche di dottore, dottore magistrale e dottore di ricerca".

Spero che il lettore abbia capito: in Italia si diventa dottore tre volte, una volta dopo tre anni, l'altra dopo due e l'altra ancora dopo tre o quattro. A parte i dottorati conferiti dal cameriere o dal posteggiatore. Come faranno all'estero a prendere sul serio i nostri dottori anche se arriveranno con le tasche piene di stupidi crediti?

(15 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/10/15/news/il_paese_dei_dottori_laureati_al_parcheggio-8071372/?ref=HREC1-8


Titolo: UMBERTO ECO. Diavolo di un Aristotele
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2010, 10:52:58 pm
Diavolo di un Aristotele

di Umberto Eco

Il filosofo ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni sosteneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza

(15 ottobre 2010)

È appena uscito in italiano un curioso libro di Peter Leeson, "L'economia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo" (Garzanti, 21,60) dove l'autore, storico americano del capitalismo, spiega i principi fondamentali dell'economia e della democrazia moderne prendendo come modello gli equipaggi delle navi pirata del XVII secolo (sì, proprio quelle del Corsaro Nero o di Pietro l'Olonese, con la bandiera col teschio che, all'inizio, non era nera bensì rossa, da cui il nome "Jolie rouge" che in inglese era stato poi storpiato come "Jolly Roger").
Leeson dimostra che, con le sue leggi ferree, a cui ogni pirata per bene si atteneva, la filibusta era un'organizzazione "illuminata", democratica, egualitaria e aperta alla diversità: in poche parole era un modello perfetto di società capitalistica.

Su questi temi ricama anche Giulio Giorello nella sua prefazione e pertanto non mi occuperò di quanto dice il libro di Leeson, bensì di una associazione di idee che mi ha fatto sorgere. Perbacco, chi, anche senza poter sapere niente del capitalismo, aveva tracciato un parallelo tra pirati e mercanti (vale a dire imprenditori liberi, modelli del capitalismo futuro) era stato Aristotele.
Aristotele ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni inaugurali sosteneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza. Non sembri cosa da poco perché nei secoli successivi la metafora è stata vista a lungo solo come un modo di abbellire il discorso senza tuttavia cambiarne la sostanza. E ancor oggi c'è qualcuno che la pensa così.
Nella Poetica diceva che capire le buone metafore vuole dire "sapere scorgere il simile o il concetto affine". Il verbo che usava era "theoreîn", che vale per scorgere, investigare, paragonare, giudicare. Su questa funzione conoscitiva della metafora Aristotele tornava con maggiore ampiezza nella Retorica dove diceva che è gradevole ciò che suscita ammirazione perché ci fa scoprire una analogia insospettata, vale a dire ci "mette sotto gli occhi" (così si esprimeva) qualcosa che non avevamo mai notato, per cui si è portati a dire "guarda, è proprio così, eppure non lo sapevo".

Come si vede in tal modo Aristotele assegnava alle buone metafore una funzione quasi scientifica, anche se si trattava di una scienza che non consisteva nello scoprire qualcosa che era già là, bensì, per così dire, nel farlo apparire là per la prima volta, nel creare un modo nuovo di guardare le cose.
E quale era uno degli esempi più convincenti di metafora che ci mette qualcosa sotto gli occhi per la prima volta? Una metafora (che non so dove Aristotele avesse trovato) per cui i pirati venivano detti "provveditori" o "fornitori". Come per altre metafore Aristotele suggeriva che si individuasse, per due cose apparentemente diverse e inconciliabili, almeno una proprietà comune, e poi si vedessero le due cose diverse come specie di quel genere.
Anche se i mercanti erano di solito considerati brave persone che andavano per mare a trasportare e vendere legalmente le loro merci, mentre i pirati erano dei mascalzoni che assalivano e depredavano le navi di quegli stessi mercanti, la metafora suggeriva che pirati e mercanti avessero in comune il fatto di operare il passaggio di merci da una fonte al consumatore. Indubbiamente una volta che avevano depredato le loro vittime, i pirati andavano a vendere i beni conquistati da qualche parte e quindi erano dei trasportatori, provveditori e fornitori di merci - anche se i loro clienti erano probabilmente imputabili di incauto acquisto. In ogni caso quella fulminea somiglianza tra mercanti e predatori creava tutta una serie di sospetti - così che il lettore era indotto a dire: "Così era, e prima mi sbagliavo".

Da un lato la metafora obbligava a riconsiderare il ruolo del pirata nell'economia mediterranea, ma dall'altro induceva a qualche sospettosa riflessione sul ruolo e i metodi dei mercanti. Insomma, quella metafora, agli occhi di Aristotele, anticipava quello che poi avrebbe detto Brecht, che il vero crimine non è rapinare una banca bensì possederla - e naturalmente il buon stagirita non poteva sapere che l'apparente boutade di Brecht sarebbe apparsa tremendamente inquietante alla luce di quanto è accaduto negli ultimi tempi nel mercato finanziario internazionale.
Insomma, non occorre far finta che Aristotele la pensasse come Marx, lui che faceva il consigliere di un monarca, ma capirete come mi ha divertito questa storiella dei pirati. Diavolo di un Aristotele.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/diavolo-di-un-aristotele/2136454/18


Titolo: UMBERTO ECO. Il "Potemkin" di Hitchcock
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2010, 11:59:21 pm
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L'opinione

Il "Potemkin" di Hitchcock

di Umberto Eco

Anche nelle scuole andrebbe praticata una "attribuzione mobile", cambiando di autore (e di prospettiva) ogni volta, e leggere un "Fratelli Karamazov" di Nietzsche e una "Montagna incantata" di Flaubert

(29 ottobre 2010)

Nel 2007 avevo recensito in questa Bustina "Come parlare di un libro senza averlo mai letto" di Pierre Bayard, ammettendo che, anche se provocatorio, il suo discorso raccontava quello che accade esattamente ad ogni persona colta, in grado di parlare di cose non lette, perché nessuno può umanamente aver letto tutto. L'anno dopo ritornavo su Bayard che intanto aveva pubblicato "Il caso del mastino dei Baskerville" dove, psicoanalizzando punti oscuri del testo di Arthur Conan Doyle, cercava di mostrare come un lettore avesse il diritto di ritenere significative molte ambiguità o reticenze (come fanno del resto gli psicoanalisti) e di concluderne che Sherlock Holmes si era sbagliato nel risolvere il mistero. Questo secondo libro era, secondo me, meno persuasivo del primo, ma certamente ugualmente gustoso.

Ma Bayard non demorde e - dopo un altro libretto su come migliorare le opere mal riuscite - ci offre ora questo "Et si les oeuvres changeaient d'auteur?" (Parigi, Minuit). È evidente che il libro è in debito con Borges, il quale aveva immaginato la storia di Pierre Menard che aveva riscritto il "Don Chisciotte" tale e quale lo aveva scritto Cervantes, salvo che letto come opera di un contemporaneo, quel libro acquistava tutt'altro significato. Non sempre il gioco riesce, perché Borges aveva anche proposto di leggere la "Imitazione di Cristo" come se fosse stata scritta da Céline, e io una volta ci avevo provato, rilevando che per una decina di righe la cosa poteva funzionare, ma alla fine la faccenda s'inceppava.
Ora Bayard oscilla tra varie opzioni. Da un lato si occupa della creazione di autori immaginari che probabilmente non sono quelli veri (tipico il caso di Shakespeare che forse non era Shakespeare ma, suggerisco io, soltanto un signore che si faceva chiamare Shakespeare: però è ovvio che, chiunque fosse, noi abbiano oggi l'immagine di un autore che è quello che ha scritto le opere di Shakespeare e il resto è pettegolezzo erudito).

Il secondo problema è quello di autori che si sono creati mediante pseudonimo un doppio, ed è interessante l'analisi di un Boris Vian che si fa passare non solo per un altro, ma per un americano (Vernon Sullivan) e crea così un doppio cambiamento di prospettiva. Peccato che Bayard non consideri il caso Pessoa coi suoi pseudonimi ed eteronimi. Il terzo caso è quello dei plagi per anticipazione, e gustosissimo è il capitolo riservato a Lewis Carroll come autore profondamente influenzato dai surrealisti e da Joyce; procedimento che diventa correttissimo se si ribalta la prospettiva e ci si domanda se e quanto i surrealisti e Joyce siano stati influenzati da Carroll (ma ammetto che così diventa meno divertente).

Vediamo ora i capitoli dedicati al cambio completo di autore e addirittura di arte (come quando Bayard considera "L'urlo", quello di Munch, come opera musicale di Schumann). Sin dall'inizio Bayard discute con molta serietà una ipotesi già avanzata da Samuel Butler, e cioè come si possa rileggere la "Odissea" pensando che sia stata scritta da una donna (e pensate al ruolo che le donne vi hanno, mentre certamente la "Iliade" è storia alquanto maschilista). Così siamo invitati a rileggere "Lo straniero" di Camus come se fosse di Kafka, "Via col vento" come dovuto a Tolstoi e (esercizio raffinatissimo) i "Sette pilastri della saggezza" di D. H. Lawrence, rispetto a "L'amante di Lady Chatterley" di T. E. Lawrence. Appassionante "L'incrociatore Potemkin" come film di Hitchcock, ma il pezzo di bravura più riuscito di tutto questo libretto è "L'etica" di Spinoza attribuito a Freud.

Io, or sono cinquant'anni, mi ero divertito a rileggere i "Promessi sposi" come se fosse di Joyce, ma l'avevo fatto per parodiare alcune tendenze della critica americana di quei tempi, intesa a trovare simboli e allusioni ultraviolette dappertutto. Il mio esercizio non mirava a capire meglio né Manzoni né Joyce, anzi, stravolgeva entrambi. Invece Bayard seriamente ritiene che questi cambi di prospettiva aiutino a vedere le opere sotto punti di vista sorprendenti e fecondi.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-potemkin-di-hitchcock/2137260/18


Titolo: UMBERTO ECO. Chi era costui?
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 03:25:31 pm
Chi era costui?

di Umberto Eco

La nostra è una contemporaneità senza memoria: i nostri studenti confondono Moro con Curcio e credono che De Gasperi fosse un capo comunista.

E non si salva neppure Woody Allen...

(12 novembre 2010)

Verso la fine degli anni Cinquanta nei fumetti americani, se il protagonista si spostava indietro nel tempo e capitava nel Medioevo, i personaggi apparivano vestiti in abiti cinque-secenteschi. Era l'epoca in cui nei film i detective americani arrivavano su automobili lunghe dieci metri con giacche enormi non sciancrate, e si ironizzava su quei cafoni per i quali tutto quello che era avvenuto prima della guerra di Secessione era età della pietra. D'altra parte più di dieci anni dopo un filosofo allora in voga, Gilbert Harman, aveva posto un cartello all'entrata del dipartimento di filosofia di Princeton, che diceva "Proibito l'ingresso agli storici della filosofia". L'America è infastidita dal passato, e se Bush avesse letto cronache del secolo prima avrebbe saputo che nessun esercito europeo, né russo né inglese, era mai riuscito a vincere sui monti dell'Afghanistan. Naturalmente si parla dell'America della gente comune, perché nelle università (anche nel Texas) queste cose si sanno, ma nessuno al Pentagono prende sul serio i professori universitari, come del resto ormai da noi.

Il fatto è che ormai ci siamo civilizzati e siamo tutti americani. Da tempo ci si stupisce come mai i nostri studenti, intervistati, confondano Moro con Curcio e credono che De Gasperi fosse un capo comunista. Noi, ragazzini alla fine degli anni Trenta, sapevamo benissimo che il ministro regio, ai tempi della marcia su Roma, era "l'imbelle Facta" E pur vero che allora c'era Gentile al posto della Gelmini.
Una mia collega si è accorta mesi fa che, quando ai suoi allievi citava Woody Allen, questi non ridevano. Si poi è resa conto che Woody Allen, che aveva sedotto una intera generazione alla fine degli anni Sessanta e nei decenni seguenti, era ormai ignoto alle matricole di oggi. Noi da piccoli sapevamo benissimo chi era stato, prima della nostra nascita, Ridolini.

Questa perdita di memoria non va imputata ai ragazzini, ma investe ormai anche i giornalisti. Giorni fa ho trovato su un noto quotidiano una fotografia che diceva di ritrarre Giovanni Anceschi mentre rappresentava invece Giorgio Manganelli, segno che nessuno in redazione ricordava né l'uno né l'altro. Nel vivo delle discussioni su "Giovinezza" e "Bella ciao", su un altro quotidiano importante ho visto due foto, l'una di un camion di partigiani e l'altra di una schiera di persone in orbace che fanno il saluto romano e che venivano definiti come "squadristi". Macché, gli squadristi erano degli anni Venti e non giravano in orbace, e quelli che si vedono nella fotografia sono milizia fascista tra anni Trenta e inizio anni Quaranta, cosa che un testimone della mia età riconosce facilmente. Non pretendo che nelle redazioni lavorino solo testimoni della mia età, ma io so distinguere benissimo dalle divise i bersaglieri di Lamarmora dalle truppe di Bava Beccaris, anche se sono nato quando gli uni e gli altri erano morti da tempo.

Che cosa sta succedendo nelle redazioni dei giornali? Una volta c'erano caporedattori ai quali non sfuggiva una virgola, e prima di andare in stampa controllavano tutto riga per riga. Oggi è ovvio che nessun essere umano possa controllare (e all'ultimo momento) un quotidiano di sessanta pagine, ma che in redazione ci siano solo lattanti divorziati dal passato, ancorché prossimo, pare incredibile. Eppure è così e non è colpa dei giornali, ma della storia - ovvero di una contemporaneità senza memoria.
D'altra parte si pensi al progetto Morandi per rappresentare a San Remo il sesquicentenario (così si chiama la ricorrenza dei cento e cinquant'anni, ma chi lo sa più) dell'unità d'Italia. Si è pensato a "Bella ciao" e a "Giovinezza", canti che senz'altro richiamano diversi momenti della storia recente, ma per gli ultimi cento e cinquanta anni si poteva pensare più propriamente a "Addio mia bella addio" e alla "Bella Gigugin". Chi se ne ricorda più, se la nostra preistoria risale solo ai tempi in cui la mamma ci mandava a prendere il latte?

Ultimo accenno. L'ultimo numero de "il Venerdi" di "Repubblica" mostra una foto scattata nel 1947 a Meina da Riccardo Patellani, con alcuni scrittori intorno a Thomas Mann e Arnoldo Mondadori. Filippo Ceccarelli scrive che da tempo molti hanno cercato di identificare i quattordici personaggi intorno a Mann, e che Cesare Cases e Golo Mann erano riusciti a riconoscere Fortini, Del Buono, Emanuelli, Alberto Mondadori, Lavinia Mazzucchetti, Giansiro Ferrata e un imberbe Edilio Rusconi. Risulterebbero ancora misteriosi altri sei. Ora Mario Andreose, che nel '47 era un ragazzino, ma che più tardi ha lavorato al Saggiatore, mi dice di essere riuscito a identificare anche Guido Lopez, Remo Cantoni, Tom Antongini e (ma va a sapere se l'ha azzeccata perché è a sinistra di spalle) Enzo Paci.
Ne mancano ancora due, ma come si vede non è necessario essere stato un contemporaneo per sapere chi era e che faccia avesse Giulio Cesare.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/chi-era-costui/2138105/18


Titolo: UMBERTO ECO. Ma Moro era un brigatista?
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 05:32:51 pm
Ma Moro era un brigatista?

di Umberto Eco

Una volta prendevamo in giro per gli americani perché ignoravano il passato. Oggi siamo diventati tutti come loro: infastiditi dalla storia, anche quella recente. E chi ha meno di 40 anni confonde De Gasperi con Togliatti
(15 novembre 2010)
Aldo Moro ed Enrico Berlinguer Aldo Moro ed Enrico BerlinguerVerso la fine degli anni Cinquanta nei fumetti americani, se il protagonista si spostava indietro nel tempo e capitava nel Medioevo, i personaggi apparivano vestiti in abiti cinque-secenteschi. Era l'epoca in cui nei film i detective americani arrivavano su automobili lunghe dieci metri con giacche enormi non sciancrate, e si ironizzava su quei cafoni per i quali tutto quello che era avvenuto prima della guerra di Secessione era età della pietra. D'altra parte più di dieci anni dopo un filosofo allora in voga, Gilbert Harman, aveva posto un cartello all'entrata del dipartimento di filosofia di Princeton, che diceva "Proibito l'ingresso agli storici della filosofia".

L'America è infastidita dal passato, e se Bush avesse letto cronache del secolo prima avrebbe saputo che nessun esercito europeo, né russo né inglese, era mai riuscito a vincere sui monti dell'Afghanistan. Naturalmente si parla dell'America della gente comune, perché nelle università (anche nel Texas) queste cose si sanno, ma nessuno al Pentagono prende sul serio i professori universitari, come del resto ormai da noi.

Il fatto è che ormai ci siamo civilizzati e siamo tutti americani. Da tempo ci si stupisce come mai i nostri studenti, intervistati, confondano Moro con Curcio e credono che De Gasperi fosse un capo comunista. Noi, ragazzini alla fine degli anni Trenta, sapevamo benissimo che il ministro regio, ai tempi della marcia su Roma, era "l'imbelle Facta" E pur vero che allora c'era Gentile al posto della Gelmini.
Una mia collega si è accorta mesi fa che, quando ai suoi allievi citava Woody Allen, questi non ridevano. Si poi è resa conto che Woody Allen, che aveva sedotto una intera generazione alla fine degli anni Sessanta e nei decenni seguenti, era ormai ignoto alle matricole di oggi. Noi da piccoli sapevamo benissimo chi era stato, prima della nostra nascita, Ridolini.

Questa perdita di memoria non va imputata ai ragazzini, ma investe ormai anche i giornalisti. Giorni fa ho trovato su un noto quotidiano una fotografia che diceva di ritrarre Giovanni Anceschi mentre rappresentava invece Giorgio Manganelli, segno che nessuno in redazione ricordava né l'uno né l'altro. Nel vivo delle discussioni su "Giovinezza" e "Bella ciao", su un altro quotidiano importante ho visto due foto, l'una di un camion di partigiani e l'altra di una schiera di persone in orbace che fanno il saluto romano e che venivano definiti come "squadristi". Macché, gli squadristi erano degli anni Venti e non giravano in orbace, e quelli che si vedono nella fotografia sono milizia fascista tra anni Trenta e inizio anni Quaranta, cosa che un testimone della mia età riconosce facilmente. Non pretendo che nelle redazioni lavorino solo testimoni della mia età, ma io so distinguere benissimo dalle divise i bersaglieri di Lamarmora dalle truppe di Bava Beccaris, anche se sono nato quando gli uni e gli altri erano morti da tempo.

Che cosa sta succedendo nelle redazioni dei giornali? Una volta c'erano caporedattori ai quali non sfuggiva una virgola, e prima di andare in stampa controllavano tutto riga per riga. Oggi è ovvio che nessun essere umano possa controllare (e all'ultimo momento) un quotidiano di sessanta pagine, ma che in redazione ci siano solo lattanti divorziati dal passato, ancorché prossimo, pare incredibile. Eppure è così e non è colpa dei giornali, ma della storia - ovvero di una contemporaneità senza memoria.

D'altra parte si pensi al progetto Morandi per rappresentare a San Remo il sesquicentenario (così si chiama la ricorrenza dei cento e cinquant'anni, ma chi lo sa più) dell'unità d'Italia. Si è pensato a "Bella ciao" e a "Giovinezza", canti che senz'altro richiamano diversi momenti della storia recente, ma per gli ultimi cento e cinquanta anni si poteva pensare più propriamente a "Addio mia bella addio" e alla "Bella Gigugin". Chi se ne ricorda più, se la nostra preistoria risale solo ai tempi in cui la mamma ci mandava a prendere il latte?

Ultimo accenno. L'ultimo numero de "il Venerdi" di "Repubblica" mostra una foto scattata nel 1947 a Meina da Riccardo Patellani, con alcuni scrittori intorno a Thomas Mann e Arnoldo Mondadori. Filippo Ceccarelli scrive che da tempo molti hanno cercato di identificare i quattordici personaggi intorno a Mann, e che Cesare Cases e Golo Mann erano riusciti a riconoscere Fortini, Del Buono, Emanuelli, Alberto Mondadori, Lavinia Mazzucchetti, Giansiro Ferrata e un imberbe Edilio Rusconi. Risulterebbero ancora misteriosi altri sei. Ora Mario Andreose, che nel '47 era un ragazzino, ma che più tardi ha lavorato al Saggiatore, mi dice di essere riuscito a identificare anche Guido Lopez, Remo Cantoni, Tom Antongini e (ma va a sapere se l'ha azzeccata perché è a sinistra di spalle) Enzo Paci.

Ne mancano ancora due, ma come si vede non è necessario essere stato un contemporaneo per sapere chi era e che faccia avesse Giulio Cesare.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ma-moro-era-un-brigatista/2138105/18


Titolo: UMBERTO ECO. Rustaveli, chi era costui?
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 08:59:15 am
Rustaveli, chi era costui?

di Umberto Eco

Arriveremo a una educazione adatta al mondo globalizzato quando il 99 per cento degli europei colti ignora quello che per i georgiani è uno dei poemi più grandi della storia?

(26 novembre 2010)

Il canone occidentale" di Harold Bloom definiva il Canone come "la scelta di libri nelle nostre istituzioni didattiche" e stabiliva che la vera domanda che esso poneva era: "Che cosa dovrà tentare di leggere, in questo tardo momento storico, l'individuo che ancora desideri leggere?". E osservava che i tredici anni di un curriculum scolastico completo permettevano al massimo di leggere una piccola scelta dei grandi scrittori occidentali, trascurando quelli di altre tradizioni.

Ma anche attenendoci alla sola tradizione occidentale, quali sono i libri che hanno formato la cultura sia di un francese che di un finlandese, e che ciascuno dovrebbe leggere? Certamente la cultura di ciascun occidentale è stata influenzata dalla Divina Commedia, da Shakespeare e, andando indietro, da Omero, Virgilio o Sofocle. Ma ne siamo stati influenzati perché li abbiamo letti?
Viene in mente il libro di Bayard già recensito in questa bustina ("Come parlare di un libro senza averlo mai letto"), ed è chiaro come il sole che la Bibbia ha segnato profondamente sia la cultura ebraica che quella cristiana, e persino la cultura dei miscredenti occidentali, ma questo non significa che tutti coloro che ne sono stati influenzati l'abbiano letta tutta, dalla prima pagina all'ultima.

E lo stesso si può dire per esempio di Shakespeare per non dire di Joyce. E è necessario, per essere una persona colta, e persino un buon cristiano, aver letto (della Bibbia) anche "i Re" o "I numeri"? Bisogna aver letto "L'Ecclesiaste" o basta, come accade ai più, sapere che condanna la "vanitas vanitatum"?

Quindi la questione del canone non è omologa a quella del Syllabus che, specie nelle scuole americane, rappresenta l'insieme delle cose che uno studente deve aver letto entro la fine del suo corso di studi.
Il problema peraltro oggi si complica e la settimana scorsa si è discusso a Monaco, durante un raduno internazionale di scrittori, su cosa si debba intendere per canone nell'era della globalizzazione. Se gli abiti griffati europei vengono prodotti in Cina, se usiamo automobili e computer giapponesi, se anche ad Afragola si mangiano hamburger invece della pizza, se il mondo ha insomma raggiunto dimensioni provinciali ed abbiano all'angolo della nostra strada una moschea, e nelle nostre scuole bambini colorati chiedono che vengano insegnate anche le cose della loro religione, quale sarà il nuovo canone?
In certe università americane si era risposto tempo fa con un gesto che, più che "politically correct" era "politically stupid": siccome abbiamo tanti studenti neri, si diceva, non dobbiamo più insegnare Shakespeare ma la letteratura africana. Bello scherzo giocato a quei ragazzi che poi avrebbero dovuto vivere negli Stati Uniti, ignorando cosa volesse dire "essere o non essere", e quindi rimanendo sempre ai margini della cultura dominante. Caso mai, come si suggerisce oggi per le ore di religione, i ragazzi dovrebbero venire a sapere qualcosa, oltre che del Vangelo, anche del Corano, o della tradizione buddista. E così non sarebbe male che alla media superiore, oltre che sentire parlare della civiltà greca, lo studente apprendesse qualcosa della grande civiltà letteraria araba, indiana o giapponese.

Recentemente ho partecipato a Parigi a un incontro tra intellettuali europei e intellettuali cinesi, ed era umiliante vedere come i nostri interlocutori sapessero tutto di Kant e di Proust, e suggerissero paralleli (giusti o sbagliati che fossero) tra Lao Tze e Nietzsche, mentre noi in genere non andavamo al di là di Confucio, e spesso solo per sentito dire.

Ma ecco che anche questo ideale ecumenico si scontra con alcune difficoltà. Puoi raccontare a un giovane italiano "L'Iliade" perché di Ettore o di Agamennone ha sentito parlare in giro e fan parte della sua cultura spicciola persino espressioni come il giudizio di Paride e il tallone di Achille (ma recentemente a un esame universitario un nostro aspirante alla laurea breve credeva che il tallone di Achille fosse qualcosa come il ginocchio della lavandaia o il gomito del tennista). Ma come potrai interessarlo al "Mahabharata" o a Omar Khayyám, e in modo che queste nozioni lascino una minima traccia nella sua memoria? Arriveremo davvero a una educazione adatta al mondo della globalizzazione quando il 99 per cento degli europei colti ignora che per i georgiani uno dei poemi più grandi di tutta la storia letteraria è stato quello di Rustaveli, "L'uomo dalla pelle di pantera", e non ci siamo neppure messi d'accordo (controllate su Internet) se in quella lingua dall'alfabeto illeggibile si parlava di una pelle di pantera o non piuttosto di tigre o di leopardo? O continueremo a domandarci "Rustaveli, chi era costui?".

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/rustaveli-chi-era-costui/2139101/18


Titolo: UMBERTO ECO. Sapere quel che si sa
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2010, 10:20:15 am
Sapere quel che si sa

di Umberto Eco

Le "rivelazioni" di WikiLeaks dimostrano l'inutilità dei rapporti della diplomazia e dei servizi segreti che trasmettono e archiviano soltanto quello che già era noto

(10 dicembre 2010)

Julian Assange Julian AssangeSull'affare WikiLeaks si è detto molto ma pare ci sia sempre qualcosa di più da dire. Per esempio, come primo approccio, che sul piano dei contenuti WikiLeaks si rivela uno scandalo apparente, mentre su quello delle forme è qualcosa di più
Uno scandalo è apparente quando porta a livello di pubblico discorso quello che tutti sapevano e dicevano in forme più private, e rimaneva per così dire sussurrato solo per ragioni di ipocrisia (per esempio che in certe facoltà vanno in cattedra i figli del barone). Qualsiasi persona, non dico addentro alle cose della diplomazia, ma che abbia visto alcuni film di intrigo internazionale, sapeva benissimo che, almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, e cioè da quando i capi di Stato possono telefonarsi o prendere un aereo per incontrarsi a cena, le ambasciate hanno perso la loro funzione diplomatica (è stato inviato un ambasciatore in feluca a dichiarare guerra a Saddam?) e, tranne piccoli esercizi di rappresentanza, si sono trasformate, nei casi più evidenti, in centri di documentazione sul paese ospite (con l'ambasciatore che quando è bravo fa il lavoro del sociologo e del politologo), e nei casi più riservati, in vere e proprie centrali di spionaggio.

Tuttavia il dichiararlo ad alta voce costringe oggi la diplomazia americana ad ammettere che ciò è vero, e pertanto a subire una perdita di immagine sul piano delle forme. Con la curiosa conseguenza che questa perdita, fuga, stillicidio di notizie riservate più che nuocere alle presunte vittime (Berlusconi, Sarkozy, Gheddafi o Merkel) nuoce al presunto carnefice, e cioè la povera signora Clinton, che probabilmente si limitava a ricevere i messaggi che gli addetti d'ambasciata le inviavano per dovere professionale visto che erano pagati solo per far questo. Il che è poi quello che Assange, secondo ogni evidenza, voleva, visto che il dente avvelenato lo ha contro il governo americano e non contro il governo Berlusconi.
Perché le vittime non vengono toccate, se non superficialmente? Perché, come tutti si sono accorti, i famosi messaggi segreti erano puro "Eco della Stampa", e si limitavano a riferire quello che tutti in Europa sapevano e dicevano, e che persino in America era apparso già su "Newsweek". Pertanto i rapporti segreti erano come i dossier che gli uffici stampa di un'azienda inviano all'amministratore delegato, il quale con tutto il daffare che ha non può leggere anche i giornali.
È evidente che i rapporti inviati alla Clinton, non riguardando segrete cose, non erano "pizzini" spionistici. Ma se pure si fosse anche trattato di notizie apparentemente più riservate, come il fatto che Berlusconi ha cointeressenze private negli affari del gas russo, anche lì (vera o falsa che la cosa sia) i pizzini non farebbero altro che ripetere ciò di cui parlano coloro che ai tempi del fascismo erano bollati come strateghi da caffè, e cioè quelli che parlano di politica al bar.

E questo non fa altro che confermare un'altra cosa che si sa benissimo. E cioè che ogni dossier costruito per un servizio segreto (di qualsiasi nazione) è fatto esclusivamente di materiale già di dominio pubblico. Le "straordinarie" rivelazioni americane sulle notti brave di Berlusconi riportano ciò che da mesi si poteva leggere su qualsiasi giornale italiano (meno due), e le manie satrapiche di Gheddafi erano da tempo materia - peraltro anche vecchiotta - per i caricaturisti.
La regola per cui i dossier segreti devono essere fatti soltanto di notizie già note è essenziale per la dinamica dei servizi segreti, e non solo in questo secolo. È la stessa per cui, se andate in una libreria dedicata a pubblicazioni esoteriche, vedrete che ogni nuovo libro ripete (sul Graal, sul mistero di Rennes-le-Chateau, sui Templari o sui Rosa-Croce) esattamente quello che era scritto nei libri precedenti. Questo non solo e non tanto perché l'autore di testi occultistici non ama fare ricerche inedite (né sa dove potrebbe ricercare notizie sull'inesistente) ma perché i devoti dell'occultismo credono solo a quello che sanno già, e che riconferma quello che avevano già appreso. Che è poi il meccanismo del successo di Dan Brown.
Lo stesso accade per i dossier segreti. Pigro l'informatore e pigro, o di mente ristretta, il dirigente dei servizi segreti (altrimenti farebbe, che so, il redattore de "L'espresso") che ritiene vero solo ciò che riconosce.

Visto pertanto che i servizi segreti, di ogni paese, non servono a prevedere casi come l'attacco alle Twin Towers (e in certi casi, essendo regolarmente deviati, addirittura li producono) e archiviano soltanto quello che già si conosceva, tanto varrebbe eliminarli. Ma, coi tempi che corrono, tagliare altri posti di lavoro sarebbe davvero insensato.

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Titolo: UMBERTO ECO. Dio non c'è più, la tv invece sì
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 04:27:48 pm


di Umberto Eco

Una volta chi si sentiva abbandonato dal resto dell'umanità trovava consolazione nel fatto che l'Onnipotente, almeno lui, era ogni giorno testimone dei suoi affanni.

Oggi quella funzione divina è decisamente sostitituita dall'apparire in televisione

(23 dicembre 2010)

L'altra mattina a Madrid ero a colazione col mio re. Non vorrei essere frainteso: pur essendo di fieri sentimenti repubblicani, due anni fa sono stato nominato duca del Regno di Redonda (col titolo di Duque de l'Isla del Dia de Antes) e questa dignità ducale condivido con Pedro Almodóvar, Susan Byatt, Francis Ford Coppola, Arturo Perez-Reverte, Fernando Savater, Pietro Citati, Claudio Magris, Ray Bradbury e alcuni altri, tutti in qualche modo uniti dalla comune qualità di essere simpatici al re.

Dunque, l'isola di Redonda sta nelle Indie Occidentali, misura trenta chilometri quadrati (un fazzoletto) è del tutto disabitata e ritengo che nessuno dei suoi monarchi vi abbia mai messo piede. L'aveva acquistata nel 1865 un banchiere, Matthew Dowdy Shiell, che aveva chiesto alla regina Vittoria di costituirla in regno autonomo, ciò che la graziosa maestà aveva fatto senza problemi perché non vi vedeva alcuna minaccia per l'impero coloniale britannico. Nel corso dei decenni l'isola era passata sotto vari monarchi, alcuni dei quali avevano venduto il titolo più volte, provocando risse di pretendenti (e se volete sapere tutta la storia pluridinastica cercate Redonda su Wikipedia), e nel 1997 l'ultimo re aveva abdicato a favore di un famoso scrittore spagnolo, Javier Marias (ampiamente tradotto anche in Italia) il quale ha cominciato a nominare duchi a destra e a manca.

Ecco tutta la storia, che naturalmente sa un poco di follia patafisica, ma insomma, diventare duca non è cosa da tutti i giorni. Il punto tuttavia non è questo: è che nel corso della nostra conversazione Marias ha detto una cosa sulla quale vale la pena di riflettere. Si discuteva sul fatto evidente che oggi la gente è disposta a fare carte false pur di apparire su un teleschermo, anche solo come l'imbecille che fa ciao ciao dietro all'intervistato.

Recentemente in Italia il fratello di una ragazza barbaramente assassinata, avendo dolorosamente sfiorato gli onori della cronaca, è andato da Lele Mora a chiedere un ingaggio televisivo per poter fare fruttare quella sua tragica notorietà, e sappiamo di chi, pur di apparire alla ribalta della cronaca, è disposto a dichiararsi cornuto, impotente o truffatore, né è ignoto agli psicologi criminali che ciò che muove il serial killer è il desiderio di essere scoperto e diventare celebre.

Perché questa follia, ci si domandava? Marias ha avanzato l'ipotesi che quanto accade oggi dipenda dal fatto che gli uomini non credano più in Dio. Un tempo gli uomini erano persuasi che ogni loro azione avesse almeno uno Spettatore, che conosceva tutti i loro gesti (e i loro pensieri), poteva comprenderli o all'occorrenza condannarli. Si poteva essere un reietto, un buono a nulla, uno "sfigato" ignorato dai propri simili, che un minuto dopo la sua scomparsa sarebbe stato dimenticato da tutti, ma si nutriva la persuasione che almeno Uno sapesse tutto di noi.

"Dio sa che cosa ho sofferto", si diceva la nonna inferma e abbandonata ai nipoti, "Dio sa che sono innocente", si consolava chi era stato condannato ingiustamente, "Dio sa quanto ho fatto per te", diceva la madre al figlio sconoscente, "Dio sa quanto ti amo", gridava l'amante abbandonato, "Solo Dio sa quante ne ho passate", lamentava lo sciagurato delle cui sventure non importava niente a nessuno. Dio era sempre invocato come l'occhio a cui nulla sfuggiva e il cui sguardo dava senso anche alla vita più grigia e insensata.

Scomparso, rimosso questo Testimone onniveggente, che cosa rimane? L'occhio della società, l'occhio degli altri, a cui bisogna mostrarsi per non sprofondare nel buco nero dell'anonimato, nel vortice della dimenticanza, anche a costo di scegliere il ruolo dello scemo del paese che si mette in mutande e balla sul tavolo dell'osteria. L'apparizione sullo schermo è l'unico succedaneo della trascendenza, e ne è un succedaneo tutto sommato gratificante: ci si vede (e ci vedono) in un aldilà, ma in compenso in quell'aldilà tutti ci vedono qua, e mentre qua ci siamo anche noi - pensate che vantaggio, godere di tutti i vantaggi dell'immortalità (sia pure assai rapida e transeunte) e avere nel contempo la possibilità di essere festeggiati a casa nostra (in terra) per la nostra assunzione nell'Empireo.

Il guaio è che in questi casi si equivoca sul doppio significato del "riconoscimento". Tutti aspiriamo vengano "riconosciuti" i nostri meriti, o i nostri sacrifici, o qualsiasi altra nostra bella qualità; ma quando, dopo essere apparsi sullo schermo, qualcuno ci vede al bar e ci dice "l'ho vista ieri in televisione" semplicemente "riconosce te", ovvero la tua faccia - il che è cosa assai diversa.

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Titolo: UMBERTO ECO. Che idea: uccidere i giovani
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2011, 04:04:37 pm
Che idea: uccidere i giovani

di Umberto Eco

I vecchi sono sempre più numerosi e invadenti, al timone di molte istituzioni.

E per  evitare di cedere il potere alle generazioni successive, finiranno per scatenare guerre sanguinose

(10 gennaio 2011)


Sullo scorso "Espresso" mi divertivo ad immaginare alcune conseguenze, specie in campo diplomatico, del nuovo corso della trasparenza inaugurato da WikiLeaks. Erano fantasie vagamente fantascientifiche, ma partivano dal presupposto innegabile che, se gli archivi più riservati e segreti sono ormai penetrabili, qualcosa dovrà pur cambiare, se non altro nei metodi di archiviazione.

Allora perché, sempre all'alba dell'anno nuovo, non tentare qualche altra estrapolazione da dati di fatto innegabili, sia pure esagerando in visioni apocalittiche? In fondo san Giovanni così facendo ci ha guadagnato fama immortale e ancor oggi, ad ogni disgrazia che ci accade, siamo tentati di dire che avviene proprio quello che lui aveva predetto. Mi candido dunque a secondo veggente dell'isola di Patmos. In principio era la carta carbone.

Almeno nel nostro Paese (e limitiamoci a questo) i vecchi stanno diventando sempre più numerosi dei giovani. Una volta morivano a sessant'anni, oggi a novanta, e consumano dunque trent'anni di pensione in più. Come è noto questa pensione dovrà essere pagata dai giovani. Ma coi vecchi così invadenti e presenti, al timone di molte istituzioni pubbliche e private sino almeno all'inizio del marasma senile (e, in molti casi, oltre) i giovani di lavoro non ne trovano e quindi non possono produrre per pagare la pensione agli anziani.

In questa situazione, anche se il Paese metterà sul mercato obbligazioni a tassi invitanti, gli investitori esteri non si fideranno più, e mancheranno quindi denari per le pensioni. Eppure bisogna calcolare che, se i giovani non trovano lavoro, debbono pur vivere finanziati dai padri o dagli avi pensionati. Tragedia.
Prima soluzione, e la più ovvia. I giovani dovranno iniziare a stilare liste di eliminazione per gli anziani senza discendenti. Ma non basterà e, siccome l'istinto di conservazione è quello che è, i giovani dovranno rassegnarsi a eliminare anche i vecchi con discendenza, vale a dire i loro parenti. Sarà duro, ma basterà abituarsi. Hai sessant'anni? Non siamo eterni, babbo, verremo tutti ad accompagnarti alla stazione per il tuo ultimo viaggio verso i campi di eliminazione, coi nipotini che dicono "ciao nonno". Che se poi gli anziani si ribellassero, si scatenerebbe la caccia al vecchio, con l'aiuto di delatori. Se è successo con gli ebrei, perché no coi pensionati?

Ma gli anziani non ancora pensionati, sempre al potere, accetteranno a cuor leggero questa sorte? Anzitutto avranno evitato per tempo di far figli per non dover mettere al mondo dei potenziali eliminatori, per cui il numero dei giovani sarà ulteriormente diminuito. E infine questi vecchi capitani (e cavalieri) d'industria, adusi a mille battaglie, si decideranno, sia pure con la morte nel cuore, a liquidare figli e nipoti. Non certo mandandoli in campi di sterminio come i discendenti avrebbero fatto con loro, perché si tratterà pur sempre di una generazione ancora legata ai valori tradizionali della famiglia e della Patria, ma scatenando delle guerre che, come è noto, scremano le leve più giovani e sono, come dicevano gli ispiratori di chi ora ci governa, la sola igiene del mondo.

Avremo così un Paese senza quasi più giovani e moltissimi anziani, floridi e vegeti, intenti a erigere monumenti ai caduti e a celebrare chi ha dato generosamente la vita per la Patria. Ma chi lavorerà per pagar loro le pensioni? Gli immigrati, desiderosissimi di acquistare la cittadinanza italiana, ansiosi di faticare a basso costo e in nero e portati, per antiche tare, a morire entro i cinquant'anni, facendo così largo ad altra forza lavoro più fresca.

Così nel giro di due generazioni decine di milioni di italiani "abbronzati"garantiranno il benessere a una élite di novantenni bianchi dal naso rubizzo e i grandi favoriti (le signore con pizzi e veletta), che sorseggeranno whisky and soda nelle verande dei loro possedimenti coloniali, sui laghi o lungo le marine, lontani dai miasmi delle città, abitate ormai solo da zombies di colore che si alcolizzeranno con la candeggina pubblicizzata in tv.

A proposito della mia convinzione che si procede a passo di gambero e il progresso coincide ormai col regresso, si noterà che ci troveremo in situazione non dissimile da quella dell'impero coloniale in India, nell'arcipelago malese o nel centro Africa; e chi avrà raggiunto felicemente, grazie allo sviluppo della medicina, i centodieci anni, si sentirà come il Rajah bianco di Sarawak, Sir James Brooke, di cui fantasticava leggendo fanciullo i romanzi di Salgari.

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Titolo: UMBERTO ECO. I bambini amano Schoenberg?
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2011, 05:33:21 pm
I bambini amano Schoenberg?

di Umberto Eco

Il mondo della ricezione è estremamente variegato.

Io non credo che coloro che adorano Moccia o Tamaro vadano pazzi per "Finnegans Wake".

Né credo che chi ama Joyce ami Dan Brown

(21 gennaio 2011)

Il dibattito si è aperto quasi due settimane fa su "Repubblica" ma, siccome il venerdì scorso non era il mio turno per la Bustina, posso intervenire solo ora. Tanto meglio, repetita iuvant.
La discussione è stata aperta da Alex Ross, critico musicale del "New Yorker" (di cui Bompiani ha tradotto "Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo") e continuata da Alessandro Baricco. Ross si chiede come ormai la gente accetti Joyce, che era considerato incomprensibile sino alla prima metà del secolo scorso, apprezzi la pittura di Pollock (che Krushev definiva come dipinta con la coda di un asino, e anche gli anticomunisti si mostravano d'accordo, ma oggi comunisti e anticomunisti l'acquistano a prezzi proibitivi), mentre chi va ai concerti non può sopportare la musica atonale, ed esce dalla sala se in un programma, dopo Bach o Beethoven, è iscritto Stockhausen. Le ipotesi di Ross sono molte ma mi convince di più quella di Alessandro Baricco che dice, in breve: ma vi è mai accaduto di visitare una mostra in cui accanto a Raffaello ci sia Pollock - e accanto a Gérome, aggiungo io, il "pompier" che sta attirando le folle al Museo d'Orsay a Parigi si mostri Basquiat?

La riflessione di Baricco è piena di buon senso e ci ricorda che il mondo della ricezione (di coloro cioè che gioiscono di varie proposte creative ) è estremamente variegato. Io non credo che coloro che adorano Moccia o Tamaro vadano pazzi per "Finnegans Wake". Né credo che chi ama Joyce ami Dan Brown, a meno che sappia amministrare con saggezza la propria schizofrenia, come faceva Proust (autore di un indimenticabile elogio della cattiva musica).

I discepoli di Proust ascoltano i dischi di John Cage ma, se vogliono rievocare il tempo perduto, cantano di notte tra amici "Non dimenticar le mie parole". Invece sia le persone insopportabilmente colte che quelle insopportabilmente ottuse o fanno l'una o l'altra cosa, e si vergognerebbero di tenere i piedi in due staffe (come invece deve fare ogni buon cavallerizzo). È naturale che se in un concerto, dopo Chopin e Schumann, fanno ascoltare Berio, gli amanti della musica romantica si sentano disorientati. Ma anche i proustiani, se dopo Berio eseguissero "Pippo non lo sa", inarcherebbero le sopracciglia.
È curioso che sia ammessa come normale una schizofrenia culinaria (talora ci piacerebbe una cena con caviale a lume di candela, meglio se con una sosia di Marilyn Monroe, ma più spesso si adora una pizza portata a casa nel contenitore di cartone e mangiata con figli o nipoti) mentre una schizofrenia artistica viene giudicata radical chic. Chi va a visitare a Parigi la mostra di Gérome, tutta odalische desiderabilissime, completamente "à poil", di solito non va a vedere una mostra di arte astratta, e chi ama Leoncavallo non può sopportare Schoenberg - e costoro considerano teste d'uovo (un poco comunisti e un poco omosessuali) gli intellettuali che vanno alla Scala ma non disdegnano "No, no, Nanette".

Un ragazzino occidentale, che è stato esposto sin dall'infanzia alle arti figurative, se una brava maestra gli mostra a sette anni un Pollock, è capace di apprezzarlo e addirittura imitarlo (ho le prove). Perché? Perché non è vero che siamo per natura figurativi, abbiamo visto e goduto modelli di arte astratta nei quadrettini delle tovaglie, o nelle vesti o foulards materni, e quindi siamo pronti sin dall'infanzia ad apprezzare Mondrian. E Pollock? Ma faceva quello che un bambino ama fare, e un bambino ama fare quel che amava fare lui. E allora perché lo stesso bambino non dovrebbe amare Schoenberg?

Una risposta è che il nostro cervello riconoscerebbe come naturale solo la musica tonale. Ma in tal caso la maggioranza dei ragazzi extraeuropei, e persino scozzesi, sarebbero dei decerebrati. Mi piacerebbe sapere come un ragazzo di altre etnie, educato a musiche pentatonali o esatonali, possa capire la musica atonale. Non sono al corrente delle ricerche neurologiche in proposito. Ma temo che ormai, con la globalizzazione, sia come chiedersi se un piccolo indiano ami o no un hamburger; ormai è stato corrotto sin dall'infanzia. Caso mai si dovrebbe dire che certamente sin dalla più tenera età ogni ragazzo occidentale è stato educato alla musica tonale. Ma provate a dare a dei bambini tamburelli e fischietti. E dategli un ritmo. Scoprirete che per loro la tonalità conta molto poco.
I melomani che (almeno secondo Ross) escono dal concerto quando, dopo Brahms, gli si propone Boulez, hanno mai portato in sala anche i loro piccoli? Chissà mai che a loro Boulez non dispiaccia, o in ogni caso non dia noia.

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Titolo: UMBERTO ECO. Battisti, i giudici e il Cav.
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:35:22 pm
Battisti, i giudici e il Cav.

di Umberto Eco

Il governo italiano fa bene a chiedere l'estradizione del terrorista rifugiato in Brasile.

E a difendere l'onore della magistratura.

Ma allora perché il premier si sottrae alla stessa magistratura?

(04 febbraio 2011)

Non si può essere che solidali col nostro governo quando esso richiede formalmente al Brasile l'estradizione di Cesare Battisti. E questo credo dovrebbe pensare anche chi, per avventura, ritenesse che Battisti è stato vittima di un errore giudiziario: perché, anche se di errore giudiziario si fosse trattato, non sarebbe il governo brasiliano che potrebbe deciderlo, a meno che non dichiarasse, pubblicamente e formalmente, che lo Stato italiano era all'epoca della condanna ed è tuttora un apparato dittatoriale che calpesta i diritti politici e civili e conculca la libertà dei suoi cittadini.
La richiesta di estradizione è dovuta, invece, perché si assume che i tre gradi di giudizio cui Battisti è stato sottoposto, rappresentavano l'esercizio della giustizia da parte di un paese democratico e di una magistratura indipendente da ogni diktat politico (visto tra l'altro, detto per chi avesse motivi di diffidenza verso il governo Berlusconi, che quell'azione della magistratura si è esercitata quando in Italia Berlusconi era ancora privato cittadino).


Pertanto chiedere l'estradizione di Battisti significa difendere la dignità della nostra magistratura, e ogni cittadino democratico deve essere in questo caso solidale con l'azione del governo (e della presidenza della Repubblica).
E bravo l'onorevole Berlusconi, saremmo tentati di dire, il suo comportamento è impeccabile. Ma allora perché lo stesso onorevole Berlusconi, quando la magistratura inizia un'azione penale nei suoi confronti (e neppure lo condanna ingiustamente all'ergastolo ma semplicemente lo convoca a difendersi da un'accusa magari infondata, protetto da tutte le guarentigie del caso) non solo si rifiuta di presentarsi di fronte ai giudici ma ne contesta il diritto a occuparsi del suo caso? Vuole forse dichiararsi solidale col Battisti nella comune impresa di delegittimazione della magistratura italiana? Vuole forse accingersi a emigrare in Brasile per chiedere a quel governo la stessa protezione che offre al Battisti, contro la presunta illegittimità del comportamento dei nostri magistrati? Oppure, se ritiene che i magistrati che hanno condannato Battisti fossero persone d'onore, la cui dignità va difesa per preservare l'onore dello stesso Stato italiano, ritiene che al contrario Ilda Boccassini non sia donna d'onore, e usa per giudicare la nostra magistratura due pesi e due misure - ritenendola onorevole e onorabile quando condanna Battisti ma disonorevole e disonorabile quando indaga su Ruby?


Diranno i difensori dell'onorevole Berlusconi che Battisti fa male a sottrarsi alla giustizia italiana, perché in cuor suo sa di essere colpevole, mentre a buon diritto Berlusconi fa lo stesso perché in cuor suo ritiene di essere innocente. Ma quanto tiene questo argomento?
Chi lo usa sembra non aver meditato un testo che chi ha fatto il liceo (come è accaduto all'onorevole Berlusconi) dovrebbe aver conosciuto, ed è il "Critone" di Platone. A chi se ne fosse scordato, ricorderò le premesse: Socrate è stato condannato a morte (ingiustamente, noi lo sappiamo, e lo sapeva lui) ed è in carcere ad attendere la coppa della cicuta. Viene visitato dal suo discepolo Critone che gli dice che tutto è preparato per la sua fuga, e usa tutti gli argomenti possibili per convincerlo che egli ha il diritto e il dovere di sottrarsi a una morte ingiusta.
Ma Socrate risponde ricordando a Critone quale deve essere la posizione di un uomo per bene di fronte alla maestà delle Leggi della Città. Accettando di vivere in Atene e di godere di tutti in diritti di un cittadino, Socrate ha riconosciuto la bontà di quelle Leggi, e se osasse negarle solo perché a un certo momento esse agiscono contro di lui, disconoscendole contribuirebbe a delegittimarle e pertanto a distruggerle. E non si può approfittare della legge sino a che lavora a nostro profitto, e rifiutarla quando decide qualcosa che a noi non piace, perché con le Leggi si è stretto un patto e questo patto non può essere infranto a nostro piacere.


Si noti che Socrate non era uomo di governo, perché allora avrebbe dovuto dire anche di più, e cioè che - se si riteneva in diritto di disattendere le leggi che non gli piacevano - come uomo di governo non avrebbe più potuto pretendere che gli altri obbedissero a quelle che non piacevano loro, e non attraversassero col semaforo rosso, non pagassero le tasse, non svaligiassero le banche, o (si fa per dire) non abusassero di minorenni.
Queste cose Socrate non le ha dette ma il senso del suo messaggio rimane quello che è, alto, sublime, duro come un macigno.

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da espresso.repubblica.it


Titolo: UMBERTO ECO. La Norma e i Puritani
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2011, 04:52:23 pm
La Norma e i Puritani

di Umberto Eco

È ovvio che all'estero ci si sbellichi dalle risate perché è da pochade inizio Novecento che un uomo, che ha la responsabilità di un paese, prenda per oro colato quello che gli dice una cubista

(18 febbraio 2011)

Le critiche ai comportamenti del nostro presidente del consiglio hanno suscitato una serie di obiezioni che si vogliono salaci. La prima mirava non tanto a scagionare il presidente quanto a deridere i suoi critici: "Voi sessantottini di un tempo, si è detto, che predicavate il libero amore e le droghe psichedeliche, oggi siete diventati bacchettoni puritani che censurano le pratiche sessuali del presidente, se pure di pratiche sessuali si tratta e non di cene a base di Coca-Cola Light" (ma che cene malinconiche, osservo, senza neppure un goccio di Gavi o di Greco di Tufo!). Sul libero amore sessantottino sono poco informato perché io all'epoca avevo ormai trentasei anni (allora un'età considerata assai matura), due figli, e facevo il professore. Pertanto non sono mai andato nudo e coi capelli lunghi ai concerti rock fumando marijuana. Però mi pare che allora per libertà sessuale si intendesse che due persone potessero praticare il sesso insieme per libera elezione e (soprattutto) gratis. Cosa assai diversa da un sesso pre-sessantottino, quello per intenderci dei casini di nostalgica memoria, dove si era liberi di far sesso, ma pagando.


Tuttavia ha ragione chi dice che è da puritani criticare il presidente perché frequenta fanciulle dalla moralità assai flessibile. Chiunque ha diritto alla forma di sesso che lo soddisfa (omo o eterosessuale, alla pecorina, more ferino, sadomaso, con fellazione, cunnilingus e spagnoletta, onanismo, dispersione del seme in vaso indebito, delectatio morosa, sino alla coprofilia, alla clismafilia, all'esibizionismo, al feticismo, al travestimento, al frotteurismo, all'urofilia, al voyeurismo - e via copulando), purché lo faccia con persone consenzienti, senza danneggiare chi non desidera partecipare o non è in grado di dare un consenso informato (ed ecco perché si condannano pedofilia, zoofilia, stupro e scatologia telefonica) e il tutto avvenga in locali chiusi in modo da non offendere la sensibilità dei puritani - così come non si deve bestemmiare in pubblico per non offendere la sensibilità dei credenti.
Devo ammettere che spesso gli oppositori del presidente hanno premuto troppo il pedale sugli aspetti sessuali del caso Ruby. È naturale che sia accaduto così, perché se agli italiani racconti del conflitto di interessi, della corruzione di magistrati, dell'occultazione di capitali o delle leggi ad personam, quelli saltano l'articolo, mentre se gli sbatti subito Ruby in prima pagina, smanettano per tutto il giornale sino alle previsioni del tempo. Ma l'opposizione al premier non è l'opposizione ai suoi gusti sessuali. È l'opposizione al fatto che, per compensare chi partecipava alle sue cene, egli dava posti negli organismi regionali, provinciali, nazionali o europei, e a spese nostre. Se lo stipendio di consigliere regionale alla signora Minetti lo pago io (percentualmente) e (sia pure per una quota minima) chi vive con mille euro al mese, non c'entrano i Puritani, c'entra la Norma (di legge).


Il problema morale non è che non si deve fare all'amore (visto che è sempre meglio che fare la guerra, come dicevano nel Sessantotto) ma che non si deve farlo facendo pagare chi non c'entra. Marrazzo non è criticabile per aver frequentato transessuali ma per esserci andato con l'auto dei carabinieri.
Ma facciamo pure l'ipotesi che il presidente non abbia compensato le sue convitate con pubblici appannaggi. Una volta detto che è lecito fare a casa propria quel che si desidera, questo è vero per un bancario, un medico, un operaio iscritto alla Fiom, ma se si viene a sapere che certe pratiche si svolgono a casa di un uomo politico è difficile che non ne nasca un pubblico scandalo. A John Profumo e a Gary Hart è bastato il connubio con una e una sola donna (una ciascuno) per rovinar loro la carriera. Quando le donne sono tante, e portate alla festa in pulmino, non si può impedire che le barzellette sul Ruby-gate appaiano persino sui giornali coreani o alla televisione tunisina (controllare su Internet).

   
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Titolo: UMBERTO ECO. "Intellettualmente parlando"
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:51:35 pm
"Intellettualmente parlando"

di Umberto Eco

Solo in stato di ubriachezza potrei paragonare Berlusconi a Hitler.

Di sicuro, però, non userei mai espressioni come "paradosso intellettuale".

Che la stampa mi ha attribuito e che non ha alcun senso

(04 marzo 2011)

Una sera della settimana scorsa, a Gerusalemme, un giornalista italiano mi ha comunicato che era arrivata in Italia una nota di agenzia dove si diceva che nella conferenza stampa del mattino avrei detto che Berlusconi era come Hitler, e già alcuni autorevoli rappresentanti della maggioranza avevano rilasciato dichiarazioni su questa mia "delirante" dichiarazione, che a parer loro offendeva l'intera comunità ebraica (sic). La quale era evidentemente in tutt'altre faccende affaccendata, perché il mattino dopo vari quotidiani israeliani riportavano ampie cronache di quella conferenza stampa (il "Jerusalem Post", bontà sua, vi dedicava addirittura un'apertura in prima pagina e quasi l'intera terza pagina) ma di Hitler non si faceva cenno, bensì ci si diffondeva sulle vere questioni su cui si era discusso.

Nessuna persona sensata, per quanto critica nei confronti di Berlusconi, penserebbe di paragonarlo a Hitler, visto che Berlusconi non ha scatenato un conflitto mondiale da 50 milioni di morti, non ha massacrato 6 milioni di ebrei, non ha chiuso il parlamento della Repubblica di Weimar, non ha costituito reparti di camice brune e SS, e via dicendo. Cos'era allora accaduto quella mattina?

Molti italiani non si rendono ancora conto di quanto il nostro presidente del consiglio sia screditato all'estero, così che quando ci si trova a rispondere alle domande degli stranieri certe volte si è addirittura indotti a difenderlo, per amor di bandiera. Un importuno pretendeva che io dicessi che, siccome Berlusconi, Mubarak e Gheddafi erano o erano stati restii a dimettersi, Berlusconi era il Gheddafi italiano. Dovevo ovviamente rispondere che Gheddafi era un tiranno sanguinario che stava sparando sui suoi compatrioti ed era salito al potere con un colpo di stato, mentre Berlusconi era stato regolarmente eletto da una parte consistente degli italiani (e ho aggiunto "purtroppo"). Per cui, a voler stabilire analogie a tutti i costi, allora si poteva anche paragonare Berlusconi a Hitler solo perché entrambi erano stati regolarmente eletti. Ridotta "ad absurdum" l'incauta ipotesi, si era tornati a parlare di cose serie.

Quando il collega italiano mi aveva detto del comunicato d'agenzia aveva commentato con un certo fatalismo: "Sai, il giornalista deve tirare fuori la notizia anche se è nascosta". Non sono d'accordo, il giornalista deve dare la notizia quando c'è davvero, non crearla. Ma questo è anche segno della situazione provinciale in cui si trova il nostro paese, per cui non interessa se, poniamo, a Calcutta si discute sui destini del pianeta, ma solo se a Calcutta qualcuno ha detto qualcosa pro o contro Berlusconi.

Un aspetto curioso della faccenda, come ho poi visto tornando a casa, è che in ogni giornale in cui se ne è parlato, le mie presunte dichiarazioni, virgolettate, venivano tutte dall'originario comunicato d'agenzia, dove appariva che io avrei definito il mio rapido accenno a Hitler come "un paradosso intellettuale" o che avrei accennato al parallelo "intellettualmente parlando". Ora potrei forse, in stato di ubriachezza, paragonare Berlusconi a Hitler, ma neppure al massimo livello di alcolemia userei mai espressioni insensate come "paradosso intellettuale" o "intellettualmente parlando". A cosa si oppone il paradosso intellettuale? A quello manuale, a quello sensoriale, a quello rurale? Non si pretende che tutti conoscano a menadito la terminologia della retorica o della logica, ma certamente "paradosso intellettuale" è dizione da analfabeta e chi pretende che altri dicano cose "intellettualmente parlando" è evidentemente uso dirle parlando pedestremente. Questo significa che il virgolettato del comunicato era effetto di una rozza manipolazione altrui.

Su un materiale così evidentemente scadente si è impostata una virtuosa campagna di indignazione, come al solito per diffamare chi non ama il nostro premier e porta calzini turchesi. Senza che nessuno osservasse, almeno, che non è possibile paragonare Berlusconi a Hitler perché Hitler è stato notoriamente monogamo.

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Titolo: UMBERTO ECO. Una generazione di alieni
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:16:21 pm
Una generazione di alieni

di Umberto Eco

I giovani non conoscono la natura e la sofferenza, vivono in un mondo virtuale.

Noi filosofi non abbiamo colto la trasformazione perché eravamo troppo impegnati nella politica di tutti i giorni

(18 marzo 2011)

Penso che Michel Serres sia la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia, e come ogni buon filosofo sa piegarsi anche a riflettere sull'attualità. Spudoratamente uso (tranne qualche commento personale) un suo bellissimo articolo uscito su "Le Monde" del 6-7 marzo ultimo scorso, dove ci ricorda cose che, per i più giovani dei miei lettori, riguardano i loro figli, e per noi più anziani i nostri nipoti.

Tanto per cominciare, questi figli o nipoti non hanno mai visto un maiale, una vacca, una gallina (ricordo che peraltro già trent'anni fa un'inchiesta americana aveva stabilito che i bambini di New York credevano in maggioranza che il latte, che vedevano in confezioni da supermarket, fosse un prodotto artificiale come la Coca-Cola). I nuovi esseri umani non sono più abituati a vivere nella natura e conoscono solo la città (ricorderò che quando vanno in vacanza vivono per lo più in quelli che Augé ha definito "non luoghi", per cui il villaggio vacanze è del tutto simile all'aeroporto di Singapore, e in ogni caso presenta loro una natura arcadica e pettinata, del tutto artificiale). Si tratta di una delle più grandi rivoluzioni antropologiche dopo il neolitico. Questi ragazzi abitano un mondo superpopolato, la loro speranza di vita è ormai vicina agli ottant'anni e, a causa della longevità di padri e nonni, se hanno speranza di ereditare qualcosa non sarà più a trent'anni, ma alle soglie della loro vecchiaia.

I ragazzi europei da sessant'anni non hanno conosciuto guerre, beneficiando di una medicina avanzata non hanno sofferto quanto i loro antenati, hanno genitori più vecchi dei nostri (e gran parte di loro sono divorziati), studiano in scuole dove vivono fianco a fianco con ragazzi di altro colore, religione, costumi (e, si chiede Serres, per quanto tempo potranno cantare ancora la Marsigliese che si riferisce al "sangue impuro" degli stranieri?). Quali opere letterarie potranno ancora gustare visto che non hanno conosciuto la vita rustica, le vendemmie, le invasioni, i monumenti ai caduti, le bandiere lacerate dalle palle nemiche, l'urgenza vitale di una morale?

Sono stati formati dai media concepiti da adulti che hanno ridotto a sette secondi la permanenza di una immagine, e a quindici secondi i tempi di risposta alle domande, e dove tuttavia vedono cose che nella vita quotidiana non vedono più, cadaveri insanguinati, crolli, devastazioni: "All'età di dodici anni gli adulti li hanno già forzati a vedere ventimila assassini". Sono educati dalla pubblicità che esagera in abbreviazioni e parole straniere che fanno perdere il senso della lingua natale, non hanno più coscienza del sistema metrico decimale dato che gli si promettono premi secondo le miglia, la scuola non è più il luogo dell'apprendimento e, ormai abituati al computer, questi ragazzi vivono buona parte della loro vita nel virtuale. Lo scrivere col solo dito indice anziché con la mano intera "non eccita più gli stessi neuroni o le stesse zone corticali" (e infine sono totalmente "multitasking"). Noi vivevamo in uno spazio metrico percepibile ed essi vivono in uno spazio irreale dove vicinanze e lontananze non fanno più alcuna differenza.

Non m'intrattengo sulle riflessioni che Serres fa circa la possibilità di gestire le nuove esigenze dell'educazione. La sua panoramica ci parla in ogni caso di un periodo pari, per sovvertimento totale, a quello dell'invenzione della scrittura, e secoli dopo, della stampa. Solo che queste nuove tecniche odierne mutano a gran velocità e "nello stesso tempo il corpo si metamorfizza, cambiano la nascita e la morte, la sofferenza e la guarigione, i mestieri, lo spazio, l'habitat, l'essere-al-mondo". Perché non eravamo preparati a questa trasformazione? Serres conclude che forse la colpa è anche dei filosofi, i quali per mestiere dovrebbero prevedere i mutamenti dei saperi e delle pratiche, e non l'hanno fatto abbastanza, perché "impegnati nella politica di tutti i giorni, non hanno sentito venire la contemporaneità". Non so se Serres abbia ragione del tutto, ma qualche ragione ce l'ha.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. Il garibaldino Nino Biperio
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:16:48 pm
Il garibaldino Nino Biperio

di Umberto Eco

Uno studente universitario l'ha scritto in questo modo: convinto che la x di Bixio fosse da leggere nel linguaggio degli sms. Ma per fortuna la scuola italiana non è tutta così. Anzi, ha punti di eccellenza: come ho verificato di persona in un paio di belle esperienze al liceo

(04 aprile 2011)

Mi raccontano colleghi sconsolati che a un esame universitario del triennio uno studente, davanti al nome di Nino Bixio, ha pronunciato "Nino Biperio" perché la frequentazione ormai convulsa degli SMS lo aveva persuaso che la X si pronunciasse solo così. Da qui melanconiche riflessioni: "Che cosa gli insegnano alle medie superiori? Che davvero si debba abolire la scuola pubblica lasciando fare alle scuole private?". A parte che, se ci sono scuole private eccellenti, ve ne sono di specializzate nella promozione di cretini di famiglia abbiente, la nostra scuola pubblica va davvero allo sbaraglio?

A metà marzo sono dovuto andare ad Albenga, per il premio "C'era una svolta". Il premio era stato istituito come concorso locale dal Liceo Statale "Giordano Bruno", ma nel giro di 14 anni è divenuto premio nazionale (e quest'anno hanno concorso circa 1.200 ragazzi di 38 scuole superiori appartenenti a 29 diverse province). Si chiede ogni anno a uno scrittore di stendere l'inizio di un racconto e i concorrenti debbono proseguirlo (nel corso di una prova rigorosissima in aula), poi gli elaborati anonimi vengono vagliati prima da una giuria interna e poi da una giuria esterna e, dopo varie scremature, cinque finalisti pervengono all'autore invitato che deve scegliere il migliore.

Quest'anno l'autore ero io, e mi ero divertito a proporre come stimolo il racconto della riunione di un circolo di letterati folli che si erano proposti di dare un inizio e una fine a quello che è stato definito il racconto più breve del mondo, quello di Augusto Monterroso che recita: "Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì".

Ora può darsi che tra i 1.200 racconti presentati alcuni fossero di dubbio valore (anche se i membri delle due giurie mi raccontavano come si fossero trovati imbarazzati a scegliere) ma è certo che i cinque che ho dovuto giudicare mi hanno lasciato perplesso, con la tentazione di tirare a sorte, perché tutti erano esempi di ottima letteratura. Voglio dire che erano estremamente maturi e molti scrittori professionisti non avrebbero esitato a firmarli col loro nome. Chi è interessato a verificare troverà i cinque racconti finalisti sul prossimo numero di "Alfabeta". A me pare che si sia volato alto. E non sto parlando di una sola scuola, ma di una trentina, da Gorizia alle isole.

Seconda sorpresa, ricevo dal Liceo "Melchiorre Gioia" di Piacenza il risultato di un anno di lavoro di una quinta del classico e una quinta dello scientifico. � la copia (di 44 bellissime pagine a colori) di un quotidiano che assomiglia per l'impaginazione a "Repubblica" ma è intitolato "Il Tricolore", costa 5 centesimi a Milano e 7 fuori Milano ed è datato lunedì 18 marzo 1861.

Dà ovviamente notizia dell'avvenuta unificazione, si apre con articoli di Cavour, Cattaneo, Mazzini, il discorso di Vittorio Emanuele II al Parlamento, porta un intervento di Giosuè Carducci, un ricordo di Mameli, la notizia di una visita di Andersen a Milano, riflessioni sulla legge Casati e i propositi di De Sanctis nuovo ministro dell'istruzione, tiene conto del fatto che da poco Lincoln era stato eletto presidente degli Stati Uniti e Guglielmo I era salito al trono di Prussia, dedica pagine culturali a Cristina di Belgioioso e ad Hayez, nonché alla recente polemica sui "Fiori del male" di Baudelaire, ricorda la scomparsa di Nievo e recensisce "I carbonari della montagna" di Verga, senza trascurare ovviamente Verdi, la moda dell'epoca e l'apparizione della terza edizione della "Origine delle specie" di Darwin, terminando con un servizio da Liverpool intitolato "Il football, un gioco senza avvenire". Deliziosi gli inserti pubblicitari.

Non so se un giornale vero all'epoca avrebbe potuto impaginare un numero altrettanto ricco in cui si confrontano senza mezzi termini le contraddizioni dell'Italia appena unificata. E anche questa prova viene da una scuola pubblica. Attendo proposte altrettanto eccitanti da qualche scuola privata.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. La filosofia non è Star Trek
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:25:29 pm
La filosofia non è Star Trek

di Umberto Eco

Un libro sulle domande essenziali che l'uomo si pone da sempre. Dove si sostiene che oggi, per spiegare tutto, basta la fisica.

Coautore: il grande Stephen Hawking. Che però, questa volta, scrive sciocchezze


(15 aprile 2011)

Sulla "Repubblica" del 6 aprile scorso era apparsa un'anticipazione del libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, "il grande disegno" (Mondadori, euro 20) introdotto da un sottotitolo che peraltro riprendeva un passaggio del testo, "la filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo". La morte della filosofia è stata annunciata varie volte, e quindi non c'era da impressionarsi, ma mi pareva che un genio come Hawking avesse detto una sciocchezza. Per essere sicuro che "Repubblica" non aveva riassunto male sono andato a comprare il libro, e la sua lettura mi ha confermato nei miei sospetti.

Il libro appare come scritto a due mani, salvo che nel caso di Hawking l'espressione è dolorosamente metaforica perché sappiamo che i suoi arti non rispondono ai comandi del suo eccezionale cervello. Dunque il libro è fondamentalmente opera del secondo autore, che il risvolto di copertina qualifica come eccellente divulgatore e sceneggiatore di alcuni episodi di "Star Trek" (e lo si vede anche dalle bellissime illustrazioni che sembrano concepite per una enciclopedia dei ragazzi d'altri tempi, perché sono colorate e affascinanti, ma non spiegano proprio niente dei complessi teoremi fisico-matematico-cosmologici che dovrebbero illustrare). Forse non era prudente affidare il destino della filosofia a personaggi con le orecchie da leprotto.

L'opera si apre proprio con l'affermazione perentoria che la filosofia ormai non ha più nulla da dire e solo la fisica può spiegarci (1) come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo, (2) quale sia la natura della realtà, (3) se l'universo abbia bisogno di un creatore, (4) perché c'è qualcosa invece che nulla, (5) perché esistiamo e (6) perché esiste questo particolare insieme di leggi e non qualche altro. Come si vede sono tipiche domande filosofiche, ma occorre dire che il libro mostra come la fisica possa in qualche modo rispondere proprio alle ultime quattro, che sembrano le più filosofiche di tutte.

Solo che per tentare le ultime quattro risposte occorre avere risposto alle prime due domande e cioè, grosso modo, che cosa vuol dire che qualche cosa è reale e se noi conosciamo il mondo proprio così come è. Ve lo ricorderete dalla filosofia studiata a scuola: noi conosciamo per adeguazione della mente alla cosa? c'è qualcosa fuori di noi (Woody Allen aggiungeva: "E se sì, perché fanno tutto quel chiasso?") oppure siamo esseri berkeleiani o, come diceva Putnam, cervelli in una vasca?

Ebbene, le risposte fondamentali che questo libro propone sono squisitamente filosofiche e se non ci fossero queste risposte filosofiche neppure il fisico potrebbe dire perché conosce e che cosa conosce. Infatti gli autori parlano di "un realismo dipendente dai modelli", ovvero assumono che "non esiste alcun concetto di realtà indipendente dalle descrizioni e dalle teorie". Pertanto "differenti teorie possono descrivere in modo soddisfacente lo stesso fenomeno mediante strutture concettuali disparate" e tutto quello che possiamo percepire, conoscere e dire della realtà dipende dalla interazione tra i nostri modelli e quel qualcosa che sta al di fuori ma che conosciamo solo grazie alla forma dei nostri organi percettivi e del nostro cervello.

I più sospettosi tra i lettori avranno persino riconosciuto un fantasma kantiano, ma certamente i due autori stanno proponendo quello che in filosofia si chiama "olismo" e per alcuni "realismo interno".
Come si vede non si tratta di scoperte fisiche bensì di assunzioni filosofiche, che stanno a sostenere e a legittimare la ricerca del fisico - il quale, quando è un bravo fisico, non può che porsi il problema dei fondamenti filosofici dei propri metodi. Cosa che sapevamo già, così come conoscevamo già qualcosa delle straordinarie rivelazioni (evidentemente dovute a Mlodinow e alla ciurma di Star Trek), per cui "nell'antichità era istintivo attribuire le azioni violente della natura a un Olimpo di divinità dispettose o malevole". Perdinci e poi perbacco.

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Titolo: UMBERTO ECO. Viviamo nel secolo delle bufale?
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2011, 11:05:53 am
Opinioni

Viviamo nel secolo delle bufale?

di Umberto Eco

In Rete, sui giornali e perfino nei libri circola ormai una quantità incredibile di falsi. Orientarsi è difficile, ma ci si deve difendere. Magari con la diffidenza. Perché non è vero che non ci sia più confine tra verità e menzogna
(02 maggio 2011)

Ho appreso da "Il fatto Quotidiano" del 13 aprile che lo "International Herald Tribune" aveva pubblicato una mia lettera molto polemica sulla guerra in Libia. Però si trattava dell'ennesima trovata di un signor X (non lo nomino perché immagino che faccia tutto quel che fa per farsi pubblicità) il quale si è specializzato in falsi, aveva in passato inviato ai giornali italiani pretese interviste con Gore Vidal, John LeCarré, Philip Roth e via dicendo, aveva messo on line un mio dialogo (ovviamente fasullo) con Abraham Yehoshua, e aveva creato un mio falso profilo Facebook - che aveva subito raccolto numerose offerte di amicizia, come pare accada tra i dissennati praticanti di questo sport quasi onanistico. Dagli amici ci guardi Iddio.

Pare anche che il signor X abbia inviato la falsa lettera allo "Herald Tribune" usando un mio presunto indirizzo di email aperto da lui stesso con grande facilità, ma nel contempo avesse accluso il suo (vero) numero di cellulare, che evidentemente nessuno aveva controllato. Solo nei giorni seguenti il giornale americano (colto da un sospetto) mi ha chiesto se la lettera fosse uno "hoax" (o bufala), ho risposto che lo era, e il giornale ha spontaneamente pubblicato una contrita smentita.

Su Internet trovo un lancio Adnkronos del 18 aprile che annuncia la scomparsa di Carlo Capponi, il bidello dell'Isola dei Famosi (?), e precisa: "Della sua esperienza all'Università di Bologna raccontava con fierezza: "Ho lavorato anche per Umberto Eco, gli giravo le pagine mentre firmava autografi"". Non ricordo di aver mai conosciuto il signor Capponi ma, se pure fosse avvenuto, difficilmente avrebbe potuto girarmi le pagine mentre firmavo autografi perché non sono mai stato così cafone da firmare autografi all'università, salvo che sui libretti di esame. Sempre in data 18 aprile, una rivista on line dal titolo allettante, "La perfetta letizia, Rivista giornalistica cattolica d'informazione e attualità", recensisce "Quisquilie e pinzillacchere" di Vincenzo Reda, "giunto alla sua seconda pubblicazione, introdotta dalla prefazione di Umberto Eco". Come è facile intuire non ho mai prefato questo libro (né conosco il Reda) ma la cosa non mi stupisce perché una volta un signore ha pubblicato come prefazione alla sua opera una mia lettera, neppure esageratamente cordiale, in cui declinavo la richiesta di una prefazione.

Sempre l'Adnkronos in data 15 aprile riferisce che, dopo il terremoto che ha investito l'Abruzzo, riapre al pubblico la torre di Rocca Calascio, "usata anche come set di "Il nome della Rosa"". Vedo anche la foto di questa bellissima fortificazione, che tuttavia non è stata usata per l'abbazia del film, ricostruita interamente a Fiano Romano. Ma viaggiando per Internet ho trovato molti monasteri che sono stati riconosciuti dai turisti come luogo della mia abbazia, e quindi le abbazie de "Il nome della Rosa" sono ormai come i chiodi della Croce.

Immagino che molti miei colleghi scrittori possano citare episodi analoghi. Ormai Internet è divenuto territorio anarchico dove si può dire di tutto senza poter essere smentiti. Però, se è difficile stabilire se una notizia su Internet sia vera, è più prudente supporre che sia falsa. A proposito di falso e autentico, il signor X dice che distribuisce i suoi falsi per dimostrare che non c'è più confine tra verità e menzogna. Ma si è visto che le sue bufale vengono subito scoperte. In un mio recente romanzo ho raccontato la storia di un falsario e di numerosi documenti mendaci prodotti dai servizi segreti di mezza Europa, e qualche recensore ha osservato (forse ossessionato dalla battaglia in atto contro il cosiddetto relativismo) che dove tutto è falso si perde ogni criterio di verità. Non ho mai letto un'affermazione così filosoficamente stupida. Per sostenere che qualcosa è falso bisogna ritenere (anche in termini di senso e linguaggio comune) che esista da qualche parte qualcosa di autentico. Sospettare che qualcosa sia falso significa avere una qualche nozione di verità. Ma forse questa è una posizione troppo sottile per i nemici del relativismo.

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Titolo: UMBERTO ECO. - I talebani del Web
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 11:21:13 am
L'opinione
I talebani del Web

di Umberto Eco

(13 maggio 2011)

Circa vent'anni fa, quando stavo iniziando a usare il computer e lo introducevo all'università facendo organizzare corsi di addestramento ai linguaggi di programmazione, ero in contatto con uno dei primi studiosi di problemi informatici e pianificavamo insieme alcune iniziative a livello accademico. Un giorno in un dibattito mi sono trovato a fare quello che, da studioso serio, farei nei confronti dei "Promessi sposi", della coltivazione intensiva delle patate o del metodo Montessori: ho mostrato alcuni punti critici del nostro comune oggetto d'interesse - così come, utente dell'automobile qual sono, e persino talora appassionato lettore di "Quattroruote", sono sempre pronto a indicare tutti i casi in cui l'automobile costituisce un rischio (emissioni venefiche, eccessiva velocità, ingorghi, impigrimento). Non l'avessi mai fatto: quella persona, che credevo studioso equilibrato, mi si è scagliata contro accusandomi di cieca insensibilità al progresso e odio degli strumenti elettronici.

Ogni innovazione crea i propri equilibrati fedeli (io sono un equilibrato utente del computer - ne ho otto, in luoghi diversi - e di Internet, che consulto giornalmente) ma crea anche i propri "talebani", che avvicinano il nuovo ritrovato come cosa sacra e intoccabile, pena il ritorno alla penna d'oca.
La scorsa Bustina ho raccontato di come nel giro di tre giorni fossero apparse su Internet quattro notizie false, che mi riguardavano, e come questo dovesse metterci in guardia nei confronti di uno strumento che, essendo nelle mani di chiunque, è ricco di inesattezze o addirittura di bufale messe in circolazione proprio per minare la fiducia nello strumento stesso.
Non l'avessi mai fatto. Invece di apprezzare questa esortazione critica a non prendere mai nulla per oro colato sono stato criticato da varie parti come apocalittico, luddista, misoneista, intristito nel suo rifiuto delle magnifiche sorti (e progressive). Mi è stato obiettato che tutte le false notizie di cui parlavo erano apparse su giornali o agenzie di stampa e solo dopo erano state diffuse da Internet. Come a dire che, se su un quotidiano apparisse la notizia che Bin Laden è vivo e vegeto nel Guatemala, perché lo ha rivelato un montanaro boliviano coltivatore di coca, la responsabilità della diffusione di questa falsa notizia non sarebbe del giornale ma del montanaro.

Io le notizie di quei quattro falsi le ho ricevute da Internet, perché non mi era capitato di avere tra le mani le fonti giornalistiche in questione, alcune delle quali magari erano arrivate a poche migliaia di persone mentre, una volta amplificate su Internet, hanno raggiunto persino me.
Che la stampa dia spesso notizie false è storia vecchia, tanto che già Oscar Wilde, in uno dei suoi paradossi, lamentava il declino della pubblica moralità dicendo che ormai persino i giornali davano notizie vere. Ma con Internet abbiamo una mutazione quantitativa impressionante e ci sono casi in cui la quantità si trasforma in qualità.

C'è però una cosa consolante sulla quale vale la pena di discutere, e in ragione della quale continuo a usare Internet come fonte di informazione: ed è che la smentita che appare sui giornali finisce in corpo minore nelle pagine interne, quando la notizia falsa aveva campeggiato in prima pagina; al contrario una bufala apparsa su Internet ha buone possibilità di essere contestata, con pari e talora maggiore evidenza. Non tanto la mia Bustina (a stampa), quanto le critiche che le sono state rivolte on line, sono servite a informare moltissimi che quelle quattro notizie erano false.
Ma proprio da questo deriva la virtuosa necessità di continuare a esercitare una critica del Web, così come si esercita una critica della politica, o si falsificano ipotesi errate nella ricerca scientifica - e di insegnarlo specie ai più giovani. Non capisco perché il libero esercizio di questa doverosa attività trovi qualcuno disposto a scandalizzarsi.

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Titolo: UMBERTO ECO. Come collaborare con l'assassino
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2011, 10:47:27 pm


di Umberto Eco

Si può mentire per fare del bene o bisogna sempre dire la verità, anche a costo di danneggiare altri? La disputa è antica. Kant, per esempio, scrisse sul tema enormi sciocchezze. Che, venendo da un genio, ci consolano

(10 giugno 2011)

Immanuel Kant Immanuel KantLa scorsa bustina mi occupavo, sulla scia di Swift, dei grandi bugiardi, e accennavo alla disputa millenaria tra ragionevoli e rigoristi, i primi che ammettevano che qualche bugia in fin dei conti si può dire (si pensi alla diplomazia e persino alle formule di cortesia) e i secondi che hanno sempre sostenuto che non si mente neppure per salvare la vita a una persona.

Il quesito classico dei rigoristi era già stato posto da Sant'Agostino: un poveretto si rifugia presso di te dicendo che un terribile assassino lo sta cercando per ucciderlo; tu lo nascondi in casa tua; dopo un poco arriva l'assassino e ti domanda dov'è colui che cerca. Che fai? Il buon senso ci dice che dovremmo mentirgli e dirgli o che non sappiamo o che lo abbiamo visto andare da un'altra parte. Il rigorista invece ti dice che, siccome mentire non si deve mai, devi confessare che la vittima è a casa tua. Naturalmente nel corso dei secoli si sono elaborate delle formule che permettano di non dire senza mentire, ma in generale i rigoristi non si sono mossi dalla massima che non si deve mai mentire, neppure per salvare una vita umana.

Veniamo ora a Kant, che della posizione rigorista è stato uno dei dei famosi rappresentanti.

Kant, lo ricordo, è stata una delle più grandi menti della storia della filosofia, ma gli accadeva talora di dormicchiare, come ad Omero, e di lasciarsi sfuggire delle affermazioni che ci lasciano perplessi. Una delle più note è la condanna della musica come arte inferiore (pronunciata nella "Critica del giudizio") perché disturba anche coloro che non la vogliono sentire - ed è importuna come un profumo troppo penetrante di cui qualcuno intride il fazzoletto, così che quando lo trae di tasca tutti ne sono nauseati. E valga come giustificazione il fatto che forse Kant, di musica, conosceva solo importune marcette militari che turbavano le sue meditazioni quotidiane.

Ora, a proposito dell'assassino che ti chiede se la sua vittima è a casa tua, ecco la straordinaria argomentazione kantiana ("Sul presunto diritto di mentire per amore dell'umanità"): "Se hai appena fermato con una menzogna un potenziale assassino, impedendogli di attuare la sua intenzione, sei ancora giuridicamente responsabile di tutte le conseguenze che potranno derivarne. Ma se ti sei attenuto rigorosamente alla verità, la giustizia ufficiale non potrà addebitarti nulla, qualunque imprevedibile conseguenza possa seguire alla tua dichiarazione. E' anche possibile che, mentre stai rispondendo sinceramente di sì all'assassino che ti chiede se l'uomo da lui inseguito sia in casa tua, quest'ultimo esca senza farsi notare, sottraendosi all'assassino, e così il fatto non avvenga. Al contrario, se menti dicendo che non è in casa ed egli, invece, è realmente uscito a tua insaputa, così che l'assassino, nell'andarsene, lo incontri e compia il suo delitto, allora potresti giustamente essere accusato di aver procurato la sua morte. Infatti se tu avessi detto la verità per come la conoscevi, forse l'assassino sarebbe stato catturato da un vicino di casa accorso in aiuto, mentre quello cercava il tuo nemico in casa tua, e il fatto sarebbe stato impedito. Dunque chi mente, per quanto buone siano le sue intenzioni, è responsabile delle conseguenze della sua scelta, anche di fronte al tribunale civile".

Davvero, spero che ci fosse un giudice, oltre che a Berlino, anche a Königsberg, e che il buon Kant non fosse punito per aver mentito per amore dell'umanità. Quanto alla fiducia nel vicino, se colui aveva il coraggio del filosofo, la vittima era spacciata.

Perché registro questa storia, che sarebbe generoso dimenticare? E' che sono sempre affascinato dalla stupidità, ma quando espressioni di stupidità appaiono nelle pagine di uomini grandissimi, allora si è come folgorati da una salvifica visione. Non tanto perché la sciocchezza detta da un genio sia sempre fragorosa, ma perché che anche i geni possano dire sciocchezze è di grande consolazione per tutti noi, che ogni giorno dubitiamo del nostro buon senso.

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Titolo: UMBERTO ECO. Non credete alle coincidenze
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2011, 06:41:05 pm
Non credete alle coincidenze

di Umberto Eco

(24 giugno 2011)

Qualcuno ha scritto che i nemici di Berlusconi erano (e sono) due, i comunisti e i magistrati, e che nelle scorse amministrative hanno vinto un (ex) comunista e un (ex) magistrato.

Altri ha notato che quando Craxi nel 1991, come presidente del consiglio, ha invitato gli italiani ad andare al mare invece che alle urne, il referendum sul sistema elettorale ha avuto un notevole successo e di lì è iniziata la discesa politica di Craxi.

Si potrebbe continuare: Berlusconi va al potere nel marzo 1994 e in novembre Po, Tanaro e molti loro affluenti esondano devastando le province di Cuneo, Asti e Alessandria; Berlusconi torna al potere nel maggio 2008 e nel giro di un anno abbiamo il terremoto dell'Aquila.

Tutte coincidenze divertenti ma che non valgono proprio nulla (tranne il parallelo Berlusconi-Craxi). Il gioco delle coincidenze affascina da tempo immemorabile paranoici e complottardi ma con le coincidenze, e specie con le date, si può fare ciò che si vuole.

Un'orgia di coincidenze è stata individuata a proposito dell'attentato alle Twin Towers e qualche anno fa su "Scienza e Paranormale" Paolo Attivissimo aveva citato una serie di speculazioni numerologiche fatte sull'11 settembre. Per citarne solo alcune, New York City ha 11 lettere, Afghanistan ha 11 lettere, Ramsin Yuseb, il terrorista che aveva minacciato di distruggere le Torri, ha 11 lettere, Gorge W. Bush ha 11 lettere, le due torri gemelle formavano un 11, New York è l'undicesimo Stato, il primo aereo schiantatosi contro le torri era il volo numero 11, questo volo portava 92 passeggeri e 9+2 fa 11, il volo 77 che si è pure schiantato contro le torri portava 65 passeggeri e 6+5=11, la data 9/11 è uguale al numero d'emergenza americano, 911, la cui somma interna dà 11. Il totale delle vittime di tutti gli aerei dirottati è stato di 254, la cui somma interna dà 11, l'11 settembre è il giorno 254 del calendario annuale e la somma interna di 254 fa 11.
Sfortunatamente New York ha 11 lettere solo se si aggiunge City, l'Afghanistan ha 11 lettere ma i dirottatori non venivano da laggiù bensì dall'Arabia Saudita, dall'Egitto, dal Libano e dagli Emirati Arabi, Ramsin Yuseb ha 11 lettere ma, se invece di Yuseb, si fosse traslitterato Yussef, il gioco non avrebbe funzionato, George W. Bush ha 11 lettere solo se si mette la "middle initial", le torri disegnavano un 11 ma anche un 2 in numeri romani, il volo 77 non ha colpito una delle torri bensì il Pentagono e non portava 65 bensì 59 passeggeri, il totale delle vittime non è stato di 254 bensì 265, e così via.

Altre coincidenze che circolano su Internet? Lincoln è stato eletto al Congresso nel 1846, Kennedy è stato eletto nel 1946, Lincoln è stato eletto Presidente nel 1860, Kennedy nel 1960. Entrambe le loro mogli hanno perduto un bambino mentre risiedevano alla Casa Bianca. Entrambi sono stati colpiti alla testa da un sudista di venerdì. Il segretario di Lincoln si chiamava Kennedy e il segretario di Kennedy si chiamava Lincoln. Il successore di Lincoln fu Johnson (nato nel 1808) e Lyndon Johnson, successore di Kennedy, era nato nel 1908.

John Wilkes Booth, che ha assassinato Lincoln, era nato nel 1839, e Lee Harvey Oswald nel 1939. Lincoln fu colpito al Ford Theater. Kennedy fu colpito in un'automobile Lincoln prodotta dalla Ford.

Lincoln è stato colpito in un teatro e il suo assassino è andato a nascondersi in un magazzino. L'assassino di Kennedy ha sparato da un magazzino ed è andato a nascondersi in un teatro. Sia Booth che Oswald sono stati uccisi prima del processo.

Ciliegina (volgaruccia) sulla torta, che però funziona bene solo in inglese: una settimana prima di essere ucciso Lincoln era stato "in" Monroe, Maryland. Una settimana prima di essere ucciso Kennedy era stato "in" Monroe, Marilyn.

La sola conclusione anticomplottarda (e ragionevole) sarebbe che Berlusconi non è responsabile dell'elezione di Pisapia e De Magistris.

Ma forse sì.

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Titolo: UMBERTO ECO. Mentire e far finta
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:28:45 am
L'opinione



di Umberto Eco

Nella finzione narrativa il confine tra vero e inventato è sfumato. Capita così che i lettori prendano sul serio i romanzi. Come se parlassero di cose realmente successe. E che attribuiscano all'autore le idee dei suoi personaggi

(08 luglio 2011)


I lettori si saranno accorti che in alcune delle ultime bustine mi sono occupato della bugia. E' che stavo preparando un intervento che ho tenuto lunedì scorso alla Milanesiana, dedicata quest'anno a "bugie e verità", dove ho anche parlato della finzione narrativa.

Un romanzo è un caso di menzogna? A prima vista dire che don Abbondio ha incontrato due bravi nei pressi di Lecco sarebbe una bugia perché Manzoni sapeva benissimo di raccontare una cosa che si era inventato. Ma Manzoni non intendeva mentire: "faceva finta" che quello che raccontava fosse accaduto davvero e ci chiedeva di partecipare alla sua finzione, proprio come accettiamo che un bambino, che impugna un bastone, faccia finta che sia una spada.

Naturalmente la finzione narrativa richiede che vengano emessi segnali di finzionalità che vanno dalla parola "romanzo" sulla copertina, a inizi come "c'era una volta". Ma spesso incomincia con un falso segnale di veridicità.

Ecco un esempio: "Il signor Lemuel Gulliver... tre anni fa, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra nei pressi di Newark... Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli... Li ho letti con attenzione tre volte e devo dire che... la verità soffia su ogni pagina ed infatti l'autore stesso era talmente noto come persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l'avesse detta Gulliver".

Nel frontespizio della prima edizione dei "Viaggi di Gulliver" non appare il nome di Jonathan Swift come autore di finzione ma quello di Gulliver come autobiografo veritiero. Forse i lettori non si fanno ingannare perché, dalla "Storia vera" di Luciano in avanti, le esagerate affermazioni di veridicità suonano come segnale di finzione, ma spesso in un romanzo si mescolano in modo così stretto fatti fantastici e riferimenti al mondo reale che molti lettori perdono la bussola.

Così accade che prendano sul serio i romanzi come se parlassero di cose realmente accadute e che attribuiscano all'autore le opinioni dei personaggi. E vi assicuro, come autore di romanzi, che al di là, diciamo, delle 10 mila copie, si passa dal pubblico abituato alla finzione narrativa al pubblico selvaggio per cui il romanzo viene letto come sequenza di affermazioni vere, così come al teatro dei pupi gli spettatori insultavano il fellone Gano di Maganza.

Mi ricordo che nel mio romanzo "Il pendolo di Foucault" il personaggio Diotallevi, per burlarsi dell'amico Belbo che usa ossessivamente il computer, gli dice a pagina 45 "la Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone". Un collega che insegna materie scientifiche mi aveva sarcasticamente osservato che la Silicon Valley si traduce Valle del Silicio.

Gli avevo detto che sapevo benissimo che i computer si fanno col silicio (in inglese "silicon"), tanto è vero che se fosse andato a vedere la pagina 275 avrebbe letto che, quando il signor Garamond dice a Belbo di mettere nella "Storia dei metalli" anche il computer perché fatto col silicio, Belbo gli risponde: "Ma il silicio non è un metallo, è un metalloide". E gli ho detto che a pagina 45 anzitutto non parlavo io bensì Diotallevi, che aveva pur diritto di non sapere né le scienze né l'inglese, ma che in secondo luogo era chiaro che Diotallevi si stava burlando delle cattive traduzioni dall'inglese, come chi parlasse di un "hot dog" come di un cane caldo. Il mio collega (che diffidava degli umanisti) ha sorriso con scetticismo, ritenendo che la mia spiegazione fosse un povero rappezzo.

Ecco il caso di un lettore che, sebbene istruito, anzitutto non sapeva leggere un romanzo come un tutto, collegando le sue varie parti, in secondo luogo era impermeabile all'ironia, e infine non distingueva tra opinioni dell'autore e opinione dei personaggi. A un non-umanista del genere il concetto di "fare finta" era ignoto. Finzione | libri | bugie © Riproduzione riservata

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Titolo: UMBERTO ECO. Credulità e identificazione
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2011, 12:21:40 pm
L'opinione



di Umberto Eco

Ci sono lettori che non sanno distinguere tra finzione e realtà: prendono sul serio la storia, non cercano di trarne insegnamenti e non si identificano nei personaggi. E sono più di quanti pensiamo

(21 luglio 2011)

Ricordavo nella precedente "bustina di minerva" che moltissimi lettori provano difficoltà a distinguere, in un romanzo, la realtà dalla finzione, e tendono ad attribuire all'autore passioni o pensieri dei suoi personaggi. A conferma, trovo ora in Internet un sito che registra pensieri di vari autori, e tra le "frasi di Umberto Eco" trovo questa: "L'italiano è infido, bugiardo, vile, traditore, si trova più a suo agio col pugnale che con la spada, meglio col veleno che col farmaco, viscido nella trattativa, coerente solo nel cambiar bandiera a ogni vento". Non è che non ci sia qualcosa di vero, ma si tratta di un luogo comune secolare messo in giro da autori stranieri, e nel mio romanzo "Il cimitero di Praga" questa frase la scrive un signore che nelle pagine precedenti ha manifestato pulsioni razziste a 360 gradi usando i cliché più frusti. Cercherò di non mettere mai in scena personaggi banali, altrimenti un giorno mi verranno attribuiti filosofemi come "di mamma ce n'è una sola".
Ora leggo l'ultimo "Vetro soffiato" di Eugenio Scalfari, che riprende la mia Bustina precedente e solleva un nuovo problema. Scalfari consente al fatto che ci siano persone che scambiano la finzione narrativa per la realtà, ma ritiene (e ritiene giustamente che io ritenga) che la finzione narrativa può essere più vera del vero, ispirare identificazioni, percezione di fenomeni storici, creare nuovi modi di sentire, eccetera. E figuriamoci se non si può essere d'accordo con questa opinione.

Non solo, la finzione narrativa consente anche esiti estetici: un lettore può benissimo sapere che madame Bovary non è mai esistita e tuttavia godere del modo con cui Flaubert costruisce il suo personaggio. Ma ecco che proprio la dimensione estetica ci riporta per opposto alla dimensione "aletica" (che cioè ha a che fare con quella nozione di verità condivisa dai logici, dagli scienziati o dai giudici che in tribunale debbono decidere se un testimone ha detto o meno come sono andate le cose). Sono due dimensioni diverse, guai se un giudice si commuovesse perché un colpevole racconta esteticamente bene le sue bugie; e io mi stavo occupando della dimensione aletica, tanto è vero che la mia riflessione era nata all'interno di un discorso sul falso e la bugia. E' falso dire che una lozione di Vanna Marchi fa ricrescere i capelli? E' falso. E' falso dire che don Abbondio incontra due bravi? Dal punto di vista aletico sì, ma il narratore non vuole dirci che quanto racconta sia vero bensì finge che sia vero e chiede anche a noi di far finta. Ci chiede, come raccomandava Coleridge, di "sospendere l'incredulità".
Scalfari cita il "Werther" e noi sappiamo quanti giovani e giovinette romantici si siano uccisi identificandosi col protagonista. Forse credevano che la storia fosse vera? Non è necessario, così come noi sappiamo che Emma Bovary non è mai esistita eppure ci commoviamo sino alle lacrime sulla sua sorte. Si riconosce che una finzione è una finzione eppure ci s'immedesima a fondo nel personaggio.

E' che intuiamo che se madame Bovary non è mai esistita, sono esistite tante donne come lei, e un poco come lei siamo forse anche noi, e si ricava una lezione sulla vita in genere e su noi stessi. I greci antichi credevano che le cose accadute a Edipo fossero vere e ne traevano occasione per riflettere sul fato. Freud sapeva benissimo che Edipo non era mai esistito, ma ne leggeva la vicenda come lezione profonda su come vadano le cose dell'inconscio.
Che cosa accade invece ai lettori di cui parlavo io, quelli che non sanno assolutamente distinguere tra finzione e realtà? La loro situazione non ha valenze estetiche, perché sono talmente preoccupati a prendere sul serio la storia che non si chiedono se sia raccontata bene o male; non cercano di trarne insegnamenti; non si identificano affatto nei personaggi. Semplicemente manifestano quello che definirei un deficit finzionale, sono incapaci di "sospendere la credulità". Siccome questi lettori sono più di quanti pensiamo, vale la pena di occuparsene proprio perché sappiamo che tutte le altre questioni estetiche e morali a loro sfuggono.

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Titolo: UMBERTO ECO. Santanchè: risorgi, mento
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2011, 05:33:40 pm

La bustina

Santanchè: risorgi, mento

di Umberto Eco

Due professori universitari si sono concessi un libretto di giochi di parole. Millecinquecento esempi, la maggior parte di carattere osceno, ma decisamente divertenti: "Lui le nega il seme, lei si offende: spermalosa'

(09 agosto 2011)

Giochi di parole. Sandro Volpe e Alberto Voltolini, che non sono due umoristi professionisti ma professori universitari, si sono concessi un libretto di giochi di parole ("Mai ali che volano alto", Duepunti edizioni). Un benpensante lamenterebbe che, in questa raccolta di circa millecinquecento giochi di parole, la maggior parte sia di carattere osceno, se non altro per diffidenza verso la papirologia goliardica. Però una volta accettato il gioco, ben venga l'oscenità. Loderei pertanto "Il Parlamento in mano alle escort: Monte Clitorio" e "Lui le nega il seme, lei si offende: spermalosa".

L'altro appunto è che, facendo vorticare la lingua come un cabalista, la combinatoria produce anche risultati non inediti, come "Amletica leggera" (era una collana di libri ludici editi da Bompiani negli anni Settanta) e lo "Sturm und drangheta" con cui avevo definito anni fa un noto signore che oscilla tra cultura e mafia. Ma, volendo scegliere tra i giochi che possano, come Tasso voleva, essere letti anche dalle monache, sceglierei i seguenti.

Miracoli non riusciti: le cozze di Cana. Per uscire dalla Chiesa, chiede il nulla ostia. Bulimia: colazione a ripetere. Preferisce i formaggi francesi: colesterofilo. Miracolosa moltiplicazione dei pesci: alici nel paese delle meraviglie. Paura di volare sui cieli tedeschi: Luftansia. Anche Silvio ha commesso un errore: ha usato la brillantina Minetti. Il gatto di Berlusconi: Micio Gelli. Per la Santanchè non c'è contraddizione tra amare la patria e darsi alla chirurgia estetica: risorgi, mento. In diretta da Gaza: Striscia la notizia. Classifica gioielli: collazione da Tiffany. Adamo ed Eva: la solitudine dei sumeri primi.

Per Chomsky, l'unico aspetto da studiare del linguaggio è la sintassi: torna a casa, lessico. Uomini che odiano le donne: gayatollah. Gengis Khan mangiava bambini a fine pasto: il dessert dei tartari. Vendola la nuova speranza della sinistra: Lecce l'omo. Adatterei alla politica educativa del presente ministero: Roma Cepu mundi. Come piccolo capolavoro un poco ermetico citerei: Ma se Levi Strauss cosa rimane? Norma Jeans.

Letteratura a garganella. Da qualche anno, nella serata finale del premio Strega, il vincitore si attacca al collo della bottiglia del liquore omonimo e ne beve a garganella. Io ho vinto un premio Strega trent'anni fa, ma a quei tempi quel gentiluomo di Guido Alberti non faceva neppure vedere la bottiglia, l'eletto prendeva l'assegno (di entità nobilmente simbolica), lo mostrava ai fotografi, e tutto finiva lì. Immagino che l'idea di far attaccare i poveri vincitori al collo della bottiglia sia di qualche pubblicitario. Se questa sgradevole abitudine aumenta le vendite del liquore come il premio aumenta le vendite del libro, non parlo più, "pecunia non olet". Ma, visto che si tratta di un liquore dolce, se il vincitore ha la glicemia alta come dovrà regolarsi?

E' la traduzione, bellezza. Stefano Passigli concludeva uno dei suoi interventi sul referendum per la legge elettorale ("La Stampa", 4 luglio scorso) con: "E' la "democrazia rappresentativa", bellezza". La battuta si riferiva a quella detta da Humphrey Bogart, nel film "L'ultima minaccia" dove Borgart faceva sentire il rumore delle rotative e concludeva: "E' la stampa, bellezza, e tu non puoi farci nulla!". Cito a memoria, ma l'espressione è diventata proverbiale in questa forma.

In realtà l'originale recitava: "That's the power of the press, baby, the power of the press. And there's nothing you can do about it". L'inglese è più ridondante dell'italiano, e questo spiega perché da noi la citazione sia diventata classica mentre in un sondaggio fatto anni fa in America sulle battute cinematografiche più memorabili aveva vinto la frase finale di "Via col vento" (Clark Gable: "Frankly, my dear, I don't give a damn", ovvero "Francamente me ne infischio") ma questa di Bogart non era stata citata da nessuno.

Morale? Non ha niente a vedere con la politica, ma molto con la traduttologia: spesso le traduzioni, invece di tradire, migliorano.


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Titolo: UMBERTO ECO. Che bel libro: costa 230 euro
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2011, 06:33:15 pm
Che bel libro: costa 230 euro

di Umberto Eco

L'editore Forni ripubblica il 'Mundus Subterraneus', straordinaria opera del naturalista seicentesco Athanasius Kircher.

Chi era? Un gesuita affascinato dai vulcani, dai draghi e dalle maree. A cui la scienza deve molto

(24 agosto 2011)

L'editore Forni pubblica una seconda edizione dell'anastatica del "Mundus subterraneus" (terza edizione, la più completa, 1678) di Athanasius Kircher. Il fatto che questa anastatica, dopo essere apparsa qualche anno fa, sempre a cura Gian Battista Vai, in occasione di un congresso internazionale di geologi, venga ora ristampata, malgrado il prezzo non trascurabile di 230 euro (ma se volete l'originale, di euro dovreste spenderne intorno ai 10 mila), ci dice quanto questo libro sia affascinante sia per i cultori del meraviglioso, per le sue incisioni di mostri e fiamme sotterranee, sia per gli specialisti che lo considerano uno dei primi contributi scientifici alla vulcanologia.

Athanasius Kircher è rimasto più famoso per i suoi errori scientifici che non per le sue scoperte più o meno attendibili. Ma forse l'opera in cui egli dispiega maggiormente le sue qualità di osservatore è proprio questa, che era stata presa molto sul serio già ai suoi tempi - prima che il libro apparisse Oldenburg ne scriveva a Boyle, e Spinoza ne aveva inviato una copia a Huygens.

Naturalmente anche in quest'opera Kircher non si smentisce: ingordo e insaziabile ci parla della luna e del sole, delle maree, delle correnti oceaniche, delle eclissi, di acque e fuochi sotterranei, di fiumi, laghi e sorgenti del Nilo, di saline e miniere, di fossili, metalli, insetti ed erbe, di distillazione, fuochi d'artificio, generazione spontanea e pansmermia, ma con la stessa disinvoltura ci racconta (e ci mostra le immagini) di draghi e di giganti (e d'altra parte naturalisti illustri, da Aldrovandi a Johnston, dei draghi non potevano fare a meno - infine, Kircher mostra di sapere qualcosa dell'iguana, e se avete mai visto un iguana capite che si possono prendere sul serio anche i draghi).

Ma di tutti gli aspetti del "Mundus" vorrei tenerne presente uno, che forse è quello che meno interessa il geologo ma è di grande importanza per la storia della cultura. Nell'undecimo libro della sua opera Kircher decide di fare i conti con l'alchimia. Da un lato va a rileggersi tutta la tradizione alchemica, dalle fonti antiche (ovviamente si parte da Ermete Trismegisto, ma non trascura fonti copte ed ebraiche, nonché la tradizione araba) allo pseudo Lullo, ad Arnaldo di Villanova, a Ruggero Bacone, a Basilio Valentino e via dicendo; dall'altro allestisce nel suo laboratorio (e ci fa vedere) varie specie di forni, colleziona ricette secolari, le prova, ne critica la vaghezza o vanità, ed è chiaro che per provare (e riprovare) tutta una serie di precetti tradizionali, egli aveva accolto alla sua corte una pletora di gaglioffi per farsi insegnare i loro marchingegni.

Cercando di individuare tra tutti i procedimenti alchemici quelli sperimentalmente spiegabili senza ricorrere ad alcuna ipotesi di Pietra Filosofale, Kircher distingue tra chi crede che la trasmutazione alchemica sia impossibile ma persegue egualmente le ricerche chimiche per altri scopi, e chi vende imitazioni di oro e argento e fa commercio della propria cialtroneria. Non era cosa da poco per i suoi tempi, misurarsi criticamente con Paracelso, scagliarsi contro autorità riconosciute come Sendivogio o Robert Fludd, e vibrare sciabolate quasi esorcistiche contro la tradizione rosacrociana che stava da circa quarant'anni seducendo mezza Europa. Va bene, Kircher era gesuita, e si allineava con la cultura controriformista contro la tradizione protestante da cui provenivano i manifesti dei Rosa-Croce, ma insomma, si batte per una visione più razionale e sperimentale della chimica a venire, in pieno Seicento, e quando la tradizione alchemica sarebbe continuata tranquillamente sino a oggi (basta visitare le librerie di paccottiglia pseudo ermetica).

E' difficile classificare Kircher, che ha vissuto tutta la sua esistenza tra affabulazione incontenibile e alcune intuizioni quasi giuste. Personaggio barocco se mai ve ne furono, ha finito ai giorni nostri con l'incantare più i surrealisti che gli scienziati. Ed è dunque giusto che dagli scienziati sia oggi anastaticamente ricordato.

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Titolo: UMBERTO ECO. Ma i cani parlano o no?
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 05:49:28 pm
Ma i cani parlano o no?

di Umberto Eco

Tra scienza e filosofia, la domanda sulle loro capacità di ragionamento è antichissima.

Certo è che emettono voci diverse in situazioni diverse. E che qualcosa intendono dire

(01 settembre 2011)

Una signora, che andava con una amica per funghi, punta da una vespa è presa da choc anafilattico, non respira più, l'amica telefona per attivare soccorsi, ma i soccorsi tardano ad arrivare perché le due donne sono in un bosco fittissimo ed è difficile individuarle. Allora Queen, il cane (ma immagino fosse una cagna) dell'amica, invece di star lì come l'istinto le comanderebbe, a leccare guaendo la mano alla moribonda, parte come un razzo, attraversa il bosco, trova i soccorritori e li guida nel posto giusto.

Come commenta Danilo Mainardi sul "Corriere della sera" del 21 agosto scorso, non siamo di fronte a un semplice comportamento istintivo; siamo di fronte a un comportamento "intelligente", in cui il cane non risponde al comando dell'istinto (non allontanarsi dal ferito), ma elabora "un piano complesso comprendente anche il coinvolgimento di altri individui".

Il caso, e i commenti di Mainardi, richiamano alla mente una letteratura antichissima e vastissima sulle capacità di ragionamento dei cani. Uno dei testi che ha maggiormente influenzato i posteri è la "Storia Naturale" di Plinio, che si occupa della voce dei pesci e degli uccelli, ma si diffonde ampiamente sull'intelligenza canina, cita un cane che aveva riconosciuto fra la folla l'assassino del suo padrone e con i suoi morsi e con il suo abbaiare lo aveva costretto a confessare il delitto, o il cane di un condannato a morte che ululava mestamente, quando uno spettatore gli aveva gettato del cibo lo aveva accostato alla bocca del morto, e quando il cadavere era stato buttato nel Tevere si era gettato a nuoto, nel tentativo di sostenerlo.

Ma la discussione più filosoficamente interessante si era già sviluppata da almeno tre secoli in un dibattito tra stoici, accademici ed epicurei. Nell'ambito della discussione stoica appare un argomento attribuito a Crisippo, che verrà ripreso e popolarizzato quasi cinque secoli dopo da Sesto Empirico. Sesto riteneva che il cane fosse capace di ragionamento logico, prova ne fosse che un cane, arrivato a un trivio, e avendo riconosciuto con l'odorato che la preda non ha imboccato due delle strade, si precipita subito per la terza senza neppure annusare. In effetti il cane farebbe in qualche modo questo ragionamento: "La preda o ha preso questa via o quella, oppure quell'altra; ora non è né questa né quella; e dunque è l'altra" (che sarebbe esempio di un ragionamento detto del "quinto indimostrabile").

Sesto ricordava inoltre che il cane possiede un "logos" perché sa togliersi le schegge e pulirsi le piaghe, tiene immobile l'arto malato, e individua le erbe che possono lenire le sue sofferenze. Quanto a un linguaggio animale, è vero che noi non comprendiamo le voci degli animali, ma non comprendiamo neppure le voci dei barbari, i quali pure parlano; e i cani certamente emettono voci diverse in situazioni diverse.

Potremmo continuare citando il "De sollertia animalium" di Plutarco, dove si dice che certo la razionalità animale è imperfetta rispetto a quella umana, ma queste differenze intercorrono anche tra esseri umani; e in un altro dialogo, "Bruta animalia ratione uti", a chi obietta come sia una forzatura attribuire la ragione a esseri che non hanno una nozione innata della divinità, Plutarco risponde ricordando che anche tra gli esseri umani ci sono degli atei.

Ne "La natura degli animali" di Eliano, oltre agli argomenti già visti, si citano cani che si innamorano di esseri umani. Nel "De abstinentia" di Porfirio gli argomenti in favore dell'intelligenza animale servono a sostenere una tesi "vegetariana". Tutti temi che verranno variamente ripresi in era moderna e sino ai giorni nostri.

Ma fermiamoci qui: anche se non si riesce a definire bene l'intelligenza canina, dovremmo essere più sensibili a questo mistero. E se proprio si fa fatica a diventare vegetariani, almeno che padroni meno intelligenti di loro non abbandonino i cani in autostrada.

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Titolo: UMBERTO ECO. E stasera mi leggo La Ficheide
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2011, 04:43:40 pm
Cultura

E stasera mi leggo La Ficheide

di Umberto Eco

Niente battute, è un'opera seria del 1589 ripubblicata in Francia con il titolo 'La chanson de la figue'.

Del XVII secolo è invece 'La rettorica delle puttane' e del '700 è un saggio in cui si riflette sull'origine della parola 'becco'.

Viaggio di inizio autunno in una libreria antiquaria

(04 ottobre 2011)

La ficheide di Annibal Caro "La ficheide" di Annibal CaroTempo fa, in un'altra Bustina, avevo raccontato delle sorprese che riservano alcuni cataloghi di librai antiquari. Non tanto quando registrano incunaboli famosi e costosissimi, scatenandoti furiosi accessi d'invidia e di insoddisfatto desiderio di possesso, ma quando ti parlano di libri curiosi, dimenticati dalla storia delle lettere e delle scienze, dai titoli improbabili che suggeriscono contenuti deliranti; talché non t'importa tanto possederli quanto immaginare che cosa potrebbero raccontare.

Ho ora tra le mani l'ultimo catalogo della libreria antiquaria Rovello che, accanto a varie opere imprescindibili, ne elenca alcune che suscitano l'interesse del lettore curioso proprio per la loro saporosissima marginalità.

Tanto per cominciare si trova l'operetta ottocentesca di tal Fréderic-Charles Baer, "Essai historique sur l'Atlantique des anciens", che non è né il primo né l'ultimo tentativo di risolvere il mistero di Atlantide ma certamente lo risolve in modo originale, dimostrando con dovizia di notizie storiche, prove etimologiche, una antologia dei testi platonici in materia e due bellissime carte geografiche, che la mitica Atlantide altro non era che la terra degli ebrei, e pertanto la Palestina. Il sospetto che questo Baer fosse un ebreo esageratamente sionista è fugato dal fatto che in frontespizio si definisce (oltre che membro dell'accademia svedese delle scienze) come elemosiniere della cappella reale di Svezia a Parigi, e pertanto doveva essere un protestante.

Sorvolo su un libro ben noto agli studiosi del Seicento, ma che spicca in ogni caso per un suo bel titolo, "La rettorica delle puttane" di Ferrante Pallavicino, e mi soffermo su G. B. Modio, "Il convito, ovvero del peso della moglie. Dove ragionando si conchiude che non può la donna disonesta far vergogna all'huomo ", del 1558 (ma la prima edizione è 1554). Un buon catalogo ti fa venir voglia di andare poi a cercare altre notizie sul libro, e apprendo che il Modio, inserendosi in una antica polemica misogina, tuttavia sostiene che l'adulterio femminile non lede la buona fama del marito, il che era un modo assai pionieristico per delegittimare il delitto d'onore.

Non che Modio fosse un femminista perché considerava la femmina più lasciva e dunque più incline all'adulterio dell'uomo (il quale non è adultero se va a soddisfare i suoi bisogni con le meretrici), ma se volete qualcosa di veramente antifemminista il catalogo ci offre "Lo Scoglio dell'Umanità, ossia Avvertimento salutare alla Gioventù per cautelarsi contro le male qualità delle donne cattive", sotto lo pseudonimo di Diunilgo Valdecio, 1774. In compenso il Modio è ricco di argute riflessioni sul perché il marito tradito si chiami "becco" visto che il caprone non è animale geloso, e forse si chiama cornuto perché gli animali con le corna, vegetariani, sono più mansueti, tolleranti e meno aggressivi. Ma un'altra possibile etimologia rinvia a "cornucopia" a causa dei benefici che l'adulterio della moglie può procurare al marito.

Altro item a prima vista promettente è "La Chanson de la figue" (Parigi 1886), ma è la tarda traduzione di "La ficheide", del 1539, opera di Annibal Caro. Tuttavia il titolo che mi ha fatto saltar sulla sedia perché ho avuto l'impressione che ci parli delle cose d'oggi è il "Dictionnaire des girouettes" di Aymery Alexis, seconda edizione 1815, il cui titolo non brevissimo, tradotto in italiano, suona: "Dizionario dei voltagabbana... Opera in cui sono riportati discorsi, proclami, canzoni, estratti d'opere scritte sui governi che sono apparsi in Francia negli ultimi venticinque anni; e ove si citano i posti, i favori, i titoli che hanno ottenuto in diverse circostanze uomini di Stato, letterati, generali, artisti, cantanti, vescovi, prefetti, giornalisti, ministri, eccetera, ...".

Ed è un vasto dizionario biografico in cui appaiono da Fouché a Murat (che aveva giurato fedeltà alla Repubblica per diventare poi re di Napoli), sino a Chateaubriand e altri illustri opportunisti, in gran parte eccellenti saltatori da Napoleone alla Restaurazione.

Ovvero, niente di nuovo sotto il sole.


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Titolo: UMBERTO ECO. Il tramonto della barzelletta
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:54:18 pm
Opinione

Il tramonto della barzelletta

di Umberto Eco

Per gli artisti del genere Berlusconi ha reso indecorosa l'abitudine di raccontarle.

Non per motivi politici ma squisitamente estetici: le racconta male. Un empito di vergogna collettiva sta uccidendo la nobile arte

(13 ottobre 2011)

Tutti o quasi tutti sanno che la domanda "chi inventa le barzellette?" non ha risposta. Nessuno inventa ex novo una barzelletta: la barzelletta si forma a poco a poco, come elaborazione collettiva, parte da uno spunto (una battuta detta a tavola, un qui pro quo, un incidente minimo che fa ridere gli astanti) e si trasforma gradatamente di bocca in bocca diventando una storia compiuta. Ciascuno corregge e arricchisce il racconto che gli era pervenuto, sino a che la barzelletta si assesta in una sua forma ideale, rispetto a cui chi la ri-racconta male viene severamente sanzionato dal sentire comune.

In tal senso le barzellette sono piccole opere d'arte. Chi le riprende perfezionandole ha intenti artistici, e proprio per questa loro natura creativa (attiva e non passiva) accade che si ami più raccontarle (volta per volta laminandole e tornendole) che sentirsele raccontare - ovvero ci si sottomette al sacrificio di ascoltarle solo nella speranza di apprenderne una che ancora non si conosceva e che attendeva l'interprete ideale per poter essere portata alla estrema perfezione - perfezione che non si realizza necessariamente per arricchimento dei particolari, ma sovente per sottrazione, distillazione, sublimazione, riduzione fulminea alla quintessenza.
Poi (e rinvio al classico "Trattato delle barzellette" di Achille Campanile) la barzelletta può consumarsi, esprimere un senso del comico o dello humour che ha fatto il suo tempo, e rimane solo a testimoniare le ingenuità dei nostri avi.

Ora una delle condizioni per l'esistenza e lo sviluppo delle barzellette è il lavoro complice della comunità. Le barzellette devono essere comunicate da esperto a esperto in modo da essere riprese e raffinate, e chi di solito le racconta appartiene a una società di degustatori che se le comunicano, pratica che si è arricchita con Internet e la e-mail, dove possono arrivare barzellette fresche fresche da paesi lontani.

Tuttavia (nel nostro paese) gli artisti della barzelletta, da almeno due anni, lamentano di non averne più da raccontare. Coloro che arrivavano alla sera al bar annunciando "sentite l'ultima" (spesso suscitando le proteste delle vittime) ora arrivano e alla domanda se abbiano l'ultima, scuotono tristemente il capo. La fonte delle loro barzellette si è misteriosamente inaridita.

Ci stavamo ponendo domande sulle ragioni di questa quasi improvvisa penuria (il buco nell'ozono, la liquefazione dei ghiacciai, l'iPad?) quando qualcuno ha enunciato la vera verità. La colpa è di Berlusconi, e questa volta non sono i giudici comunisti a dirlo, ma la "vox populi". Berlusconi ha reso indecorosa l'abitudine di raccontar barzellette. Forse il fenomeno si sarebbe verificato anche se lui le avesse sempre raccontate bene e nelle circostanze giuste, semplicemente per rifiuto di qualcosa che lui fa sovente, e sarebbe stato per ragioni extranarrative, di carattere politico, ideologico, come se qualcuno rifiutasse per livore antiberlusconiano la giacca doppiopetto. Ma la ragione è invece squisitamente estetica. E' che Berlusconi, forse non sempre, ma certamente tutte le volte che lo ha fatto in pubblico ed è stato ripreso da YouTube, le barzellette le ha raccontate male.

La barzelletta della mela era protratta per un tempo insostenibile, a tal punto che il suo uditorio di sostenitori rideva più volte (e senza ragione) nel corso del racconto credendo (o sperando) che ormai la storia fosse finita. La barzelletta di birra e champagne aveva tre orribili difetti: nell'originale, tramandato dai cesellatori di storielle, la cosa si svolgeva tra un italiano, un francese e un tedesco; la storia non era oscena perché lo champagne veniva versato - e poi delibato - su un seno coperto da una vestaglia trasparente e non dove diceva Berlusconi; e alla fine Berlusconi, toccato dal fatto che il suo uditorio non rideva, ha spiegato la barzelletta, cosa che un gentiluomo non dovrebbe mai fare.

Ed ecco perché nessuno trasmette più barzellette, così come non bacerebbe la mano a Gheddafi e non farebbe le corna qualora fosse fotografato, che so, col Papa. Un empito di vergogna collettiva ha ucciso la nobile arte della barzelletta.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. Perché l'uomo tende all'odio
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 11:34:30 pm
Perché l'uomo tende all'odio

di Umberto Eco

Silvio detesta tutti i comunisti, Bossi tutti i meridionali, così come Appelius malediva tutti gli inglesi. Perché l'odio è un sentimento che in un solo colpo abbraccia immense moltitudini. Quindi è facile e appagante. Mentre l'amore è selettivo, quindi più difficile

(03 novembre 2011)


Negli ultimi tempi ho scritto sul razzismo, sulla costruzione del nemico e sulla funzione politica dell'odio per l'Altro o il Diverso. Credevo di aver detto tutto, ma in una recente discussione col mio amico Thomas Stauder è emerso (e sono quei casi in cui non ci si ricorda più chi ha detto una cosa e chi l'altra, ma le conclusioni coincidevano) qualche elemento nuovo (o almeno, nuovo per me).

Noi tendiamo, con una leggerezza un poco presocratica, a intendere odio e amore come due opposti, che si fronteggiano simmetricamente, come se ciò che non amiamo lo odiassimo e viceversa. Tra i due poli ci sono invece, e ovviamente, infinite sfumature. Anche se usiamo i due termini in modo metaforico, il fatto che io ami la pizza ma non vada pazzo per il sushi non vuol dire che il sushi lo odi. Mi piace meno della pizza. E prendendo i due termini nel loro senso proprio, che io ami una persona non significa che odi tutte le altre, all'opposto dell'amore ci può essere benissimo l'indifferenza (amo i miei figli e mi era indifferente il tassista che mi ha preso a bordo due ore fa).

Ma il vero punto è che l'amore isola. Se amo follemente una donna, pretendo che lei ami me e non altri (almeno non nello stesso senso), una madre ama appassionatamente i suoi figli e desidera che essi amino in modo privilegiato lei (mamma ce n'è una sola) né sentirebbe mai di amare con la stessa intensità i figli altrui. Dunque l'amore è a modo proprio egoista, possessivo, selettivo.
Certo, il comandamento dell'amore impone di amare il nostro prossimo come noi stessi (tutti, sei miliardi di prossimi), ma questo comandamento in pratica ci raccomanda di non odiare nessuno, e non pretende che noi amiamo un eschimese sconosciuto come nostro padre o nostro nipote.

L'amore privilegerà sempre il mio nipotino su un cacciatore di foche. E anche se non penserò (come vuole la nota leggenda) che non mi importa niente se muore un mandarino in Cina (specie se ciò potrebbe procurarmi un qualche vantaggio) e saprò che la campana suona sempre anche per me, sarò sempre più toccato dalla morte di mia nonna che non da quella del mandarino.

Invece l'odio può essere collettivo, e deve esserlo per i regimi totalitari, così che da piccolo la scuola fascista mi chiedeva di odiare "tutti" i figli di Albione e Mario Appelius recitava ogni sera alla radio il suo "Dio stramaledica gli inglesi". E così vogliono le dittature e i populismi, e spesso anche le religioni nella loro versione fondamentalista, perché l'odio per il nemico unisce i popoli e li fa ardere tutti di un identico fuoco. L'amore mi scalda il cuore nei confronti di poche persone, l'odio riscalda il cuore mio, e quello di chi sta dalla mia parte, nei confronti di milioni di persone, di una nazione, di un'etnia, di gente dal colore o dalla lingua diversa. Il razzista italiano odia tutti gli albanesi o i romeni o gli zingari, Bossi odia tutti i meridionali (e se percepisce poi uno stipendio pagato anche con le tasse dei meridionali, questo è proprio il capolavoro della malevolenza, dove all'odio si unisce il piacere del danno e della beffa), Berlusconi odia tutti i giudici e ci chiede di fare altrettanto, e di odiare tutti i comunisti, anche a costo di vederli dove non ci sono più.

L'odio non è quindi individualista bensì generoso, filantropico, e abbraccia in un solo afflato immense moltitudini. E' solo nei romanzi che ci viene detto come sia bello morire per amore; di solito è raffigurata come bellissima la morte dell'eroe che lo coglie mentre scaglia una bomba contro l'odiato nemico.

Ecco pertanto perché la storia della nostra specie è stata sempre maggiormente segnata dall'odio, e dalle guerre, e dai massacri, e non dagli atti d'amore (meno confortevoli e spesso faticosissimi qualora si vogliano estendere oltre la cerchia del nostro egoismo). La nostra propensione alle delizie dell'odio è così naturale che risulta facile coltivarla ai reggitori di popoli, mentre all'amore ci invitano solo esseri scostanti che hanno la disgustosa abitudine di baciare i lebbrosi.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. Halloween, i celti e il relativismo
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 05:08:27 pm
Opinioni

Halloween, i celti e il relativismo

di Umberto Eco

Secondo alcuni cattolici la festa delle zucche illuminate è relativista ed è una forma di americanismo deteriore.

Eppure è nata in Europa dove, pur avendo origini pagane, è stata cristianizzata

(10 novembre 2011)

In occasione di Ognissanti si sono levate da parte cattolica molte condanne dello Halloween, la ricorrenza in cui si illuminano dall'interno le zucche e i bambini vanno in giro travestiti da streghette e vampiri chiedendo dolci agli adulti. Siccome la festa, che cerca di esorcizzare l'idea della morte, si presenterebbe come alternativa alla celebrazione e dei Santi e dei Defunti, l'usanza, accusata di americanismo deteriore, è stata anche bollata come forma di "relativismo".

Non so bene in che senso Halloween sia relativista, ma accade al relativismo quello che accadeva all'epiteto "fascista" nel Sessantotto, per cui era fascista chiunque non la pensava come te. Preciso inoltre che non nutro una particolare passione per Halloween (se non perché l'amava Charlie Brown) e so benissimo che la festa in America viene usata da satanisti e pedofili per abusare dei bambini che i genitori hanno la dabbenaggine di lasciar uscire di sera. Obietto solo al fatto che si tratti di deteriore importazione dall'America. Ovvero, lo è, ma di ritorno, perché Halloween è nata come festa pagana nell'Europa celtica e in certi paesi dell'Europa del Nord dove è stata in qualche modo cristianizzata.

E' accaduto insomma ad Halloween quello che è accaduto a Santa Claus, che in origine era San Nicola di Bari, che poi era turco, e pare che dalla festa olandese di Sinterklaas (il compleanno del Santo) sia venuto appunto Santa Claus. Poi Babbo Natale si è fuso con Odino, che nella mitologia germanica portava doni ai bambini, ed ecco la parentela tra un rito pagano e una festa cristiana.

Personalmente sono in polemica anche con Babbo Natale, perché a me i doni li portavano e Gesù Bambino e i Re Magi - e per questo sono andato recentemente a controllare nella cattedrale di Colonia se i resti dei tre re sono ancora lì, dopo che Rainaldo di Dassel e il Barbarossa li avevano rubati a Sant'Eustorgio in Milano. Ma già ai miei tempi mi irritava che alcuni bambini, anziché ai Re Magi, dessero credito alla Befana - che tra l'altro è anch'essa figura di origini pagane, molto vicina alle streghe di Halloween, e se le gerarchie ecclesiastiche non se la sono presa troppo con lei è perché si era in qualche modo cristianizzata ispirando il proprio nome all'Epifania. Per cui, dopo la Conciliazione, fu accettata anche la Befana Fascista.

Nella polemica su Halloween una voce fuori coro è stata quella di Roberto Beretta ("Avvenire" del 23 ottobre), che ha suggerito prudenza nello sparar anatemi e indire crociate pastorali perché con Halloween "la Chiesa vien ripagata della sua stessa moneta. Già. Fu almeno dal IV secolo, infatti, che la saggezza dei Padri... ha preferito mediare anziché cancellare, sovrapporsi e trasfigurare piuttosto che annullare, incenerire, seppellire, censurare. Ovvero: le feste pagane, i nostri antenati le hanno sapute "cristianizzare"".

E basta ricordare che lo stesso Natale è stato fissato il 25 dicembre (data alla quale nessun Vangelo suggerisce che Gesù sia nato, e anzi secondo calcoli astronomici la stella avrebbe dovuto apparire d'autunno) per venire incontro agli usi pagani e alle tradizioni germaniche e celtiche in cui si celebrava Yule, ovvero la festa del solstizio d'inverno, da cui viene anche l'albero di Natale (ma io sono di quelli che preferiscono il presepio francescano, perché richiede più fantasia, mentre un albero di Natale lo sa decorare anche una scimmia dovutamente addestrata).

Dunque - anziché strapparsi le vesti - basterebbe cristianizzare anche Halloween, come suggerisce sempre Beretta: "Se dunque Halloween (che, ricordiamolo, significa letteralmente "vigilia di Ognissanti") dovesse riprendere le sue vesti celtiche - vere o presunte che siano - o piuttosto ammantarsi di lustrini consumistici oppure celarsi sotto rituali più o meno "satanici", non farebbe che riappropriarsi di un territorio già suo; e a noi resterebbe semmai da meditare come e perché non ci sia data la forza culturale (e fors'anche spirituale) per ripetere l'impresa dei nostri antedecessori".

   
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Titolo: UMBERTO ECO. Il classico? La scelta migliore
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 05:52:11 pm
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Discussione

Il classico? La scelta migliore

di Umberto Eco

Aumentano le iscrizioni al liceo nonostante l'opinione pubblica consideri sorpassato il tempo degli studi umanistici.

Ed è un dato positivo.
Perché anche nel mondo della tecnologia l'avvenire è di chi sappia ragionare. Proprio quello che assicura una preparazione umanistica

(30 novembre 2011)

Leggevo le settimane scorse di un (rinato) dibattito sulla sopravvivenza del liceo classico. Dibattito motivato dal fatto che pare che le iscrizioni al classico stiano aumentando, e proprio mentre gli allievi si lamentano di quanto siano faticosi lo studio del greco e del latino, e l'opinione pubblica ritenga che non è più tempo di dedicarsi a studi umanistici bensì a una preparazione scientifica. Idea che ha ispirato il governo a tagliare i fondi alle facoltà umanistiche - anche se peraltro non ne dà in misura sufficiente neppure alle facoltà scientifiche.

Ora nessuno più di me ritiene che ci si dovrebbe iscrivere in maggior numero alle facoltà scientifiche, che all'università molti si iscrivono a facoltà umanistiche perché sono aree di parcheggio ritenute più facili, e che bisognerebbe lavorare con incentivazioni generose per far sì che, se mancano laureati - che so - in agraria o in chimica, chi si iscrive a queste facoltà abbia borse di studio, posti in collegi universitari e altri incoraggiamenti.

Ma l'idea che alcuni ragazzi delle medie scelgano il classico, anche se appare più esigente, mi consola. Evidentemente non si tratta di "bamboccioni" ma di una élite di volonterosi (e si può essere élite anche essendo figlio di un nullatenente). Però viene avanzata l'obiezione che il figlio di nullatenente che si iscrive prima al classico e poi a una facoltà umanistica abbia molte probabilità di rimanere un nullatenente di seconda (o decima) generazione.

Qui c'è un errore. Tutti sappiamo che, per dirla in parole povere e con inevitabili anglicismi, il futuro sarà sempre più dominato dal "software" a scapito dello "hardware", ovvero dalla elaborazione di programmi più che dalla produzione di oggetti che ne consentono l'applicazione. Steve Jobs è diventato quel che è diventato non perché ha progettato degli oggetti che si chiamano computer o tavolette (che ormai li costruiscono i paesi del Terzo mondo) ma perché ha ideato programmi innovatori che hanno reso i suoi computer più efficienti e creativi di quelli di Bill Gates, che fa peggio a ogni nuova versione di Windows.

Quindi, anche nel mondo della tecnologia, l'avvenire è di chi sappia ragionare in modo da inventare programmi. E si dà il caso che chi abbia fatto una tesi di logica formale, di filologia classica, di filosofia, abbia allenato una mente più adatta a inventare programmi (che sono materia del tutto mentale) di chi abbia studiato come fabbricante di "ferraglia". Naturalmente conosco laureati in ingegneria che sanno inventare ottimi programmi ma che, appunto e guarda caso, hanno anche un'ottima cultura umanistica, e non di rado hanno studiato bene il loro latino e il loro greco al liceo.

Serve studiare greco per ideare un buon programma per computers? Sì. Perché? Non lo chiedete a una Bustina che dispone di poco spazio. Se non lo avete capito da soli, datevi al contrabbando di droga e vivrete felici e contenti.

C'era una volta un signore che si chiamava Adriano Olivetti, il quale , quando ancora i computers occupavano ciascuno una stanza - e ricordo che i tecnici del primo computer Olivetti, l'Elea, avevano perso giorni o settimane per programmarlo in modo che suonasse la prima strofa del "Ponte sul fiume Kwai" (cosa che adesso può fare anche un bambino), assumeva laureati in materie umanistiche, che magari avevano fatto una tesi (ma una buona rigorosa ricerca) su Aristotele o su Esiodo, poi li mandava a fare gavetta per sei mesi in fabbrica, perché capissero per chi dovevano lavorare, e alla fine ne faceva delle menti altamente produttive per un futuro tecnologico.

Italiani, allora, cercate certo di coltivare un poco di più le materie scientifiche, ma vi invito alle "humanitates": non abbandonate (e non condannate a morte) gli studi umanistici. Il futuro è di chi sappia con mente agile unire quelle che P. C. Snow (che non aveva capito gran che) chiamava le "due culture", ritenendole irrimediabilmente separate.

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Titolo: UMBERTO ECO. L'America? Chiedete a Letterman
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:22:56 am
La Bustina

L'America? Chiedete a Letterman

di Umberto Eco

Da là dell'oceano non c'è solo New York, con i suoi intellettuali e i suoi gusti raffinati.

C'è anche un Paese profondo che noi conosciamo poco. Ma per capirlo, basta guardare un famoso talk show Usa, ora anche su Rai 5

(12 dicembre 2011)

Ogni tanto si legge sui giornali quanto sia bravo quel conduttore di talk show americano che si chiama David Letterman - e che anche il pubblico italiano può vedere su Rai 5. Evidentemente chi scrive non ha mai visto quel personaggio fantastico che era Johnny Carson (e a cui credo si sia poi ispirato anche Maurizio Costanzo quando ha inaugurato il talk show all'italiana). Eppure Carson ha condotto il suo "The tonight show" della NBC dal 1958 al 1992. Era un grande spettacolo, pieno di ironia, di malizia e di strizzate d'occhio, e a confronto di Carson Letterman è più sbrigativo e legnoso.

L'ultima volta che l'ho visto, Letterman stava intervistando un signore che aveva scritto un libro sulla crisi del Medio Oriente, e aveva iniziato a interrogarlo sul perché (salvo le recenti insurrezioni dalla Tunisia all'Egitto) i popoli arabi si accontentavano di vivere sotto dittatori o sceicchi che si ingrassavano sul petrolio locale tenendo i loro sudditi in soggezione politica ed economica.

Come mai, aveva domandato Letterman, questa gente accetta così il proprio destino? Eppure i Padri Pellegrini di buona memoria, nel 1620, quando in Inghilterra si erano sentiti conculcati nei loro diritti di puritani, avevano allestito il Mayflower ed erano emigrati in America, fondando nel New England il primo nucleo di un paese democratico.

L'interlocutore era rimasto così sbigottito che aveva a fatica articolato una delle risposte più ovvie: i padri pellegrini erano quattro gatti (mi pare fossero 120) e avevano a disposizione un continente ancora vuoto, mentre i poveri musulmani sono milioni e milioni e quando gli va bene possono emigrare solo in paesi e città affollatissimi che stentano ad accoglierne qualche decine di migliaia. Io avrei aggiunto che i pellegrini erano un gruppo di persone abbastanza evolute e che avevano vissuto in una Inghilterra in cui da tempo (e l'Habeas Corpus sarebbe stato proclamato entro cinquant'anni) si aveva una nozione di cosa fossero i diritti politici di un cittadino. Come si fa a pensare che lo stesso possa accadere a sterminate popolazioni che non solo non saprebbero dove andare, ma anziché permettersi un Mayflower potrebbero al massimo affidarsi a qualche mascalzone di scafista; e che inoltre non si trovano in conflitto con la loro confessione religiosa e non hanno alcuna nozione di cosa sia una democrazia all'occidentale?

A sentire quel dialogo ero rimasto a bocca aperta. Ma come, un signore che dovrebbe aiutare con le sue interviste la comprensione del mondo in cui viviamo, ha delle idee così infantili su ciò che esiste al di là dei confini degli Stati Uniti?

Eppure Letterman stava esprimendo la condizione normale non dell'intellettuale americano, ma di quella massa immensa che vive al centro del continente e legge quotidiani locali dove si parla della nascita di un vitello con due teste nella contea, e si danno in modo vago notizie sul resto del pianeta, e dove il "New York Times" non arriva, o si può trovare a prezzo doppio solo in qualche posto di eccellenza; dove, ai tempi in cui le interurbane si facevano attraverso centralino, una signorina a cui qualcuno chiedeva di collegarlo con Roma, dopo aver chiesto di quale Rome si trattasse (perché ce n'è una in Georgia, una nello Stato di New York, una in Indiana, una nel Tennessee e qualche altra che mi sfugge) si era stupita che ne esistesse anche una in Italia.

D'altra parte qualche anno fa a un convegno a Firenze, una persona che lavorava non ricordo se al Pentagono o alla Casa Bianca, dopo aver apprezzato a cena un ottimo pesce, saputo che era stato pescato nel Mediterraneo, aveva chiesto se il Mediterraneo fosse un "salt lake", un lago salato.
Certe volte non si capisce come mai il politico americano medio (che talora può diventare Bush) commetta tanti errori quando si misura con l'Europa, l'Africa o l'Asia, come se il suo paese dominasse su zone che non conosce. Chiedetelo a Letterman.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. Ma glielo abbiamo chiesto noi
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2011, 07:07:31 pm
Ma glielo abbiamo chiesto noi

di Umberto Eco

Un ufficiale ferma una carrozza piena di gente: non la lascerà passare finché una prostituta a bordo non gli si concederà.

Lei non vuole, però i passeggeri insistono. E la convincono, per il bene comune.

Lei cede, la carrozza riparte. Ma nessuno la ringrazia.

Anzi. Ecco, a Monti è successo così

(23 dicembre 2011)

Montale e i sambuchi. Nell'amabile libretto "Montale e la Volpe" in cui Maria Luisa Spaziani ricorda episodi del suo lungo sodalizio con Montale, c'è un episodio che bisognerebbe far studiare nelle scuole. Dunque, Spaziani e Montale passano vicino a una fila di sambuchi, fiore che Spaziani aveva sempre amato perché "a guardarlo con attenzione vi si può scorgere uno stellato notturno, con piccolissimi bocci a raggiera, un incanto". E forse per questo, dice, fra le poesie di Montale che da sempre sapeva a memoria, privilegiava un endecasillabo di straordinario accento: "Alte tremano guglie di sambuchi".

Montale, vedendo Spaziani in estasi davanti ai sambuchi, dice "che bel fiore" e poi domanda cosa sia, strappando all'amica "un urlo da belva ferita". Ma come, il poeta aveva fatto del sambuco una splendida immagine poetica eppure non era in grado di riconoscere un sambuco in natura? Ma Montale si era giustificato dicendo: "Sai, la poesia si fa con le parole". Trovo l'episodio fondamentale per capire la differenza tra la poesia e la prosa.

La prosa parla di cose, e se un narratore introduce un sambuco nella sua vicenda deve sapere cosa sia e descriverlo come si deve, altrimenti poteva fare a meno di evocarlo. Nella prosa "rem tene, verba sequentur", possiedi bene quello di cui vuoi parlare e poi troverai le parole adatte. Manzoni non avrebbe potuto aprire il suo romanzo con quello splendido incipit (che è poi un novenario) seguito da una cantabile descrizione paesaggistica, se non avesse prima guardato a lungo e le due catene non interrotte di monti, e il promontorio a destra e l'ampia costiera dall'altra parte, e il ponte che congiunge le due rive, per non dire del Resegone. In poesia accade invece tutto l'opposto, prima t'innamori delle parole, e il resto verrà da sé, "verba tene, res sequentur".

Dunque Montale non avrà mai visto le minuscole biche, le alghe asterie, l'erbaspada, la siepe cimata dei pitosfori, la piuma che s'invischia, gli embrici distrutti, la cavolaia folle, il coro delle coturnici, la furlana e il rigodone, la rèdola nel fosso? Chissà, ma tale è il valore delle parole nella poesia, dove il rivo strozzato gorgoglia solo perché deve rimare con l'accartocciarsi della foglia, altrimenti avrebbe potuto - che so - gloglottare, borbottare, rantolare, ansimare o boccheggiare, mentre una pura necessità aurale ha voluto che il rivo mirabilmente gorgogliasse e "per sempre - con le cose che chiudono in un giro - sicuro come il giorno, e la memoria - in sé le cresce".

Monti e i viaggiatori per bene. Non ci sono rapporti tra il longilineo ed elegante professor Monti e una palla di sego, ma ne vedo tra la sua vicenda e la novella omonima di Maupassant. Tutti, spero, conoscono la storia: durante la guerra franco-prussiana viaggia una carrozza che, tra varie persone per bene, ospita una prostituta, procace e butirrosa. Già accettata a malapena dai compagni di viaggio, solo perché aveva offerto a tutti le provviste che recava in un canestro, era diventata responsabile dell'arresto della carrozza da parte di un ufficiale prussiano, che minacciava di non lasciar ripartire nessuno se la ragazza non gli concedeva le sue grazie. Pur avendole già concesse a molti, la patriottica "escort" si rifiutava di elargirle all'odiato nemico. La carrozza così rimane ferma, e a poco a poco i viaggiatori rimproverano a Palla di Sego di nuocere a tutti per uno sciocco puntiglio, e tra varie insistenze e ricatti morali la spingono a cedere. A malincuore, e per il bene comune, essa accetta. Consumato il mercimonio la carrozza riparte, ma a quel punto i viaggiatori incominciano a guardare con disprezzo la sciagurata che si è prostituita, anche se l'aveva fatto per cavar loro le castagne dal fuoco.

Mi pare stia succedendo la stessa cosa a Monti. Tutti (salvo la canea leghista) gli hanno chiesto di cavar le castagne dal fuoco anche rischiando l'impopolarità, per prendere quelle misure severe che altri non avevano saputo o voluto prendere. Ora che l'ha fatto, tutti incominciano a guardarlo male. Maupassant aveva capito molte cose.

   
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Titolo: UMBERTO ECO. Perché mi piace il Barbanera
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:06:51 pm
Perché mi piace il Barbanera

di Umberto Eco

Un lunario che risale al Settecento. Citato tra l'altro da D'Annunzio, Pirandello e Sciascia.

Pieno di fanfaluche astrologiche, ma anche di fantastici consigli. Forse ormai inutili, ma che ci fanno risentire in armonia con la natura

(11 gennaio 2012)

Quest'anno la crisi si è fatta sentire anche nell'universo delle agende: tra Natale e Capodanno non ho ricevuto la solita quantità di calendari, taccuini, volumi celebrativi e altro (che era poi così difficile smistare tra segretarie, portinai, figli e colf).

Le aziende hanno deciso di risparmiare. Unica eccezione il Barbanera, lo storico lunario che risale al Settecento e continua a uscire tradizionalmente a Foligno. Anzi l'editore Campi mi ha anche fatto pervenire una raffinata serie di fascicoli e fogli cartonati con riproduzioni a colori dai Barbanera degli ultimi duecentocinquant'anni, e i dovuti commenti storici.

Di questo storico lunario hanno sentito parlare anche coloro che non l'hanno mai sfogliato, trovandolo magari citato in D'Annunzio ("La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l'Odissea o l'Iliade, o la Bibbia... Il libro del mio capezzale è quello ove s'aduna "il fiore dei Tempi e la saggezza delle Nazioni": il Barbanera" (Lettera al parroco di Gardone, 27 febbraio 1934), oppure in Capuana, o in Pirandello, o in Sciascia. E dei Barbanera aveva parlato con la sua solita insaziabile curiosità Piero Camporesi in un articoletto del 1982, "Requiem per un lunario" (ora ne "Il governo del corpo", Garzanti 1995).

"Questi ultimi esemplari del vecchio colportage sono quasi del tutto scomparsi... La vecchia Italia dei paesi e delle appartate province si dissolve con loro e con loro s'inabissa un mondo antico nel quale essi svolgevano una fondamentale funzione di collegamento fra le classi popolari, specialmente contadine, e la tipografia per le masse semianalfabete alle quali offrivano, insieme ai pianeti della fortuna e al libro dei sogni (microtalismanî di speranza spicciola), almanacchi e lunari indispensabili a prevedere i segreti del futuro anno, utili a ricordare le opere e i giorni del calendario agricolo e preziosi magazzini di notizie e di curiosità d'ogni genere...".

Camporesi lamentava che "con lo sprofondarsi del vecchio mondo incominciano a diventare incomprensibili ai lettori tutti quei tradizionali elementi portanti dei vecchi lunari... di derivazione colta e liturgica come il calcolo dell'epatta, il computo ecclesiastico, le quattro tempora... Le previsioni meteorologiche anticipate mese per mese per tutta la durata dell'anno, agganciate al minuto calendario dei lavori agricoli, interessano sempre meno una società ormai urbanizzata anche nelle campagne, un mondo coperto, protetto, artificiale che guarda il cielo soltanto per caso e distrattamente...". Camporesi non ignorava che alcuni lunari continuassero a uscire, ma lamentava che il loro "processo degenerativo" fosse visibile "non solo nello spazio strabocchevole concesso alla moda ossessiva dell'oroscopo... ma anche nella presentazione di rubriche gastronomiche, un'altra delle piaghe dei nostri tempi", in cui si suggeriva "a quel che resta dell'Italia contadina il pollastro all'indiana o la torta di ciliege alla tedesca".

Ora è vero che il Barbanera 2012 abbonda in fanfaluche astrologiche (ma non lo fanno persino i grandi quotidiani?) però insegna anche a fare la polenta con lenticchie. E vorrei che i giovani cittadini d'oggi, che forse non hanno mai visto un bue e ignorano l'esistenza dell'eucalipto, possano incantarsi in consigli d'altri tempi, non dico solo come si calcola l'epatta, ma su come si deve lavare un capo che presenta un buco (bisogna prima rammendarlo, altrimenti la centrifuga rende il buco più grande - ma ormai un capo con un buco non lo si butta via per comperarne uno nuovo?), su come si deve stare attenti in gennaio alla rinite dei gatti, come curare i reumatismi con olio d'eucalipto, come coltivare sul balcone piante resistenti al freddo (aquilegia, campanula, ciclamino, erica, genziana eccetera), come mettere a dimora i bulbi di aglio, perché i piselli si debbano seminare in marzo, la rucola in aprile o la malva in giugno. Tutti consigli che (con cento altri) ci fanno risentire in armonia con la natura, e riscoprono il sapere dei nostri nonni - che non era tutto da buttar via.

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Titolo: UMBERTO ECO. In ricordo di un maestro della memoria
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 12:03:40 am
Opinione

In ricordo di un maestro della memoria

di Umberto Eco

Paolo Rossi è stato un pioniere della mnemotecnica.

E ci ha messo in guardia dai rischi della "dimenticanza culturale": bisogna evitare che l'eccesso di sapere porti a cancellare il passato

(19 gennaio 2012)

E' scomparso Paolo Rossi (e, come talora firmava per esteso, Paolo Rossi Monti). Un amico e, per nove anni di differenza, un giovane maestro che ho sempre ammirato. E' stato uomo schivo e dedito con assoluta riservatezza alla vita accademica, per cui la sua scomparsa non ecciterà le emozioni delle folle, ma colpisce profondamente amici, colleghi, studenti e studiosi di tutto il mondo. Era di quegli italiani che non vanno in televisione ma incidono sul proprio tempo.

E' stato un grande studioso della memoria. Anzi, se mi è permesso, "il" grande studioso della memoria perché il suo "Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz", era stato pubblicato da Ricciardi nel 1960, ma solo nel 1966 era apparso il ben più noto "L'arte della memoria" di Frances Yates, libro certamente affascinante dove l'autrice paga in prefazione il dovuto omaggio al suo predecessore, ma in modo abbastanza stitico. Peccato, in questo campo Rossi era stato un pioniere.

Un pioniere, dico, in quella immensa produzione di trattati sulla mnemotecnica, ovvero sulle arti per conservare e preservare la memoria, che in tempi antichi (prima dell'invenzione del libro a stampa, ma anche prima dell'apparizione di cassette registrate e memorie elettroniche), erano stati l'unico modo con cui gli uomini di cultura potevano ricordare quello che altrimenti avrebbero dimenticato.

Ma Rossi, nei suoi scritti degli ultimi anni, si era preoccupato non della memoria degli antichi, bensì della nostra. Vorrei rimandare a due dei suoi ultimi scritti ("La storia della scienza: la dimenticanza e la memoria", in Lina Bolzoni, "Memoria e memorie", Firenze, 1998, e "La memoria, le immagini, l'enciclopedia", in Pietro Rossi "La memoria del sapere", Bari, 1998). Rossi ben sapeva che con l'invenzione della stampa il timore di non ricordare per indebolimento della memoria biologica si trasforma nel timore di non ricordare per il timore dell'eccesso di memoria culturale (per cui l'invenzione della stampa non solo mette a disposizione una enorme quantità di materiale testuale, ma ne rende più facile l'accesso a chiunque).

Una delle manifestazioni più drammatiche di questa sindrome è certamente la "Seconda considerazione inattuale" di Nietzsche, sull'utilità e sul danno degli studi storici per la vita. Il testo si apre proprio con una dichiarazione che sembra essere un'altra delle fonti di Funes immaginato da Borges che, per eccesso di memoria, era ormai incapace di ragionare: "Immaginate l'esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l'una dall'altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire... Per ogni agire ci vuole oblio come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità". Di qui l'analisi del danno dell'eccesso di studi storici e l'appello ai giovani affinché elaborino un'arte della dimenticanza.

A quasi un secolo e mezzo di distanza dal testo nietzschiano la dimenticanza culturale si è perfezionata, purtroppo sino all'eccesso. Non diremo dei giovani liceali che non ricordano più chi fossero De Gasperi o Moro, ma Rossi aveva scritto su come si procedeva alla cancellazione del passato "bibliografico" anche nei lavori accademici, per cui ormai (almeno nell'ambito delle scienze esatte) si decide che non solo le idee provate errate ma persino gli sforzi e i procedimenti messi in opera per arrivare a quelle considerate giuste, vengono espulsi dall'enciclopedia specializzata di quella tale scienza perché inutili, e ormai in certi settori disciplinari si arriva a non prendere in considerazione ogni contributo pubblicato prima degli ultimi cinque anni.

Di questa tragica situazione qualsiasi studioso è certamente conscio, ma vi soggiace. Grazie a Paolo Rossi che è stato l'ultimo dei "guru" a metterci in guardia.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. Dove andremo a finire?
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2012, 12:00:00 am
Opinione

Dove andremo a finire?

di Umberto Eco

Al di là delle cupe profezie che si ripetono, il mondo va davvero alla rovescia.

I palazzi davanti al Colosseo, per esempio, pare siano fatiscenti: li danno via per quattro soldi a gente che neppure se ne accorge

(02 febbraio 2012)

Primo pensierino. Non parliamo della maledizione dei Maya, ma certamente i giornali, che stanno sempre più citando Cassandra, ci annunciano di giorno in giorno un domani sempre più cupo, fatto di straripamento degli oceani, declino delle stagioni e (al più presto) il default; tanto che un ragazzino decenne figlio di miei amici, all'ascoltare i genitori che lo informavano sui destini del mondo, si è messo a piangere e ha domandato: "Ma proprio non c'è niente di bello nel mio futuro?".

Per consolarlo potrei citare numerosi e assai foschi vaticini sugli anni a venire, consueti nei secoli passati. Ecco un brano da Vincenzo di Beauvais (XIII secolo): "Dopo la morte dell'Anticristo... il giudizio finale sarà preceduto da molti segni che ci sono indicati dai Vangeli... Nel primo giorno il mare si alzerà di quaranta cubiti sopra le montagne e si ergerà dalla sua superficie come un muro. Nel secondo sprofonderà tanto che a stento si potrà vedere. Nel terzo i mostri marini apparendo sulla superficie del mare manderanno ruggiti fino al cielo. Nel quarto il mare e le acque tutte prenderanno fuoco. Nel quinto le erbe e gli alberi manderanno una rugiada di sangue. Nel sesto crolleranno gli edifici. Nel settimo le pietre cozzeranno fra di loro. Nell'ottavo ci sarà un terremoto universale. Nel nono la terra sarà livellata. Nel decimo gli uomini usciranno dalle caverne e andranno vagando come impazziti senza potersi parlare. Nell'undicesimo risorgeranno le ossa dei morti. Nel duodecimo cadranno le stelle. Nel decimoterzo moriranno i viventi superstiti per risorgere coi morti. Nel decimoquarto cielo e terra bruceranno. Nel decimoquinto ci sarà un cielo nuovo e una terra nuova e tutti risorgeranno". Come si vede ci sono già tutte le alterazioni climatiche e gli tsunami che ancora ci minacciano.

Saltando sei secoli di ferali annunci, ecco Balzac, nel 1836: "L'industria moderna, che produce per le masse, sta distruggendo le creazioni dell'arte antica, le cui opere avevano un'impronta personale per il consumatore così come per l'artigiano. Oggi abbiamo dei "prodotti", non abbiamo più "opere"". Tra i "prodotti" ormai privi di ogni valore artistico, che Balzac minacciava, Leopardi stava scrivendo proprio in quell'anno "La ginestra", Manzoni poneva mano alla seconda stesura dei "Promessi sposi", due anni dopo Stendhal avrebbe scritto "La certosa di Parma", tre anni dopo Chopin componeva la Sonata in si bemolle minore opera 35, venti anni dopo Flaubert pubblicava "Madame Bovary", mancavano circa trent'anni all'apparizione degli impressionisti e più di quaranta alla pubblicazione dei "Fratelli Karamazov". Come si vede, anche in passato si paventava troppo il futuro.
Secondo pensierino. Ma forse, ripensandoci, "mala tempora currunt" davvero se, come vuole la tradizione, uno dei tipici segnali della fine dei tempi è il fatto che ormai il mondo va alla rovescia. Pensate, una volta i ricchi abitavano nel centro di Roma in lussuosi palazzi e i poveri nelle periferie più desolate; oggi i palazzi che fronteggiano il Colosseo pare siano fatiscenti, col cesso sul ballatoio, e li danno via per quattro soldi, anzi, li regalano a gente che neppure se ne accorge. Immagino che i politici corrotti vadano ad abitare al Quarticciolo.
Ieri i poveri viaggiavano in treno e solo i ricchi si permettevano l'aereo: oggi gli aerei costano quattro soldi (i più a buon mercato assomigliano ai carri bestiame del tempo di guerra) mentre i treni diventano sempre più cari e più lussuosi, col bar riservato solo alle classi egemoni.

Una volta i ricchi andavano a Riccione, e nel peggiore dei casi a Rimini, pur di porre i malleoli nell'Amarissimo, mentre nelle isole dell'Oceano Indiano vivevano popolazioni miserabili o vi venivano deportati gli ergastolani. Oggi alle Maldive vanno solo i politici di rango e a Rimini, ormai, soltanto mugiki russi, appena sottrattisi alla schiavitù della gleba. Dove andremo a finire?

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Titolo: UMBERTO ECO. Messaggi ai cerebrolesi
Inserito da: Admin - Febbraio 25, 2012, 04:31:32 pm
Opinioni

Messaggi ai cerebrolesi

di Umberto Eco

Non è diseducativo "raccontare" i libri. Purché chi lo fa li abbia letti.

Il "mediatore" può invogliare alla lettura anche persone che altrimenti non si sarebbero azzardate ad affrontare i classici

(16 febbraio 2012)

Sul sito de "Il fatto quotidiano" trovo un pezzo tutto sommato divertente di Diego Marani che s'intitola "I Karamazov spiegati da Topo Gigio" e continua parlando di una serie di libri che venivano allegati a "Repubblica". Ecco l'inizio: "Nel trionfo dell'universale ignoranza sempre più i libri non si leggono ma si guardano solo da fuori e così infuria la moda del "facilitato per non intelligenti". "Don Giovanni" raccontato da Alessandro Baricco, "I promessi sposi" raccontato da Umberto Eco (due dei classici allegati a "Repubblica"), il lettore del tempo dell'iPad non è capace di leggersi i libri da sé: ha bisogno dello spiego. Così è nata la nuova letteratura assistita per cerebrolesi". Pensando che questi libri siano dovutamente purgati per piacere all'utente di Internet, Marani immagina che Zeffirelli scriva un "Anna Karenina" in cui Anna non prende mai il treno e che ne "Il processo" raccontato da Roberto Saviano, Josef K. diventi un pentito, patteggi la pena e ammetta di essere uomo di Cosentino Marani ha persino inventato un gustoso linguaggio internazionale, l'Europanto, e quindi non è nuovo a ingegnose invenzioni. Per cui non sospetteremo che anche lui abbia una lesione cerebrale, ma colpisce il fatto che parli di libri che evidentemente non ha mai visto. Altrimenti si sarebbe accorto che sono concepiti per bambini (non cerebrolesi) dai sei ai dodici anni, i quali (tranne casi di straordinaria precocità) non sono sospettabili di leggere "Guerra e Pace". Il mio riassunto del racconto manzoniano inizia con un appello collodiano ai "miei piccoli lettori" e quindi non ha nulla a che vedere coi famosi romanzi sintetizzati in cui eccelleva il "Reader's Digest".

Se avevo accettato di tentare l'esperimento manzoniano era perché avevo il lieto e riconoscente ricordo della "Scala d'Oro" una collana Utet della metà del secolo scorso (tra l'altro divinamente illustrata) dove scrittori capaci di scrivere in un bell'italiano raccontavano a bambini e ragazzi (le serie erano divise per fasce d'età, le favole di Grimm per i più piccini e "I miserabili" per i più grandicelli) i grandi capolavori di tutti i tempi. Ero un ragazzo fortunato a cui il padre aveva regalato "I promessi sposi" prima che la scuola glielo rendesse odioso, e quindi quello lo avevo letto in originale, ma avevo avvicinato altri grandi capolavori proprio attraverso i volumi dalla "Scala d'oro". E siccome erano fatti così bene che, anziché esimere dal leggere un giorno gli originali, ne facevano venire la voglia, quando poi ho letto quei testi nella versione completa mi sono accorto che "La scala d'oro" aveva reso bene il senso di quelle opere. Anche se, in periodo fascista in cui non si poteva parlare di suicidi sul giornali, ne "I miserabili" Javert, anziché gettarsi a fiume, andava a dare le dimissioni, ma il suo dramma morale era espresso ugualmente molto bene.

Perché Marani analizza così argutamente libri che non ha mai visto? E' vero che Pierre Bayard aveva pubblicato un divertente ma non mendace libretto (che avevo recensito in una Bustina) sul fatto inconfutabile che noi siamo capaci di parlare di libri che non abbiamo letto: una vita intera non basterebbe a leggere tutti quelli che sono stati scritti, e tuttavia ci accade di accennare, senza dire castronerie, al "Kamasutra" o alla "Tebaide" di Stazio. Ma Bayard non aveva giustificato coloro che "scrivono" di libri che non hanno letto.
Marani, proseguendo nelle sue riflessioni sulla decadenza dei costumi, minaccia (e, avendo io letto lui, lo cito letteralmente) "I fratelli Karamazov" raccontati da Topo Gigio, "Alla ricerca del tempo perduto" raccontato da Aldo, Giovanni e Giacomo, "L'uomo senza qualità" raccontato da Milly Carlucci, "Finnegans wake" raccontato da Christian De Sica, "Com'era verde la mia vallata" raccontato da Calderoli.

Beh, Calderoli a parte, non riuscirei a condannarli, purché il libro da divulgare ai cerebrolesi l'avessero almeno letto - con indubbio vantaggio per la loro crescita morale e civile.

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da espresso.it


Titolo: UMBERTO ECO. Lo spinacio è più lento della luce
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 04:17:00 pm
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La Bustina

Lo spinacio è più lento della luce

di Umberto Eco

Ovvero: considerazioni sugli errori e sulla nascita dei miti, da Adamo ed Eva al Cern di Ginevra.

Passando per la verdura preferita da Braccio di Ferro

(07 marzo 2012)

I neutrini non vanno più veloci della luce. O almeno ce lo dice "Science": l'errore stava in una banale connessione in fibra ottica tra il ricevitore Gps e il computer usato per calcolare il tempo impiegato dai neutrini a viaggiare dal Cern di Ginevra al Laboratorio del Gran Sasso. Però leggo anche che si è intenzionati a ripetere l'esperimento per vedere se sia davvero vero che non era vero. Vedremo.

Se i neutrini non sono più veloci della luce mi colpisce scoprire che gli spinaci di cui si nutriva Popeye (Braccio di Ferro) non contengono tutto il ferro di cui si diceva. La persuasione che Popeye dovesse la sua forza al ferro contenuto negli spinaci aveva fatto crescere, specie presso i bambini, il consumo di questo ortaggio del 33 per cento, a tal punto che i coltivatori e venditori di spinaci avevano eretto statue in onore di Popeye a Crystal City (Texas), a Chester (Illinois), a Springdale e ad Alma (Arkansas). Ora un articolo di Sergio Della Sala e Stefania de Vito su "Query" mi rivela che, secondo una tabella del Dipartimento dell'Agricoltura degli Usa, cento grammi di spinaci contengono 2,7 milligrammi di ferro mentre cento grammi di fegato di pollo ne contengono 11,63. Pertanto, se Braccio di Ferro avesse inghiottito fegato di pollo con la stessa ingordigia con cui tracannava il contenuto di un barattolo di spinaci avrebbe potuto prendere Superman per una caviglia e lanciarlo in orbita.

Il fatto sarebbe che - secondo una tesi sostenuta a lungo, e nota in ambiente scientifico come "Spides" (Spinach Popeye Iron Decimal Error Story) - Segar, l'autore di Popeye, credeva al ferro degli spinaci a causa di una virgola messa male. Si diceva che nel 1870 tale dottor von Wolff aveva pubblicato una tabella in cui la virgola decimale appariva nel posto sbagliato, e l'errore era stato corretto solo nel 1930 (salvo che Segar non lo sapeva).

Però pare che anche questa ipotesi sia falsa. Non solo, ma i filologi ci dicono che nei fumetti di Popeye non si era mai affermato che gli spinaci contenessero ferro, bensì che contenevano vitamina A, e si veda in proposito, tra gli innumerevoli testi che potreste trovare su Internet, l'articolo del dottor Mike Sutton, ("Spinach, Iron and Popeye") sullo "Internet Journal of Criminology" del 2010 (1-34).
La storia non è irrilevante, visto l'affare miliardario che ne era conseguito: l'episodio ci dice come possano nascere e crescere i miti.

Altre spigolature. Leggo sullo stesso numero di "Repubblica" in cui si dice che i neutrini sono praticamente delle tartarughe, un vasto dibattito sulla necessità del multilinguismo (con articoli di Stefano Bartezzaghi e Maria Novella De Luca). Direte che è ovvio, ai giorni nostri, ma per lungo tempo si era ritenuto che per superare la Babele delle lingue fosse necessario inventare una lingua veicolare universale, e molte ne sono state proposte (alcune ottime come l'Esperanto), salvo che alla fine si è imposta una lingua naturale come l'inglese. Ora questa idea di una lingua universale nasceva da un altro mito millenario, e cioè che fosse esistita alle origini una lingua di Adamo, una lingua perfetta, che era andata perduta con lo scandalo della torre di Babele. Da cui la ricerca spasmodica di questa lingua perduta, o di qualcuna che la sostituisse.

Ora sappiamo che di lingue perfette non ne esistono e che le lingue nascono per crescita spontanea a seconda dei paesi. Però c'è una bella storia raccontata da un pensatore arabo dell'XI secolo, Ibn Hazm. Esisteva all'inizio una lingua data da Dio, ma questa lingua comprendeva tutte le lingue, che solo dopo si sarebbero separate. Il dono di Adamo era dunque il poliglottismo, e per questo tutti gli uomini sono capaci di comprendere la rivelazione in qualsiasi lingua sia espressa.

Ecco un bel mito per incoraggiare il multilinguismo. E cominciando presto, dall'età in cui si diventa multilingui senza fatica.


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Titolo: UMBERTO ECO. Il governo Monti non è una sospensione delle libertà democratiche
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 12:08:51 am

La Bustina

Leggiamoci, prego, la Costituzione

di Umberto Eco

Il governo Monti non è una sospensione delle libertà democratiche.

È un caso previsto dai nostri costituenti.

A sostenere il contrario sono gli stessi che da anni parlano di Seconda Repubblica. Sbagliando

(29 marzo 2012)

Nel corso delle discussioni sul governo Monti e tra le varie e giuste preoccupazioni per la ricomparsa dei partiti nel 2013, viene da taluni agitato un fantasma, quello che l'esistenza di un governo tecnico costituisca una sospensione delle libertà democratiche.

Ricordo un'intervista, due mesi fa, con un giornalista inglese, animato da diffidenza sia verso l'Unione europea che verso l'euro, il quale si scandalizzava per un governo i cui membri non erano stati eletti dal popolo. Gli avevo fatto notare che in America Kissinger non era stato eletto dal popolo, e dal popolo non sono eletti i membri della corte suprema, che in fin dei conti il nostro presidente della Repubblica è pur sempre nominato dal parlamento mentre la regina Elisabetta no (e tuttavia nessuno pensa che in Gran Bretagna la democrazia sia sospesa), che in Italia c'erano stati altri governi tecnici (per esempio Dini e Ciampi), proposti da un presidente della Repubblica eletto dal parlamento, a sua volta eletto dal popolo e investito della potestà di dare o negare la fiducia al governo proposto dal presidente della Repubblica. Non era convinto, e mi sono detto che non conosceva la nostra costituzione, e pazienza, gli inglesi sono sempre poco informati circa quel che accade sul continente, dove ci si ostina a guidare a destra e a mangiare le rane.

Ma queste cose si dicono anche in Italia, e da parte di parlamentari che la costituzione dovrebbero conoscere (e su di essa, prima di essere ammessi in parlamento, dovrebbero sottoporsi a un esame, così come i tassisti debbono fare per la toponomastica cittadina, altrimenti niente licenza). Se leggessero la nostra costituzione troverebbero quello che dicevo al mio interlocutore inglese, che per l'articolo 83 "il presidente della Repubblica è eletto dal parlamento in seduta comune dei suoi membri", che per l'articolo 92 "il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri", e che per l'articolo 94 "il governo deve avere la fiducia delle due Camere". Però scoprirebbero di più, e cioè che per l'articolo 64: "I membri del governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono".

Ohibò, per i costituenti era così ovvio che non fosse necessario, per essere membro del governo, essere eletto dal popolo, che si sono solo preoccupati di precisare che in ogni caso i membri del governo dovrebbero avere la decenza di partecipare ai lavori del parlamento e addirittura possono esservi obbligati. Ovviamente i costituenti non pensavano che un governo "tecnico" non fosse un governo "politico", ma davano per scontato che tuttavia non fosse composto da deputati o senatori.

Quindi il dibattito sulla presunta sospensione della democrazia è opera di signori che non hanno mai letto la Costituzione. E sono probabilmente gli stessi che da anni continuano a parlare (sostenuti da molti giornalisti, purtroppo) di Seconda Repubblica. E' una scopiazzatura dal lessico politico francese, ma in Francia quando si parla di Quinta Repubblica si pensa al sistema presidenziale dovuto a De Gaulle. E questa Repubblica era quinta perché rimpiazzava la Quarta, che si era sostituita alla Francia di Vichy, la quale a sua volta aveva liquidato la Terza Repubblica, sorta dopo la caduta del Secondo Impero; e la Terza sostituiva la Seconda, nata con la rivoluzione del 1848 e il crollo dei vari regimi monarchici che avevano seguito il collasso della Prima, affossata da Napoleone e dal Primo Impero.

Dunque le Repubbliche (in Francia) si contano a seconda dei mutamenti costituzionali che hanno seguito sconvolgimenti totali dello Stato. In Italia non è accaduto niente di simile, i politici e la costituzione della cosiddetta Seconda Repubblica sono gli stessi della prima, e chi parla di Seconda Repubblica si riempie da anni la bocca di aria fritta. E vogliono persino modificare una costituzione che non hanno mai letto.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. Nessuno è ateo in trincea
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 04:13:25 pm
Nessuno è ateo in trincea

di Umberto Eco

E' uno dei più celebri aforismi di Marcello Marchesi, intellettuale, poeta, scrittore e comico di cui ricorre il centenario della nascita.

Era il re delle battute fulminanti e un genio del gioco di parole

(17 aprile 2012)

Ho letto recentemente due articoli. Uno, di Sergio Romano, rievocava quel personaggio di diplomatico e parodista che era stato Paolo Vita-Finzi. La sua "Antologia apocrifa" era stata pubblicata da Formiggini nel 1927 e nel 1961 da Ceschina. Ne ero stato totalmente conquistato e, più tardi (lavorando alla Bompiani), avevo pubblicato "Quasi come" (1976), un'antologia di parodie e di imitazioni di Guido Almansi e Guido Fink, che di Vita-Finzi riportava ben otto testi. Risultando poi l'opera di Vita-Finzi ormai introvabile, sempre da Bompiani ne avevo consigliato la riedizione nel 1978.

Di quella cinquantina di parodie io amo particolarmente "Convalescenza" di Ungaretti, non tanto per la poesia ("Rilievito - docilmente - a questa brezza - fievole") ma per la nota finale: "Di questa poesia sono stati stampati dieci esemplari numerati su carta del Giappone, con ritratto dell'Autore e riproduzione del manoscritto autografo, che costituiscono l'edizione originale; 30 esemplari su carta Fabriano, e 50 esemplari su papier d'Arches. Precede uno studio di 148 pagine di Alfredo Gargiulo. La poesia ha inoltre un commento di Paul Valéry e note esplicative di Valéry Larbaud. Seguono una versione in francese di Lionello Fiumi e uno studio sulle fonti e sulle varianti".

Però il pezzo più celebre "L'io e il non io", è una parodia di Giovanni Gentile. Cito le ultime quattro righe: "Ma perché questo è l'Io, questa è la sua legge: che esso non possa essere Io senza essere non-Io, e per essere Io deve negare in sé quella identità che sarebbe la negazione di sé, in quanto egli attualmente è altro da sé". La cosa straordinaria è che poi si era scoperto che tutto il pezzo non era una parodia ma la riproduzione di tre pagine autentiche di Gentile.

Ho letto poi qualche articolo per celebrare il centenario della nascita di Marcello Marchesi. Potrebbe apparir fuori luogo ricordarlo insieme a Vita-Finzi, che era un raffinato e umbratile diplomatico, mentre Marchesi scriveva per le riviste musicali e appariva in televisione, tra fanciulle procaci, come "signore di mezza età". Ma era uomo più profondo del mestiere che si era scelto. Di lui, sempre lavorando in casa editrice, avevo pubblicato nel 1971 "Il malloppo", una sorta di monologo ininterrotto fatto di battute fulminanti.

Certamente alcune erano tratte dall'immenso repertorio del comico corrente, e rimane indeciso se fosse davvero sua "Diamo a Cesare quel che è di Cesare: ventitre pugnalate". Ma basterebbe ricordare (che so) "Il sesso è sporco? basta lavarlo. L'importante è che la morte ci trovi vivi. Domine subisco. Dal mio fioraio le corone da morto le fa la nonna, così si abitua all'idea. Nessuno è ateo in trincea".

Nel 1977 Marchesi mi aveva parlato di un altro suo progetto, e avevo avuto l'impressione che il libro di Marchesi, che doveva intitolarsi "L'alibi", intendesse narrare una storia "mia". Sta di fatto che da gran tempo registravo sui miei taccuini quello che avevo fatto e dove ero nel tal giorno (come "ristorante con Giuseppe", "visto 'Rio bravo'", "convegno a Roma"), e rileggendo quelle note telegrafiche mi ero reso conto che avevo un alibi di ferro per ogni delitto famoso, per il presunto omicidio di Raoul Ghiani (non potevo essere su quel treno quella notte perché ero a teatro con vari amici), per la strage di piazza Fontana (ero addirittura a New York) e per vari altri crimini, durante i quali alla data fatale stavo facendo una conferenza (che so) a Battipaglia. Ma quello che per me era un gioco, per Marchesi (citava un aforisma non suo, "essere innocenti è pericoloso perché non si hanno alibi") era diventata un'ossessione.

Quell'ossessione poteva diventare un grande romanzo e avevo esortato entusiasticamente Marchesi a scriverlo. Ma Marchesi non l'ha poi scritto e aveva certamente un alibi. Era morto l'anno dopo, nel fiore della mezza età, tuffandosi da uno scoglio.


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Titolo: UMBERTO ECO. Niels Klim
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:47:33 pm
Niels Klim

Porta a Porta

di Umberto Eco

In un classico della letteratura utopica le dispute retoriche sono come i combattimenti fra galli, con tanto di istigatori che pungolano i contendenti ai fianchi. Sembra la descrizione di un talk show

(26 aprile 2012)

Quando mi sarò definitivamente stancato di cercare ogni quindici giorni argomenti di qualche attualità per questa rubrica, vorrei iniziare una serie di recensioni in ritardo, in cui possa parlare di libri usciti tanto tempo fa, come se fossero usciti oggi e fosse utile rileggerli. Per esempio mi è capitato di tirare fuori da un mio scaffale l'edizione 1745 del "Nicolai Klimii iter subterraneum" di Ludwig Holberg (la prima, che non ho, era del 1741, ma era uguale) per guardarne le curiosissime illustrazioni. Però (con molte più incisioni da una edizione posteriore) è più comodo leggerne la traduzione italiana, la prima dopo 250 anni ("Il viaggio sotterraneo di Niels Klim", Adelphi 1994).
L'opera del danese Holberg è un classico della letteratura utopica, dopo Tommaso Moro, Campanella e Swift. A differenza dei suoi predecessori l'universo che scopre Niels Klim non è sulla superficie ma all'interno della terra, che è cava (idea che avrebbe poi avuto molta fortuna nella fantasia di molti occultisti sino ai giorni nostri, passando persino per i nazisti), per cui dentro il nostro globo ruotano altri pianeti.

Lasciando perdere altre caratteristiche di quei luoghi, dove gli uomini hanno forma arborea, sono interessanti vari usi e costumi che Niels Klim trova singolarmente diversi da quelli terrestri (traendo ovviamente dalla differenza alcune moralità). Ecco un esempio.

"Fra le altre ottime regole del principato vi era la concessione di divertimenti innocui, nella convinzione che rafforzino l'animo e permettano di affrontare le attività meno piacevoli, allontanando le nubi scure e la malinconia, che sono fonte di inquietudini, disordini e cattivi propositi... Notai però con indignazione che annoveravano fra gli spettacoli e le commedie anche le dispute retoriche: in determinati periodi dell'anno i disputatori si affrontano a coppie come i gladiatori, quasi con le stesse regole con cui da noi si svolgono i combattimenti fra galli o animali feroci, con scommesse e un premio stabilito per i vincitori. Perciò i ricchi hanno l'abitudine di allevare i disputatori come da noi si allevano i cani da caccia... Un ricco cittadino di nome Henochi aveva accumulato in soli tre anni una gran fortuna, sommando i premi di un unico disputatore allevato a quello scopo... Con stupefacenti fiumi di parole quel campione abbatteva, costruiva, faceva quadrare il cerchio, strepitava con insidiosi sillogismi e sofismi dialettici, e con distinzioni, eccezioni e limitazioni si prendeva gioco di qualsiasi oppositore e lo riduceva facilmente al silenzio. Talvolta assistetti alle dispute, ma non senza amarezza, poiché mi sembrava crudele e vergognoso trasformare in spettacoli quegli esercizi tanto nobili, che solitamente costituiscono un vanto per i nostri ginnasi... A irritarmi non era tanto il fatto in sé, quanto il modo in cui si svolgeva: venivano assoldati degli istigatori che non appena vedevano languire l'impeto della disputa pungolavano i contendenti ai fianchi per spronarli e destarli dal loro torpore...

Oltre a questi disputatori, che i sotterranei in tono di scherno chiamano Masbaki, ovvero litiganti, gareggiavano quadrupedi selvatici e domestici, e uccelli ferocissimi esibiti agli spettatori per danaro. Chiesi al mio ospite come potesse un popolo dotato di tanto giudizio relegare fra i giochi circensi pratiche così nobili, che favoriscono lo sviluppo della capacità oratoria, la ricerca della verità e la crescita intellettuale. Mi rispose che una volta, nei secoli barbari, queste competizioni erano molto stimate, ma l'esperienza aveva insegnato che le dispute possono nascondere la verità e rendere sfrontata la gioventù... I risultati poi dimostravano che con il silenzio, la lettura e la meditazione i giovani imparano più rapidamente".

Sorridendo per queste favole, ho chiuso il libro e sono tornato alla realtà mettendomi a guardare alla tv un bel dibattito politico-giudiziario, con onorevoli, avvocati e giornalisti che, pungolati dal conduttore, s'interrompevano a vicenda.
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Titolo: UMBERTO ECO. Perché la Lega fa orrore
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:36:27 am
Razzismo

Perché la Lega fa orrore

Umberto Eco

Gli italiani si stanno scandalizzando per quattro diamanti e un paio di diplomi albanesi.

Ma i veri motivi per cui disprezzare il partito di Bossi erano e sono molto più gravi.

E non bisogna dimenticarlo. Mai

(10 maggio 2012)

Il lettore che, in una grigia mattina di questo maggio piovoso, trovasse, abbandonato in treno e mancante della copertina e delle prime pagine questo libro (romanzo?) di Furio Colombo, si chiederebbe perché l'autore si sia rimesso a fare Dickens, coi suoi ragazzini macilenti esposti a feroci punizioni corporali, voglia rievocare le vicissitudini del povero Remy di "Senza famiglia" nella tana del signor Garofoli, abbia scopiazzato le vicende dei "boveri negri" dell'ormai insopportabile "Capanna dello zio Tom" o, peggio ancora, si sia ridotto a presentare come attuali le storie del profondo sud americano ai tempi di Wallace, in cui le "bovere negre, sì badrone" venivano sbattute giù dai trasporti pubblici. Evvia, caro Colombo, viviamo in altri tempi - per fortuna!

Il nostro lettore proverebbe però un moto di sorpresa se poi ritrovasse il libro completo di copertina e prefazione, vedesse che è intitolato "Contro la Lega" (Laterza, per soli 9 euro tanti orrori da far impallidire Stephen King) e non contiene storie inventate bensì un puntiglioso resoconto di episodi di razzismo e persecuzione perpetrati in vari comuni amministrati dal noto partito. Sono episodi che Colombo in quanto deputato ha cercato spesso di denunciare in parlamento ricevendo una volta, dal deputato leghista Brigandì, come motivata contro-argomentazione, "Faccia da culo!" (sic).

In questo malauguratamente non-romanzo si racconta "una storia italiana, dove carabinieri e vigili urbani distruggono con le ruspe i campi nomadi, tra le due e le tre del mattino, terrorizzando i bambini" e dove a scuola i bambini sinti, anche se cittadini italiani, sono assegnati a classi separate e - come i bambini stranieri - restano a digiuno all'ora della mensa scolastica. Il libro comincia con la storia della famiglia Karis. Il padre, cittadino italiano da generazioni, viveva a Chiari facendo il ferrivecchi. Un'improvvida amministrazione di centro sinistra gli aveva assegnato un prefabbricato di tre stanze ma la successiva amministrazione padana nel 2004 (sindaco il senatore Mazzatorta) si era ripreso il terreno perché "era cambiato il piano regolatore": la casa dei Karis veniva abbattuta, il comune cancellava la residenza, i bambini non potevano più andare a scuola e l'intera famiglia si riduceva a vivere in una roulotte. Così che di fronte a questo inaccettabile caso di nomadismo i vigili urbani battevano nottetempo con mazze di ferro sul veicolo se il padre si era fermato per riposo o per fare pipì.


Ma il libro parla di ogni genere di extra comunitari. A Termoli i vigili urbani acciuffano un ambulante del Bangladesh, lo picchiano e lo rinchiudono nel portabagagli dell'auto di servizio. A Parma vigili urbani in borghese prendono Emanuel Bonsu, giovane nero che stava recandosi alla scuola serale, lo riempiono di botte e solo più tardi si accorgono che non spacciava affatto droga come avevano sospettato. Su un autobus di Varese un quattordicenne ordina a una coetanea con il velo di lasciargli il posto sull'autobus, la ragazza resiste, e lui e i suoi compagni la prendono a calci e a pugni. A Bergamo su un autobus una passeggera grida che le hanno rubato il cellulare, il controllore decide che il ladro non può essere che un ragazzo di colore, l'autobus viene fermato, il ragazzo spogliato nudo, il cellulare non viene fuori (evidentemente il ladro era un altro), ma gli trovano indosso settanta euro e il controllore sequestra la somma e la signora, grata, l'incassa come risarcimento.

Siamo appena a pagina 11 di questo non-romanzo e i capitoli seguenti spaziano delle sevizie subite in Libia da disperati che militari italiani hanno fermato in mare e restituito agli aguzzini di Gheddafi, alle accuse di "nasone" a Gad Lerner, in un crescendo di piacevoli e romanzesche atrocità.

E' curioso che gli italiani si stiano scandalizzando per quattro diamanti e due o tre diplomi a pagamento (caso mai laurearsi in Albania non è forse indice di scarso razzismo?) mentre da anni accettano che avvengano tutte queste cose, che il libro asciuttamente racconta.

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Titolo: UMBERTO ECO. Perché la Lega fa orrore
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:51:12 am
Razzismo

Perché la Lega fa orrore

Umberto Eco

Gli italiani si stanno scandalizzando per quattro diamanti e un paio di diplomi albanesi.

Ma i veri motivi per cui disprezzare il partito di Bossi erano e sono molto più gravi.

E non bisogna dimenticarlo. Mai

(10 maggio 2012)

Il lettore che, in una grigia mattina di questo maggio piovoso, trovasse, abbandonato in treno e mancante della copertina e delle prime pagine questo libro (romanzo?) di Furio Colombo, si chiederebbe perché l'autore si sia rimesso a fare Dickens, coi suoi ragazzini macilenti esposti a feroci punizioni corporali, voglia rievocare le vicissitudini del povero Remy di "Senza famiglia" nella tana del signor Garofoli, abbia scopiazzato le vicende dei "boveri negri" dell'ormai insopportabile "Capanna dello zio Tom" o, peggio ancora, si sia ridotto a presentare come attuali le storie del profondo sud americano ai tempi di Wallace, in cui le "bovere negre, sì badrone" venivano sbattute giù dai trasporti pubblici. Evvia, caro Colombo, viviamo in altri tempi - per fortuna!

Il nostro lettore proverebbe però un moto di sorpresa se poi ritrovasse il libro completo di copertina e prefazione, vedesse che è intitolato "Contro la Lega" (Laterza, per soli 9 euro tanti orrori da far impallidire Stephen King) e non contiene storie inventate bensì un puntiglioso resoconto di episodi di razzismo e persecuzione perpetrati in vari comuni amministrati dal noto partito. Sono episodi che Colombo in quanto deputato ha cercato spesso di denunciare in parlamento ricevendo una volta, dal deputato leghista Brigandì, come motivata contro-argomentazione, "Faccia da culo!" (sic).

In questo malauguratamente non-romanzo si racconta "una storia italiana, dove carabinieri e vigili urbani distruggono con le ruspe i campi nomadi, tra le due e le tre del mattino, terrorizzando i bambini" e dove a scuola i bambini sinti, anche se cittadini italiani, sono assegnati a classi separate e - come i bambini stranieri - restano a digiuno all'ora della mensa scolastica. Il libro comincia con la storia della famiglia Karis. Il padre, cittadino italiano da generazioni, viveva a Chiari facendo il ferrivecchi. Un'improvvida amministrazione di centro sinistra gli aveva assegnato un prefabbricato di tre stanze ma la successiva amministrazione padana nel 2004 (sindaco il senatore Mazzatorta) si era ripreso il terreno perché "era cambiato il piano regolatore": la casa dei Karis veniva abbattuta, il comune cancellava la residenza, i bambini non potevano più andare a scuola e l'intera famiglia si riduceva a vivere in una roulotte. Così che di fronte a questo inaccettabile caso di nomadismo i vigili urbani battevano nottetempo con mazze di ferro sul veicolo se il padre si era fermato per riposo o per fare pipì.


Ma il libro parla di ogni genere di extra comunitari. A Termoli i vigili urbani acciuffano un ambulante del Bangladesh, lo picchiano e lo rinchiudono nel portabagagli dell'auto di servizio. A Parma vigili urbani in borghese prendono Emanuel Bonsu, giovane nero che stava recandosi alla scuola serale, lo riempiono di botte e solo più tardi si accorgono che non spacciava affatto droga come avevano sospettato. Su un autobus di Varese un quattordicenne ordina a una coetanea con il velo di lasciargli il posto sull'autobus, la ragazza resiste, e lui e i suoi compagni la prendono a calci e a pugni. A Bergamo su un autobus una passeggera grida che le hanno rubato il cellulare, il controllore decide che il ladro non può essere che un ragazzo di colore, l'autobus viene fermato, il ragazzo spogliato nudo, il cellulare non viene fuori (evidentemente il ladro era un altro), ma gli trovano indosso settanta euro e il controllore sequestra la somma e la signora, grata, l'incassa come risarcimento.

Siamo appena a pagina 11 di questo non-romanzo e i capitoli seguenti spaziano delle sevizie subite in Libia da disperati che militari italiani hanno fermato in mare e restituito agli aguzzini di Gheddafi, alle accuse di "nasone" a Gad Lerner, in un crescendo di piacevoli e romanzesche atrocità.

E' curioso che gli italiani si stiano scandalizzando per quattro diamanti e due o tre diplomi a pagamento (caso mai laurearsi in Albania non è forse indice di scarso razzismo?) mentre da anni accettano che avvengano tutte queste cose, che il libro asciuttamente racconta.

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Titolo: UMBERTO ECO. Vi avviso che sono morto, ma è falso
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2012, 07:09:01 pm
Opinioni

Vi avviso che sono morto, ma è falso

di Umberto Eco

Su Internet si sta diffondendo la comunicazione sotto mentite spoglie. Così gli utenti non si fideranno mai.

Come accadde quando il Corriere pubblicò un articolo apocrifo di Pasolini

(24 maggio 2012)

 La settimana scorsa su Internet sono apparse centinaia di notizie sulla presunta morte di Gabriel García Márquez. Immediatamente dopo le stesse fonti riferivano che la notizia era stata data da me sul mio account Twitter. Immediatamente dopo, ancora la stesse fonti, e altre ancora, tra cui alcune autorevolissime, scoprivano che io non sono registrato su Twitter e che quindi quel mio indirizzo era falso. Se pure alcuni imbecilli che beccano la prima notizia e poi non controllano avessero continuato a moraleggiare sul mio presunto scherzo (si sa, conflitti tra scrittori) la maggior parte delle inchieste successive appurava che circolano in Internet anche altri indirizzi col mio nome senza che io ne sappia nulla.

Nulla di straordinario, voi potete registrarvi su Internet come "Leonardo da Vinci" e nessuno ci può far niente, figuratevi cosa accade con nomi di scrittori contemporanei. D'altra parte altri interventi ancora avanzavano l'ipotesi che l'autore della bufala fosse quel Tommaso De Benedetti già autore di colpi del genere, che architetta proprio per dimostrare (come pare abbia detto una volta al "Guardian") che "i Social Media sono la fonte meno verificabile del mondo". Che sia così lo si sapeva da quel dì, e l'hanno saputo i poveretti che, essendosi invaghiti per corrispondenza di una fanciulla che si diceva bellissima, hanno poi scoperto che si trattava di un anziano pensionato delle dogane affetto da Herpes Zoster. E gli unici che possono poi controllare davvero "de tactu" sono i pedofili, quando riescono ad agganciare un minorenne più credulo degli altri.
 
E' vita questa? No, e mi ricordo di un avvenimento alla fine degli anni Sessanta quando qualcuno (in tempi in cui non esistevano né e-mail né fax) aveva mandato per lettera un articolo al "Corriere della sera" a firma Pier Paolo Pasolini, e l'articolo era stato pubblicato. Scandalo, era un falso e una burla, Pasolini non ne sapeva niente. La prima reazione era stata di terrore: come avrebbe fatto da quel momento ogni giornale a essere sicuro che l'articolo che riceveva, se non era consegnato di persona, fosse davvero di colui che lo firmava? Ma all'epoca avevo scritto un articolo in cui dicevo che non ci si doveva preoccupare. La società, anche se accetta l'idea che esistano bugiardi e falsari, si basa sul mutuo accordo per cui in generale chi parla dice la verità. Altrimenti non potremmo prendere un dato treno per Roma perché l'orario ferroviario ci avrebbe mentito, quando si chiamassero i vigili del fuoco per un incendio quelli non verrebbero perché sospetterebbero uno scherzo, quando entriamo in una banca potrebbe trattarsi di un luogo fittizio opportunamente mascherato (come la sala corse del film "La stangata"), se chiamiamo un medico si potrebbe presentare un laureato in Albania, e potrebbe darsi che avesse mentito nostra madre quando ci ripeteva che eravamo nati dal ventre suo (per non dire della perplessità della Vergine Maria di fronte a quell'androgino con ali di cartone che le si era insinuato nella loggetta).

Invece, scrivevo, la società sa che il mutuo impegno alla verità è essenziale a tutti, e se crollasse ciascuno di noi sarebbe perduto. Ecco perché, commentavo, scherzi come quello del falso Pasolini si fanno una volta ma poi, per una sorta di istinto sociale, si smette. E così in effetti è stato. Salvo che ora con Internet si sta diffondendo una sorta di abitudine alla comunicazione sotto mentite spoglie, e gli utenti si abitueranno pian piano a non fidarsi mai. Se è vero che pullulano sui vari Twitter e Facebook i politici, di cui diffidiamo per abitudine, con l'andar del tempo anche i solitari assolutamente bisognosi di un contatto umano, sia pure virtuale, inizieranno a rendersi conto di vivere in un universo del sospetto generalizzato, dove dovresti dubitare di tutti, come un abitante di Clerville che a ogni istante immagina che sotto la maschera di plastica di una ricca ereditiera, di un famoso chirurgo, di un ecclesiastico o di un commerciante in diamanti, si celino Diabolik ed Eva Kant.

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Titolo: MICHELE SMARGIASSI. Eco e Bartezzaghi divertono
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:31:09 pm
IN PIAZZA

Eco e Bartezzaghi divertono

"Ma dove va la storia?"

Marconi e internet, gli errori e la creatività: andiamo avanti e indietro, a destra e sinistra...

di MICHELE SMARGIASSI


BOLOGNA - Alle nove, la storia fa un passo indietro. Anzi un passo a destra e uno a sinistra, senza decidere... La storia è "il gambero di Buridano". Alle nove di sera si affolla ancora di due o tremila persone piazza Santo Stefano, che Riccardo Luna aprendo la serata ribattezza "la piazza dei miracoli" perché si riempie ogni volta in queste giornate con Repubblica, ora si riempie per Umberto Eco e Stefano Bartezzaghi, si riempie sulla fiducia perché con quel titolo, "Il gambero di Buridano" appunto, c'è da aspettarsi di tutto, "infatti anche io vorrei saperne qualcosa di più", s'incuriosisce Eco.

Termina di nuovo nel cuore medievale di Bologna la seconda giornata della Repubblica delle idee, un salotto serale rilassato e con molta voglia di sorridere, senza fretta, Luna ha il tempo di chiedere "com'è andata oggi?" al pubblico e pescare qualche risposta, Maria Rita: "Ho ascoltato Veronesi, Zagrebelsky e Ligabue", complimenti per l'assortimento di interessi, una signora venuta da Pesaro in treno: "Aspesi, Marzano e quel giornalista che racconta le storie, come si chiama... Rumiz". Una piccola ovazione per l'arrivo del fondatore Eugenio Scalfari e si comincia davvero, Eco sale sul palco impartendo una benedizione pontificale a Piergiorgio Odifreddi seduto in prima fila e comincia a spiegare che "fino all'Ottocento siamo stati abituati hegelianamente che la storia marcia in avanti, poi ci samo resi conto che la storia fa dei balzi indietro", per esempio "Marconi ha inventato il telegrafo senza fili ma Internet ha fatto fortuna tornando ai fili, da Milano a Roma una volta si prendeva l'aereo e adesso si fa prima in treno, e questo perché la storia va a balzelloni".

Ma questo gambero che è la storia, aggiunge Bartezzaghi, "in realtà va indietro solo perché non sa bene dove andare", come l'asino della favola, morto di fame per l'indecisione fra fieno e avena. Ma non si può darle torto, alla storia, quando i vantaggi si ribaltano in svantaggi e la tecnologia che doveva liberare invece incatena, e tutto sembra diverso da come doveva essere. Aveva ragione Rodari con il suo Libro degli errori: "Il mondo sarebbe bellissimo se fossero solo i bambini a sbagliare". Come si sopravvive dunque alla prevalenza dell'errore? Per Eco, c'era una volta un controllo dell'errore, "a cominciare dal maestro di scuola. Ora con Internet c'è una circolazione di errori incontrollabile", che produce senza interruzione correzioni e nuovi errori. Certo "l'errore è fondamentale per il processo creativo", si impara dagli errori, qundi il problema non è l'esistenza degli errori: "quella che è in crisi è la capacità di riconoscerli, sanzionarli, emendarli".

Eppure la conoscenza va avanti, accumula saperi fatti di parole, deboli contraddittorie ma "necessarie per misurare il mondo". Conoscere, rivendica Eco, "è uno dei piaceri inevitabili dell'uomo". Delle parole bisognerà dunque ancora fidarsi, senza le parole non ci sono le idee. Quando Eco e Bartezzaghi si congedano, sale sul palco Aessandro Bergonzoni, attore-autore che delle parole è un giocoliere. Tornare indietro? Cambiare idea come il gambero di Buridano? Non è quello il problema, stabilisce Bergonzoni, "perché non siamo mai noi che cambiamo idea, sono le idee che cambiano noi".
 

© Riproduzione riservata (15 giugno 2012)

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Titolo: UMBERTO ECO. Perché i politici non capiscono
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:22:27 pm
Opinione

Perché i politici non capiscono

di Umberto Eco

Inutile che ci arrabbiamo. Vivono tutti, spesso da decenni, chiusi nei loro uffici, nei loro palazzi, nelle loro auto blu.

Non hanno idea di cosa significhi andare fare la spesa o prendere un tram. Insomma, sono tagliati fuori dalla realtà.

Anche per questo, dopo un po', dovrebbero tornare tutti a fare una vita 'normale'

(12 giugno 2012)

Giovanna Cosenza, nel suo recente "Spotpolitik" (Laterza), studia la perdurante incapacità della classe politica italiana a comunicare in modo persuasivo coi suoi elettori. Certamente si è quasi abbandonato il politichese burocratico, anche se ancora Cosenza ne ritrova spietatamente le tracce in un comunicatore della nuova generazione come Vendola. E non tanto da Berlusconi ma addirittura da Kennedy era iniziata l'era della comunicazione politica basata non sul simbolo o sul programma bensì sull'immagine (e il corpo) del candidato. E ancora assistiamo al passaggio, definitivo e ormai inevitabile, dal comizio allo spot pubblicitario. Ma mi pare che su un punto questo libro ritorni dall'inizio alla fine: i nostri politici non riescono a comunicare perché quando parlano non si identificano coi problemi della gente a cui si rivolgono, ma sono incentrati "autoreferenzialmente" sui loro problemi privati.

Ma come, anche Berlusconi, che ha saputo parlare con parole semplici, slogan efficaci, approcci basati sul sorriso e addirittura sulla barzelletta? Anche. Forse non in quei momenti felici in cui ha saputo porsi dal punto di vista dei suoi ascoltatori e - interpretando i loro desideri più inconfessati - ha detto loro che era giusto non pagare le tasse; ma in generale, e specie negli ultimi tempi, egli parlava ossessivamente dei suoi nemici, di chi gli remava contro, dei magistrati che gli volevano male, e non del fatto che la "gente" stava avvertendo la crisi economica che poi non è più riuscito a nascondere.

Ora, lasciando ai lettori il gusto di centellinare le cattiverie che Cosenza non risparmia a nessuno (e forse il più bersagliato è Bersani), vorrei chiedermi perché i nostri uomini di governo non sanno immedesimarsi nei problemi delle persone comuni. La risposta l'aveva data tempo fa Hans Magnus Enzesberger in un articolo (non ricordo più con che titolo e dove l'avesse pubblicato) in cui rilevava che l'uomo politico contemporaneo è l'essere più separato dalla gente comune perché vive in fortini protetti, viaggia in automobili blindate, si muove contornato da gorilla, e pertanto la gente la vede ormai solo di lontano, né gli capita mai di fare la spesa in un supermercato o la coda a uno sportello comunale. La politica, minacciata dal terrorismo, ha dato vita ai membri di una casta condannata a non sapere nulla del paese che deve governare. Casta sì, ma nel senso dei paria indiani, tagliati fuori dal contatto con gli altri esseri umani.

Giovanna Cosenza Giovanna Cosenza Soluzioni? Occorrerebbe stabilire che l'uomo politico non può stare né al governo né in parlamento se non per un periodo molto limitato (diciamo i cinque anni di una legislatura o, a essere indulgenti, due). Dopo dovrebbe tornare a vivere da persona normale, senza scorta, come prima. E se poi, dopo un determinato periodo di attesa, ritornasse al potere, avrà avuto alcuni anni di esperienze quotidiane fuori-casta.

Questa idea potrebbe suggerirne un'altra: non dovrebbe esistere una categoria di politici di professione, e parlamento e governo dovrebbero essere lasciati a cittadini normali che decidono di servire il paese per un breve periodo. Ma sarebbe un errore, e dannosissimo, da grillismo deteriore.

Chi si dedica al mestiere della politica, in varie organizzazioni, apprende delle tecniche di gestione della cosa pubblica e, vorrei dire, un'etica della dedizione, come accadeva ai politici professionisti della Dc o del Pci che facevano generosa gavetta nelle associazioni giovanili e poi nel partito. E, per la scelta che avevano fatto, non avevano messo insieme imprese private, studi professionali, fabbrichette o imprese edili, e quindi, entrati in parlamento o al governo, non erano tentati di salvaguardare o addirittura incrementare le proprie ricchezze - come accade invece a chi, messo in parlamento da un Capo a cui poi deve rendere quel favore e dal quale riceve l'esempio di un disinvolto conflitto d'interessi, è portato a imitarlo. Che poi, anche lavorando in un partito, si possa cedere alla corruzione, sarebbe malaugurato incidente, ma non farebbe parte di un sistema.

     
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Titolo: UMBERTO ECO. Filmare o fotografare, per poi magari caricare il tutto in Rete.
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 10:03:02 am
Stupido, metti via quel telefonino

di Umberto Eco

Filmare o fotografare, per poi magari caricare il tutto in Rete.

Ormai molte persone non pensano ad altro quando assistono a un evento.

E così rinunciano a capire che cosa sta succedendo davvero davanti ai loro occhi

(10 luglio 2012)

Qualche tempo fa, all'Accademia di Spagna di Roma, stavo tentando di parlare, ma una signora mi sbatteva in faccia una luce accecante (per poter azionare bene la sua telecamera) e mi impediva di leggere i miei appunti. Ho reagito in modo molto risentito dicendo (come mi accade di dire a fotografi indelicati) che quando lavoro io devono smettere di lavorare loro, per via della divisione del lavoro; e la signora ha spento, ma con l'aria di aver subito un sopruso. Proprio la settimana scorsa, a San Leo, mentre si lanciava una bellissima iniziativa del Comune per la riscoperta dei paesaggi montefeltrani che appaiono nei dipinti di Piero della Francesca, tre individui mi stavano accecando con dei flash, e ho dovuto richiamarli alle regole della buona educazione. Si noti che in entrambi i casi gli accecatori non erano gente da Grande Fratello, ma presumibilmente persone colte che venivano volontariamente a seguire discorsi di un certo impegno. Tuttavia evidentemente la sindrome dell'occhio elettronico li aveva fatti discendere dal livello umano a cui forse aspiravano: praticamente disinteressati a quel che si diceva, volevano solo registrare l'evento, magari per metterlo su YouTube. Avevano rinunciato a capire che cosa si stesse dicendo per far memorizzare al loro telefonino quello che avrebbero potuto vedere con i loro occhi.

QUESTO PRESENZIALISMO di un occhio meccanico a scapito del cervello sembra dunque aver mentalmente alterato anche persone altrimenti civili. Che saranno uscite dall'evento, a cui avevano presenziato, con qualche immagine (e sarebbero stati giustificati se io fossi stato una spogliarellista) ma senza nessuna idea di ciò a cui avevano assistito. E se, come immagino, vanno per il mondo fotografando tutto ciò che vedono, sono evidentemente condannati a dimenticare il giorno dopo quello che hanno registrato il giorno prima.Ho raccontato in varie occasioni come abbia smesso di far fotografie nel 1960, dopo un giro per le cattedrali francesi, fotografando come un pazzo. Al ritorno mi ero ritrovato con una serie di foto modestissime e non ricordavo che cosa avessi visto. Ho buttato via la macchina fotografica e nei miei viaggi successivi ho registrato solo mentalmente quello che vedevo. A futura memoria, più per gli altri che per me, comperavo ottime cartoline.

UNA VOLTA, AVEVO UNDICI ANNI, sono stato attirato da insoliti clamori sulla circonvallazione della città dove ero sfollato. A distanza ho visto: un camion aveva urtato un calesse guidato da un contadino con la moglie accanto, la donna era stata scaraventata a terra, le si era spaccata la testa e giaceva in mezzo a una distesa di sangue e sostanza cerebrale (nel mio ricordo ancora orripilato era come se avessero spiaccicato una torta di panna e fragole) mentre il marito la teneva stretta ululando di disperazione. Non mi ero avvicinato più di tanto, terrorizzato: non solo era la prima volta che vedevo un cervello spalmato sull'asfalto (e per fortuna è stata anche l'ultima) ma era la prima volta che mi trovavo di fronte alla Morte. E al Dolore, alla Disperazione. Cosa sarebbe accaduto se avessi avuto, come accade oggi a ogni ragazzino, il telefonino con telecamera incorporata? Forse avrei registrato, per mostrare agli amici che io c'ero, e poi avrei messo il mio capitale visivo su YouTube, per deliziare altri adepti della "schadenfreude", ovvero della delizia che si prova per le disgrazie altrui. E poi chissà, continuando a registrare altre disgrazie, al male altrui sarei diventato indifferente. Invece ho conservato tutto nella mia memoria, e quella immagine, a settant'anni di distanza, continua a ossessionarmi e a educarmi, sì, a farmi partecipe non indifferente del dolore degli altri. Non so se i ragazzi di oggi avranno ancora queste possibilità di diventare adulti. Gli adulti, con gli occhi incollati al loro telefonino, sono perduti ormai per sempre.

 
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Titolo: UMBERTO ECO. E se provassimo a ignorare B.?
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2012, 07:52:57 pm
La Bustina

E se provassimo a ignorare B.?

di Umberto Eco

Editorialisti e politici dovrebbero cominciare a smetterla di fare da cassa di risonanza a Berlusconi che ridiscende in campo.

Come fanno le mamme coi bambini che ostentano volgarità

(08 agosto 2012)

Tutti si erano accorti che, da quando aveva abbandonato la presidenza del consiglio, Berlusconi si era anche assentato dalle prime pagine dei giornali. E non perché lo volesse. Ma aveva un bell'andare a visitare l'amico Putin, ed era come ci fosse andato il presidente del Rotary Club di Vanuatu; aveva un bel discendere dall'elicottero con nuove fanciulle, la gente pensava che erano fatti suoi. E il suo gradimento nei sondaggi calava inesorabilmente.
Ora che ha annunciato che riscenderà in campo, ha riconquistato le prime pagine. Badate bene che non importa che poi lo faccia o no, è noto con quanta volubilità cambi d'avviso dall'oggi al domani; è che per oggi è tornato a sorriderci da ogni cantone.

BERLUSCONI E' , e nessuno glielo nega, un genio della pubblicità e uno dei principi a cui si attiene è "parlate di me, anche male, ma parlatene". Che è poi la tecnica di tutti gli esibizionisti: certo è criticabile calarsi i calzoni ed esibire il proprio apparato sessuale all'uscita di un liceo femminile, ma se lo fai hai la prima pagina assicurata - e alcuni, per averla, diventano persino serial killer.

Tal che si potrebbe supporre che parte (dico solo una parte, ma consistente) del carisma berlusconiano presso tanti elettori fosse dovuto non tanto o non solo a quanto diceva o faceva, ma alla costanza con cui i suoi avversari, per criticarlo, lo ponevano continuamente in copertina.

Come comportarsi con lui (non dico i suoi seguaci, ma chi lo teme come una sventura per la nostra debole repubblica) di qui alle elezioni venture?
Una leggenda più volte raccontatami dice che quando appena avevo iniziato a parlare, dopo "mamma", "papà" e "nonna", un giorno avevo iniziato a urlare "cagü!", con la u alla francese, come si usa nei nostri dialetti del Nord ed è impronunciabile nella parte inferiore dello Stivale. Come avessi coniato quell'espressione, del tutto sconosciuta ai lessicografi, era materia di dibattito; forse avevo udito una parolaccia come "cagòn" da alcuni muratori che lavoravano nella casa di fronte, e che seguivo ammirato dal ballatoio. Fatto sta che rimproveri, scappellotti, urlatacce, non erano serviti a niente. Io ripetevo "cagü!" a intervalli, sempre più soddisfatto per l'attenzione che ricevevo.
Sino a che si era arrivati allo scandalo. Una domenica, a mezzogiorno in punto, la mamma mi teneva in braccio in Duomo e stava giusto squillando il campanello dell'elevazione (mentre nel tempio non si udiva più volare una mosca) e io - incoraggiato da quel subitaneo e assordante silenzio - mi ero sporto verso l'altare e, con quanto fiato avevo in gola, avevo gridato "cagü!".

Pare che per un istante il sacerdote avesse interrotto la formula della consacrazione delle specie, e gli sguardi severamente esterrefatti dei fedeli avevano obbligato la mia buona madre, che avvampava di vergogna, ad abbandonare il sacro luogo.
Occorreva evidentemente trovare una soluzione, e fu trionfalmente trovata. Nei giorni seguenti io gridavo "cagü!" e mia mamma faceva finta di non avere sentito. Io insistevo, "mamma, cagü!" e lei rispondeva (continuando a sprimacciare i letti) "ah sì?". Io insistevo con "cagü!" e la mamma informava mio padre che in serata sarebbero venute a trovarci le sorelle Faccio.

Insomma, i miei gentili lettori avranno intuito la piega che ha poi preso la faccenda: esasperato per l'assenza di ogni riscontro, ho smesso di dire "cagü!" e mi sono dedicato all'apprendimento di un lessico più ricco e complesso che usavo "ore rotundo", con gran soddisfazione dei miei genitori che si compiacevano per avere un figlio così cruscante.

NON VOGLIO SFRUTTARE i miei ricordi infantili per dare consigli ai politici, ai corsivisti e agli impaginatori dei quotidiani. Salvo che, se per caso essi fossero interessati a non far da cassa di risonanza a un loro avversario, potrebbero prendere esempio da mia mamma.

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Titolo: UMBERTO ECO. Che casino, troppe informazioni
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2012, 05:30:47 pm
Opinione

Che casino, troppe informazioni

di Umberto Eco

La quantità di messaggi che passa attraverso la Rete può generare una sorta di 'censura per eccesso di rumore'.

E un'intera generazione rischia di crescere senza selezionare quello che legge

(24 agosto 2012)

Mi hanno riferito dei colleghi che a un esame del triennio, essendo caduto il discorso non so come e perché sulla strage alla stazione di Bologna, di fronte al sospetto che l'esaminando non sapesse neppure di cosa si stesse parlando, gli era stato domandato se ricordava a chi fosse stata attribuita. E lui aveva risposto: ai bersaglieri.

Ci si sarebbero potute attendere le risposte più varie, dai fondamentalisti arabi ai figli di Satana, ma i bersaglieri erano veramente inattesi. Io azzardo che nella mente dell'infelice si agitasse l'immagine confusa di una breccia scolpita nel muro della stazione per ricordare l'evento, e che la visione della breccia abbia fatto corto circuito con un'altra nozione imprecisa, poco più di un flatus vocis, concernente la breccia di Porta Pia. D'altra parte il 17 marzo del 2011, interrogati dalle Iene televisive sul perché quella data fosse stata scelta per celebrare i centocinquant'anni dell'unità d'Italia, molti parlamentari e persino un governatore di regione hanno dato le rispose più strampalate, dalle cinque giornate di Milano alla presa di Roma.

LA FACCENDA DEI BERSAGLIERI sembra riassumere efficacemente altri esempi del difficile rapporto di moltissimi giovani coi fatti del passato (e coi bersaglieri). Tempo fa alcuni giovani intervistati hanno detto che Aldo Moro era il capo delle brigate rosse. Eppure io a dieci anni sapevo che il primo ministro italiano ai tempi della marcia su Roma (e quindi dieci anni prima della mia nascita) era stato "l'imbelle Facta". Certamente lo sapevo perché la scuola fascista me lo ripeteva ogni giorno, il che mi fa pensare che, sia pure a modo proprio, la riforma Gentile fosse più matura della riforma Gelmini, ma non credo che tutta la colpa sia della scuola. Credo che le ragioni siano altre e siano dovute a una forma continua di censura che non solo i giovani ma anche gli adulti stanno subendo. Non vorrei però che la parola censura evocasse solo colpevoli silenzi: esiste una censura per eccesso di rumore, come sanno spie o criminali dei film gialli che, se devono confidarsi qualcosa, mettono la radio al massimo volume. Il nostro studente forse non era qualcuno al quale era stato detto troppo poco ma qualcuno a cui era stato detto troppo, e che non era più in grado di selezionare ciò che valeva la pena di ricordare. Aveva nozioni imprecise circa il passato non perché non gliene avessero parlato ma perché le notizie utili e attendibili erano state confuse e seppellite nel contesto di troppe notizie irrilevanti. E l'accesso incontrollato alle varie fonti, espone al rischio di non saper distinguere le informazioni indispensabili da quelle più o meno deliranti.

E' IN CORSO UNA DISCUSSIONE se sia bene o male che oggi ciascuno possa stampare e mettere in circolazione un libro senza la mediazione di un editore. L'argomento positivo è che in passato tanti scrittori eccellenti sono rimasti ignoti per colpa di un ingiusto sbarramento editoriale, e che una libera circolazione di proposte non possa che costituire una ventata di libertà. Ma sappiamo benissimo che molti libri vengono scritti da personaggi più o meno eccentrici, così come accade anche per tanti siti Internet. Se non ci credete, andate a vedere "nonciclopedia.wikia.com/wiki/Groenlandia" dove si dice: "La Groenlandia è un'isola situata in un punto del globo terrestre che, se esistesse davvero, confermerebbe l'ipotesi che la Terra è quadrata. E' l'isola più popolosa al mondo per quanto riguarda il ghiaccio.... Inoltre è uno stato dell'Europa, o perlomeno così mi sembra, non ho voglia di consultare l'atlante quindi prendetela per buona. Si trova nell'emisfero boreale, in Borea del nord.".

Come fa un ragazzo a sospettare che l'autore di questa notizia stia scherzando, o sia un personaggio eccessivamente stravagante? Così può accadere coi libri. Difficile che un editore accetti di pubblicare notizie del genere, se non precisando sulla copertina o sul risvolto che si tratta di una raccolta di allegri paradossi. Ma quando non ci fosse più alcuna mediazione a dirci se un libro va preso sul serio o no?

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Titolo: UMBERTO ECO. Evasione e compensazione occulta
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2012, 11:02:08 am
Opinione

Evasione e compensazione occulta

di Umberto Eco

Sulle regole del diritto san Tommaso aveva regole chiare e severe e non avrebbe concordato con Berlusconi quando diceva che i cittadini erano da comprendere se evadevano un fisco troppo esoso. La legge è legge

(30 agosto 2012)

Ci sono evasori fiscali in tutti i paesi perché il dispiacere di pagar tasse è profondamente umano. Ma si dice che gli italiani siano più inclini di altri popoli a questo vizietto. Perché?

Devo riandare ad antichi ricordi, e rievocare la figura di un vecchio padre cappuccino di grande umanità, dottrina e bontà, a cui ero molto affezionato. Ora questo amabile vegliardo, nel comunicare a me e ad altri giovani i principi dell'etica, ci aveva spiegato che contrabbando ed evasione fiscale, se sono peccati, lo sono in modo veniale perché non contravvengono a una legge divina, bensì solo a una legge dello Stato.

AVREBBE DOVUTO RICORDARE sia la raccomandazione di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare, sia quella di San Paolo ai Romani ("Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse"). Ma forse sapeva che, nei secoli passati, alcuni teologi avevano sostenuto che le leggi fiscali non obbligano in coscienza, ma soltanto in forza della sanzione. Però, nel riportare oggi questa opinione, Luigi Lorenzetti, direttore della "Rivista di Teologia Morale" commenta: «Si fa torto, però, a quei teologi se si ignora il contesto sociale ed economico che li ha indotti a inventare tale teoria. L'organizzazione della società non era per niente democratica; il sistema fiscale ingiusto, gli esosi balzelli opprimevano i poveri».

Infatti il mio cappuccino citava un altro caso, quello della compensazione occulta. Per dirla nel modo più semplice, se un lavoratore ritiene di essere ingiustamente sottopagato, non fa peccato se sottrae tacitamente quel di più a cui avrebbe diritto. Ma solo se la sua paga è evidentemente iniqua e gli si nega la possibilità di appellarsi alle leggi sindacali. Però su un argomento del genere lo stesso san Tommaso aveva suoi dubbi. Da un lato «quando una persona versa in tale pericolo... allora uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui. E l'atto per questo non ha natura di furto o di rapina» (Summa Theologiae II-II, 66, 7). Dall'altro «chi prende la roba propria a chi la detiene ingiustamente, pecca non già perché fa un torto a costui... ma pecca contro la giustizia legale, perché si arroga il giudizio sui propri beni scavalcando le regole del diritto» (Summa II-II, 66, 5). E sulle regole del diritto san Tommaso aveva idee chiare e severe, e non avrebbe concordato con Berlusconi quando diceva che i cittadini erano da comprendere se evadevano un fisco troppo esoso. Anche per Tommaso la legge era la legge.

Tuttavia la concezione tomista del diritto di proprietà era cattolicamente più "sociale", in quanto la proprietà era da considerarsi giusta "quanto al possesso" ma non "quanto all'uso": se io ho un chilo di pane acquistato onestamente ho diritto di esserne riconosciuto proprietario, ma se accanto a me c'è un barbone che muore di fame dovrei dargliene una metà. Sino a che punto l'evasione è compensazione occulta?

In un "Trattato di teologia morale" che trovate su Internet sul sito Totus Tuus, mentre si raccomanda di attenersi alle leggi vigenti e si osserva che «la parte più sana della popolazione» paga le tasse e non fa contrabbando, si ammette tuttavia che «l'evasione comunque non è riguardata come fatto lesivo dell'onore (la stessa legge la considera illecito amministrativo e non reato), sebbene crei un senso di disagio morale». E quindi avrebbe torto Monti a dire che gli evasori sono ladri: sono solo delle persone che dovrebbero provare disagio morale.

MA IL MIO ECCLESIASTICO di cui dicevo prima non scendeva in queste sottigliezze casuistiche, si limitava a dire che evasione e contrabbando non sono peccati mortali perché vanno "soltanto" contro le leggi dello Stato. E in questa sua posizione mi pare riflettesse una educazione che aveva ricevuto da giovane, prima dei Patti Lateranensi, per cui lo Stato era una cosa così cattiva che non bisognava dargli retta. Si vede che qualcosa di queste antiche idee è rimasto nel Dna del nostro popolo.


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Titolo: UMBERTO ECO. Inquisiti e villani
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2012, 05:39:34 pm
Opinioni

Inquisiti e villani

di Umberto Eco

Nella finzione cinematografica i poliziotti che indagano sono trattati sempre con scarso rispetto dagli inquisiti.

Perché? In realtà i registi vogliono evitare i faccia a faccia. Ma così si alimentano atteggiamenti poco civili

(13 settembre 2012)

Film e telefilm hanno la cattiva abitudine di mostrarci coppie a letto che, prima di addormentarsi (1) copulano, (2) litigano, (3) lei dice che ha mal di testa, (4) si voltano svogliatamente uno da una parte e l'altra dall'altra. Mai che almeno uno dei due legga un libro. E poi ci lamentiamo che la gente, che si comporta secondo i modelli televisivi, non legga mai. Ma c'è di peggio. Che cosa accade se entra in casa vostra un commissario o un ufficiale dei carabinieri e comincia a porvi domande, certe volte neppure imbarazzanti? Se siete un delinquente incallito e ormai smascherato, un mafioso schedato, un serial killer nevrotico, forse risponderete con insulti e sghignazzi, o vi getterete a terra fingendo un attacco epilettico. Se invece siete persone normali e incensurate farete accomodare il funzionario, risponderete educatamente alle sue domande, magari con un pizzico di preoccupazione, ma standogli educatamente di fronte. Se poi siete colpevole, starete ancora più attenti a non irritarlo.

CHE COSA ACCADE INVECE nei telefilm polizieschi (che io, avverto subito per non passare da moralista aristocratico, guardo sempre con interesse, specie quelli francesi e tedeschi dove, salvo "Cobra 11", non vi sono eccessive violenze ed esplosioni al tetranitratossicarbonio)? Accade sempre (fate attenzione, sempre) che, quando il poliziotto entra e inizia a fare domande, il cittadino continua a fare i comodi suoi, si affaccia alla finestra, finisce di cuocere le sue uova con pancetta, riassetta la stanza, si lava i denti e poco manca che non vada a orinare, va al tavolo a firmare delle carte, corre al telefono, si muove insomma come uno scoiattolo facendo del suo meglio per voltare le spalle all'inquirente, e dopo un poco gli dice sgarbatamente che se ne vada perché lui (o lei) ha da fare.

Ma è il modo? Perché i registi dei telefilm si ostinano a instillare nella mente dei loro spettatori che gli agenti di polizia vanno trattati come importuni piazzisti di aspirapolvere? Direte che l'inquisito scortese fa sempre più scattare il desiderio di vendetta dello spettatore, che poi godrà della vittoria del detective umiliato, ed è vero. Ma se poi molti spettatori sottosviluppati alla prima occasione prenderanno gli appuntati dei carabinieri a pesci in faccia, credendo che quella sia la moda? Forse chi acquista i telefilm non se ne preoccupa perché ormai persone ben più importanti dei piccoli criminali inquisiti da Siska ci hanno insegnato che uno può rifiutarsi di presentarsi in tribunale?

LA VERITA' E' CHE IL REGISTA di telefilm avverte che, se l'interrogatorio dura più di alcuni secondi, non possono tenere due attori di faccia, e si deve in qualche modo movimentare la scena. E per movimentarla si fa muovere l'inquisito. E perché il regista non può sostenere, e fare sostenere allo spettatore, alcuni minuti di due persone che si guardano in faccia, specie se discutono di cose di grande e drammatico interesse? Ma perché per farlo il regista deve essere come minimo Orson Welles e gli attori devono essere Anna Magnani, l'Emil Jannings de "L'angelo Azzurro", il Jack Nicholson di "Shining", gente che sa sostenere il primo piano, ed esprimere il proprio stato d'animo con uno sguardo, una piega della bocca. Ingrid Bergman e Humphrey Bogart in "Casablanca" potevano parlare per molti minuti senza che Michael Curtiz (che poi non era neppure Eisenstein) potesse permettersi nemmeno un piano americano, ma se siete obbligati a girare un episodio (e talora due) alla settimana, il produttore non può concedersi nemmeno Curtiz e, quanto agli attori, grasso che cola se, come accade nei polizieschi tedeschi, danno il meglio di sé quando mangiano panini al wurstel tra uno smanettamento di computer e l'altro.

Non moralizziamo. Sapevamo benissimo che per addormentarci nel giro di mezz'ora bisogna leggere un libro che non ci farà dormire e non Joyce. L'unica preoccupazione è che chi guarda solo telefilm dimentichi, o non sappia mai, che esistono anche film in cui la gente sa guardarsi in faccia.

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Titolo: UMBERTO ECO. Selvaggia contro Sciuellen
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2012, 11:45:13 am
Opinioni

Selvaggia contro Sciuellen

di Umberto Eco


L'immaginario si costruisce sui miti o su alcune visioni del sacro. Ma anche su quel mondo comune che la televisione ci propone ogni giorno.
Per questo Samanta è un nome "reale". Più di altri solo snob come Oceano o Azzurra

(27 settembre 2012)

Credo di avere scritto in qualche vecchia Bustina che uno dei miei desideri è mettere fine a questa rubrica, dove ogni quindici giorni devo trovare un argomento che finga di essere "attuale", anche se rileggo Pindaro, per tenere una rubrica di Recensioni in Ritardo, parlando cioè di libri magari dimenticati ma che ritengo "attuale" rileggere. Potrebbero essere libri di secoli fa, ma vorrei anche parlare di libri contemporanei che tuttavia io ho letto in ritardo, perché non si può sempre essere aggiornati.

Ho letto in ritardo un libro apparso in Francia nel 2003 e tradotto nel 2008 dal Melangolo: "L'immaginario" di Jean-Jacques Wunenburger. Dire che cosa sia l'immaginario è difficile ma proviamo, sulla scorta di questo libro, ad accennare a una possibile teoria. L'immaginario non appartiene alle costruzioni della ragione come la logica, la matematica o le scienze naturali, ma a una serie di rappresentazioni "immaginate" che possono andare dai miti alle idee che circolano in una cultura e a cui tutti si conformano, anche se sono fantastiche, erronee o scientificamente indimostrabili. Si può parlare di immaginario per i miti, per cui Ulisse è qualcosa che domina il nostro modo di pensare, o per alcune visioni del sacro, narrazioni che si insinuano nel nostro vissuto, per cui alla fine Pinocchio diventa più reale (che so?) di Metternich, e ci atteniamo nella vita quotidiana più alla sua lezione che a quella di Darwin.

FANNO PARTE DELL'IMMAGINARIO collettivo Gulliver, Madame Bovary, o il Werther da cui tanti giovani nell'Ottocento hanno tratto esempio per il loro suicidio - ma per Wunenburger c'è anche un immaginario gnostico, alchemico o occultistico. Ci sono delle "narrazioni" che formano e dirigono il nostro modo di vivere anche se non sono sostenibili in modo razionale.

La cosa più interessante di questo libro è che alla fine tenta di ricostruire le strutture fondamentali dell'immaginario televisivo. Certamente la televisione ci affascina con delle immagini del mondo, alcune delle quali presumibilmente reali (come accade per i reportage), altre riconosciutamente fittizie, ma che i televedenti ormai assumono come parte del loro mondo: Wunenburger parla in proposito di una sorta di rappresentazione vissuta come di una manifestazione laica e desacralizzata del Sacro, dove «non occorre più credere nella presenza di ciò che è al di là della rappresentazione, dal momento che la rappresentazione si fa essa stessa simulacro della presenza». In altri termini (interpreto) per l'utente della tv è più reale la caduta delle Twin Towers o lo tsunami cosmico di un "disaster movie"? «Mentre la funzione dell'immagine religiosa consiste nel mettere in contatto con un dio assente, l'immagine televisiva si pone come una manifestazione ultima», e i suoi eroi e le sue gesta si trasformano in una sorta di mondo comune dell'immaginario collettivo. D'altra parte tempo fa un'inchiesta aveva confermato che gran parte degli utenti tv non sapevano più chi, tra Churchill e Sherlock Holmes, fosse esistito davvero.

VORREI AFFRONTARE IL PROBLEMA da un lato del tutto secondario. Una volta i parroci si rifiutavano di battezzare chi non portasse il nome di un santo del calendario, e per chiamare i figli Libertà o Lenino, come avveniva nelle Romagne, bisognava astenersi dal battesimo. Da decenni invece vediamo nella piccola e media borghesia fanciulle che si chiamano Jessica o Gessica, Samantha o Samanta, Rebecca, o addirittura Sue Ellen - o, come è accaduta una volta, Sciuellen. Questo non c'entra con l'idea di chiamare i figli con nomi raffinati (come Selvaggia, Azzurra o addirittura Oceano) che è tipica degli aristocratici, degli abbienti o degli snob. Le classi medie non oserebbero mai impiegare nomi così eccezionali. Jessica, Sue Ellen o Samanta sono invece nomi "reali", suggeriti appunto dall'immaginario televisivo. Sono più veri dei nomi delle sante, troppo lontane da noi, sono nomi dei miti che costituiscono l'immaginario moderno.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/selvaggia-contro-sciuellen/2191904/18


Titolo: UMBERTO ECO. L’orgoglio perduto di Milano
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2012, 04:44:25 pm
L’orgoglio perduto di Milano


Non solo la politica milanese si trova compromessa con la 'ndrangheta ma addirittura ormai appare che non è la politica a usare la 'ndrangheta bensì la 'ndrangheta a usare la politica, che prende ordini dai suoi sgherri, piange e si umilia di fronte alle loro minacce.
Come se ne esce, come purificare una città in cui il potere criminale è "imprendibile"?

di Umberto Eco, da Repubblica

Sono arrivato a Milano nell'autunno del 1954, conquistato dalla possibilità di andare a teatro quasi ogni sera, e siccome eravamo giovani funzionari televisivi, gli attori e i registi che venivano in Studio 1 ci trovavano sempre i biglietti omaggio. Le
Starlette di allora, annunciatrici, presentatrici, comparse, venivano dopo lo spettacolo con noi, giovanotti squattrinati, e andavamo a ballare al Santa Tecla.

Quelle tra loro che avevano bisogno di denaro facevano, accollatissime, i fotoromanzi o, in camicetta e jeans, apparivano sui muri della città mentre spalmavano il Ducotone. La peccatrice ufficiale del Santa Tecla andava vestita di nero, col trucco chiaro di luna, e si faceva chiamare Olivia l'esistenzialista. Hanno poi sposato tutte impiegati, garagisti, venditori di aspirapolvere.

Andavamo molto al cinema e vedevamo storie che si svolgevano in Sudamerica, dove il criminale passava la frontiera mettendo un biglietto da cinquanta dollari nel passaporto, l'agente incassava e lasciava passare. In quei luoghi regnava, apprendevamo, la corruzione generalizzata.

Beati noi che vivevamo in una città civile, capitale morale d'Italia, dove la criminalità era prevedibile e localizzata, un matto che uccideva a martellate la moglie e i figli dell'amante, poi verso gli anni Sessanta rapinatori quasi professionisti che emulavano i film di gangster, ma alla fine si facevano prendere, come Cavallero; e per il resto piccola malavita da Porta Romana bella, roba da commissario Nardone. Salivano a Milano migliaia di meridionali, e i Cipputi di allora gli dicevano «Tas ti, brütt terun!», ma giocando insieme a scopone all'osteria, e gli offrivano da bere.

Di quel che accadeva al Sud si sapeva poco, e si guardava a Roma come a una sentina di vizi, coi deputati democristiani che i disegnatori comunisti rappresentavano come "forchettoni", e le follie della dolce vita. Ma il mondo dell'imprenditoria milanese viveva corazzato nelle proprie impenetrabili fortezze, i banchieri si chiamavano Cuccia o addirittura Leo Valiani, o Mattioli che a quanto mi risulta non aveva una barca ma finanziava i classici della letteratura italiana delle edizioni Ricciardi.
Gli artisti passavano le sere al bar Giamaica, e mangiavano per pochi soldi alla table d'hôte delle sorelle Pirovini, gli scrittori conducevano vita morigerata come Montale chiuso in un ufficetto del Corriere della Sera.

In televisione apparivano le prime ballerine in calze nere, ma negli studi di Corso Sempione si allestivano per i programmi di prima serata Shakespeare, Pirandello o, al peggio, Rosso di San Secondo; il giovedì sera i cinematografi sospendevano la proiezione, mettevano un televisore sotto lo schermo, e tutti seguivano con orgasmo massmediatico "Lascia o raddoppia?"; la satira politica era sommessa, ma Tognazzi e Vianello avevano osato imitare il presidente Gronchi che era caduto da una sedia alla Scala (Tognazzi cadeva e Vianello gli chiedeva: «Ma chi ti credi di essere?»). Era scoppiato uno scandalo nazionale, ma insomma. Andava in onda "Tribuna Politica", dove giornalisti e parlamentari parlavano uno alla volta.

Ogni sera si poteva trovare un dibattito o alla Casa della Cultura, o al Circolo Turati o, poi, a quello di Via De Amicis, ma anche dai gesuiti del San Fedele. Dal centro di fonologia musicale di Corso Sempione si diffondevano le nuove esperienze di musica elettronica e, sia pure tra qualche fischio, alla Scala apparivano Schoenberg, Webern e poi Luciano Berio.

Era Milano centro di cultura, sede delle grandi case editrici, ombelico del mondo produttivo. Era una città bianca che non prendeva ordini neppure dal Vaticano e faceva il carnevale in una data tutta sua, ma poteva mandare al governo della città i socialisti storici.

Milano ha cominciato a mutare volto col Sessantotto, e poi con la città che si svuotava a sera nel periodo del terrorismo, ma questo non metteva in questione la tenuta dei partiti e dello Stato. E la vita era ripresa negli anni Ottanta con qualche cedimento a un "edonismo reaganiano" e con quella che solo dopo sarebbe stata chiamata la "Milano da bere".

All'inizio degli anni Novanta si era scoperto che nella capitale morale si era sviluppata una politica fatta di bustarelle e tangenti, ma anche allora si pensava che i corrotti - e in grandissima parte era vero - praticassero la corruzione non per arricchire se stessi bensì per foraggiare la propria parte politica.

Il male però si era diffuso e si è avvertito in quei decenni un calo dell'attività culturale, nel senso che scomparivano i centri di discussione e di dibattito. Milano sonnecchiava. Ricordo che durante l'amministrazione leghista di Formentini si era tentato un rilancio della gloriosa Triennale (uno dei vanti della città), ma da una riunione a cui aveva partecipato tutto il mondo culturale milanese erano rimasti assenti e il sindaco e l'assessore alla cultura (anche se bisogna ammettere che il rilancio della Triennale è poi avvenuto a opera delle successive amministrazioni di centro destra).

Eppure l'idea di una Milano come sorgente di innovazione aveva convinto molte persone rispettabili che persino la discesa in campo di Berlusconi fosse un tentativo di introdurre nell'agone politico, agonizzante dopo Mani Pulite, il mondo sano dell'imprenditoria. Illusione durata pochissimo, ma anche questa illusione aveva testimoniato del mito di una Milano sana contro la capitale corrotta che infettava la nazione.
Anche i più ingenui si sono poi accorti che una nuova forza che si basava sul conflitto d'interessi, e quindi sulla difesa dell'interesse privato, non poteva essere che fonte di successiva corruzione - e i meno ingenui hanno avvertito che si apriva per loro l'epoca di una Italia da bere.

Così è accaduto quello a cui stiamo assistendo, scandalo dopo scandalo, con la scoperta che Milano era sorella di Roma nell'introdurre nel gioco uomini che si davano alla politica nel solo intento di arricchirsi personalmente. Ma ancora lì, per molto, si pensava che Milano non fosse tuttavia Palermo, era forse diventata una città di disonesti ma non di mafiosi.
Ed ora eccoci al rendimento dei conti: non solo la politica milanese si trova compromessa con la 'ndrangheta ma addirittura ormai appare che non è la politica a usare la 'ndrangheta bensì la 'ndrangheta a usare la politica, che prende ordini dai suoi sgherri, piange e si umilia di fronte alle loro minacce, ha creduto di emulare politici romani che sapevano sfruttare la mafia, ma di quelli non avevano l'astuzia e il pelo sullo stomaco. Milano che non voleva prendere ordini da Roma ladrona e disprezzava il meridione, si è ridotta a prendere ordini dal peggio del profondo Sud.

Come se ne esce, come purificare una città in cui il potere criminale, quasi indistinguibile da certe frange del potere politico, è imprendibile, non facilmente identificabile e nessun commissario Nardone è in grado di spezzare una orrenda catena di complicità? Siamo entrati nella fase sudamericana della Lombardia di Berchet, Cattaneo, Manzoni? E ci rendiamo conto che tutto questo produrrà disaffezione per la politica, astensionismo e quindi dittatura di coloro che l'hanno provocato?
Una delle domande che circolano in questi giorni è: "Che cosa possono fare gli onesti?". Dico subito che la nozione di "onesti" mi pare inapplicabile, visto che i ladri non hanno più il ghigno riconoscibile di Cavallero ma siedono accanto a noi al ristorante, vestiti da persone per bene. Di qui il senso di disorientamento che coglie moltissimi. Non è come in quei casi di rapina, stupro, malavita notturna che puoi (sia pure per decisione criticabilissima) costituire pattuglie di vigilantes. Non sai dove colpire e da chi guardarti.

Non credo si possano costituire gruppi di cittadini obbedienti alle leggi che in qualche modo, con attività culturali, appelli morali, nuovi impegni politici, possano fare un proselitismo che quasi suona a ideale deamicisiano. Viene da pensare a quel romanzo ingiustamente dimenticato di Giovanni Mosca, "La lega degli onesti", dove alla fine i presunti onesti, definendosi come tali, diventano peggio dei disonesti.

Sto pensando - come ultima spiaggia - a una serie di reazioni individuali, al richiamo certamente moralistico a una vita proba e riservata. Non sappiamo ormai chi siano gli onesti, che vediamo persino andare a messa, ma ciascuno può sapere con certezza se paga le tasse, non ha mai dato o ricevuto bustarelle, e fa il suo mestiere come si deve. E allora bisogna essere astuti come colombe, vivere una vita più ritirata e isolare in qualche modo coloro di cui sospettiamo.
Ci invitano a una cena che si annuncia fastosa? Ci propongono una vacanza in barca? Non ci si va. Notiamo facce nuove nel circolo che frequentavamo? Si danno le dimissioni. Ci invitano all'inaugurazione di un ente benefico? Se proprio non siamo sicuri di che si tratti, ci si defila. Non c'è niente di male se qualcuno si concede una dozzina di ostriche, ma è sospetto che le offra anche a noi e a molti altri, gratis. Riduciamo le nostre frequentazioni, stabiliamo - se tutti parteciperanno a questo richiamo ascetico - una sorta di mobbing nei confronti di tutti coloro che ci paiono spendere con troppa disinvoltura o cambiano macchina con troppa frequenza, anche se il nostro sospetto può essere ingiusto.

Secondo Wikipedia il mobbing è "un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, dimensionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione, etc.) perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti di un altro individuo, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso". Troppo. Si può esercitare il mobbing senza mettere in opera comportamenti violenti, abusi psicologici o maldicenze: basta attuare forme di emarginazione.

Fare mobbing si può ridurre a dire "io con te non ci parlo", e lo si può dire anche stando zitti. Si potrebbe arrivare, a lungo andare, alla manifestazione evidente del comportamento di una parte della popolazione che non accetta più certe frequenze, che si sottrae con noncuranza all'interessamento spesso affettuoso di chi ci vorrebbe a copertura della propria vita pubblica e privata. Fare il deserto intorno ad alcuni.
E attenersi in ogni circostanza al detto aureo che mi comunicava mio padre: «Se qualcuno vuole darmi qualcosa che non mi pare aver meritato, tanto per cominciare io chiamo i carabinieri».

(18 ottobre 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/lorgoglio-perduto-di-milano/


Titolo: UMBERTO ECO. Quello che non si deve fare
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:38:34 am

Opinione

Quello che non si deve fare

di Umberto Eco

Se qualcuno esprime un parere insultante sulla vostra opera letteraria o artistica, non ricorrete a vie legali. Meglio lasciar perdere e aspettare che il successo smentisca il nemico. Se poi il critico era in concorrenza...

(11 ottobre 2012)

Ogni tanto mi accade di vedere che alcuni miei contemporanei fanno cose che io non farei. Sarà che non hanno accumulato abbastanza esperienze.
E allora mi permetto di seminare alcuni grani di saggezza dall'alto (o dal basso) della mia canizie. Se qualcuno esprime un parere insultante sulla vostra opera letteraria o artistica, non ricorrete a vie legali, anche se per caso le espressioni del vostro nemico avessero superato il limite (talora esilissimo) che può intercorrere tra giudizio critico spietato e insulto.

Nel 1958 Beniamino Dal Fabbro, critico musicale grintoso e assai polemico, in un articolo su "Il Giorno" aveva fatto a pezzi una esecuzione della Callas, diva che lui non amava. Non ricordo esattamente cosa ne avesse scritto, ma ricordo l'epigramma che quell'amabile e sarcastico personaggio faceva circolare tra gli amici del bar Giamaica a Brera: «La cantante d'Epidauro - meritava un pomidauro». La Callas, caratterino per conto suo, infuriata gli aveva dato causa. Ricordo il racconto che Dal Fabbro ne faceva al Giamaica: il giorno che al processo doveva parlare il suo avvocato, si era presentato tutto vestito di nero per permettere al difensore di indicare quella figura di severo e incorruttibile studioso; ma il giorno in cui doveva parlare l'avvocato della Callas (che forse avrebbe usato, diceva Dal Fabbro, alcune maligne dicerie che lo dipingevano come iettatore), si era presentato con un arioso completo di lino bianco e panama color paglierino.

NATURALMENTE LA CORTE aveva assolto Dal Fabbro riconoscendo il suo diritto alla critica. Ma il lato comico della faccenda era stato che il grande pubblico, che seguiva la polemica sulla stampa, ma aveva idee confuse circa giurisprudenza e diritto costituzionale alla libera espressione dei propri convincimenti, aveva inteso il giudizio della corte non come un riconoscimento della libertà del critico, ma come un riconoscimento di quanto aveva detto, e cioè che la Callas cantava male. E quindi la Callas era uscita dalla vicenda con una (ingiusta) patente di pessima cantante firmata da un tribunale della nostra repubblica. Ecco quindi provata l'inopportunità di trascinare in giudizio chi ha detto peste e corna di noi. Con ogni probabilità una corte riconoscerà il suo diritto di dirlo, ma agli occhi della rozza folla e delle masse indotte sarà stato provato da giudici togati che noi meritavamo e peste e corna. Il che sarebbe corollario ai due antichi principi per cui una smentita è una notizia data due volte e quando ti trovi immerso sino al collo in una materia vischiosa non devi muoverti per non fare l'onda.

E ALLORA CHE FAI CON CHI ti ha insultato? Lasci perdere perché, se ti sei dato alle lettere o alle arti, avrai accettato in anticipo di ricevere anche stroncature e giudizi negativi, sapendo che fa parte del mestiere, e resterai in attesa che milioni di lettori futuri smentiscano l'invido nemico così come la storia ha fatto giustizia di Louis Spohr quando aveva definito la Quinta di Beethoven come «un'orgia di frastuono e di volgarità», di Thomas Bailey Albright, che aveva scritto di Emily Dickinson «l'incoerenza e la mancanza di forma delle sue poesiole - non saprei definirle altrimenti - sono spaventose», o del dirigente della Metro che, dopo un provino di Fred Astaire, aveva commentato «non sa recitare, non sa cantare ed è calvo. Se la cava un po' con la danza».

Che poi qualcuno abbia espresso un giudizio negativo su di te mentre con te era o era stato in lizza per un premio in cui egli non ha vinto, è altrettanto male, almeno sul piano del buon gusto. Uno scrittore noto e di talento, quando sua moglie stava partecipando a un concorso universitario, aveva scritto una severa stroncatura del libro di un suo concorrente. E' vero che anche Caravaggio non era un modello di virtù e Francis Bacon, grandissimo pensatore, era stato condannato per corruzione e privato di ogni carica pubblica; ma lo scrittore di cui dicevo, senza che si disconoscessero le sue virtù letterarie, era stato da molti considerato degno di censura morale.
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quello-che-non-si-deve-fare/2192809/18


Titolo: UMBERTO ECO. I miracoli di un bugiardino
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2012, 04:58:14 pm
Opinione

I miracoli di un bugiardino

Umberto Eco

I fogli con le modalità d'uso dei farmaci contengono controindicazioni spaventose.

E va a finire che piuttosto di rischiare effetti collaterali si preferisce tenersi il mal di schiena

(01 novembre 2012)

Per lenire alcuni dolori artrosici il medico mi ha consigliato un farmaco che, onde evitare noiose contestazioni legali, indicherò con un nome di fantasia, Mortacc. Come fa ogni persona sensata, prima di prenderlo ho letto il bugiardino, e cioè quel foglietto accluso che ti dice in quali casi non devi assumerlo (per esempio se ci bevi sopra una bottiglia di vodka, se devi guidare un Tir di notte da Milano a Cefalù, se hai la lebbra e sei incinta di tre gemelli). Ora il mio bugiardino avvisa che prendendo Mortacc si possono avere alcune reazioni allergiche, gonfiore al viso, labbra e gola, capogiri e sonnolenza e (negli anziani) cadute accidentali, offuscamento o perdita della vista, danni alla colonna vertebrale, insufficienza cardiaca e/o renale, riduzione dell'urinazione. Alcuni pazienti hanno manifestato pensieri suicidari e autolesionistici e si raccomanda (immagino, quando il paziente sta tentando di buttarsi dalla finestra) di consultare un medico (io direi i pompieri). Naturalmente Mortacc può causare stipsi, intestino paralizzato, convulsioni e, se preso con altri medicinali, insufficienza respiratoria e coma.

Non parliamo della proibizione assoluta di guidare automobili o manovrare macchinari complessi, e intraprendere attività potenzialmente pericolose (immagino azionare una pressa stando in piedi su una putrella al cinquantesimo piano di un grattacielo). Se poi avete preso Mortacc in dosi superiori a quelle prescritte attendetevi di sentirvi confusi, assonnati, agitati e irrequieti; se ne prendete di meno o sospendete di colpo il trattamento si possono avere disturbi del sonno, mal di testa, nausea, ansia, diarrea, convulsioni, depressione, sudorazione e capogiri.

PIÙ DI UNA PERSONA su dieci avvertiranno aumento dell'appetito, eccitazione, confusione, perdita della libido, irritabilità, disturbi dell'attenzione, goffaggine (sic), compromissione della memoria, tremore, difficoltà nel parlare, sensazione di formicolio, letargia e insonnia (insieme?), spossatezza, offuscamento della vista, visione doppia, vertigini e disturbi dell'equilibrio, bocca secca, vomito, flatulenza, difficoltà nell'erezione, gonfiore del corpo, sensazione di ebbrezza, anomalie nell'andatura.

PIU' DI UNA PERSONA SU MILLE avvertiranno abbassamento degli zuccheri, alterata percezione di sé, depressione, oscillazioni dell'umore, difficoltà nel trovare le parole, perdita di memoria, allucinazioni, sogni alterati, attacchi di panico, apatia, sentirsi strani (sic), incapacità di raggiungere l'orgasmo, ritardo nell'eiaculazione, difficoltà di ideazione, intorpidimento, anomalie nel movimento degli occhi, riflessi ridotti, sensibilità cutanea, perdita del gusto, sensazione di bruciore, tremore durante il movimento, riduzione della coscienza, svenimento, aumento della sensibilità ai rumori, secchezza e gonfiore degli occhi, lacrimazione, disturbi del ritmo cardiaco, bassa pressione, pressione alta, disturbi vasomotori, difficoltà nella respirazione, secchezza nasale, gonfiore addominale, aumento nella produzione di saliva, bruciore gastrico, perdita di sensibilità intorno alla bocca, sudorazione, brividi, contrazioni e crampi muscolari, dolore articolare, mal di schiena, dolore agli arti, incontinenza, difficoltà e dolore nell'urinare, debolezza, cadute, sete, senso di costrizione al torace, alterazione degli esami del sangue e della funzionalità epatica. Per quel che accade a meno di una persona su mille, lascio perdere: impossibile essere così sfigati.

Ho evitato di prendere anche una sola pillola perché ero sicuro che mi sarei subito sentito affetto (come voleva l'immortale Jerome K. Jerome) da ginocchio della lavandaia - anche se il bugiardino non lo registrava. Ho pensato di buttare subito il resto, ma se lo gettavo nella spazzatura rischiavo di indurre mutazioni in colonie di topi con conseguenze epidemiche. Ho chiuso tutto in una scatola di metallo che ho seppellito in un parco a un metro di profondità.
Devo dire che nel frattempo mi sono passati i dolori artrosici.

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Titolo: UMBERTO ECO. Il vero nemico oggi è la pigrizia
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2012, 09:09:39 pm
La bustina

Il vero nemico oggi è la pigrizia

di Umberto Eco


Chi investe nella 'ndrangheta per ottenere voti. Chi ruba e falsifica libri antichi.

Chi ricorre al popolo della rete per farsi fare il compito. Ovvero: si comincia con poco e poi si aumenta la posta. Pur di non lavorare. Perché lavorare stanca

(13 novembre 2012)

Il manifesto elettorale di Domenico Zambetti, l assessore finito in manette per aver comprato voti dalla ndrangheta Il manifesto elettorale di Domenico Zambetti, l'assessore finito in manette per aver comprato voti dalla 'ndrangheta

Investimenti. Siamo stati tutti scandalizzati dal signore che ha versato 200 mila euro alla 'ndrangheta per assicurarsi 4 mila voti. E infatti sono cose che non si fanno. Ma non si è riflettuto abbastanza su altri tre problemi. Primo, dove aveva preso quel signore 200 mila euro? Va bene, saranno stati i suoi sudati risparmi. Secondo, perché per ottenere un posto di consigliere regionale spendeva circa l'equivalente di un anno di stipendio netto? E come avrebbe vissuto il primo anno se i risparmi li aveva già spesi? Forse perché dalla sua nuova posizione poteva ottenere molto di più di 200 mila euro. Il terzo problema è che circolano per Milano 4 mila persone che per 50 euro hanno venduto il loro voto. O erano troppo disperati o troppo furbi. In entrambi i casi è una cosa triste.

DISINVESTIMENTI. Tutti coloro che amano il libro si sono sdegnati per l'attività del signor De Caro, direttore e svaligiatore della biblioteca Girolamini di Napoli, anche perché pare che da anni non solo facesse commercio di libri rubati ma producesse anche abilissime falsificazioni. Se devo dare ascolto a un documentato articolo di Conchita Sannino su "Repubblica" del 2 novembre, molti di questi libri erano stati venduti su eBay, e si menziona una "Cronaca di Norimberga", famoso incunabolo, per 30 mila euro. Ma allora in questa vicenda De Caro non è l'unico colpevole. Qualsiasi lettore di cataloghi (ma basta anche un'esplorazione di 15 minuti su Internet), sa che la "Cronaca" di Schedel si può trovare da un minimo di 75 mila euro a un massimo di 130 mila, a seconda della perfezione della copia. Pertanto una copia da 30 mila o è incompleta o in tali condizioni da essere pietosamente definita dai librai onesti come "copia di studio" (ma allora dovrebbe costare meno di 30 mila euro). Quindi chi ha comperato su eBay una "Cronaca" per quel prezzo non poteva ignorare che stava facendo un incauto acquisto (a essere indulgenti, e a essere severi una ricettazione). Siamo proprio attorniati da mascalzoni, alcuni in vendita a 50 euro, altri con uno sconto del 60 per cento sui prezzi di mercato.

S'INCOMINCIA DA PICCOLI. Leggo con stupefazione su "Yahoo Answers" il seguente appello: «Piccolo aiutinoo! Mi servirebbe il riassunto de "La cosa" di Umberto Eco. Mi potete aiutare?? Grazie mille». Allo stato dei fatti non ci sono risposte. C'è invece una risposta a un'altra richiesta di aiuto per un altro compitino: «L'effetto della tecnologia sui ragazzi Aiutatemi per favore». Risponde tale Luigia: «ahahaahha io direi proprio che la tecnologia ha fatto sì che i ragazzi cerchino risposte facili su social network e canali perché ormai non sono più in grado di formulare un pensiero da soli e vanno alla ricerca di qualcuno che li imbocchi. L'onniscienza del web è diventata la loro grande mamma in grado di viziarli e far loro progressivamente spegnere il cervello... ahahahahah».

Brava Luigia, ragazza di buon senso. Ma torniamo all'episodio, che mi lusinga, per cui un maestro o un professore ha invitato i suoi ragazzi a fare il riassunto di un mio testo. Non credo proprio che lo abbia soltanto nominato invitando i ragazzi ad andarselo a cercare; data la brevità del testo avrà dato una fotocopia. In ogni caso ecco l'atroce verità: quel mio raccontino (pubblicato non vi dico dove, se proprio vi scappa fatevi una ricerchina) conta cinque, dico cinque, pagine. Dunque chi ha lanciato l'appello faceva prima a leggerselo piuttosto che accendere il computer, entrare in linea, scrivere il messaggio e aspettare una risposta. Oppure l'ha letto ma non era in grado di dire che cosa dicesse (e vi assicuro che è un apologo semplicissimo alla portata anche di un cerebroleso).

Credo che si tratti solo di pigrizia. Si comincia col rubare una mela, poi un portafoglio e poi si strangola la propria madre, mi dicevano da piccolo. Si comincia a chiedere agli altri un riassunto, poi si vende il voto per 50 euro, poi si ruba un incunabolo, perché lavorare stanca, come diceva quel tale.

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Titolo: UMBERTO ECO. Dov'è andata la morte?
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 04:30:50 pm
La bustina

Dov'è andata la morte?

di Umberto Eco

L'evento si consuma lontano, in ospedale. Non seguiamo più il feretro al cimitero. Non vediamo i morti. Se non al cinema. Ma non vivendo l'esperienza saremo più terrorizzati quando il momento si avvicinerà

(29 novembre 2012)

Il "Magazine Littéraire" francese dedica il suo numero di novembre a "Quello che la letteratura sa della morte". Ho letto con interesse i vari articoli, ma sono rimasto deluso dal fatto che, tra tante cose che non sapevo, in fin dei conti mi ripetessero un concetto notissimo: che la letteratura si è sempre occupata, oltre che dell'amore, della morte. Gli articoli del periodico francese parlano della presenza della morte sia nella narrativa del secolo scorso, sia nella letteratura gotica pre-romantica, ma si sarebbe potuto discettare sulla morte di Ettore e sul lutto di Andromaca, o sulle sofferenze dei martiri in tanti testi medievali. Per non dire che la storia della filosofia inizia con l'esempio più consueto di premessa maggiore di un sillogismo: «Tutti gli uomini sono mortali».

IL PROBLEMA MI PARE piuttosto un altro, e forse dipende dal fatto che oggi si leggono meno libri: noi contemporanei siamo divenuti incapaci di venire a patti con la morte. Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull'inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal "Giovane provveduto" di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un'immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte - se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l'Esercizio della Buona Morte: «Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire... Quando le mie mani tremule e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore... Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall'orror della morte imminente ... Quando le mie barra fredde e tremanti.... Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione e il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine... Quando la mia immaginazione, agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze... Quando avrò perduto l'uso di tutti i sensi... misericordioso Gesù, abbiate pietà di me».

PURO SADISMO, SI DIR?€ . Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. O meglio, ne vediamo continuamente, che schizzano brandelli di cervello sui finestrini dei taxi, saltano in aria, si sfracellano sui marciapiedi, cadono in fondo al mare coi piedi un cubo di cemento, lascian rotolare sul selciato la loro testa - ma non siamo noi o i nostri cari, sono gli attori. La morte è uno spettacolo, persino nei casi in cui i media ci raccontano della ragazza realmente stuprata o vittima del serial killer. Non vediamo il cadavere straziato, perché sarebbe un modo di ricordarci la morte. Ci fanno vedere gli amici piangenti che recano fiori sul luogo del delitto e, con un sadismo ben peggiore, suonano alla porta della mamma per chiederle «Cosa ha provato quando hanno ucciso sua figlia?». Non si mette in scena la morte bensì l'amicizia e il dolore materno, che ci toccano in modo meno violento.

Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita - e con cui l'uomo saggio viene a patti per tutta la vita.


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Titolo: UMBERTO ECO. Il senso di Bersani per la metafora
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2012, 04:18:03 pm
Opinione

Il senso di Bersani per la metafora

di Umberto Eco

Il leader del Pd, con l'aiuto di Crozza, ha creato un genere letterario. Ma i suoi detti come "non siamo qui ad asciugare gli scogli", vanno chiamati con il nome giusto. Che in retorica è quello di "esempio paradossale"

(21 dicembre 2012)

Ormai in lizza autorevole per le elezioni politiche Pier Luigi Bersani parlerà ancora a lungo nei prossimi mesi e, fedele all'immagine che si è creato, di persona di buon senso popolare, immagino che farà ancora uso di quelle che lui e altri definiscono ormai come le "metafore di Bersani", e che io da ora in avanti chiamerò "bersanemi" per le ragioni di cui dirò. I bersanemi hanno dato origine a una divertente serie di emulazioni, a partire da Crozza e, se pure l'origine dei suoi detti risale ad antiche saggezze popolari, Bersani ha creato un genere letterario.

IL FENOMENO E' ORMAI di tale portata che non siamo più in grado di distinguere i bersanemi originali da quelli inventati da Crozza, e Bersani stesso ha partecipato a confronti col comico genovese, talora riprendendo suoi vecchi e venerabili detti e talora impadronendosi di quelli del suo parodista. Pertanto si possono citare come bersanemi, distinguendoli solo per efficacia proverbiale ed effetto umoristico, senza preoccuparci della loro paternità, tutti i casi in cui si affermi che non siamo qui ad asciugare gli scogli, a smacchiare i leopardi (o i giaguari), a spalmarci la brillantina sui peli del petto, a tagliar via i bordi ai toast, a cambiare gli infissi al Colosseo, a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole, a pettinar le bambole, a rompere le noci a Cip e Ciop, a rimettere il dentifricio nel tubetto, a fare il parmigiano con il latte di soia, a innaffiare l'orto con la cedrata Tassoni, a far l'elemosina all'uranio impoverito...

Bersani ha ammesso che i suoi detti sono un modo di parlare democraticamente a tutti gli elettori, e a tradurre in parole semplici un concetto complesso. Ma quello di cui voglio occuparmi è solo un equivoco tecnico che a mio parere non è irrilevante, perché non bisogna, in un'era di calo dell'informazione culturale e dei buoni usi linguistici, diffondere idee sbagliate – anche se l'errore è irrilevante dal punto di vista politico. I bersanemi non sono metafore e non bisogna incoraggiare i ragazzi ad andarlo a dire all'esame di maturità. In termini di teoria della retorica (da Aristotele ai giorni nostri) una metafora è un "tropo" in cui a un termine letterale se ne sostituisce un altro che tende certamente a definire meglio ciò di cui si parla, ma che se fosse preso alla lettera sarebbe una falsità. Dire di una cantante che è un usignolo è letteralmente falso, perché una soprano non è un uccello, ma vuole creare l'idea che quella donna canti in modo favoloso. Dire che Balotelli è un fulmine è falso, perché il giovanotto non è un fenomeno atmosferico, ma esprime la sua rapidità come goleador. Invece dire che qualcuno pettina le bambole e taglia i bordi al toast non suona letteralmente falso, salvo che esprime un'attività che è certamente complessa ma fondamentalmente inutile e contraria al buon senso; che qualcuno voglia spalmare l'Autan sulle zanzare non è impossibile, anche se fa pensare che stia perdendo tempo senza costrutto.

PROVIAMO DUNQUE , definito un bersanema come X, a pensare che ogni occorrenza degli X presuma la premessa "ragazzi, non stiamo a perdere tempo a fare qualcosa di complicato e stupidamente inutile come X". Ecco, ho sfogliato tutti i manuali classici di retorica e ne ho concluso che un bersanema è un "esempio", figura retorica per cui, invece di definire una serie molto vasta di cose, si ricorre alla citazione di un caso singolo (per esempio "non stiamo qui a pensare di salvare la repubblica ammazzando Cesare quando poi apriamo la strada ad Augusto"). Salvo che gli esempi dei bersanemi rappresentano azioni che per la loro faticosità e inutilità appaiono paradossali, e per questo fanno ridere. Quindi un bersanema è un esempio di "esempio paradossale", dove l'azione citata contrasta con l'opinione diffusa o universalmente accettata, con il buon senso e l'esperienza comune... Chiarito il problema, per tigna di semiologo, ben vengano i paradossi espressi dai bersanemi, purché non si continuino a fare cose faticose e stupidamente inutili.

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Titolo: UMBERTO ECO. - Giochini di fine anno
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:34:40 pm
Giochini di fine anno

di Umberto Eco

Quando i tempi sono tristissimi è proprio allora che si deve ridere. Anche perché a questo punto i lettori sapranno che il 21 dicembre non è avvenuta l'apocalisse promessa dai Maya e si troveranno un poco più soli nell'universo

(27 dicembre 2012)

Quando leggerete questa bustina, Natale sarà già passato ma mentre la scrivo non è ancora arrivato. Devo comperare i giocattoli ai nipotini, cade la neve, e non ho voglia di abbandonarmi a pensieri seri. Inoltre non so nemmeno se i miei venticinque lettori, perduti tra le vette o (data la crisi) in qualche acquitrino, troveranno un'edicola per comperare "l'Espresso". Apro quindi alcuni cassetti per ritrovare antichi giochini che mi vergognavo a far circolare in tempi così tristi. Ma quando i tempi sono tristissimi è proprio allora che si deve ridere. Anche perché a questo punto i lettori sapranno che il 21 dicembre non è avvenuta l'apocalisse promessa dai Maya e si troveranno un poco più soli nell'universo. D'altra parte Stanislaw Lec aveva avvertito: «Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo».

ANZITUTTO, UNA RISPOSTA a Stefano Bartezzaghi che nel suo "Dando buca a Godot" propone alcuni "less ambitious books" e cioè libri che dicono o promettono meno dei loro modelli, come dire "Sterminio a Venezia" o "L'Autostrada dei Nidi di Ragno", ma attende dei "more ambitious books", che cioè promettano più del loro modelli. A me pare che anche quelli che proponeva lui fossero già più ambiziosi, ma andiamo avanti. Ci siamo riuniti intorno al fuoco Danco Singer, Riccardo Fedriga e io e abbiamo tirato giù una prima lista. Alcuni sono evidenti, altri richiedono tra parentesi un richiamo all'opera originaria, come a esempio "Il duomo di Milano", che certamente darebbe più spazio alla "Certosa di Parma" o "La pariolina" che farebbe salire sulla scala sociale "La ciociara". Proseguiamo: Cristo si è fermato a Capalbio, Ventimila leghe nella stratosfera, I 6 mitraglieri, Due anni subito dopo, Gli sposi mantenuti, Le penthouse del Vaticano, I mausolei (I sepolcri), Strage ed ergastolo (Delitto e castigo), L'accettazione della Ragion Pura, 100 anni in compagnia, Il giro dell'universo in un secondo, I santi musical (Operette morali), Gli attentissimi (Gli indifferenti), Quel capolavoro bellissimo di via Veneto, Per chi suona la filarmonica, Pian de la paella, Il parco dei Rothschild (Il giardino dei Finzi Contini), Le certezze ritrovate (Le illusioni perdute), L'avventuroso komplicatissimus, I piaceri del Werther maturo, Gran mondo moderno, Oziare tira su (Lavorare stanca), I 90 giorni della città di Cuneo, Le mie prescrizioni, La donna piena di virtù (L'uomo senza qualità), Il duca di Capri (Il conte di Montecristo).


TRA ALTRI VECCHI GIOCHINI ritrovati c'è una serie che non so come definire: Dottore, tutti i paranoici mi perseguitano; Dice bugie, ma tutte inesatte; Dottore sto male, credo di essere ipocondriaco; Non solo ruba, ma ruba la roba altrui; E' uomo di poche parole, e anche quelle insensate; E' così falso che non si guarda mai negli occhi; Mente persino agli altri.Poi c'è la serie dei "vorrei ma non posso": La Fiat Zero, Le due persone della Trinità, Attenti a quell'uno, Il Gran Maestro 32, Il secondo uomo, Secondo Carnera, Il secondo escluso, Uscire a fare un passo, I trentanove giorni del Mussa Dag, Essere al sesto cielo, I sei samurai, Biancaneve e i sei nani, After seven, La carica dei 599, La spedizione dei 900, Nove piccoli indiani, A las quatro y media de la tarde, Gliene ho detta una.

Avevo poi un giorno rilevato che i nomi dei medicinali debbono avere un suono esotico e parascientifico ma devono nel contempo suggerire l'uso a cui sono destinati, tipo Benagol. Tuttavia alcuni sono destinati a un uso imbarazzante e allora il nome deve alludere senza dire. Di solito il risultato è deprecabile e pertanto suggerisco soluzioni ottimali che esprimano la destinazione del farmaco e al contempo mettano in forte imbarazzo l'acquirente: Piscindox, Anumal, Scolosan, Prostaton, Sifilol, Defecax, Stitican, Ruttoplux, Antidiarrol, Abortin, Arteriosklerox, Piattolix, Pausamen, Mestruax, Uretrin, Emorrax, Ritardan, Vaginbel, Ascellax, Puzzolin, Aidsolin, Solitarnox. Insomma, buon 2013.

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Titolo: UMBERTO ECO. Sono su Facebook a mia insaputa
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 12:29:28 am
La Bustina

Sono su Facebook a mia insaputa

di Umberto Eco

Un certo Eco Umberto intrattiene rapporti a mio nome sul celebre social network.  E molte anime candide mandano gentili messaggi al falso me. Considerazioni sui 'bufalasti'

(15 gennaio 2013)

In occasione della morte di Rita Levi Montalcini molti siti hanno ricordato l'episodio del 2007 quando Francesco Storace, poco prima del voto sulla Finanziaria alla quale la grande scienziata aveva partecipato a sostegno del governo Prodi, irritato per questo libero esercizio dei diritti parlamentari, aveva detto della (allora) quasi centenaria Premio Nobel: «Le porteremo a casa le stampelle». Dopo, pare si fosse giustificato dicendo che era una «goliardata». Dobbiamo invece complimentarci con Storace; si trattava di una virtuosa conversione. Infatti i suoi predecessori e ispiratori la Montalcini l'avrebbero mandata direttamente nelle camere a gas.

I MIEI AVATAR. Nel maggio 2012 si era diffusa da un mio presunto sito Twitter "UmbertoEcoOffic" la notizia del mio cordoglio per la morte di Gabriel García Márquez. Leggevo che la notizia era rimbalzata in tutto il mondo suscitando sgomento, con migliaia di richieste di conferma e messaggi di condoglianze in tutte le lingue, dalla Spagna alla Polonia, dagli Usa al Brasile. Però immediatamente la stampa, in particolare quella anglosassone, aveva anzitutto controllato (come sempre si dovrebbe fare) che Gabo era ancora vivo e vegeto e poi che io non ho né un indirizzo Facebook né un indirizzo Twitter. Infatti ricevo già troppi messaggi inutili e non desidero inquinare l'universo con messaggi miei. Tuttavia qualsiasi frustrato con problemi di identità può assumere su Internet qualsiasi pseudonimo, da Aristotele a Mariomonti.

Ma la storia non finisce qui. Ora mi informano che un altro Umberto Eco si intrattiene su Facebook con molteplici dialoganti. Specifico che la notizia mi è stata data non dal "New York Times" ma dagli amici di un bar Sport di provincia, che ne sorridevano, perché non è necessario essere membri dell'Accademia della Crusca per subodorare subito la bufala.

Infatti avevano notato che nel sito mi presentavo come Eco Umberto (non Umberto Eco) e ne avevano dedotto che il bufalaste (così chiamerei gli orditori di bufale) usava la formula cognome-nome che denota un bassissimo livello di scolarità. Infatti per cognome e nome si presentano solo i ragazzini delle elementari i quali, se poi passano alle medie superiori o all'università, e crescendo in età e sapienza, adottano la formula nome-cognome (a meno che non siano ungheresi, giapponesi, o reclute delle Forze Armate).

Ma la questione non è che esista un bufalaste che non riceverebbe alcun messaggio a colmare la sua solitudine se si presentasse col proprio nome, ma che alcuni abbiano instaurato un dialogo con lui (ovvero il presunto me). La tragedia non è l'esistenza del bufalaste ma quella di una certa quantità di anime candide (che peraltro, devo dire, mi rivolgono messaggi molto gentili), le quali non si sono neppure accorte che il bufalaste, nel settore "Informazioni", sia pure in caratteri piccoli come quelli sul retro delle polizze di assicurazione ha scritto "Not the real one" e ha inserito una improbabile data di nascita del primo aprile 1960. Inutile, per alcuni tutto ciò che appare su uno schermo retroilluminato è vero, e poi si capisce perché la gente vota come vota.

ADULTERI. Ma la navigazione in Internet riserva molte altre sorprese. Su un sito che non nomino per non incoraggiare chi non riesce neppure a organizzarsi un onesto adulterio per conto proprio, trovo il seguente invito: «Voglia di mettere un po' di pepe nella tua vita in tutta discrezione? Osa fare nuovi incontri extraconiugali e viviti i tuoi fantasmi tra adulti 100 per cento consenzienti sul nostro servizio! Milioni di amanti hanno già raggiunto la community!».

Avrei voluto approfondire la cosa e collegarmi oltre per vedere che cosa mi si chiedeva di fare, ma ho intuito che sarei finito nella lista di "milioni di amanti", inevitabilmente decrittabile malgrado le promesse di privatezza. Come l'Ingrassia di "Amarcord" che, arrampicato su un albero, gridava di volere una donna. Mi viene in mente il detto di Woody Allen: «Desidero ritornare nell'utero. Di chiunque».


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dall' Espresso.


Titolo: UMBERTO ECO. Errata scorrige
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2013, 07:20:44 pm
Opinioni

Errata scorrige

di Umberto Eco


Da "sain dai" invece di sine die a "Doic bank", sui giornali e in tv si moltiplicano gli errori. Di scrittura o di pronuncia. E non si tratta solo di lapsus. Eppure basta una rapida consultazione di Internet per evitare strafalcioni

(24 gennaio 2013)

Da tempo immemorabile salto sulla sedia ogni qual volta leggo su giornali e riviste inaccettabili svarioni: può per esempio un quotidiano, come è avvenuto più di una volta, scrivere nella pagina culturale "Beaudelaire" invece di Baudelaire? La mia generazione imparava dai giornali come si scrivevano certe parole, e imparava dallo speaker del giornale radio (e mi scuso se non faccio trascrizioni fonetiche come si dovrebbe ma vado giù alla buona tanto per farmi capire) che si diceva "Cièrcil" e non "Scerscìll" – come leggevano i nostri maggiori, che pronunciavano tutti i nomi stranieri come se fossero francese. E invece i giornali scrivono oggi "suspence" invece di "suspense" e radio e televisione ci abituano a dire "sàspens" (o addirittura "süspàns" alla francese) invece di "suspéns", per non dire dell'orrido "manàgment" che appare spesso anche sulle bocche di un manager. Persone amiche mi segnalano (detto in tv) un Des-cartes con la "s" ben evidenziata, ed è peraltro memoria storica il caso dell'annunciatrice che, credendola espressione inglese, ha pronunciato "sine die" come "sain dai".Ho pertanto consigliato ad "Alfabeta" di raccogliere dai suoi redattori e dai suoi lettori segnalazioni di tutti i casi del genere e aprire una rubrica, che volgarmente intitolerei "Errata scorrige". Vedremo.

PER QUALI RAGIONI giornali e radio-televisioni svirgolano così? Ammettiamo pure casi di crassa ignoranza o di lapsus fatale (chi tra noi che scriviamo non ne ha mai commesso alzi la mano), ma almeno sulla carta stampata esisteva una volta il proto, che verso la chiusura del giornale con estrema pignoleria rileggeva ogni articolo, ogni titolo, ed era di solito persona dal sicuro mestiere che sapeva tutto, e Dio sa come faceva. Ma oggi che un quotidiano ha sessanta e più pagine questo controllo non è più possibile, e inoltre l'articolo arriva già formattato dall'autore e non occorre più controllare gli errori del compositore tipografo; ma con questo non si controllano gli errori del giornalista.

Poi c'è il calo di memoria storica. Leggevo su un grande quotidiano una rievocazione del 1945, con l'arrivo degli americani e le ragazze che impazzivano per il rock'n'roll. Il rock'n'roll? Ma nel '45 si ballava il boogie woogie e il rock'n' roll era ancora allo stato nascente e ignoto al grande pubblico! Ora non solo l'articolo parlava anacronisticamente di questa danza, ma il richiamo era ripreso nei sottotitoli, segno che gli smemorati erano due, l'autore del pezzo e il redattore. Forse entrambi nel '45 non erano ancora nati, ma questa non è una scusa. Molti di noi (immagino) non erano ancora nati nel Sei-Settecento ma sanno che il minuetto non è stato introdotto in Italia dai marines.

D'ALTRA PARTE, SEMPRE PARLANDO di ignoranza, nel famigerato incontro Santoro-Berlusconi si è dibattuto a lungo su una confusione tra Bundes Bank e Deutsche Bank, salvo che tutti, dal conduttore al cavaliere non pronunciavano "doice" bensì "doic" (con la "c" dolce così come ormai si scrive "c'a"). Certamente non è obbligatorio conoscere il tedesco, ma moltissimi che non lo parlano sanno almeno che non si pronuncia "Freud" bensì "Froid".

Il fatto è che il giorno dopo un noto quotidiano, riprendendo le fasi salienti dello scontro, scriveva allegramente "Deutsch Bank" invece di "Deutsche Bank". Niente da fare, la pronuncia televisiva faceva aggio sulle conoscenze scolastiche o parascolastiche.

Si noti che, malgrado tutte le critiche che si possono fare a Internet, con una breve visita a Wikipedia si può trovare il modo in cui si scrivono le parole straniere e che esistono siti in cui una voce gentile pronuncia nel modo giusto le parole che vi servono. Se andate su "http://www.howjsay.com/" sentite come si dice "management" e in "http://www.comesipronuncia.it/pronuncia_query.php?select_lettera=D" vi si insegna come pronunciare "deutsche" (anzi addirittura "Deutsche Bank"), e persino come si scrive.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/errata-scorrige/2198986/18


Titolo: UMBERTO ECO. Un Asterix europeo?
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2013, 11:09:40 am
Opinioni

Un Asterix europeo?

di Umberto Eco


L'idea di Europa sta morendo. Eppure il senso di identità è forte, almeno nelle élite intellettuali. Forse lo è di meno tra la gente comune. Abituata a celebrare come eroi personaggi che ammazzavano cittadini dei paesi confinanti

(07 febbraio 2013)

Brutti tempi per chi crede nell'Unione europea: da Cameron che chiama i suoi compatrioti a decidere se la vogliano ancora (o l'abbiano mai voluta), da Berlusconi che un giorno si dichiara europeista ma il giorno dopo, se non fa un appello viscerale ai vecchi fascisti, lo fa a chi ritiene che tornando alla lira starebbe meglio, alla Lega e al suo provincialismo ipoeuropeo, insomma, si direbbe che - a distanza di più di cinquant'anni - le ossa dei padri fondatori dell'Europa unita fremano nella tomba.

Eppure tutti dovrebbero sapere che nel corso della seconda guerra mondiale sono morti 41 milioni di europei (dico i soli europei, non calcolando gli americani e gli asiatici) massacrandosi l'un l'altro e che da allora, salvo il tragico episodio balcanico, l'Europa ha conosciuto 68 (dico sessantotto) anni di pace; e se si raccontasse a dei giovani che i francesi potrebbero oggi arroccarsi sulla linea Maginot per resistere ai tedeschi, che gli italiani vorrebbero spezzare le reni alla Grecia, che il Belgio potrebbe essere invaso, che aerei inglesi potrebbero bombardare Milano, questi giovani (che magari stanno appressandosi a compiere un anno in qualche altro paese del continente col programma Erasmus, e forse alla fine di questa esperienza incontreranno un'anima gemella che parla una lingua diversa dalla loro) crederebbero che stiamo inventando un romanzo di fantascienza. Né gli adulti si rendono conto che ormai attraversano senza passaporto frontiere che i loro padri o i loro nonni avevano varcato con un fucile in mano.

MA DAVVERO L'IDEA DELL'EUROPA non riesce ad attrarre gli europei? Bernard-Henri Lévy ha recentemente lanciato un appassionato manifesto perché si ritrovi una identità europea, "Europe ou chaos", che inizia con una minaccia inquietante: «L'Europa non è in crisi, sta morendo. Non l'Europa come territorio, naturalmente. Ma l'Europa come Idea. L'Europa come sogno e come progetto». Il manifesto è stato firmato da António Lobo Antunes, Vassilis Alexakis, Juan Luis Cebrián, Fernando Savater, Peter Schneider, Hans Christoph Buch, Julia Kristeva, Claudio Magris, Gÿorgy Konrád e Salman Rushdie (che europeo non è ma in Europa aveva trovato il suo primo rifugio all'inizio della sua persecuzione). Siccome avevo firmato anch'io mi sono ritrovato con alcuni dei cofirmatari, qualche giorno fa, al Théâtre du Rond-Point a Parigi, per un dibattito. Uno dei temi che è subito emerso, e che mi trova ampiamente consenziente, è che esiste una coscienza dell'identità europea, e mi è accaduto di citare le pagine del "Tempo ritrovato" di Proust quando, in una Parigi che teme i bombardamenti degli Zeppelin tedeschi, gli intellettuali continuano a parlare e scrivere di Goethe o di Schiller come di una parte integrante della loro cultura.

MA QUESTO SENSO DELL'IDENTIT?€ europea, se è certamente fortissimo presso le élite intellettuali, lo è anche presso la gente comune? Mi è accaduto di riflettere sul fatto che ancor oggi in ogni paese europeo si celebrano (a scuola e nelle pubbliche manifestazioni) i propri Eroi, che sono tutta gente che ha valorosamente ammazzato altri europei, a partire da quell'Arminio che ha sterminato le legioni di Varo, a Giovanna d'Arco, al Cid Campeador (perché i musulmani contro cui si batteva erano da secoli europei), ai vari eroi risorgimentali italiani o ungheresi, sino ai nostri caduti contro il nemico austriaco. Nessuno sente mai parlare di un Eroe europeo? Non ce ne sono mai stati? E chi erano Byron o Santorre di Santarosa, che andavano a lottare per la libertà greca, o i non pochi Schindler che hanno salvato la vita di migliaia di ebrei senza preoccuparsi di che nazione fossero, per finire con gli eroi non guerrieri, quali erano stati De Gasperi, Monnet, Schuman, Adenuauer, Spinelli? E andando a cercare nei recessi della storia se ne potrebbero trovare altri, di cui parlare ai ragazzi (e agli adulti). Possibile che non si possa trovare un Asterix europeo di cui parlare agli europei di domani?

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/un-asterix-europeo/2199881/18


Titolo: UMBERTO ECO. Com'è empatico quel cantante
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:59:23 pm
La bustina

Com'è empatico quel cantante

di Umberto Eco

Tra i peggiori vezzi linguistici recenti c'è quello di usare a vanvera il presunto sinonimo di «simpatico»: che in realtà vuol dire una cosa diversa. Come quelli che dicono «e quant'altro» invece di «eccetera», così si sentono più fighi

(27 febbraio 2013)

Nella scorsa Bustina lamentavo la cattiva pronuncia di parole straniere in cui eccellono anche molti personaggi pubblici, specie in televisione. Naturalmente è come parlare al vento, e ho risentito Berlusconi ridire "doic bank" invece di "doice" e Vendola dire "manàgment". Ma non si può pretendere che queste persone, così occupate nella battaglia elettorale, leggano "l'Espresso".

Un amico mi ha fatto osservare che non si deve essere severi con gli italiani perché francesi e inglesi (o americani) pronunciano immancabilmente i nomi stranieri in modo sbagliato. Ma anzitutto i francesi hanno una giustificazione perché la loro lingua non conosce l'accento tonico (ovvero essi accentuano tutte le sillabe, e così danno l'impressione di accentuare sempre l'ultima, e a noi pare che dicano Berlusconì e Montì ma loro stanno semplicemente dicendo Bérlùscònì e Mòntì).

Poi il francese prima, e l'inglese ora, sono o sono state lingue internazionali, e i loro parlanti non hanno mai sentito il bisogno di imparare altri idiomi - e non sanno cosa si perdono. Così accade che, come mi hanno spiegato gli amici francesi, quando noi parlando francese diciamo "Borghes" (come fanno gli ispano-parlanti) mentre loro dicono "Borgès", diamo l'impressione di essere un poco snob. Ma i tedeschi si sentirebbero imbarazzati se scoprissero di pronunciare male un nome straniero e così accade da noi. Quindi, se si parla in Italia, la regola è pronunciare bene i nomi stranieri, altrimenti si è considerati degli zotici.

Ma passiamo ad altri nostri vezzi linguistici. Abbiamo superato la fase in cui ormai si diceva "esatto" invece di "sì", e pochi ancora tirano fuori "un attimino" invece di dire "un momento", ma sono ancora legione quelli che (credendo forse di non parere zotici) dicono "e quant'altro" invece di "e via dicendo" o "eccetera". Ma non siamo i soli, da alcuni anni i francesi dicono a ogni passo che qualcosa è "incontournable" per dire che non ci si può passare intorno perché è importante prenderlo in considerazione, mentre potrebbero benissimo dire che qualcosa è "inévitable" o "indispensable". Non è che "incontournable" non sia buon francese, ma lo si sente ormai dire a ogni piè sospinto e dà un poco noia.

Uno dei nuovi vezzi che mi pare serpeggino è l'abuso della parola "empatia". Di solito l'adopera invece di "simpatia" chi evidentemente ritiene che provare empatia sia più bello che provare simpatia. Non è più bello, è un'altra cosa. La simpatia è un concetto corrente e secondo un buon dizionario significa «provare inclinazione e attrazione istintiva verso persone», così che posso provare simpatia verso una persona anche se non so esattamente che cosa provi nel suo animo, magari semplicemente perché ha un bel sorriso, mi ha fatto uno sconto o mi offre da bere al bar.

L'empatia invece è un concetto scientifico, che nasce in psicologia e in estetica tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Vischer e poi Lipps parlavano di "einfühlung", poi tradotto in inglese come "empathy", e il concetto veniva applicato all'inizio anche al godimento estetico, per cui apprezzare una certa forma voleva dire, per così dire, vivere quella forma stessa come fosse parte del nostro corpo: così una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo, e l'inverso avviene con una colonna ben proporzionata che ci fa vivere un senso di leggerezza. Per empatia si è condotti a provare, nel nostro intimo, lo stesso sentimento o sensazione che prova un altro ?€“ e di empatia alcuni parlano anche a proposito dei "neuroni specchio", ma non voglio mettere naso in una controversia che agita le neuroscienze.

Insomma, se per simpatia posso anche aiutare qualcuno che soffre (anche se so pochissimo della sua sofferenza interiore), per empatia proverei la sua stessa sofferenza anche se per costui o costei non avvertissi nessuna simpatia e non mi ponessi il problema di alleviare la sua pena. Per cui sovente dire di provare empatia per qualcuno o qualcosa è solo un modo di parlare difficile senza che ce ne sia bisogno.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/come-empatico-quel-cantante/2200940/18


Titolo: UMBERTO ECO. Com'è empatico quel cantante
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 11:19:57 pm
La bustina

Com'è empatico quel cantante

di Umberto Eco

Tra i peggiori vezzi linguistici recenti c'è quello di usare a vanvera il presunto sinonimo di «simpatico»: che in realtà vuol dire una cosa diversa. Come quelli che dicono «e quant'altro» invece di «eccetera», così si sentono più fighi

(27 febbraio 2013)

Nella scorsa Bustina lamentavo la cattiva pronuncia di parole straniere in cui eccellono anche molti personaggi pubblici, specie in televisione. Naturalmente è come parlare al vento, e ho risentito Berlusconi ridire "doic bank" invece di "doice" e Vendola dire "manàgment". Ma non si può pretendere che queste persone, così occupate nella battaglia elettorale, leggano "l'Espresso".

Un amico mi ha fatto osservare che non si deve essere severi con gli italiani perché francesi e inglesi (o americani) pronunciano immancabilmente i nomi stranieri in modo sbagliato. Ma anzitutto i francesi hanno una giustificazione perché la loro lingua non conosce l'accento tonico (ovvero essi accentuano tutte le sillabe, e così danno l'impressione di accentuare sempre l'ultima, e a noi pare che dicano Berlusconì e Montì ma loro stanno semplicemente dicendo Bérlùscònì e Mòntì).

Poi il francese prima, e l'inglese ora, sono o sono state lingue internazionali, e i loro parlanti non hanno mai sentito il bisogno di imparare altri idiomi - e non sanno cosa si perdono. Così accade che, come mi hanno spiegato gli amici francesi, quando noi parlando francese diciamo "Borghes" (come fanno gli ispano-parlanti) mentre loro dicono "Borgès", diamo l'impressione di essere un poco snob. Ma i tedeschi si sentirebbero imbarazzati se scoprissero di pronunciare male un nome straniero e così accade da noi. Quindi, se si parla in Italia, la regola è pronunciare bene i nomi stranieri, altrimenti si è considerati degli zotici.

Ma passiamo ad altri nostri vezzi linguistici. Abbiamo superato la fase in cui ormai si diceva "esatto" invece di "sì", e pochi ancora tirano fuori "un attimino" invece di dire "un momento", ma sono ancora legione quelli che (credendo forse di non parere zotici) dicono "e quant'altro" invece di "e via dicendo" o "eccetera". Ma non siamo i soli, da alcuni anni i francesi dicono a ogni passo che qualcosa è "incontournable" per dire che non ci si può passare intorno perché è importante prenderlo in considerazione, mentre potrebbero benissimo dire che qualcosa è "inévitable" o "indispensable". Non è che "incontournable" non sia buon francese, ma lo si sente ormai dire a ogni piè sospinto e dà un poco noia.

Uno dei nuovi vezzi che mi pare serpeggino è l'abuso della parola "empatia". Di solito l'adopera invece di "simpatia" chi evidentemente ritiene che provare empatia sia più bello che provare simpatia. Non è più bello, è un'altra cosa. La simpatia è un concetto corrente e secondo un buon dizionario significa «provare inclinazione e attrazione istintiva verso persone», così che posso provare simpatia verso una persona anche se non so esattamente che cosa provi nel suo animo, magari semplicemente perché ha un bel sorriso, mi ha fatto uno sconto o mi offre da bere al bar.

L'empatia invece è un concetto scientifico, che nasce in psicologia e in estetica tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Vischer e poi Lipps parlavano di "einfühlung", poi tradotto in inglese come "empathy", e il concetto veniva applicato all'inizio anche al godimento estetico, per cui apprezzare una certa forma voleva dire, per così dire, vivere quella forma stessa come fosse parte del nostro corpo: così una colonna sottile che regge un grosso capitello può suscitare un senso di disagio, di squilibrio, di sforzo, e l'inverso avviene con una colonna ben proporzionata che ci fa vivere un senso di leggerezza. Per empatia si è condotti a provare, nel nostro intimo, lo stesso sentimento o sensazione che prova un altro ?€“ e di empatia alcuni parlano anche a proposito dei "neuroni specchio", ma non voglio mettere naso in una controversia che agita le neuroscienze.

Insomma, se per simpatia posso anche aiutare qualcuno che soffre (anche se so pochissimo della sua sofferenza interiore), per empatia proverei la sua stessa sofferenza anche se per costui o costei non avvertissi nessuna simpatia e non mi ponessi il problema di alleviare la sua pena. Per cui sovente dire di provare empatia per qualcuno o qualcosa è solo un modo di parlare difficile senza che ce ne sia bisogno.


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Titolo: UMBERTO ECO. Consiglio al Pd: vola bassissimo
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 11:20:48 pm
Opinione

Consiglio al Pd: vola bassissimo

di Umberto Eco

In Italia la sinistra può vincere solo se tutti pensano che stia per perdere. Altrimenti non ha chance. E' uno dei paradossi emersi dalle urne. Facciamone tesoro, la prossima volta

(14 marzo 2013)

Ci si attendeva una decisa vittoria del Pd e una pallida rimonta di Berlusconi, e le previsioni non si sono verificate. Ma c'è stato un precedente, quando Occhetto aveva annunciato di aver messo in piedi una gioiosa macchina da guerra, e poi è iniziata l'epoca berlusconiana. Parimenti, nel corso della scorsa campagna elettorale, tutto l'approccio del Pd è stato in termini trionfalistici: Bersani dava per certa la propria decisiva maggioranza, asseriva che chi avrebbe vinto (e cioè lui) avrebbe governato. Così, mentre a molti di noi pareva che il leader Pd conducesse una campagna da gran signore, senza svaccare come i suoi avversari, la sua campagna è risultata fiacca, perché condotta in base alla tranquilla persuasione che, secondo i sondaggi, ormai il Pd aveva vinto.

Corollario: ogni volta che la sinistra si presenta come sicuramente vincente, perde. Pura jella? Non ricordo più in quale talk show, Paolo Mieli aveva detto che è ormai un dato di fatto assodato, e da almeno sessant'anni, che in Italia il 50 per cento dei votanti non vuole un governo di sinistra o di centrosinistra. Sarà (commento io) la paura remota che risale ai tempi del "terribile Stalino l'orco rosso del Cremlino" di cui a noi fanciulli raccontava settimanalmente "il Balilla", sarà il terrore del bolscevico che abbevera i suoi cavalli alle acquasantiere di San Pietro (su cui aveva bene giocato la propaganda dei Comitati Civici nel 1948), sarà il terrore continuo che la sinistra aumenti le tasse (cosa che peraltro ha sempre annunciato, mentre è la destra che poi l'ha fatto), ma in sostanza quel popolo di buoni borghesi di mezza e tarda età, che non leggono giornali e vedono solo le televisioni di Mediaset, e a cui si rivolge Berlusconi quando minaccia il ritorno del comunismo, queste cose le pensa, e la paura dei governi di sinistra è un poco come il terrore dei Turchi, che dev'essere continuato a lungo anche dopo che a Lepanto era iniziato il declino dell'impero ottomano.

Dunque, e torno a quelle parole di Mieli, se la metà degli elettori italiani vive questo costante timore, non potrà che rivolgersi a chi ne propone l'antidoto, per cinquant'anni la Dc e per venti il berlusconismo. Credo che Mieli facesse questa analisi quando pareva che una salita in campo di Monti potesse offrire un'alternativa - e si veda come infatti, guidato da questo timore, Berlusconi abbia sempre condotto la sua battaglia contro Monti mostrandolo come servo sciocco della sinistra.

Bene, Monti non ce l'ha fatta e la difesa dalla sinistra è tornata a essere monopolio di Berlusconi. Da cui una riflessione che mi pare ovvia: la destra vince quando la sinistra convince l'elettorato moderato che sarà essa a salire al potere. La sinistra invece vince come, quando nel caso delle campagne di Prodi, non ha ostentato troppa fiducia, ha solo comunicato il messaggio subliminale "io speriamo che me la cavo", ed è riuscita a vincere quando non tutti ci avrebbero scommesso.

Una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari. Grillo ha fatto una campagna da vincente, ma è riuscito a dare l'impressione che lo escludessero dalla tv e dovesse rifugiarsi nelle piazze - e così ha riempito i teleschermi prendendo le parti delle vittime del sistema. Ma sapevano piangere Togliatti, che presentava i lavoratori come tenuti fuori dalla stanza dei bottoni dalla reazione in agguato; Pannella che, lamentandosi sempre che i media ignorassero i radicali, riusciva a monopolizzare l'attenzione costante di giornali e televisioni; Berlusconi, che si è sempre presentato come perseguitato dai giornali, dai poteri forti e dalla magistratura, e quando era al potere si lamentava che non lo lasciassero lavorare e gli remassero contro. E' dunque fondamentale il principio del "chiagne e fotti", ovvero, per non esprimerci in modo troppo volgare, quello del "keep a low profile", tieni sempre un "profilo basso".

Solo se non dà per sicura l'avanzata della sinistra il signore di mezza età si astiene o disperde i suoi voti. Se la sinistra millanta vittoria, il moderato si rifugia presso l'Unto del Signore.


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Titolo: UMBERTO ECO. Sì, ma cosa beve James Bond?
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 12:01:25 pm
La Bustina

Sì, ma cosa beve James Bond?

di Umberto Eco

La questione è intricatissima. E non bisogna fidarsi dei film, specie doppiati. Meglio leggere direttamente Fleming. Tenderei quindi a escludere la tesi che si facesse servire Martini con il vermouth rosso e dolce

(28 marzo 2013)

Leggo, in una lettera inviata su "Sette" a Antonio D'Orrico, che in una recente traduzione di "Vivi e lascia morire" James Bond ordina un cocktail Martini con Martini "rosso". Eresia parlare di un Martini con vermouth dolce, e una traduzione italiana precedente parlava di gin e Martini e Rossi, che è un'altra faccenda. E' vero che secondo alcune antiche cronache i primi cocktail Martini inventati in America nell'Ottocento sarebbero stati fatti di due once del "Martini and Rosso" italiano, un'oncia di gin Old Tom, più del maraschino e qualche altro ingrediente che suscita l'orrore di ogni persona bene educata. Ma, se pure il Martini Rosso appare nel 1863, secondo altri esperti il cocktail Martini si diffonde inizialmente nella forma attuale non usando il vermouth Martini bensì il Noilly Prat, e il nome Martini sarebbe associato al cocktail originario vuoi a causa di una località californiana (Martinez) vuoi dal nome Martinez di un barman. Insomma, su tutta questa intricatissima vicenda si veda il fondamentale "Martini straight up"di Lowell Edmunds, tradotto nel 2000 in Italia da Archinto come "Ed è subito Martini".

Ora, che cosa beve James Bond? In realtà beve di tutto e rimane famoso l'incipit di "Goldfinger" che, reso malamente nella traduzione del 1964, recitava "James Bond stava seduto nella sala d'aspetto dell'aeroporto di Miami. Aveva già bevuto due bourbon doppi e ora rifletteva sulla vita e la morte" – come se oltretutto Bond attendesse l'aereo come un passeggero della turistica. Invece scriveva Fleming (maestro di stile): «James Bond, with two double bourbon inside him, sat in the final departure lounge of Miami Airport and thought about life and death». Ma il primo Martini che 007 beve, in "Casino Royale" (e non "Casinò Royal" come nell'edizione italiana) è quello che poi sarebbe passato alla storia come Vesper Martini: «Tre misure di Gordon, una di vodka, mezza di China Lillet. Versate nello shaker, agitate sino a che è ben ghiacciato e poi aggiungete una bella di scorza di limone». Il China Lillet è un altro e più raro tipo di vermouth dry, e Bond berrà un Vesper Martini anche nel film "Quantum of solace".

In realtà Bond beve di solito il Martini come lo conosciamo noi ma, quando lo ordina, specifica «shaken, not stirred», il che vuole dire mettere gli ingredienti in uno shaker da agitare o scekerare (come avviene con vari altri cocktail) ma non mescolato in un mixer. Il problema è piuttosto che da Hemingway in avanti per fare un buon Martini si versano in un mixer già pieno di ghiaccio una dose di Martiny Dry, si versa il gin, si mescola o "mixa", e si filtra il liquore nel classico bicchiere triangolare in cui alla fine si inserirà l'oliva. Ma gli intenditori vogliono che, dopo versato il Martini e mescolato ben bene, si ponga una griglia sopra il mixer, si butti via il vermouth così che ne rimanga solo una patina a insaporire i cubetti, solo dopo si versi il gin e infine si filtri il gin ben freddo e insaporito di dry. Il rapporto tra gin e vermouth varia da intenditore a intenditore, compresa la versione per cui si dovrebbe soltanto far passare un raggio di luce attraverso la bottiglia del vermouth sino a toccare il ghiaccio, e basta. Nella versione che gli americani chiamano Gin Martini invece di Martini Cocktail si versa nel bicchiere anche il ghiaccio, ma i raffinati ne inorridiscono. Come mai un intenditore come Bond vuole il Martini scekerato e non mixed? C'è chi sostiene che se il Martini viene scekerato si introduce più aria nella mistura (si dice "bruising the drink") migliorandone il sapore. Ma personalmente non ritengo che un gentiluomo come Bond voglia il Martini scekerato. Infatti ci sono siti Internet che asseriscono che la frase, se appare nei film, non appare mai nei romanzi (così come in Conan Doyle non appare mai "elementare caro Watson"), se non forse a proposito del discusso Vodka Martini. Ma confesso che, se avessi dovuto controllare su tutta l'opera omnia di Fleming, chissà quando avrei scritto questa bustina.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/si-ma-cosa-beve-james-bond/2203112/18


Titolo: UMBERTO ECO. Quelle troie dei raggi cosmici
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 11:40:41 pm
Opinioni

Quelle troie dei raggi cosmici

di Umberto Eco

Un radicato maschilismo ha indotto a pensare che l'epiteto rivolto da Battiato ai parlamentari fosse rivolto solo a quelli di sesso femminile. E agli utenti di Twitter dico: siate più concisi

(04 aprile 2013)

Un amico ha criticato la mia Bustina precedente dicendo che parlare dei Gin Martini di 007 mentre l'Italia va in rovina è un poco comportarsi come l'orchestra del Titanic, che ha continuato a suonare mentre il transatlantico affondava. E' vero, ma ritengo che (se così è davvero andata) gli orchestrali del Titanic siano stati gli unici professionisti seri in quella sfortunata faccenda, dato che, mentre tutti davano spettacolo di scompiglio, timor panico, dissennatezza e persino egoismo, essi seguivano l'esortazione di Nelson prima di Trafalgar: «L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere». Comunque, per non dare l'idea che mi rifugi nella torre d'avorio di un'erudita e desolata indignazione, ecco due pensieri squisitamente politici e impegnati

Sulla neo-lingua. Pare che gli ultimissimi termini del lessico politico siano troia, puttanieri e vaffanculo, e mi scuso se il mio dovere di cronista mi obbliga a usare espressioni molto diverse da quelle di un tempo, come convergenze parallele, reazione in agguato, classe operaia.

Mi stupisce tuttavia l'eccesso di maschilismo per cui, avendo Battiato usato (certo improvvidamente) il termine "troia" per alcuni parlamentari, tutti si siano offesi per quell'attacco volgare alle deputate o senatrici di sesso femminile. Perché udendo la parola "troia" si è pensato subito a una donna? Il termine viene ormai normalmente usato anche per esseri di sesso maschile e qualcuno può designare in tal modo chi vende i propri voti, cambia casacca dall'oggi al domani o afferma alla camera dei deputati che Ruby era davvero la nipote di Mubarak. E credo che neppure Zichichi, se in un momento d'ira per un esperimento mal riuscito dicesse «quelle troie dei raggi cosmici oggi mi fanno impazzire», vorrebbe necessariamente alludere al fatto che quelle simpatiche entità abbiano il sesso di Eva. Ma ahimè, siamo tutti maschilisti, e pensiamo che, salvo la mamma, tutte le troie siano donne e pertanto tutte le donne siano troie.

Un pensiero su Twitter. In un'era in cui Twitter impazza, lo usa anche il Papa e un cinguettio universale dovrebbe sostituire la democrazia rappresentativa, continuano a confrontarsi talora due tesi contrastanti. La prima è che Twitter induce le persone a esprimersi in modo sentenzioso ma superficiale, perché come è noto per scrivere la "Critica della ragion pura" ci vogliono più di 140 caratteri. La seconda è che Twitter educa invece alla brevità e alla stringatezza.

Mi si permetta di ammorbidire entrambe le posizioni. Anche degli Sms si è detto che portano i nostri ragazzi a capire e usare solo un linguaggio telegrafico (tipo "C'o voglia di te x sempre"), dimenticando che il primo telegramma è stato spedito da Samuel Morse nel 1844 e tuttavia dopo anni e anni di "mamma malata vieni subito" o "affettuosi rallegramenti Caterina" molta gente ha continuato a scrivere come Proust. L'umanità ha imparato a mandare messaggi di poche parole ma pare che Marco Boato nel 1981 abbia fatto alla Camera un discorso della durata di 18 ore.

Quanto al fatto che Twitter educhi all'essenzialità, mi pare un'esagerazione. Con 140 caratteri si rischia già di sbrodolare. Certo questa notizia, "In principio Dio creò e cielo e terra. La terra era informe e vuota, le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio alitava sulle acque", è degna del premio Pulitzer perché in 141 spazi (ma 126 caratteri) dice esattamente quello che il lettore vorrebbe sapere. Però si possono dire in modo molto più breve cose di grande argutezza (Perdere un genitore può essere un incidente, perderli entrambi è pura sbadataggine; E' del poeta il fin la maraviglia - chi non sa far stupir vada alla striglia), di grandissima profondità (Beati i poveri di spirito perché di essi sarà il regno dei cieli, Sia il tuo parlare sì no sì no il di più viene dal maligno, L'uomo è un animale razionale mortale, Il potere non si prende ma si raccatta, Essere o non essere questo è il problema, Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, Tutto ciò che è reale è razionale, Gallia est omnis divisa in partes tres) o frasi e concetti che hanno segnato la storia dell'umanità, come Obbedisco, Veni vidi vici, Tiremm innanz, Non possumus, Combatteremo all'ombra, Qui si fa l'Italia o si muore.

Per parafrasare il Foscolo, utenti di Twitter, vi esorto alla concisione.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quelle-troie-dei-raggi-cosmici/2204087/18


Titolo: UMBERTO ECO. Libri che parlano di libri
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 04:40:13 pm

Opinioni

Libri che parlano di libri

di Umberto Eco

(18 aprile 2013)

La mania del collezionismo riguarda gli oggetti più disparati, i patrizi romani collezionavano antichità greche (anche false), se si consultano i cataloghi di Christie's si legge di aste in cui si vendono a colpi di milioni un paio di calzini appartenuti al duca di Windsor, ad andare per mercatini si scoprono appassionati che cercano tessere telefoniche, oggettistica massonica, cartoline, adesivi, vecchi miniassegni, chiavi, bottiglie di Coca Cola, lamette da barba, diplomi, "mignonnettes", incarti di frutta, bustine di zucchero.

E' ovvio che si sfiora così la mania, mentre d'altra pasta è il collezionismo di libri antichi, che può comprendere opere carissime del XV secolo o prime edizioni del Novecento, accessibilissime. C'è un genere editoriale che si chiama "books on books" e cioè "libri sui libri". Nell'Ottocento eccellevano in questo genere i francesi, e pensiamo a bibliofili come Nodier, ma dal Novecento il genere ha avuto una fioritura singolare nei paesi anglosassoni. Certo moltissimi libri parlano di altri libri, come accade per le storie della letteratura, ma il genere di "libri sui libri" si riferisce alla storia e al collezionismo librario, e può riguardare ricerche assai "di nicchia" come uno studio sulle dediche o le prefazioni ai libri del Seicento.

PER AVERE UNA IDEA di quanti libri sui libri circolino anche in Italia, basta consultare il catalogo della benemerita (e periclitante, ahimé) editrice Sylvestre Bonnard (dal nome di un bibliofilo immaginato da Anatole France), ideata e diretta da Vittorio di Giuro; e ne se veda il catalogo (www.edizionibonnard.it), che contempla più di 120 titoli, che spaziano dallo studio di Grafton sulla nota a pié di pagina a una storia della rilegatura di Petrucci Nardelli – compresi i gialli di Hans Tuzzi, non solo autore di un fondamentale Collezionare libri antichi, rari, di pregio ma anche inventore di indagini poliziesche che coinvolgono spesso il mondo dei librai antiquari.
Negli ultimi tempi mi è parso di notare, almeno da noi, una particolare reviviscenza di questo genere. Tra il 2012 e il 2013 sono apparsi "Collezionismo librario e biblioteche d'autore. Viaggio negli archivi culturali" (Quaderni di Apice 5) e "Lo scaffale infinito" (Ponte alle Grazie) di Andrea Kerbaker, con una serie di medaglioni di bibliofili da Petrarca a Borges, passando per il cardinal Mazarino, Madame de Pompadour o Monaldo Leopardi. Recentissimo, "Per hobby e per passione" di Giulietta Rovera (Manni) che non si limita ai raccoglitori di incunaboli, ma spazia, come recita il sottotitolo, «dai fanatici di Barbie ai ladri di manoscritti, dai cultori del sesso ai collezionisti di farfalle». Il collezionismo librario può riguardare anche le opere di cosiddetti "mattoidi", forse più introvabili della prima edizione della "Gerusalemme liberata", e proprio mesi fa Paolo Albani (raccoglitore di teratologie varie) aveva pubblicato per le edizioni Quodlibet "I mattoidi italiani", nazionalizzando un genere che aveva già dato in Francia la serie dei "folli letterari" di Brunet, Nodier, Queneau e Blavier.

PERCHE' TANTO INTERESSE per la collezione di libri proprio nel momento in cui ogni giornalista è pronto a dare la vita per poter intervistare qualcuno che affermi che il libro cartaceo è finito e sarà sostituito dai libri elettronici? La prima risposta è: proprio per questo, perché è nel momento in cui un oggetto scompare dal mercato che si comincia a collezionarne gli esemplari superstiti. Ma mi sembra risposta limitativa, perché il collezionismo librario fioriva quando di libri a stampa ne uscivano di continuo. La risposta più convincente è forse che, di fronte alla minaccia, sia pure stoltamente apocalittica, della scomparsa del libro si risveglia e fiorisce l'amore per questo oggetto magico che ci ha accompagnato anche prima dell'invenzione della stampa, e proprio il brivido che ci coglie all'idea che questi oggetti scompaiano ci porta a parlare di quelli che hanno provato di poter sopravvivere più di cinquecento anni.

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Titolo: UMBERTO ECO. Il potere tra giovani e ottantenni
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2013, 11:19:46 pm
Il potere tra giovani e ottantenni

di Umberto Eco

Letta (classe 1966) e Napolitano (del 1925) sono i due simboli della politica che ha saltato una generazione: quella dei nati negli anni Cinquanta, che aveva vent'anni nel '68. Ecco perché

(02 maggio 2013)

Aldo Cazzullo, sul "Corriere" del 25 aprile, ha salutato Enrico Letta (quarantasei anni) come ragazzo degli anni Ottanta, e cioè cresciuto in un decennio in cui si viveva nella febbre del sabato sera, senza grande interesse per la politica.

Cazzullo però ricorda che gli anni Ottanta godono di una fama controversa e, se sono stati per alcuni solo anni di yuppismo trionfante, di Milano da bere, di crollo delle ideologie, per altri sono stati anni decisivi - e io, proprio in una Bustina del 1997, sostenevo che erano stati grandiosi perché ci avevano dato la fine della guerra fredda, il crollo dell'impero sovietico, la nascita di nuove aggregazioni come l'ecologia e il volontarismo, l'inizio traumatico ma epocale della grande migrazione del Terzo mondo verso l'Europa e, cosa che allora non è stata avvertita come il vero inizio del terzo millennio, la rivoluzione del personal computer. Era stato davvero un decennio privo di fermenti? Bene, vedremo in futuro che tipo di generazione ha prodotto, naturalmente Letta è una rondine che non fa ancora primavera e Renzi, nato 11 anni dopo, è diventato adulto solo negli anni Novanta.

Ma il problema mi pare un altro. La crisi recente ci ha mostrato che la generazione dei giovanissimi, nati negli anni Novanta, ha prodotto "movimento" ma non ancora grandi leaders, mentre tutte le discussioni delle settimane scorse si sono svolte solo intorno al carisma di persone che girano intorno o oltre gli ottant'anni, come Napolitano, Berlusconi, Rodotà, Marini, e i più giovinetti erano Amato, settantacinque, Prodi, settantaquattro e Zagrebelsky, settanta. Perché questo vuoto di leadership tra i nati negli anni Ottanta e i grandi vegliardi carismatici? C'è stata un'assenza della generazione nata intorno agli anni Cinquanta, tanto per intenderci, quella che nel 1968 aveva dai diciotto ai vent'anni.

Ogni regola ha le sue eccezioni, e potremmo citare Bersani (1951), D'Alema (1949), Giuliano Ferrara (1952) e persino Grillo (1948), ma i primi tre hanno attraversato il '68 dall'interno del Pci (e così è accaduto al più giovane Vendola, 1958), e il quarto in quegli anni faceva ancora l'attore. Coloro che sono assenti dall'agone politico e in ogni caso non sono stati in grado di fare crescere un leader di statura internazionale sono gli ex-sessantottini.

Alcuni sono finiti nel terrorismo o in lotte extraparlamentari, altri hanno scelto di rivestire funzioni politiche abbastanza defilate (come Capanna), altri ancora (dimostrando che il loro empito rivoluzionario era solo di facciata o di convenienza) sono diventati funzionari berlusconiani, qualcuno scrive libri o fa l'opinionista, qualcuno si è ritirato in una dolente e sdegnosa torre d'avorio, infine personaggi come Strada si sono dati al volontarismo ma, insomma, nel momento della crisi nessuno in quell'area di età è emerso come salvatore della patria.

E' che quei giovani del ?€˜68, impersonando le tensioni e gli ideali di un movimento che veramente ha sconvolto il mondo intero, ha cambiato parte dei costumi e dei rapporti sociali, ma alla fin fine non ha toccato i veri rapporti economici e politici, erano diventati - giovanissimi - capi carismatici, adorati dai seguaci di ambo i sessi, che potevano trattare faccia a faccia (e magari a pesci in faccia) coi Grandi Vecchi dell'epoca. Presi da delirio di onnipotenza (vorrei vedere voi a finire in prima pagina a diciott'anni) si erano dimenticati o non avevano fatto in tempo a imparare che per diventare generale bisogna iniziare da caporale, poi fare il sergente, poi il tenente e così andando avanti passo per passo. Chi comincia subito come generale (e poteva accadere solo ai tempi di Napoleone o nell'esercito di Pancho Villa, ma si è visto come poi finiva) alla fine torna in fureria senza aver appreso il mestiere (durissimo) del comando.

Come sapevano i giovani cattolici e i giovani comunisti, bisogna fare una lunga gavetta.

E coloro invece hanno bruciato i tempi, e coi tempi hanno bruciato (politicamente) la loro generazione.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-potere-tra-giovani-e-ottantenni/2206135/18


Titolo: UMBERTO ECO. Il potere tra giovani e ottantenni
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2013, 11:08:42 am
La bustina

Il potere tra giovani e ottantenni

di Umberto Eco

Letta (classe 1966) e Napolitano (del 1925) sono i due simboli della politica che ha saltato una generazione: quella dei nati negli anni Cinquanta, che aveva vent'anni nel '68. Ecco perché

(02 maggio 2013)

Aldo Cazzullo, sul "Corriere" del 25 aprile, ha salutato Enrico Letta (quarantasei anni) come ragazzo degli anni Ottanta, e cioè cresciuto in un decennio in cui si viveva nella febbre del sabato sera, senza grande interesse per la politica.

Cazzullo però ricorda che gli anni Ottanta godono di una fama controversa e, se sono stati per alcuni solo anni di yuppismo trionfante, di Milano da bere, di crollo delle ideologie, per altri sono stati anni decisivi - e io, proprio in una Bustina del 1997, sostenevo che erano stati grandiosi perché ci avevano dato la fine della guerra fredda, il crollo dell'impero sovietico, la nascita di nuove aggregazioni come l'ecologia e il volontarismo, l'inizio traumatico ma epocale della grande migrazione del Terzo mondo verso l'Europa e, cosa che allora non è stata avvertita come il vero inizio del terzo millennio, la rivoluzione del personal computer. Era stato davvero un decennio privo di fermenti? Bene, vedremo in futuro che tipo di generazione ha prodotto, naturalmente Letta è una rondine che non fa ancora primavera e Renzi, nato 11 anni dopo, è diventato adulto solo negli anni Novanta.

Ma il problema mi pare un altro. La crisi recente ci ha mostrato che la generazione dei giovanissimi, nati negli anni Novanta, ha prodotto "movimento" ma non ancora grandi leaders, mentre tutte le discussioni delle settimane scorse si sono svolte solo intorno al carisma di persone che girano intorno o oltre gli ottant'anni, come Napolitano, Berlusconi, Rodotà, Marini, e i più giovinetti erano Amato, settantacinque, Prodi, settantaquattro e Zagrebelsky, settanta. Perché questo vuoto di leadership tra i nati negli anni Ottanta e i grandi vegliardi carismatici? C'è stata un'assenza della generazione nata intorno agli anni Cinquanta, tanto per intenderci, quella che nel 1968 aveva dai diciotto ai vent'anni.


Ogni regola ha le sue eccezioni, e potremmo citare Bersani (1951), D'Alema (1949), Giuliano Ferrara (1952) e persino Grillo (1948), ma i primi tre hanno attraversato il '68 dall'interno del Pci (e così è accaduto al più giovane Vendola, 1958), e il quarto in quegli anni faceva ancora l'attore. Coloro che sono assenti dall'agone politico e in ogni caso non sono stati in grado di fare crescere un leader di statura internazionale sono gli ex-sessantottini.

Alcuni sono finiti nel terrorismo o in lotte extraparlamentari, altri hanno scelto di rivestire funzioni politiche abbastanza defilate (come Capanna), altri ancora (dimostrando che il loro empito rivoluzionario era solo di facciata o di convenienza) sono diventati funzionari berlusconiani, qualcuno scrive libri o fa l'opinionista, qualcuno si è ritirato in una dolente e sdegnosa torre d'avorio, infine personaggi come Strada si sono dati al volontarismo ma, insomma, nel momento della crisi nessuno in quell'area di età è emerso come salvatore della patria.

E' che quei giovani del ?€˜68, impersonando le tensioni e gli ideali di un movimento che veramente ha sconvolto il mondo intero, ha cambiato parte dei costumi e dei rapporti sociali, ma alla fin fine non ha toccato i veri rapporti economici e politici, erano diventati - giovanissimi - capi carismatici, adorati dai seguaci di ambo i sessi, che potevano trattare faccia a faccia (e magari a pesci in faccia) coi Grandi Vecchi dell'epoca. Presi da delirio di onnipotenza (vorrei vedere voi a finire in prima pagina a diciott'anni) si erano dimenticati o non avevano fatto in tempo a imparare che per diventare generale bisogna iniziare da caporale, poi fare il sergente, poi il tenente e così andando avanti passo per passo. Chi comincia subito come generale (e poteva accadere solo ai tempi di Napoleone o nell'esercito di Pancho Villa, ma si è visto come poi finiva) alla fine torna in fureria senza aver appreso il mestiere (durissimo) del comando.

Come sapevano i giovani cattolici e i giovani comunisti, bisogna fare una lunga gavetta.

E coloro invece hanno bruciato i tempi, e coi tempi hanno bruciato (politicamente) la loro generazione.


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Titolo: UMBERTO ECO. Marina, Marina, Marina
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2013, 04:23:24 pm
Opinioni

Marina, Marina, Marina

di Umberto Eco

Una Miss Universo aspira a una relazione seria con me via Internet: ecco il suo indirizzo per approfondire. L'idolatria del virtuale impazza. E miete anche delle vittime. Come l'aspirante suicida che voleva andare a un reality show

(16 maggio 2013)

Ho ricevuto la e-mail che segue ("sic" non solo per la grammatica ma anche per l'ortografia): «Tu sei quello che voglio sapere bene. Ciao. Il mio nominativo e Marina, 30anni me. Ho visto il tuo profilo e ha deciso di produrre a voi. Come stai facendo? Ho uno stato d'animo meraviglioso. Sto cercando un individuo per relazione serio, che tipo di nesso che stai cercando? Sono molto interessato a conoscerti, ma credo che sarà meglio se tu e io corrispondera per e-mail. Se siete stimolati a fare la comprensione con me, ecco il mio indirizzo e-mail: abhojiku@nokiamail.com. Oppure mi e-mail il tuo indirizzo e-mail ti scrivero una circolare. Spero che non si puo partire senza l'attenzione e la epistola mi scrivi. Sarei molto lieto di incassare la vostra opinione. Io vedo l'ora la tua missiva alla mail. Il tua Marina».

La foto accusa mostra una creatura da Miss Universo, pronta per essere invitata a una cena elegante di Arcore, così che ci si dovrebbe chiedere come mai una fanciulla con le qualità estetiche della bellissima Marina si sia ridotta a cercarsi una relazione "seria" su Internet. Può darsi che la foto sia stata scelta da qualche sito on line (come quelle degli attori ignoti che appaiono nel cruciverba iniziale de "La Settimana Enigmistica") e dietro a Marina si celi un personaggio che potrebbe interessare Saviano, ma chi lo sa? Siccome però gli stolti sono legione, lascio nel messaggio il suo indirizzo in modo che si precipitino a intrattenere con lei un'affettuosa amicizia - e non rispondo ovviamente delle conseguenze. Il numero dei clienti della indimenticabile Vanna Marchi, di coloro che ricorrono all'oroscopo e di tanti votanti alle scorse elezioni, ci dice che Marina potrà contare su una buona percentuale di devoti del virtuale.

A proposito del virtuale moltissimi sanno (perché Internet ha fatto da buona cassa di risonanza) che di recente, in un mio falso indirizzo twitter avrei annunciato la morte di Dan Brown, mentre in un altro è stata annunciata la mia morte e, benché tutti gli organi d'informazione abbiano appurato che si trattava di bufale, ho visto che poi alcuni hanno inteso come se (essendo io notoriamente uno zuzzurellone) da un "vero" mio indirizzo io avessi inviato un "falso" messaggio. Insomma, gli dei accecano coloro che vogliono perdersi in Rete, e spero che Casaleggio (che pare prendere sul serio tutto quello che in Rete appare) si metta in contatto con Marina per costituire una bella coppia.


Per gli educatori che vogliano insegnare ai giovani come non fidarsi del virtuale segnalo il sito http://piazzadigitale.corriere.it/2013/05/07/storyful-il-social-checking-anti-bufala/ dove si elencano vari servizi antibufala che sono disponibili on line (segno che per fortuna Internet insieme ai falsi provvede anche i mezzi per smascherarli, basta imparare a navigare bene).

Ma l'idolatria del virtuale miete le sue vittime. Ecco una notizia della settimana scorsa. A Roma a cavalcioni sul davanzale della sua camera, al nono piano di un palazzo, con un coltello puntato allo stomaco un ragazzo di 23 anni minaccia di suicidarsi. Parenti, polizia, vigili del fuoco con materasso gonfiabile steso sotto al palazzo, non riescono a farlo desistere. Sino a che il ragazzo non grida che vuole essere ospite in un "reality show", e vuole andarci in limousine. Gli agenti si ricordano che c'era nei pressi una limousine usata il giorno prima per qualche pubblicità. La fanno arrivare e il ragazzo scende.

Morale, l'unica cosa "reale" che può far desistere un aspirante suicida è la promessa di un "reality show" e dunque di una realtà virtuale. Va bene che il ragazzo era disturbato, ma questo non ci consola perché è ragionevole pensare che tutti coloro che credono nei "reality shows" (o che risponderebbero a Marina, o che prendono sul serio i siti dove si dice che l'attacco alle Due Torri è stato fatto da Bush e dagli ebrei) supererebbero facilmente un test psichiatrico. Dunque il problema del virtuale non riguarda (se non in casi eccezionali) i malati bensì i sani.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/marina-marina-marina/2207120/18


Titolo: SOSSIO GIAMETTA. Caro Eco, grazie a Nietzsche ho scoperto ...
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 08:38:36 am


Caro Eco, grazie a Nietzsche ho scoperto il principio della modernità


di SOSSIO GIAMETTA

In una lettera aperta a Umberto Eco, Sossio Giametta spiega perché Nietzsche gli avrebbe permesso di scoprire il senso del nostro accadere storico e perché occorre che se ne diventi consapevoli.


Ill.mo e caro Eco,

ebbi il piacere di salutarla alla serata in onore di Raffaele La Capria. Lei mi disse di aver ricevuto il mio libro, L’oro prezioso dell’essere, ma di non averlo letto. Tutto normale. Immagino le montagne di libri che le arrivano. E poiché le arriveranno anche montagne di lettere, invoco il suo generoso perdono per il mio farmi vivo pur sapendo tutte queste cose. Perché lo faccio? In generale perché noi poveri autori non famosi non possiamo onestamente sperare che nel riconoscimento di coloro che possono capirci, e perché in particolare io ho motivi personali per rivolgermi a Lei. Credo infatti di aver fatto una scoperta che, se è fondata, non può non interessarla quale filosofo e commentatore degli evi antico, medio e moderno. Questa presunta scoperta riguarda appunto l’evo moderno, sul quale è uscito ultimamente un libro da Lei curato.

Approfondendo lo studio semisecolare di Nietzsche, sono arrivato a capire il suo genio profondo, da tutti ancora ignorato e insospettato, e poiché esso è, secondo me, il punto d’approdo della modernità, sono arrivato a capire anche il senso, tuttora ignorato e insospettato, della modernità. Questo è un processo unitario, drammatico, angoscioso, che impone la reinterpretazione dei suoi protagonisti in base alla posizione da ciascuno occupata in esso. Tutto ciò è contenuto nel capitolo mediano del libro, intitolato Come fu che intuii quello che avevo capito. Ma per non obbligarla a leggere il libro, lo ripeto qui in altra forma.

Tutto comincia con la decadenza del cristianesimo e con l’incapacità dei popoli di vivere senza un tetto, una copertura religiosa, come la storia dimostra. Con i rivolgimenti causati dal risveglio dei valori antichi e dalla nuova scienza nell’umanesimo e nel Rinascimento, il cristianesimo, che giunto alla sua massima realizzazione era ormai incamminato sulla strada della corruzione, come è di tutti gli organismi invecchiati, si ritirò sempre più dalle coscienze europee. Subì il duro colpo della Riforma di Lutero e il suo posto fu preso sempre più, nei secoli che seguirono, dalle tendenze secolarizzanti. Nel suo rapporto con la laicità si creò quello che Spinoza dice che avviene con la teologia e la filosofia: quanto più si alza il piatto della bilancia della filosofia, tanto più si abbassa quello della teologia, e viceversa.

Dette tendenze laicizzanti, però, senza l’ausilio della fede e del Dio padre, del Dio provvidente, avevano grande difficoltà a sostituire la religione, della quale l’uomo ha evidentemente un naturale bisogno: perché facevano appello all’intelletto e non all’anima. Questo processo laicizzante, consistente nel sostituire Dio con la natura, si sviluppò dunque da allora oscillando in due direzioni parallele: una negativa, scettica, pessimistica, e una positiva, affermatrice, ottimistica, non senza ripetuti tentativi da parte dell’una di incorporare l’altra.

I protagonisti di questi due rami della laicizzazione dell’Europa sono i protagonisti della cultura (Kultur) europea. Solo alcuni nomi: Nicola Cusano, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini, Montaigne, Descartes, Pascal, Hume, Kant, Hegel, Stirner eccetera eccetera, fino al picco della tendenza negativa con Schopenhauer e la sua scuola, Philipp Mainländer, Julius Bahnsen e Eduard von Hartmann. Questi ultimi furono l’ultima grande provocazione in senso negativo ed è a essa, a Schopenhauer in particolare, suo “perfetto antipode”, che Nietzsche più immediatamente risponde con la sua tendenza affermatrice, rappresentata soprattutto da Così parlò Zarathustra.

Schopenhauer e i suoi discepoli si erano essi stessi opposti a quella che era stata l’ultima grande provocazione in senso contrario. Dopo il tentativo di Cartesio di “portare il cristianesimo a compiuta efficacia innalzando la ‘coscienza scientifica’ alla sola coscienza vera e valida”,[1] dopo il tentativo di Pascal di ri-saltare con una “scommessa” dal campo laico a quello cristiano, dopo quello di Leibniz di fare ingoiare all’uomo il male del mondo come una purga sgradevole ma benefica, e quello di Hamann di rovesciare l’illuminismo col ricorso al cristianesimo profondo, c’era stato il grandioso tentativo di Hegel di divinizzare il mondo portando la filosofia al cristianesimo, invece che il cristianesimo alla filosofia come credeva.[2]

Con lo Zarathustra, in cui si esprime con la massima forza la tendenza affermatrice che è la caratteristica principale del suo genio, Nietzsche fonda la religione laica. Questa passa attraverso la radicalizzazione del pessimismo schopenhaueriano, fondato sull’ineluttabile dipendenza dell’uomo dalle sue condizioni di esistenza, come parte infinitesimale di un immenso organismo, l’universo, alle cui  leggi è sottoposto (religione dunque dell’umiltà e non della superbia, come ha sostenuto Benedetto XVI), e l’affermazione dell’essenza divina della vita, di cui tutti gli esseri sono partecipi. L’essenza sublime e beatificante della vita non può essere negata, ma solo oscurata o impedita dalle circostanze o condizioni di esistenza. Dunque slancio, passione, entusiasmo, amore della vita sono giustificati nonostante tutti i possibili orrori e tragedie dell’esistenza. Questa è la grande novità predicata da Nietzsche.

Quando, composto il primo Zarathustra, egli non sapeva quale valore e senso esso potesse avere, e lo domandava agli amici oltre che a se stesso, Peter Gast sentenziò: “È una sacra scrittura”. Ciò lo illuminò, lo aiutò a capire se stesso, finché non ebbe più dubbi. Parlò allora dello Zarathustra come “la Bibbia del futuro, la massima esplosione del genio umano, in cui è racchiuso il destino dell’umanità”.[3]

Ciò nonostante, in seguito si fece riassorbire dallo Zeitgeist e dai dibattiti dell’epoca, agitata dai venti selvaggi della reazione alla decadenza e impegnata soprattutto nello scalzare gli ostacolanti valori cristiani. Come suprema antenna e strumento dell’epoca, Nietzsche si distaccò pian piano dalla sua più grande e gloriosa conquista per tornare a combattere il cristianesimo non più con l’eccellenza, con la divinità della vita concepita laicamente, ma con la lotta corpo a corpo, con lo scontro aperto. Ciò vuol dire che il suo genio si era oscurato. Da Al di là del bene e del male in poi, attraverso la Genealogia della morale, il Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e Ecce homo, egli precipitò in una specie di monomania, si dedicò a uno scontro personalissimo col cristianesimo dai toni stridenti, esagerati e in definitiva grotteschi.

Nietzsche era stato sempre agitato dal genio religioso. Questo cercò di venire in luce in tutti i modi, anche per vie traverse: nell’adolescenza come adesione appassionata al cristianesimo, che però, per la sua stessa radicalità, sfociò nella negazione; poi con la teoria dell’Eterno Ritorno, che egli concepì appunto come religione e di cui si pensava, sia pure con raccapriccio, destinato ad essere il maestro.

Ma l’Eterno Ritorno era contraddittorio. Pensato come stimolo a una vita degna, di cui ci si potesse compiacere per l’eternità, dunque come incitamento morale, guardava al futuro ma saltava il passato. Infatti, se l’Eterno Ritorno è veramente eterno, la nostra vita attuale non è che la pedissequa ripetizione di quella che è dall’eternità e tale sarà per l’eternità, immutabilmente. Dunque nessuno sforzo per il suo miglioramento è possibile e ha senso. In tal modo il progettato incitamento morale si capovolge in deprimente fatalismo. Pertanto l’Eterno Ritorno, come religione, non funzionava.

Funzionava invece quello che egli, in opposizione a Schopenhauer, chiamava il “pessimismo dionisiaco” o pessimismo della forza. A patto però di distinguere i due elementi che erano in esso intrecciati. Il dualismo in filosofia è di solito un problema. Ma qui esso è la soluzione. Il dualismo ha in effetti due corni: l’essenza divina e beatificante della vita e le condizioni di esistenza, che possono essere ostacolanti e impedienti fino all’orrore. Nella vita, negli esseri, le due cose si fondono e confondono, ma sono diverse e vanno distinte. L’una non tocca l’altra.

A questa scoperta, illustrissimo e caro Eco, se ne aggiungono nel libro altre, fatte continuando il lavoro dei “miei” autori. Se Lei, magari spinto dalla bella recensione del sedicente incompetente La Capria, dovesse, potesse e volesse, con opera di santità, leggere almeno in parte il libro, cioè accettare questa seconda sfida, dopo quella delle Eterodossie crociane, allora due sono i casi: se Lei trova che il libro non è che uno dei tanti magari buoni che girano attualmente in Europa, bene, la finisca lì; se invece trova che in Europa non gira un libro con un simile carico di intuizioni e scoperte, che sia altrettanto vasto e profondo, chiaro semplice e solido, allora, per piacere, ne scriva qualcosa, perché solo a Lei e a Repubblica e a L’espresso i giovani credono, non al Corriere: i giovani che sono i soli veramente aperti alla filosofia.

Voglia, ripeto, perdonarmi per tutte queste vanterie e pretese, ispirate certo  anche dal bisogno dell’artigiano di veder riconosciuto il suo lavoro, dunque dalla vanità, ma soprattutto dal bisogno di vedere che i risultati del lavoro di chiarificazione fatto in tutta una vita di studio e di ricerca arrivino al pubblico.

NOTE

[1] Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà), Reclam, Stuttgart 2011, p. 92 (… das Christentum zu vollendeter Wirksamkeit zu bringen, indem sie das “wissenschaftliche Bewusstsein” zum allein wahren und geltenden erhob).

[2] Come ultimo ostacolo Nietzsche non vede Schopenhauer, ma il cristianesimo, che era e restava il suo più grande nemico, e a cui correva sempre il suo pensiero: “Persino il cristianesimo diventa necessario: solo la forma suprema, più pericolosa, più seducente del no alla vita ne sfida la suprema affermazione” (Frammento 25 [7] dicembre 1888-gennaio 1889). Nel frammento 14 [25] primavera 1888 aveva indicato tuttavia in Schopenhauer, oltre che in Vigny, Dostoevskij, Leopardi e Pascal, il principale ostacolo al pessimismo classico o della forza.

[3] F. Nietzsche, lettera del 26 novembre 1888 a Paul Deussen.

(11 giugno 2013)

da - http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/06/11/caro-eco-grazie-a-nietzsche-ho-scoperto-il-principio-della-modernita/


Titolo: UMBERTO ECO. Herran Herran Herran Herran
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2013, 11:48:34 am
Herran Herran Herran Herran

di Umberto Eco

Dare ai figli il doppio cognome, del padre e della madre, è complicato. Quale sarebbe il primo? Chi deciderebbe? E come regolare il progressivo raddoppio? Meglio forse dargliene uno nuovo. Purché non troppo eccentrico

(30 maggio 2013)

Mi pare si sia riaccesa la discussione sulla trasmissione del cognome ai figli. Piero, figlio del signor Verdi e della signora Bianchi, si dovrà chiamare Piero Verdi, Piero Verdi Bianchi, Piero Bianchi Verdi o addirittura Piero Bianchi? Noi caratterizziamo la discendenza secondo la linea paterna, ma niente vieterebbe di caratterizzarla in chiave matrilineare, come avviene in altre culture. In fondo "mater semper certa est" mentre il padre deve solo aver fiducia nella sua signora. A meno di ammettere, come suggeriva Silvia Vegetti Finzi giorni fa sul "Corriere", che dare ai figli il cognome del padre sia in fondo l'unico modo di risarcire il genitore maschio riconoscendogli almeno un diritto legale.

La più ovvia sembra la soluzione spagnola, per cui il Rodrigo nato da Juan Lopez e da Juana Gutierrez si chiamerà Rodrigo Lopez Gutierrez. Ma se poi sposerà una Carmen Lozano Almeida come si chiamerà la loro figlia? Nel 1952 avevo incontrato un prete che si chiamava don Laurentino Herran Herran Herran Herran perché nato da un padre Herran Herran e da una madre Herran Herran. Se non fosse stato prete e avesse poi (per accidente improbabile ma non impossibile) sposato una donna col suo stesso cognome, i figli si sarebbero chiamati Herran Herran Herran Herran Herran Herran Herran Herran?

Per porre fine a questa fuga "in infinitum" credo che la legge spagnola prescriva per i figli il primo cognome del padre e il primo cognome della madre e dia, dal 1999, la facoltà di scegliere quale debba essere il primo. Non so se la cosa la decidano i genitori o i figli arrivati alla maggiore età, ma immagino cosa succederebbe da noi. Poniamo che Giulio Verdi Cavour sposi una Giuliana Neri Garibaldi, e Giuliana fosse fiera di portare il cognome di quel nonno materno celeberrimo. Perché i suoi figli dovrebbero perderlo? Ma anche il padre avrebbe qualche diritto a voler ricordato il suo avo non meno illustre. E potrebbe il figlio Franceschiello, arrivato all'età adulta, decidere di chiamarsi Franceschiello Cavour Garibaldi, o Franceschiello Garibaldi Cavour?


Data comunque la possibilità di scegliere come primo nome o quello del padre o quello della madre, chi decide? Se sarà la coppia, ci saranno molte occasioni di divorzio post parto, se lo decide il figlio e sceglie di anteporre il cognome del padre, ve la vedete voi la madre, che si lamenterà per il resto dei suoi giorni di non essere stata abbastanza amata? In caso contrario potrebbe accadere che il padre infuriato (se non è sposato con comunione dei beni) diseredi il figlio irriconoscente.

Si pensi inoltre che i cognomi dovrebbero testimoniare non solo della discendenza dai genitori e dai nonni ma anche della preterita presenza dei bisnonni, dei trisnonni e così via. Avrete talora pensato che, poiché si nasce da due genitori, e ciascun genitore da altri due, per cui ciascuno di noi ha quattro nonni, se le cose fossero andate secondo la logica genealogica, ciascuno dovrebbe avere otto bisnonni, sedici trisnonni e così via per cui, risalendo alle origini la terra avrebbe dovuto essere popolata non da 7 miliardi bensì da 7 alla X, a seconda di quante siano le generazioni che ci separano da Adamo ed Eva. Evidentemente c'è una soluzione a questo paradosso, e la lascio immaginare ai miei lettori più acuti, ma questo non toglie che, se i cognomi dovessero essere anche solo approssimativamente trasparenti dal punto di vista genealogico, dovremmo averne almeno alcune decine.

Di questo passo la soluzione più equanime sarebbe che i genitori scegliessero di dare ai figli un cognome del tutto nuovo. Ma come se la caveranno nella vita i rampolli di genitori eccentrici che avessero scelto per loro non Battipaglia o Cefalù bensì Hitler, Berlusconi, Mata Hari, Bin Laden o Pol Pot (il che non sarebbe inverosimile visto che ci sono oggi genitori che hanno chiamato i figli Benito, Lenino o Sciuellen?)

Non ho una soluzione in tasca e - perplesso - consegno queste mie riflessioni a chi mi legge.
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Titolo: UMBERTO ECO. Talk show, solo urla e finti litigi
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:09:04 am
La bustina

Talk show, solo urla e finti litigi

di Umberto Eco

Ai telespettatori non importa quel che dicono gli ospiti dei programmi tv, ma solo gli scontri e gli insulti che si lanciano. E se qualcuno ha il coraggio di definire queste arene 'la Terza Camera', non stupisce che nessuno vada più a votare

(17 giugno 2013)

Spero che il direttore de "l'Espresso" non me ne voglia se affermo che la rivista che leggo ogni settimana con maggior interesse e rispetto è la "Settimana enigmistica", anche perché non mi impone soltanto i propri contenuti, ma mi chiede di collaborare al completamento delle sue 48 pagine.

Molto istruttive sono le definizioni delle parole crociate. La tradizione italiana è diversa da quella francese, dove la definizione si pone come un enigma, e celebre rimane l'esempio citato da Greimas per cui "l'amico dei semplici" doveva essere decrittato come "erborista" (il che prevedeva che il solutore sapesse che i semplici sono tradizionalmente piante con virtù curative, usate dai medici di un tempo). Le definizioni delle nostre parole crociate sono piuttosto richiami a opinioni diffuse e comunemente accettate per cui (a esempio) "contempla pasta e ortaggi" va inteso come "dieta mediterranea" e "serpente americano" va letto come "boa".

Ora accade che in una pagina di parole crociate abbia trovato "vivacizzano i talk show", e a prima vista pensavo che la definizione rimandasse alla presenza di personaggi celebri, o ai riferimenti all'attualità. Niente affatto, la soluzione era "scontri". Il compilatore della definizione si era rifatto dunque all'opinione corrente per cui quello che rende interessante un talk show non è che sia condotto da un personaggio popolare come Vespa, che vi partecipino Vladimir Luxuria o un esorcista, che ci si occupi della pedofilia o di Ustica. Tutti questi elementi sono accessori certamente importanti, e noioso sarebbe un talk show condotto da un filologo bizantino, che esibisse come ospiti una monaca di clausura affetta da mutismo secondario o si occupasse del papiro di Artemidoro. Però ciò che lo spettatore realmente vuole è lo scontro.

Mi è capitato di assistere a un talk show accanto a un'anziana signora che, ogni volta che i partecipanti si parlavano addosso, reagiva con: «Ma perché s'interrompono a vicenda? Non si capisce quel che dicono! Non potrebbero parlare a turno?» - come se un talk show italiano fosse una delle memorabili trasmissioni di Bernard Pivot nel corso delle quali il conduttore con un impercettibile cenno del mignolo avvertiva il parlante che era ora che cedesse la parola al vicino.

La verità è che gli spettatori dei talk show godono solo quando la gente litiga, e non importa tanto quel che dicono (che di solito è già inteso come irrilevante) ma del modo in cui fanno la faccia feroce, urlando «mi lasci finire, io non avevo interrotto lei» (e questa reazione fa ovviamente parte del gioco dell'interruzione), o si insultano con epiteti desueti come "vaiassa", che da quel momento sono ripresi dall'ultima edizione dei dizionari come dialettalismi laureati. Si assiste a un talk show come a una lotta di galli, o a una sessione di wrestling, dove non importa se i contendenti facciano finta, così come non importa nelle comiche di Ridolini che una torta in faccia sia finta, quel che conta è far finta di prenderla per vera.

Tutto questo andrebbe benissimo se i talk show fossero presentati come meri programmi di intrattenimento tipo "Il Grande Fratello". Ma qualcuno ha definito la trasmissione "Porta a Porta" come la Terza Camera - o l'anticamera del tribunale. Quello che sarà discusso in parlamento, o il giudizio finale su chi abbia strangolato la tal fanciulla, è ormai anticipato dal talk show a tal segno da rendere irrilevante, e in ogni caso predeterminata, la seduta parlamentare o la sentenza di Corte d'Assise.

Pertanto, se quel che conta non sono i contenuti bensì la forma dello scontro, è come se una lezione universitaria sulla "consecutio temporum" fosse anticipata e resa quindi inutile da un discorso in "grammelot" di Dario Fo o da una farneticazione di Troisi. E poi ci lamentiamo se la gente si disinteressi sempre più a quanto avviene a Montecitorio o a Palazzo Madama, o a quanto dirà la Cassazione sulle olgettine, e non vada a votare.

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Titolo: UMBERTO ECO. Come la pensava il Gattamelata?
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2013, 07:43:32 pm

Bustina

Come la pensava il Gattamelata?

di Umberto Eco

Tutti gli anni a giugno leggiamo gli esercizi dei Critici dei Temi della Maturità: inutili. Al candidato si chiede solo di scrivere in italiano e di saper articolare un pensiero. Per questa abilità ogni argomento è buono. Ricordo che al liceo...

(27 giugno 2013)

Tutti gli anni a fine giugno e con poca fatica i giornali riescono a riempire una o due pagine col commento dei temi assegnati alla maturità. Vengono convocate le menti più lucide della Nazione e naturalmente la prova più commentata è quella d'italiano, perché sarebbe difficile spiegare al grande pubblico in cosa esattamente consistesse quella di matematica, mentre recriminare che si sia imposta ai giovani una ennesima riflessione sul Risorgimento è alla portata persino di un laureato. Questi esercizi dei Critici del Tema della Maturità sono talora godibili per eleganza di scrittura e arguzia, ma (detto con tutto il rispetto) del tutto inutili.

Infatti è irrilevante quale sia il tema assegnato, a meno che (come mi pare sia accaduto una volta) la sua formulazione non contenga errori marchiani o salvo che, per assurdo, si proponessero argomenti deliranti come, dico per dire, "la coltivazione delle rose nel Dubai".

Di solito i temi riguardano cose di cui gli studenti dovrebbero aver sentito parlare e - per attenerci ai temi di quest'anno - se uno non ha assolutamente idee sugli assassini politici, dovrebbe averne sulla società di massa o sulle ricerche sul cervello. Voglio dire che lo studente può benissimo ignorare tutto sulle neuroscienze ma dovrebbe capire che cosa significhi fare ricerche sul funzionamento del cervello umano; e persino se ritenesse che l'anima è insondabile e che andare a scrutare il cervello è tempo perso, anche questa sarebbe un'opinione che potrebbe essere svolta con polemica e spiritualistica baldanza.

Il fatto è che il tema della maturità deve provare solo due cose. Una è che il candidato o la candidata sappiano scrivere in un italiano accettabile, e a nessuno si chiede di essere Gadda (ché anzi, chi si presentasse alla maturità scrivendo come Gadda andrebbe guardato con sospetto, perché non avrebbe capito che non gli si chiede di provare di essere un genio incompreso bensì dar prova di uso medio della lingua del suo paese). La seconda cosa è che i candidati debbono provare di sapere articolare un pensiero, svolgere un argomento senza confondere le cause con gli effetti e viceversa, e sapendo distinguere una premessa da una conclusione. Per dimostrare questa abilità qualsiasi argomento è buono. Vorrei dire, esagerando, persino la richiesta di sostenere una tesi palesemente falsa.

Durante il liceo il mio compagno di banco mi aveva assegnato un giorno il tema seguente: "Analizzate i versi danteschi ?€˜la bocca sollevò dal fiero pasto' intendendo la parola "pasto" non come l'avrebbe intesa il Gattamelata ma come la intenderebbe Christian Dior". Ricordo che, a giudizio di tutti i miei compagni, avevo svolto il tema in modo eccellente, come se avesse un capo e una coda, nella fattispecie imitando ironicamente la retorica di certa critica letteraria dei libri di testo, ma in complesso dimostrando di saper trarre da premesse scoordinate una serie di pensieri coordinati.

Accanto alle lamentazioni sugli argomenti dei temi appaiono anche sui giornali discussioni sul fatto se la maturità attuale sia troppo esigente o troppo indulgente, e appaiono anche gli scritti di nostalgici della mia generazione, che ricordano i tempi in cui si dovevano portare tutte le materie per tutti i tre anni. E' vero, si trattava di passare gli ultimi mesi chiusi in casa, mentre già incombevano i calori estivi, per alcuni imbottendosi di simpamina o intossicandosi di caffeina, e chi usciva da quella terribile esperienza per anni (e magari per tutta la vita) nel corso degli incubi notturni avrebbe sognato di dover ancora dare l'esame di maturità. Eppure ricordo che sono morti due miei compagni di scuola all'età di dieci anni, uno sotto i bombardamenti e l'altro annegando a fiume, ma nessun compagno di liceo che sia morto per l'esame di maturità. Era una prova, più umana e fruttuosa della "Mensur" tedesca, o delle corse su precipizio delle gioventù bruciate alla James Dean. Una prova dalla quale si usciva fortificati non dico nel sapere ma nel carattere.

Perché dobbiamo punire i giovani con una maturità troppo facile?


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Titolo: UMBERTO ECO. Due mani non ci servono più
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:38:25 am
La bustina

Due mani non ci servono più

Umberto Eco

L'umanità sta atrofizzando uno dei suoi arti. Perché con i telefonini intelligenti si riesce a fare quasi ogni cosa utilizzando l'altro. Persino il computer, con la sua tastiera, è ormai uno strumento preistorico per i "phone addict"

(22 luglio 2013)

Leggevo la settimana scorsa sul "Venerdì di Repubblica" che un hotel di Forte dei Marmi, frequentato da grandi manager e star, offrirebbe, tra i vari servizi, anche uno psicoterapeuta multilingue che dovrebbe guarire i clienti dalla dipendenza da telefonino e, all'occorrenza, da Ipad, Twitter e altre forme di assuefazione ormai risoltesi in nevrosi.

Agli inizi degli anni Novanta, quando i cellulari non erano ancora così diffusi, scrivevo in una Bustina che i telefonofori (conio ora il neologismo da tedoforo) cercavano di farsi notare in treno o all'aeroporto berciando ad alta voce a proposito di azioni, profilati metallici e mutui bancari; e osservavo che il loro comportamento era segno di inferiorità sociale, perché i veri potenti non hanno telefonini ma venti segretari che gli filtrano le comunicazioni, mentre ha bisogno di telefonino il quadro intermedio che deve rispondere a ogni istante all'amministratore delegato, o il piccolo faccendiere al quale la banca deve comunicare che il suo conto è in rosso. Maurizio Ferraris non aveva ancora scritto il suo saggio sull'ontologia del telefonino, e i miei rilievi riguardavano lo status sociale dei telefonanti e non la loro nevrosi perché forse si pensava che, una volta sottrattisi alla vista e all'ascolto altrui, questi incalliti esibizionisti riponessero l'utensile e si occupassero dei fatti loro. Oggi non è più così e l'altro giorno per strada mi sono sfilate accanto cinque persone di ambo i sessi: due telefonavano, due digitavano frenetici rischiando d'incespicare, una camminava tenendo l'oggetto in mano, pronta a rispondere a ogni suono che le promettesse un contatto umano.

Un mio amico, persona colta e distinta, ha buttato via il suo Rolex perché, dice, l'ora la può leggere sul BlackBerry. La tecnologia aveva inventato l'orologio da polso per permettere agli umani di non girare con una pendola sul dorso, o di trarre ogni due minuti il cipollone dalla tasca del panciotto, ed ecco che il mio amico deve muoversi, qualsiasi cosa faccia, con una mano perennemente occupata. L'umanità sta atrofizzando uno dei suoi due arti, eppure sappiamo quanto due mani con pollice contrapposto abbiano contribuito alla evoluzione della specie. Mi era venuto in mente che, quando si scriveva con la penna d'oca, occorreva una sola mano, ma con la tastiera del computer ne occorrono due, e pertanto il telefonoforo non può usare telefonino e computer al tempo stesso, ma poi ho riflettuto che il "phone addict" non ha più bisogno del computer (oggetto ormai preistorico) perché col telefonino può connettersi a Internet e mandare Sms, né deve inviare mail perché può parlare direttamente con la persona che intende importunare o da cui agogna essere importunato. E' vero che le sue letture di Wikipedia saranno più faticose e quindi rapide e superficiali, i suoi messaggi scritti più telegrafici (mentre con la mail si potevano persino scrivere le ultime lettere di Jacopo Ortis), ma il telefonoforo non ha più tempo di raccogliere informazioni enciclopediche né di esprimersi in modo articolato perché impegnato in conversazioni della cui coerenza sintattica molto ci dicono le deprecate intercettazioni - da cui si deduce che il "phone addict", rinunciando peraltro a ogni segretezza, esprime i suoi piani con puntini di sospensione e pochi intercalari neanderthaliani tipo cazzo e vaffanculo.

Inoltre prego di ricordare il bel "L'amore è eterno" di Verdone, dove una squinzietta rende l'amplesso incubatico perché, mentre si dimena sul ventre del partner, continua a rispondere a messaggi urgentissimi. E mi è accaduto di leggere un'intervista fattami da una giornalista spagnola (peraltro dall'aria intelligente e colta) che osservava con stupore come nel corso della nostra conversazione non mi fossi mai interrotto per rispondere al telefonino, decidendo pertanto che ero persona cortesissima. Non riusciva a immaginare che o non avessi il telefonino o lo tenessi costantemente spento perché non mi serve per ricevere messaggi indesiderati ma solo per consultare l'agenda.

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Titolo: UMBERTO ECO. C'è un film per capire Bergoglio
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:22:02 am
 
La bustina

C'è un film per capire Bergoglio

di Umberto Eco


Avete presente 'Mission', che ha vinto la Palma d'Oro nel 1986? Si racconta una vicenda che ha avuto come protagonisti i gesuiti sudamericani 250 anni fa. E' da li che proviene, culturalmente, papa Francesco

(25 luglio 2013)

Papa Francesco assume (lui gesuita) un nome francescano, va ad abitare in albergo, manca solo che calzi dei sandali e vesta un saio, caccia dal tempio i cardinali in Mercedes e infine va da solo a Lampedusa ad allearsi coi reietti del Mediterraneo come se la Bossi-Fini non fosse una legge dello Stato italiano. E' davvero l'unico a dire e fare ancora "cose di sinistra"? Ma all'inizio si sono fatte circolare voci sulla sua eccessiva prudenza verso generali argentini, si è ricordata la sua opposizione ai teologi della liberazione, si sottolinea che non si è ancora pronunciato sull'aborto, sulle staminali, sugli omosessuali, come se un papa dovesse andare in giro a regalare preservativi ai poveri. Chi è papa Bergoglio?

Credo che si sbagli a considerarlo un gesuita argentino: è un gesuita paraguayano. E' impossibile che la sua formazione non sia stata influenzata dal "sacro esperimento" dei gesuiti del Paraguay. Il poco che la gente sa su di loro è dovuto al film "Mission", che condensava in due ore di spettacolo, con molti arbitrii, 150 anni di storia. Riassumiamo. I conquistadores spagnoli, tra Messico e Perù, avevano compiuto stragi inenarrabili, appoggiati da teologi che sostenevano la natura animalesca degli indios (tutti oranghi), e solo un domenicano coraggioso come Las Casas si era prodigato contro la crudeltà dei Cortés e dei Pizarro, presentando gli indigeni sotto tutt'altra prospettiva.

All'inizio del Seicento i missionari gesuiti decidono di riconoscere i diritti dei nativi (in particolare i Guaranì, che vivevano in uno stato preistorico) e li organizzano in "riduzioni", ovvero comunità autonome autosostenute: non li raccolgono per farli lavorare per i colonizzatori, ma gli insegnano ad amministrarsi da soli, liberi da ogni servitù, in una totale comunione dei beni che producevano. La struttura dei villaggi e le modalità di quel "comunismo" ci fanno pensare alla "Utopia" di More o alla "Città del Sole" di Campanella, e di "preteso comunismo campanelliano" parlerà Croce, ma i gesuiti si ispiravano piuttosto alle primitive comunità cristiane. Mentre costituivano dei consigli elettivi formati solo da nativi (ma ai padri rimaneva l'amministrazione della giustizia), insegnavano a quei loro soggetti architettura, agricoltura e pastorizia, la musica e le arti, l'alfabeto (anche se a non a tutti, ma producendo talora artisti e scrittori di talento).

I gesuiti avevano certamente instaurato un severo regime paternalistico, anche perché civilizzare i Guaranì significava sottrarli alla promiscuità, alla neghittosità, all'ubriachezza rituale e talora al cannibalismo. Quindi, come per ogni città ideale, tutti siamo pronti ad ammirarne la perfezione organizzativa, ma non vorremmo certo viverci.

Però il rifiuto dello schiavismo, e gli attacchi dei "bandeirantes", cacciatori di schiavi, avevano portato alla costituzione di una milizia popolare, che si era valorosamente scontrata con schiavisti e colonialisti. Sino a che, a poco a poco, visti come sobillatori e pericolosi nemici dello Stato, nel XVIII secolo i gesuiti erano stati prima banditi da Spagna e Portogallo e poi soppressi, e con loro finiva il "sacro esperimento".

Contro questo governo teocratico si erano scagliati molti illuministi, parlando del regime più mostruoso e tirannico mai visto al mondo; ma altri parlavano però di «comunismo volontario ad alta ispirazione religiosa» (Muratori), dicevano che la Compagnia aveva iniziato a guarire la piaga dello schiavismo (Montesquieu), Mably comparava le riduzioni al governo di Licurgo e più tardi Paul Lafargue avrebbe parlato del «primo stato socialista di tutti i secoli».

Ora quando si propone di leggere le azioni di Papa Bergoglio in questa prospettiva si deve tener conto del fatto che sono passati da allora quattro secoli, che la nozione di libertà democratica è ormai comune persino agli integralisti cattolici, che certamente Bergoglio non si propone di andare a compiere né sacri né laici esperimenti a Lampedusa, e grasso che cola se riuscirà a liquidare lo Ior. Ma non è male vedere ogni tanto, su quanto accade oggi, il baluginio della Storia.

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Titolo: UMBERTO ECO. Il Cavaliere, il mugnaio, l'Italia
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2013, 04:26:17 pm
Opinione

Il Cavaliere, il mugnaio, l'Italia

di Umberto Eco


"C'è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia. Ora possiamo dire, con orgoglio, che c'è un giudice anche a Roma

(12 agosto 2013)

Ci deve pur essere un giudice a Berlino' è espressione che, anche quando se ne ignora l'origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l'aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all'inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Non potendo girare per tutte le città tedesche a cercare soddisfazione, Berlusconi se n'era tornato a casa coi pifferi di Hamelin nel sacco, ma aveva continuato a ignorare che, senza fare dispendiosi viaggi all'estero, si sarebbero potuti trovare giudici corretti (e non corruttibili) anche a Roma.

Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l'aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo.

Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino. Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all'inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell'imparzialità della giustizia.

Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un'area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Ma, lavorando solo su elementi di diritto e giurisprudenza, indipendentemente dai loro desideri o passioni, e ignorando ogni pressione politica, i giudici hanno scelto di attenersi alla legge, riconoscendo che la sentenza della corte d'appello di Milano non poteva essere annullata (e i particolari sulla durata dell'interdizione erano solo un contentino). Il mugnaio avrebbe detto "Ci sono dunque ancora dei giudici a Berlino". E che ci siano anche a Roma dovrebbe accenderci d'orgoglio. Eppure la cosa ci sconvolge a tal punto che parliamo di tutto meno che di questo. Tra i tanti sciacallaggi politici non riusciamo ad accettare l'idea che al mondo ci siano ancora delle persone per bene.


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Titolo: UMBERTO ECO. Marina leader? Non stupirebbe
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2013, 08:21:02 am
Opinione

Marina leader? Non stupirebbe

di Umberto Eco

Non sarebbe la prima volta di un passaggio dinastico in politica: si pensi ai Bush in America, ma anche ai Le Pen in Francia. Però qui avrebbe un connotato diverso. Originato da una stortura iniziata nel 1994

(26 agosto 2013)

Mentre scrivo (ma va a sapere, e mi scuso se nel frattempo qualcuno non abbia cambiato idea, come ormai accade quotidianamente) Marina Berlusconi ha decisamente affermato che non intende accettare l'eredità politica del padre, e che ritiene più saggio continuare a fare l'imprenditrice, probabilmente rifacendosi al popolare proverbio milanese "ofelé fa el to mesté", che suggerisce al pasticcere di fare quello che sa fare bene e non il pasticcione.

Ma, esclusa Marina, niente vieta che Berlusconi possa cercare un altro membro della famiglia per perpetuare la dinastia, e ne ha a bizzeffe, tra figli e figlie, e probabilmente cugini, tanto che quest'uomo che una ne fa e cento ne pensa potrebbe persino concepire una discesa in campo di Veronica Lario, visto che ogni Perón può avere la sua Evita. Ma se la signora Lario non ci stesse, perché non pensare a un erede adottivo, per esempio la Minetti, Ruby o altra olgettina?

Inutile obiettare che in democrazia non ci sono dinastie e questo accade solo coi monarchi, accadeva con gli imperatori romani, quando non entravano in scena i pretoriani a cambiare le carte in tavola, e accade coi despoti coreani. No, accade anche in democrazia, vedi il passaggio dei poteri tra Le Pen padre e figlia. A voler insistere si potrebbe parlare della dinastia dei Kennedy (dove il passaggio dei poteri è stato impedito da una mano assassina che ha eliminato Bob), è accaduto con i due Bush, e non sarebbe impossibile che accadesse con la signora Clinton.

E' vero che in America un presidente non può passare il potere a fratelli mogli o figli di propria iniziativa, ma deve aspettare che un voto popolare sancisca il ritorno di un presidente della stessa famiglia, e comunque il potere non viene trasferito a staffetta, ma devono passare alcuni anni. Tuttavia è indubbio che in questi ritorni di un cognome nella vita politica gioca un senso della dinastia, una credenza profonda che buon sangue non menta.

Nel caso di un passaggio di consegne da un Berlusconi all'altro però gioca qualcosa di più del senso dinastico e del richiamo ai valori del sangue. Berlusconi giudica lecito e quasi normale che il potere possa passare a un proprio discendente perché ha un senso padronale del partito politico. Pensa che la legato sia trasferibile perché il capitale è suo, e si comporta come i grandi capitani d'industria, per cui l'azienda era bene di famiglia e doveva passare ai discendenti per asse ereditario. Si veda il caso esemplare degli Agnelli: il nonno Giovanni passa il potere al nipote Gianni (con Valletta che fa da Mazzarino sino a che l'erede non abbia l'età giusta) e alla morte di Gianni, in mancanza di altri Agnelli, diventa presidente un nipote di altro nome ma dello stesso sangue. Ricorderete il grande possidente americano che (in vari film) mostra al rampollo una enorme distesa di praterie e di mandrie dicendo «figlio mio, tutto questo un giorno sarà tuo».

Ma è normale che un partito sia un bene di famiglia come una industria di profilati metallici o di biscottini? A parte che idee del genere non avevano mai attraversato neppure il capo di Mussolini (eppure il partito era davvero cosa sua, tanto che, scomparso lui, si è dissolto), ma vi riuscite a immaginare un De Gasperi che pensasse di trasferire la Democrazia Cristiana a Maria Romana, un Craxi che lasciasse il Partito Socialista in eredità a Bobo o a Stefania, un Berlinguer che delegasse per diritto quasi divino la direzione del Pci a Bianca, e via dicendo? No, perché il partito non lo avevano creato loro, non lo finanziavano loro, dovevano rendere conto ai vari comitati che li avevano eletti, e pertanto del partito non potevano avere una concezione patrimoniale.

Decidere di passare il potere a un discendente significa sapere che il partito è stato creato dal Capo, che non può sopravvivere senza il nome del Capo, che è finanziato dal Capo, e che gli altri membri del partito non solo gli elettori del Capo bensì i suoi dipendenti. In ogni partito di proprietà privata ogni Pescecane ha diritto al proprio Delfino.

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Titolo: UMBERTO ECO. Se prendi la multa, accusa il vigile
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 05:03:43 pm
Bustina

Se prendi la multa, accusa il vigile

di Umberto Eco

Sicuramente era invidioso della tua Bmw, per questo ti ha fatto la contravvenzione. Anche se avevi lasciato l'auto in terza fila e bloccavi il traffico. Questo è il ribaltamento a cui assistiamo in Italia. Mica da oggi: da vent'anni

(16 settembre 2013)

Qualcosa del genere lo avevo scritto in una Bustina del 1995, ma non è colpa mia se a distanza di diciotto anni le cose vanno nello stesso modo, almeno in questo paese. D'altra parte in un'altra Bustina avevo scritto di quando "Repubblica", per festeggiare il suo ventennale, aveva inserito nel numero di vent'anni dopo la copia anastatica del numero di vent'anni prima. Io avevo scambiato distrattamente il secondo per il primo, l'avevo letto con grande interesse e solo alla fine, vedendo che si davano solo i programmi di due canali televisivi, mi ero insospettito. Ma per il resto le notizie di vent'anni prima erano le stesse che mi sarei aspettato vent'anni dopo, e non per colpa di "Repubblica" ma dell'Italia.

Così nel 1995 mi lamentavo di un curioso andazzo di alcuni giornali che parteggiavano per alcuni illustri accusati ma che, invece di sforzarsi di dimostrarne l'innocenza, pubblicavano articoli ambigui e allusivi, quando non deliberatamente accusatori, intesi a delegittimare i giudici.

Ora, si noti, dimostrare che in un processo l'accusa è prevenuta o sleale, in sé sarebbe una bella dimostrazione di democrazia, e fosse stato possibile fare così in tanti processi messi in scena da dittature di vario colore. Ma questo si deve fare in situazioni eccezionali. Una società in cui, sempre e a priori, non solo l'accusa, ma anche il collegio giudicante siano sistematicamente delegittimati, è una società in cui qualcosa non funziona. O non funziona la giustizia o non funzionano i collegi di difesa.
Eppure questo è ciò a cui stiamo assistendo da qualche tempo. La prima mossa dell'inquisito non è di provare che le prove di accusa sono inconsistenti, ma di mostrare all'opinione pubblica che l'accusa non è immune da sospetti. Se l'inquisito riesce in questa operazione, l'andamento del processo è secondario. Perché chi decide, in processi ripresi alla televisione, è l'opinione pubblica, che sfiducia l'inquirente e tende a convincere ogni giuria che sarebbe impopolare dargli ragione.

Quindi il processo non riguarda più un dibattito tra due parti che presentano prove e controprove: riguarda, e prima ancora del processo, un duello massmediatico tra futuri imputati e futuri procuratori e membri del collegio giudicante, a cui l'inquisito contesta il diritto di giudicarlo.

Se riesci a dimostrare che il tuo accusatore è un adultero, ha commesso peccati, leggerezze o crimini - anche se nulla hanno a che fare con il processo - hai già vinto. E non è necessario dimostrare che il giudice abbia commesso un delitto. Basta (ed è storia) averlo fotografato mentre getta una cicca per terra (cosa che ovviamente non avrebbe dovuto fare, neppure in un momento di distrazione) ma che dico, che (come è accaduto) gira con improbabili calzini celesti, e subito il giudicante diventa giudicabile, perché si insinua che sia essere bizzarro e inaffidabile, affetto da tare che lo rendono inadatto alla sua funzione.
A quanto pare questo modo di fare, visto che vi si insiste da almeno vent'anni, funziona. E d'altra parte queste insinuazioni solleticano i peggiori istinti della persona media che, se è multata per aver parcheggiato in terza posizione, si lamenta dicendo che quel vigile non era normale, che nutriva sentimenti d'invidia verso chi aveva una Bmw, come accade di solito ai comunisti. In qualsiasi inchiesta tutti si sentono il K di Kafka, innocente di fronte una giustizia insondabilmente paranoica.

Dunque, dicevo già diciott'anni fa, ricordate, la prossima volta che vi coglieranno con le mani nel sacco, nell'istante in cui date una mazzetta al poliziotto che vi ha sorpreso mentre spaccavate il cranio di vostra nonna a colpi di scure, non preoccupatevi di lavare le tracce di sangue, o di dimostrare che a quell'ora eravate altrove, a colloquio con un cardinale.

Basta che dimostriate che chi vi ha sorpreso con le mani nel sacco (o sulla scure), dieci anni fa non ha dichiarato al fisco un panettone natalizio ricevuto in regalo da una qualche azienda (e meglio se all'amministratore delegato dell'azienda donante è sospettabile di essere stato legato un tempo da affettuosa amicizia).

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Titolo: UMBERTO ECO. Guardarsi in faccia al festival
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:31:43 pm
Opinioni

Guardarsi in faccia al festival

di Umberto Eco

Ci si interroga sul successo dei raduni letterari e filosofici. Anche se non è un fenomeno nuovo. Molti giovani sono stanchi della superficialità che dilaga. E poi la socializzazione virtuale mostra tutti i suoi limiti

(20 settembre 2013)

Festival di Mantova Festival di MantovaIn questo scorcio d'autunno proliferano i festival letterari-filosofici. Ogni città, pare, vuole avere il proprio, emulando le fortune originarie del festival di Mantova; ogni città cerca di avere le menti migliori esistenti sul mercato; in alcuni casi alcune menti migrano da festival a festival, ma in ogni caso il livello dei partecipanti è piuttosto alto. Ora quello che sta eccitando giornali e riviste non è tanto il fatto che questi festival siano organizzati, perché potrebbe trattarsi della pia illusione di qualche assessore alla Cultura, ma che attraggano folle quasi da stadio, in gran parte giovani che arrivano da altre città e spendono uno o due giorni per ascoltare scrittori e pensatori. E in più a gestire questi eventi concorrono squadre di volontari (anche qui giovani) che vi si dedicano come un tempo i loro padri andavano a disseppellire dal fango i libri dopo l'alluvione di Firenze.

Quindi mi pare superficiale e stolta la riflessione di alcuni moralisti che prendono sul serio l'interesse alla cultura solo quando è praticato da un esiguo numero di loro simile, e vedono in questi eventi un esempio di McDonald's del pensiero. Il fenomeno è invece degno di interesse e bisogna chiedersi perché i giovani vadano lì invece che in discoteca; e non si dice che è la stessa cosa, perché non ho ancora udito di auto piene di ragazzi in ecstasy che si schiantano alle due di notte tornando da un Festival della Mente.

Vorrei solo ricordare che il fenomeno, anche se è negli ultimi anni che è esploso in misura massiccia, non è nuovo, perché è dagli inizi degli anni Ottanta che la biblioteca comunale di Cattolica aveva iniziato a organizzare serate (a pagamento!) su "Che cosa fanno oggi i filosofi", e il pubblico arrivava anche in pullman da un raggio di almeno cento chilometri. E già allora qualcuno si era domandato che cosa stesse succedendo.
Né credo che si possa assimilare la faccenda al fiorire di bistrot filosofici intorno a Place de la Bastille a Parigi, dove alla domenica mattina, mentre si sorseggia un Pernod, si fa della filosofia spicciola e terapeutica, una sorta di psicoanalisi meno costosa. No, in questi raduni il pubblico ascolta per ore dei discorsi da aula universitaria. Ci va, ci sta, ci torna.

E allora rimangono solo due ordini di risposte. Di uno si era già parlato sin dai primi raduni di Cattolica: una percentuale di giovani è stanca di proposte d'intrattenimento leggero, di recensioni giornalistiche ridotte (salvo pochi casi eccellenti) a finestrelle e stelloncini di una decina di righe, di televisioni che, quando parlano di un libro, lo fanno solo dopo la mezzanotte. E dunque danno il benvenuto a offerte più impegnative. Si parla per i pubblici dei festival di centinaia e talora di migliaia di partecipanti e certo sono una percentuale assai bassa risetto alla maggioranza generazionale, corrispondono a quelli che frequentano le librerie a più piani, sono certamente un'élite; ma sono un'élite di massa, vale a dire quel che può essere un'élite in un mondo da 7 miliardi di abitanti. E' il minimo che una società può chiedere al rapporto tra autodiretti ed eterodiretti, non si può averne statisticamente di più, ma guai se questi non ci fossero.

La seconda ragione è che questi raduni culturali denunciano l'insufficienza dei nuovi modi di socializzazione virtuale. Puoi avere migliaia di contatti su Facebook ma alla fine, se non sei completamente drogato, ti accorgi che non sei davvero in contatto con esseri in carne e ossa, e cerchi allora occasioni per stare insieme e condividere esperienze con gente che la pensa come te. E' come raccomandava Woody Allen non ricordo dove: se vuoi trovare delle ragazze devi andare ai concerti di musica classica. Non a quelli rock, dove urli verso il palco ma non sai chi ti sta accanto, ma a quelli sinfonici o da camera, dove nell'intervallo intrecci qualche contatto. Non sto dicendo che si vada ai festival per trovare un partner, ma certamente lo si fa per guardarsi in faccia.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/guardarsi-in-faccia-al-festival/2215356/18


Titolo: UMBERTO ECO. Proust e i “boches”
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 08:56:05 am
Umberto Eco
La bustina di minerva

Proust e i “boches”

Quello dell’identità europea è un problema antico. Ma il dialogo tra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali esiste da tempo. E su di esso si fonda una comunità che resiste alla più grande barriera: quella linguistica

Quelli che fanno il mio mestiere compiono sforzi ciclopici per sfuggire a convegni, simposi, interviste intorno al tema ossessivo dell’identità europea. È un problema antico ma che si è arroventato negli ultimi anni in cui molti la negano. È singolare che tra chi rifiuta una identità europea e vorrebbe il continente dissolto in tante piccolissime patrie, militino sovente persone di scarso spessore culturale, le quali, a parte la loro xenofobia quasi genetica, non sanno che è dal 1088, quando nasce l’università di Bologna, che “clerici vagantes” di ogni tipo viaggiano da università a università, da Uppsala a Salerno, parlandosi nella sola lingua comune che conoscessero, il latino. Se ne trae l’impressione che a sentire l’identità europea siano solo le persone colte. È triste, ma basta per cominciare.

IN PROPOSITO VORREI CITARE alcune pagine del “Tempo ritrovato” di Proust. Siamo a Parigi durante la prima guerra mondiale, di notte la città teme le incursioni degli Zeppelin e l’opinione pubblica attribuisce agli odiati “boches” ogni sorta di crudeltà. Ebbene, nelle pagine proustiane si respira un’aria di germanofilia, che traspare nelle conversazioni dei personaggi. È germanofilo Charlus, anche se la sua ammirazione per i tedeschi sembra dipendere non tanto da identità culturale quanto dalle sue preferenze sessuali: «“La nostra ammirazione per i francesi, diceva, non deve indurci a disprezzare i nostri nemici. Non sapete quale soldato sia il soldato tedesco, non l’avete visto come me sfilare a passo di parata, al passo dell’oca”. Ritornando a quell’ideale di virilità a cui mi aveva accennato a Balbec… mi diceva: “Guardate che bel maschio è il soldato tedesco, un essere forte, sano, che pensa solo alla grandezza del proprio paese, Deutschland über Alles”».

Passi per Charlus, anche se già nei suoi discorsi filoteutonici si agitano alcune reminiscenze letterarie. Ma parliamo piuttosto di Saint-Loup, bravo soldato che morirà in combattimento. «(Saint Loup) per farmi capire certe opposizioni d’ombra e di luce che erano state “l’incantesimo della sua mattinata” … non esitava a fare allusioni a una pagina di Romain Rolland, o addirittura a Nietzsche, con quella libertà di coloro che stavano in trincea e che, a differenza di chi stava nelle retrovie, non avevano affatto paura di pronunciare un nome tedesco… Saint-Loup mi parlava di una melodia di Schumann, non ne citava il titolo se non in tedesco e non usava circonlocuzioni per dirmi che quando, all’alba, aveva inteso il primi cinguettii ai bordi d’una foresta, era stato inebriato come se gli avesse parlato l’uccello di quel “sublime Sigfrido” che egli sperava ascoltare di nuovo dopo la guerra». O ancora: «Appresi, in effetti, della morte di Robert de Saint-Loup, ucciso all’idomani del suo ritorno al fronte, mentre proteggeva la ritirata dei suoi uomini. Mai qualcuno aveva nutrito meno di lui l’odio verso un popolo... Le ultime parole che avevo udito uscire dalla sua bocca, sei giorni prima, erano quelle che accennavano a un “lied” di Schumann e che sulle scale mi canticchiava in tedesco, tanto che l’avevo fatto tacere a causa dei vicini». E Proust si affrettava ad aggiungere che tutta la cultura francese non si vietava di studiare, anche allora, la cultura tedesca, se pure con qualche precauzione: «Un professore scriveva un libro notevole su Schiller, recensito sui giornali. Ma prima di parlare dell’autore del libro, si scriveva, come fosse un’autorizzazione a stampare, che era stato sulla Marna, a Verdun, che aveva avuto cinque encomi, e due figli uccisi. Dopo, si lodava la chiarezza e la profondità della sua opera su Schiller, che si poteva qualificare come un grande purché si dicesse, invece di “questo grande tedesco”, “questo grande boche”».

ECCO CHE COSA STA ALLA BASE dell’identità culturale europea, un lungo dialogo tra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali. Niente che si possa cancellare malgrado una guerra, e su questa identità si fonda una comunità che resiste alla più grande delle barriere, quella linguistica.
22 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2013/10/16/news/proust-e-i-boches-1.137843


Titolo: UMBERTO ECO. Elogio del classico
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 08:58:01 am
Umberto Eco
La bustina di minerva

Elogio del classico
Chi ha fatto buoni studi, se non è capace di fare bene i mestieri esistenti, è più aperto ai mestieri di domani

Si legge che diminuiscono sensibilmente le iscrizioni al liceo classico Quello che rende perplessi è che la ragione addotta è che non offre sbocchi professionali. Mi pare che, se uno intende arrestarsi alla maturità senza entrare all’università, il classico offra le stesse possibilità di ogni altro liceo. Se si cerca un lavoro immediato dopo le medie superiori allora è meglio un buon diploma di ragioniere o di geometra, professioni di cui si ha sempre bisogno. Se invece si pensa all’università, il classico offre la possibilità di fare qualsiasi facoltà, ingegneria compresa, e quindi il problema non esiste, ovvero si sposta sugli sbocchi professionali dopo l’università, ed è certo che forse diventare dentista piuttosto che professore di filosofia apre maggiori possibilità di comperarsi una barca. Ma so di gente laureata in lettere che ha fatto grandi carriere, in banca e alle massime magistrature dello Stato, si veda, tanto per dirne una, Ciampi. Pertanto nasce il sospetto che la differenza noi sia tra l’educazione classica e quella no, bensì tra avere la testa di Ciampi o quella di qualcun altro.

Ma non vorrei fare del razzismo. Ricordo che il vecchio Adriano Olivetti, quando si stava non solo costruendo (ancora) delle macchine da scrivere, ma già si lavorava ai primi grandi computer, quelli che occupavano uno stanzone e funzionavano ancora a valvole e schede perforate, assumeva certamente dei bravi ingegneri, altrimenti i computer non li avrebbe mai costruiti, ma non aveva esitazioni ad assumere un laureato che avesse fatto una tesi eccellente sui dialetti omerici. Lo mandava a farsi pratica in fabbrica per sei mesi, lavorando da operaio (ma più che altro per fargli capire cos’era una industria) ma poi lo metteva a lavorare ai grandi progetti, o addirittura all’amministrazione. Ricordo che aveva così formato un futuro grande manager che aveva fatto una tesi su Hegel.

Perchè Olivetti faceva così? Perché aveva già capito che una buona educazione (media e universitaria) non insegna solo a fare quello che si sa già (e certamente una scuola per elettricisti deve anzitutto insegnare a riparare un impianto elettrico così come si presenta oggi), ma a essere abbastanza immaginativi per capire dove va a parare il futuro (e il buon elettricista dovrebbe avere abbastanza flessibilità e fantasia per capire cosa potrebbe accadere se domani l’illuminazione e il riscaldamento non fossero più prodotti dall’energia elettrica).

Prepararsi al domani vuole dire non solo capire come funziona oggi un programma elettronico ma concepire nuovi programmi. E accade che gli studi classici (compreso sapere che cosa aveva detto Omero, ma soprattutto la capacità di lavorare filologicamente su un testo omerico - e avere fatto bene filosofia e un poco di logica) sono quelli che ancora possono preparare a concepire i mestieri di domani.
Certamente vorrei un classico concepito in modo più moderno di quello ideato nel secolo scorso da Gentile (che poco aveva compreso delle scienze), dove ci fosse un poco più di matematica, e naturalmente di lingue contemporanee oltre al greco (e forse si potrebbe superare la distinzione artificiosa tra classico e scientifico), ma chi ha avuto una buona educazione classica ha sempre trovato qualcosa da fare, anche se non era quello che tutti si aspettavano in quel momento.

Solo chi ha il respiro culturale che può essere offerto da buoni studi classici è aperto all’ideazione, all’intuizione di come andranno le cose quando oggi non lo si sa ancora.

In altre parole, vorrei dire che chi ha fatto buoni studi classici, se non è forse capace di fare bene i mestieri esistenti, è più aperto ai mestieri di domani e forse capace di idearne alcuni.

Ma certamente è una sfida. Chi ha paura del classico è meglio prenda altre strade, perché la vita è crudele e – anche se non è politicamente corretto dirlo -appartenere alle élites è rischioso e faticoso. Si può avere una vita felice a soddisfazioni anche estetiche studiando ebanisteria, e guai se non ci fosse chi lo fa.
03 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2013/10/03/news/elogio-del-classico-1.135815


Titolo: UMBERTO ECO: aiuto, perdiamo.
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2013, 09:24:05 am
CULTURA
22/10/2013 - INTERVISTA

Umberto Eco: aiuto, perdiamo

«Stiamo usando male le nostre risorse». Si riferisce all’istruzione e alla ricerca, Umberto Eco, quando lancia questo monito. E poi ricorda la battuta dell’allora ministro Tremonti, mentre tagliava il bilancio nel governo Berlusconi: «Qualcuno è andato a dire che con la cultura non si mangia, quando ci sono Paesi come la Francia che invece ci mangiano tantissimo».
 
Eco ha appena pubblicato in Italia la Storia delle terre e dei luoghi leggendari (Bompiani), ma a New York è venuto per tenere una lectio magistralis all’Onu intitolata «Against the loss of memory», contro la perdita della memoria, e presentare EncycloMedia, la nuova enciclopedia digitale realizzata in collaborazione con la EM Publishers di Corrado Passera e con Danco Singer. Lo incontriamo dopo un evento organizzato alla missione italiana dall’ambasciatore Sebastiano Cardi.
 
Cosa c’è di male se uno cerca su Internet quando Nixon è stato presidente degli Stati Uniti? 
«Niente, di per sé. Ho sempre detto che una persona colta non è quella che sa la data di nascita di Napoleone, ma quella che sa trovarla in cinque minuti. Però non si può partire dal nulla: quando uno non ha nemmeno idea se Nixon è venuto prima o dopo Kennedy, qualcosa non funziona».
 
Stiamo perdendo la memoria in generale, o la memoria di qualità, a causa dell’abbondanza di informazioni presenti nella rete? 
«Tutt’e due. Spesso arrivano questi test in cui scopriamo che gli studenti universitari non sanno nemmeno chi era De Gasperi».
 
Che problemi genera, questa perdita della memoria? 
«Facciamo un paio di esempi pratici: se Hitler avesse letto Guerra e pace, avrebbe capito che invadere la Russia non era una buona idea. Se Bush avesse letto i libri di storia sulle invasioni occidentali dell’Afghanistan, avrebbe fatto scelte diverse».
 
Le polemiche scoppiate per il funerale di Priebke sono un esempio dei danni provocati dalla perdita della memoria? 
«Sono un problema di ordine pubblico. Non credo che la memoria dei suoi atti sia andata perduta». 
 
Quindi EncycloMedia offre informazioni vaste come quelle di Internet, tipo Wikipedia, però filtrate e garantite. 
«Questo è un punto, certo. Il problema di Internet è la vastità e l’incertezza delle fonti. Nello stesso tempo, però, EncycloMedia permette di fare collegamenti che la rete non consente. Uno su Internet trova Beethoven, però non sa se componendo l’Eroica aveva in mente Napoleone. Con noi può scoprirlo».
 
Il mondo è dominato da «Big Data», le informazioni su tutto e su tutti, usate anche dalla politica. È una minaccia per la privacy? 
«Della privacy non me ne frega più niente. Un marito deve uscire di casa dicendo che sta andando a trovare l’amante, così tutto è pubblico e tutto ridiventa privato, perché nessuno gli crede. Io sono un utente di Internet, ma sono un privilegiato, perché ho un’educazione che mi consente di filtrare. La televisione è stata un bene per i poveri, perché ha insegnato loro l’italiano, e un male per i ricchi, che invece di andare all’opera sono stati costretti a guardare i suoi programmi. Internet è il contrario: un bene per i ricchi, che sanno come usarlo, e un male per i poveri, naturalmente non i poveri in senso economico, che non sanno distinguere».
 
Ma «Big Data» non le fa paura? 
«Non è un problema culturale, ma politico. Cosa vuol dire vivere in una società dove tutti sanno che alle 18,30 ho preso l’autostrada per Varese? La mia impressione è che raccogliendo tutti questi dati, alla fine non interesseranno più a nessuno».
L’informazione oggi viaggia anche sui social media, ma scrittori come Jonathan Franzen dicono che sono dannosi. Lei cosa ne pensa? 
«Non sono su Facebook, non sono Linkedin, non sono su nulla. La cosa non mi interessa, non mi lascio distrarre».
 
Lei è venuto all’Onu in un momento di grande incertezza: sembra che nessuno governi più il mondo. Questo disorientamento nasce anche dall’eccesso di informazione, spesso sbagliata? 
«Un principio di anarchia c’è, ma non mi sento di dare una risposta».
 
L’Italia sembra più smarrita degli altri, o comunque più arretrata. 
«Il problema culturale tecnico è che siamo meno cablati di tanti altri Paesi. Pensavamo di stare meglio della Francia, che invece è cablatissima. Questo piano piano ci porrà in una situazione di svantaggio, di disagio, e quindi bisognerebbe pensarci. Ma fa parte del problema generale dell’educazione e della ricerca». 
 
È un ritardo che ci penalizza sul piano globale? 
«In questo momento sì. Certamente c’è un gap nell’educazione, quando non si finanzia abbastanza la ricerca. Qualcuno è andato a dire che con la cultura non si mangia, mentre Paesi come la Francia ci mangiano tantissimo. Stiamo usando male le nostre risorse».
 
Il ritardo nell’istruzione e nella ricerca è l’emergenza principale per l’Italia? 
«È una delle tante. Ne abbiamo diecimila, dalle tasse alla disoccupazione».
 
Qualche tempo fa lei si era definito un «ottimista tragico». È ancora così, o sta prevalendo il pessimismo? 
«Sto cercando ancora di essere un ottimista, tragico».
 
Quindi ce la caveremo, nonostante i ritardi dell’Italia? 
«Forse sì. E se non ve la cavate, io non ci sarò più».

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/22/cultura/umberto-eco-aiuto-perdiamo-la-memoria-fmRoggCRoK4tAzpR1o7VRN/pagina.html


Titolo: UMBERTO ECO. Proust e i “boches”
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2013, 05:58:39 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Proust e i “boches”

Quello dell’identità europea è un problema antico. Ma il dialogo tra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali esiste da tempo. E su di esso si fonda una comunità che resiste alla più grande barriera: quella linguistica
   
Quelli che fanno il mio mestiere compiono sforzi ciclopici per sfuggire a convegni, simposi, interviste intorno al tema ossessivo dell’identità europea. È un problema antico ma che si è arroventato negli ultimi anni in cui molti la negano. È singolare che tra chi rifiuta una identità europea e vorrebbe il continente dissolto in tante piccolissime patrie, militino sovente persone di scarso spessore culturale, le quali, a parte la loro xenofobia quasi genetica, non sanno che è dal 1088, quando nasce l’università di Bologna, che “clerici vagantes” di ogni tipo viaggiano da università a università, da Uppsala a Salerno, parlandosi nella sola lingua comune che conoscessero, il latino. Se ne trae l’impressione che a sentire l’identità europea siano solo le persone colte. È triste, ma basta per cominciare.

IN PROPOSITO VORREI CITARE alcune pagine del “Tempo ritrovato” di Proust. Siamo a Parigi durante la prima guerra mondiale, di notte la città teme le incursioni degli Zeppelin e l’opinione pubblica attribuisce agli odiati “boches” ogni sorta di crudeltà. Ebbene, nelle pagine proustiane si respira un’aria di germanofilia, che traspare nelle conversazioni dei personaggi. È germanofilo Charlus, anche se la sua ammirazione per i tedeschi sembra dipendere non tanto da identità culturale quanto dalle sue preferenze sessuali: «“La nostra ammirazione per i francesi, diceva, non deve indurci a disprezzare i nostri nemici. Non sapete quale soldato sia il soldato tedesco, non l’avete visto come me sfilare a passo di parata, al passo dell’oca”. Ritornando a quell’ideale di virilità a cui mi aveva accennato a Balbec… mi diceva: “Guardate che bel maschio è il soldato tedesco, un essere forte, sano, che pensa solo alla grandezza del proprio paese, Deutschland über Alles”».

Passi per Charlus, anche se già nei suoi discorsi filoteutonici si agitano alcune reminiscenze letterarie. Ma parliamo piuttosto di Saint-Loup, bravo soldato che morirà in combattimento. «(Saint Loup) per farmi capire certe opposizioni d’ombra e di luce che erano state “l’incantesimo della sua mattinata” … non esitava a fare allusioni a una pagina di Romain Rolland, o addirittura a Nietzsche, con quella libertà di coloro che stavano in trincea e che, a differenza di chi stava nelle retrovie, non avevano affatto paura di pronunciare un nome tedesco… Saint-Loup mi parlava di una melodia di Schumann, non ne citava il titolo se non in tedesco e non usava circonlocuzioni per dirmi che quando, all’alba, aveva inteso il primi cinguettii ai bordi d’una foresta, era stato inebriato come se gli avesse parlato l’uccello di quel “sublime Sigfrido” che egli sperava ascoltare di nuovo dopo la guerra». O ancora: «Appresi, in effetti, della morte di Robert de Saint-Loup, ucciso all’idomani del suo ritorno al fronte, mentre proteggeva la ritirata dei suoi uomini. Mai qualcuno aveva nutrito meno di lui l’odio verso un popolo... Le ultime parole che avevo udito uscire dalla sua bocca, sei giorni prima, erano quelle che accennavano a un “lied” di Schumann e che sulle scale mi canticchiava in tedesco, tanto che l’avevo fatto tacere a causa dei vicini». E Proust si affrettava ad aggiungere che tutta la cultura francese non si vietava di studiare, anche allora, la cultura tedesca, se pure con qualche precauzione: «Un professore scriveva un libro notevole su Schiller, recensito sui giornali. Ma prima di parlare dell’autore del libro, si scriveva, come fosse un’autorizzazione a stampare, che era stato sulla Marna, a Verdun, che aveva avuto cinque encomi, e due figli uccisi. Dopo, si lodava la chiarezza e la profondità della sua opera su Schiller, che si poteva qualificare come un grande purché si dicesse, invece di “questo grande tedesco”, “questo grande boche”».

ECCO CHE COSA STA ALLA BASE dell’identità culturale europea, un lungo dialogo tra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali. Niente che si possa cancellare malgrado una guerra, e su questa identità si fonda una comunità che resiste alla più grande delle barriere, quella linguistica.
22 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2013/10/16/news/proust-e-i-boches-1.137843


Titolo: UMBERTO ECO. Chi ha paura delle tigri di carta?
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:37:53 pm
Umberto Eco

La bustina di minerva

Chi ha paura  delle tigri di carta?
Bezos e Buffett scommettono sui quotidiani. Che sia calcolo commerciale, speculazione politica, difesa di un presidio democratico, la profezia della scomparsa del supporto cartaceo si ribalta

      
Agli inizi degli anni Sessanta Marshall McLuhan aveva annunciato alcuni cambiamenti profondi nel nostro modo di pensare e di comunicare. Una delle sue intuizioni era che stavamo entrando in un villaggio globale e certamente nell’universo di Internet si sono avverate molte delle sue previsioni. Ma, dopo aver analizzato l’influenza della stampa sull’evoluzione della cultura e della nostra stessa sensibilità individuale con “La galassia Gutenberg”, McLuhan aveva annunciato, con “Understanding Media” e altre opere, il tramonto della linearità alfabetica e il predominio dell’immagine - ciò che, ipersemplificando, i mezzi di massa avevano tradotto come “non si leggerà più, si guarderà la tv (o le immagini stroboscopiche in discoteca)”.

MCLUHAN MUORE NEL 1980, proprio mentre stanno facendo il loro ingresso nel mondo di tutti i giorni i personal computer (ne appaiono modelli poco più che sperimentali alla fine dei Settanta, ma il mercato di massa inizia nel 1981 con il Pc Ibm), e se fosse vissuto qualche anno in più avrebbe dovuto ammettere che, in un modo apparentemente dominato dall’immagine, si stava affermando una nuova civiltà alfabetica: con un personal computer o sai leggere e scrivere, o non combini un gran che. È vero che i bambini d’oggi sanno usare un iPad anche in età prescolare, ma tutta l’informazione che riceviamo via Internet, e-mail e Sms, sono basati su conoscenze alfabetiche. Col computer si è perfezionata la situazione preconizzata nel “Nostra Signora di Parigi” di Hugo dal canonico Frollo il quale, indicando prima un libro e poi la cattedrale che vedeva dalla finestra, ricca di immagini e altri simboli visivi, diceva «questo ucciderà quello». Il computer certamente si è dimostrato strumento da villaggio globale con i suoi link multimediali, ed è capace di far rivivere anche il “quello” della cattedrale gotica, ma si regge fondamentalmente su principi neo-gutenberghiani.

Ritornato l’alfabeto, con l’invenzione degli e-book si è però profilata la possibilità di leggere testi alfabetici non sulla carta ma su uno schermo; da cui una nuova serie di profezie sulla scomparsa del libro e del giornale (in parte suggerita da alcune flessioni nelle vendite). Così uno degli sport preferiti di ogni giornalista privo di fantasia è da anni domandare a uomini di penna come vedono la scomparsa del supporto cartaceo. E non basta sostenere che il libro riveste ancora un’importanza fondamentale per il trasporto e la conservazione dell’informazione, che abbiamo la prova scientifica che sono meravigliosamente sopravvissuti libri stampati cinquecento anni fa, mentre non abbiamo prove scientifiche per sostenere che i supporti magnetici attualmente in uso possano sopravvivere più di dieci anni (né possiamo verificarlo, dato che i computer di oggi non leggono più un floppy disk degli anni Ottanta).

Ora però ecco alcuni avvenimenti sconcertanti di cui hanno dato notizia i giornali, ma di cui non abbiamo ancora colto il significato e le conseguenze. Ad agosto Jeff Bezos, quello di Amazon, si è comprato il “Washington Post” e, mentre si conclama il declino del quotidiano di carta, Warren Buffett di recente ha collezionato ben 63 quotidiani locali. Come osservava recentemente Federico Rampini su “Repubblica”, Buffett è un gigante della Old Economy e non è un innovatore, ma ha un acume raro per le opportunità d’investimento. E pare che verso i quotidiani si muovano anche altri pescecani della Silicon Valley.

RAMPINI SI CHIEDEVA se il botto finale non lo faranno Bill Gates o Mark Zuckerberg comprandosi il “New York Times”. Anche se questo non avverrà, è chiaro che il mondo del digitale sta riscoprendo la carta. Calcolo commerciale, speculazione politica, desiderio di preservare la stampa come presidio democratico? Non mi sento ancora di tentare alcuna interpretazione del fatto. Mi pare però interessante che si assista a un altro ribaltamento delle profezie. Forse Mao aveva torto: prendete sul serio le tigri di carta.
07 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2013/10/30/news/chi-ha-paura-delle-tigri-di-carta-1.139535


Titolo: UMBERTO ECO. Ciao, Bill.
Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2013, 06:13:41 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Ciao, Bill
William Weaver è stato amico di tanti scrittori italiani di cui ha tradotto le opere. Osando di non essere letterale pur di conservare il senso profondo di un testo.
Come quella volta che si trovò di fronte a un gioco di parole sugli pneumatici


Novantenne, ma da dieci anni ridotto in stato quasi vegetale, si è spento William Weaver. È stato un grande traduttore, e si può dire che è per merito suo che la nostra letteratura contemporanea è conosciuta e amata nei paesi anglosassoni. Nato in Virginia, obiettore di coscienza ma cosciente che non si poteva ignorare il grande conflitto in corso, nella seconda guerra mondiale si era arruolato come guidatore di ambulanze nell’esercito inglese e così si era fatto tutta la campagna d’Italia, pericolosamente ma senza mai imbracciare un fucile. Tra Napoli e Roma aveva fatto amicizia con tanti scrittori italiani dell’epoca e da allora non aveva più lasciato il nostro paese.

Così ha tradotto Pirandello (“Uno, nessuno e centomila” e “Il fu Mattia Pascal”), “La coscienza di Zeno” di Svevo, “Il Pasticciaccio” e la “Cognizione del dolore” di Gadda, due terzi dell’opera di Calvino, “La chiave a stella” e “Se non ora, quando?” di Primo Levi, “La donna della domenica” di Fruttero e Lucentini, “La Storia” e “Aracoeli” di Elsa Morante, “Il male oscuro” di Berto, “Una vita violenta” di Pasolini, e poi Cassola, Calasso, De Carlo, Malerba, La Capria, Parise, Soldati, Alba de Cespedes, Festa Campanile, “Un uomo” e “Insciallah” di Oriana Fallaci.

Per finire, dal 1981 al 2003 ha tradotto quattro dei miei romanzi e molti miei saggi, e sono stati vent’anni di intensa, splendida collaborazione, in cui su una sola parola si potevano spendere dei pomeriggi o scambiarsi due o tre lettere. Se la cultura ha perso un grande scrittore, io ho perso un amico. Weaver era un grande traduttore non solo perché di un testo cercava di rendere la fluidità, il ritmo, la ricchezza lessicale, il suono (e, per quanto mi riguarda, talora ha migliorato il mio originale), ma anche perché sapeva che tradurre significa osare di non essere letterali pur di conservare l’effetto o il senso profondo di un testo. Per ragioni di spazio mi limito a un ricordo divertente, di un caso in cui ci eravamo spaccati la testa per rendere una semplice battuta, peraltro già difficile per il lettore italiano.

Bill stava traducendo il mio “Pendolo di Foucault” ed era arrivato a un punto in cui due personaggi, ossessionati dall’universo degli occultisti, e per ironizzare sulla loro propensione a pensare che ogni parvenza del mondo, ogni parola scritta o detta non abbia il senso che appare, ma ci parli di un Segreto, si affannavano a trovare simboli misterici nel sistema legato all’albero di trasmissione delle automobili, che avrebbe alluso all’albero delle Sephirot della Cabala.

Per il traduttore inglese il caso si presentava difficile sin dall’inizio, perché in inglese c’è una differenza tra un “tree” (albero, vegetale e cabalistico) e lo “axle” (automobilistico), ma rovistando tra dizionari Weaver era riuscito a trovare come espressione autorizzata anche “axle-tree”. Però si era trovato in un impiccio quando i due personaggi avevano fatto scattare un corto circuito fulminante tra gli Pneumatici gnostici (gli Spirituali opposti agli Ilici, e cioè aimateriali) e gli pneumatici dell’auto. Battutaccia, ma i protagonisti stavano appunto facendo battutacce.

Solo che in inglese le gomme delle automobili non sono “pneumatici” bensì soltanto “tires”. Che fare? Weaver (come racconta nel suo diario di traduzione, ”Pendulum Diary,” Southwest Review 75, 1990), era stato colto da un’illuminazione ricordando una celebre marca di pneumatici, Firestone, e aveva associato quel nome all’espressione inglese “philosopher’s stone”, che è la pietra filosofale di alchemica memoria. Soluzione trovata. Il testo inglese avrebbe detto che i ciechi occultisti non erano ancora riusciti a trovare la vera connessione tra la “philosopher’s stone” e i Firestone.

Come si vede si trattava di una battuta diversa da quella originale, ma il traduttore doveva rendere il senso profondo del testo, che non era «i protagonisti parlano di pneumatici» bensì «i protagonisti sono dei goliardi che giocano dissennatamente sul sapere universale».
Come avrebbe detto Totò, traduttori si nasce. E Bill lo nacque.

 
03 dicembre 2013 © Riproduzione riservata
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Titolo: UMBERTO ECO. - Come terremotare di nuovo Pompei
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2013, 04:08:55 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva
Come terremotare di nuovo Pompei

Nel 1988 un gruppo di esperti mise a punto un progetto di valorizzazione dei beni culturali italiani. Renzo Piano ne curò una parte dedicata al sito archeologico campano. L’allora ministro Bono Parrino lo guardò...
   
A leggere i giornali tornano regolarmente le notizie, ovviamente preoccupate, sul destino di Pompei, che minaccia di scomparire come l’Atlantide. E, benché qualcuno abbia detto che con la cultura non si mangia, con Pompei, meta ininterrotta di flussi turistici, si potrebbe mangiare moltissimo. Ma accade invece come se, per invogliare la gente alla sobrietà, si bruciassero i ristoranti e le pizzerie.

Vorrei allora ricordare un evento di cui evidentemente si è persa memoria. Nel 1988 la Ibm, come atto di mecenatismo, aveva commissionato e pagato un libro (e le moltissime riunioni di lavoro) su come prendersi cura del nostro patrimonio culturale. Il libro, molto bello a vedersi, si intitolava “Le isole del tesoro - Proposte per la riscoperta e gestione delle risorse culturali” e conteneva degli studi miei, di Federico Zeri, Renzo Piano e Augusto Graziani, con un contributo di Omar Calabrese e un dibattito moderato da Carlo Bertelli. Nel libro si cercava di studiare che cosa fosse un giacimento culturale, dalle opere d’arte seppellite nelle cantine delle grandi gallerie, a distese di rovine o a luoghi storici come la piana di Marengo, se ne tentava un regesto e se ne esaminavano i problemi economici, comprese le possibilità di quel marketing colto che già da tempo funzionava come forma di autofinanziamento in molti musei europei e americani.

Nello spazio di una Bustina non posso che limitarmi a citare la proposta di Renzo Piano, che aveva ideato un progetto straordinario centrato proprio su Pompei - e solo per quello Piano avrebbe meritato di essere nominato già allora senatore a vita, se i suoi oppositori di oggi avessero praticato l’arte della lettura. Il progetto, minuziosamente sviluppato con la collaborazione tecnica di un team di altri architetti, prendeva in considerazione la ristrutturazione degli accessi e dei servizi, la creazione di nuovi assetti didattico-informativi per il complesso archeologico (compreso un sito destinato al racconto storico dell’eruzione), un nuovo arredo urbano, un centro di raccolta e conservazione dei reperti da nuovi scavi. Naturalmente tutto questo implicava dei costi, ma il progetto tentava di trarre vantaggi economici proprio da queste iniziative. Infatti prevedeva installazioni sopraelevate, da cui i visitatori potevano seguire gli scavi a mano a mano che avvenivano, e quindi non solo vedere quello che della città appariva già in superficie ma anche quello che ne veniva a poco a poco alla luce.

Ne veniva fuori la possibilità di vedere al tempo stesso - grazie a questo percorso aereo - e la città sopravvissuta e quella ancora sepolta e sino ad allora ignorata. E siccome anche i siti dedicati all’informazione storica e all’esposizione di nuovi tesori erano sotterranei, la città quale appare ora e la natura circostante non ne venivano alterati. La nuova Pompei poteva autofinanziarsi incrementando l’afflusso (e la soddisfazione) di nuovi visitatori paganti.

Gli autori e il committente erano andati a consegnare il volume al presidente Pertini il quale, sia pure assai compiaciuto, non aveva potuto far altro che consegnarlo ufficialmente al ministro dei beni culturali, allora la signora Bono Parrino, la quale ci aveva dato subito l’impressione di portarlo perplessa a casa per sostenere un mobile pericolante. Forse eravamo troppo sospettosi ma, siccome la storia è, come è noto, “magistra vitae”, il nostro sospetto è stato in seguito confortato dal fatto inoppugnabile che di quel progetto nessuno ha più parlato.

Il piano di Piano è ancora da qualche parte, sepolto come i tesori di cui parlavamo, e Pompei continua a crollare. Non sono dunque i soldi o le idee che mancano, ma la buona volontà. O forse ci sono ragioni per cui a qualcuno l’andazzo presente, coi tanti piccoli e miserabili interessi che favorisce, fa comodo. Ma di questo “Le isole del tesoro” non poteva occuparsi altrimenti il suo titolo non avrebbe dovuto riecheggiare Stevenson ma forse Saviano.

19 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

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Titolo: UMBERTO ECO Quanto è importante la memoria per non vivere in un mondo appiattito
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2014, 12:27:20 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Quanto è importante la memoria per non vivere in un mondo appiattito
Ai giovani mancano certe competenze nozionistiche. Lo dimostra il caso dell'Eredità e della domanda su Hitler, sbagliata da tutti i concorrenti del quiz.  Per molti di loro il passato si appiattisce in una nebulosa indifferenziata. Ecco perché consiglio la Vispa Teresa a memoria a mia nipote

Nell’ultimo “Espresso” è apparsa una mia lettera a un nipotino, in cui lo esortavo all’esercizio della memoria, invitandolo a mandare a mente “La vispa Teresa”, perché la sua generazione rischiava di perdere sia la memoria personale che quella storica e già molti studenti universitari (citavo da alcune statistiche) pensavano che Aldo Moro fosse il capo delle Brigate Rosse. Avevo scritto la lettera verso la metà di dicembre; proprio in quei giorni appariva un video su Youtube, subito visitato da 800 mila persone, mentre la notizia tracimava su vari quotidiani.

La faccenda riguardava “l’Eredità”, la trasmissione di quiz condotta da Carlo Conti, in cui vengono invitati concorrenti certamente scelti in base alla bella presenza, alla naturale simpatia o ad alcune caratteristiche curiose, ma selezionandoli anche in base a certe competenze nozionistiche, per evitare di mettere in scena individui che se ne stiano pensosamente a bocca aperta di fronte alla sfida se Garibaldi fosse un ciclista, un esploratore, un condottiero o l’inventore dell’acqua calda. Ora, in una serata televisiva Conti aveva proposto a quattro concorrenti il quesito “quando era stato nominato cancelliere Hitler” lasciando la scelta tra 1933, 1948, 1964 e 1979. Dovevano rispondere tale Ilaria, giovanissima e belloccia, Matteo, aitante con cranio rasato e catenina al collo, età presumibile sui trent’anni, Tiziana, giovane donna avvenente, anch’essa apparentemente sulla trentina, e una quarta concorrente di cui mi è sfuggito il nome, occhiali e aria da prima della classe.

Siccome dovrebbe essere noto che Hitler muore alla fine della seconda guerra mondiale, la riposta non poteva essere che 1933, visto che altre date erano troppo tarde. Invece Ilaria risponde 1948, Matteo 1964, Tiziana azzarda 1979 e solo la quarta concorrente è costretta a scegliere il 1933 (ostentando incertezza, non si capisce se per ironia o per stupore).

In un quiz successivo viene domandato quando Mussolini riceva Ezra Pound, e la scelta è tra 1933, 1948, 1964, 1979. Nessuno (nemmeno un membro di Casa Pound) è obbligato a sapere chi fosse Ezra Pound e io non sapevo in che anno Mussolini l’avesse incontrato, ma era ovvio che – il cadavere di Mussolini essendo stato appeso a Piazzale Loreto nel 1945 – la sola data possibile era 1933 (anche se mi ero stupito per la tempestività con cui il dittatore si teneva al corrente degli sviluppi della poesia anglosassone). Stupore: la bella Ilaria, richiedendo indulgenza con un tenero sorriso, azzardava 1964.

Ovvio sbigottimento di Conti e – a dire la verità - di tanti che reagiscono alla notizia di Youtube, ma il problema rimane, ed è che per quei quattro soggetti tra i venti e trent’anni - che non è illecito considerare rappresentativi di una categoria - le quattro date proposte, tutte evidentemente anteriori a quelle della loro nascita, si appiattivano per loro in una sorta di generico passato, e forse sarebbero caduti nella trappola anche se tra le soluzioni ci fosse stato il 1492.

Questo appiattimento del passato in una nebulosa indifferenziata si è verificato in molte epoche, e basti pensare a Raffaello che raffigurava il matrimonio della Vergine con personaggi vestiti alla foggia rinascimentale, ma ora questo appiattimento non dovrebbe avere giustificazioni, visto le informazioni che anche l’utente più smandrappato può ricevere su Internet, al cinema o dalla benemerita Rai Storia. Possibile che i nostri quattro soggetti non avessero idea delle differenze tra il periodo in cui entrava in scena Hitler e quello in cui l’uomo era andato sulla Luna? Per Aristotele è possibile tutto quello che si è verificato almeno una volta, e dunque è possibile che in alcuni (molti?) la memoria si sia contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere. Si tratta dunque di una malattia generazionale.

Nutrirei qualche speranza perché la notizia di Youtube mi è stata segnalata, tra sghignazzi e cachinni, da un mio nipote tredicenne e dai suoi compagni di scuola, che forse sapranno ancora imparare “La vispa Teresa” a memoria.

08 gennaio 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: UMBERTO ECO. Il progresso della Rete non si può fermare
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2014, 05:21:17 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Il progresso della Rete non si può fermare
Nell’antichità faceva paura persino la scrittura.
E ora si discute su Internet. Che, se usata nel modo giusto, può fare tanto bene ai ragazzi.
Anche se non potremo evitare i dannati della Rete

   
Qualche “Espresso” fa scrivevo una lettera a un nipotino ideale incoraggiandolo a far uso della sua memoria senza limitarsi a trarre informazioni da quel repertorio peraltro indispensabile che è Internet. Immediatamente un talebano del digitale, non ricordo in quale blog, mi accusava di essere (come al solito, diceva) nemico di Internet. Come se chi critica coloro che vanno a centottanta sull’autostrada o guidano in stato di ebbrezza sia contrario all’automobile e non la usi mai. Di converso, sull’“Espresso” scorso Eugenio Scalfari (ricordando la mia ultima Bustina in cui parlavo dei poveretti condannati a un eterno presente che nella trasmissione “L’eredità” avevano mostrato di ritenere che Hitler e Mussolini fossero vissuti negli anni Sessanta, Settanta o Ottanta) mi rimproverava (affettuosamente) l’eccesso opposto, e cioè di dare troppa fiducia a Internet come possibilità di reperire informazioni.

Scalfari osservava che è proprio l’appiattimento creato dalla memoria artificiale “on line” a rendere una generazione malata di dimenticanza. E osservava parimenti che l’uso della Rete, dando l’impressione di essere in contatto con tutto e con tutti condanna in realtà alla solitudine. Sono due malattie del nostro tempo su cui sono d’accordo e molto ho scritto in proposito. Scalfari però non cita quel passo del “Fedro” platonico in cui il Faraone rimprovera al dio Theut, inventore della scrittura, di aver escogitato una tecnologia per colpa della quale gli uomini perderanno la buona abitudine a far uso della memoria. E invece è poi accaduto che la scrittura abbia invogliato la gente a ricordare quanto avevano letto, e che è solo per merito della scrittura che si è potuto scrivere quell’elogio della memoria che è la “Recherche” proustiana. Come a dire che si può usare benissimo Internet e coltivare nel contempo la memoria, cercando persino di ricordare quanto si è appreso da Internet.

La questione è che la Rete non è qualcosa che possiamo decidere di respingere, e così è accaduto coi telai meccanici, con la motorizzazione, con la televisione; essa c’è, neppure le dittature potranno mai eliminarla, e quindi il problema è non solo riconoscerne i rischi (evidenti) ma anche decidere come ci si possa abituare (ed educare i giovani) a farne un uso critico.

Pensiamo a un buon insegnante che propone una ricerca sull’argomento X, e sa di non poter evitare che i suoi alunni vadano a prelevare soluzioni cotte e mangiate su Internet senza fare la minima fatica. Quell’insegnante può proporre di cercare notizie su quell’argomento in almeno dieci siti di Internet, paragonando le risposte, rilevando le eventuali differenze o contraddizioni tra sito e sito, cercando di stabilire quale sito sia il più attendibile - magari andando a fare verifiche anche su supporti cartacei (o anche soltanto sulla Garzantina). A quel punto i ragazzi avranno attinto alle informazioni che Internet può dare - e che sarebbe stolido evitare - e al tempo stesso avranno ragionato con la propria testa e si saranno costituita la propria memoria personale su quanto avranno scoperto su X. Si noti inoltre che, chiamati a confrontare mutuamente le loro ricostruzioni, i ragazzi saranno anche sfuggiti alla condanna della solitudine, e avranno ritrovato il gusto del confronto faccia a faccia.

Non si potrà malauguratamente evitare che esistano i dannati della Rete, ormai incapaci di sottrarsi al rapporto solitario e fascinatorio con lo schermo. Se né genitori né scuola saranno stati capaci di farli uscire da quel girone infernale, lo metteremo nello stesso conto in cui si mettono i drogati, gli onanisti compulsivi, i razzisti, i visionari mistici, i visitatori di cartomanti, ovvero tutte quelle forme degenerative a cui ogni società deve responsabilmente far fronte. Ma ha dovuto farlo in ogni epoca.

Se oggi questi “malati” sembrano troppi è perché nel giro di cinquant’anni siamo passati da 2 a 7 miliardi di abitanti del pianeta. E questo non è colpa della solitudine imposta dalla Rete, ma caso mai da un eccesso di contatto umano.
30 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

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Titolo: UMBERTO ECO. Settecentosette volte sette
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2014, 07:29:31 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Settecentosette volte sette
Tanti sono i riferimenti scovati dalla scrittrice Meri Lao per il numero magico di maggiore popolarità. Più del tre, del quattro e del cinque che pure godono di una loro mistica.
Ma di esempi ne ha dimenticato almeno
   

Meri Lao, vissuta molto in America Latina e per il resto del mondo, ha scritto molto purché il tema dei suoi saggi non fosse troppo normale. Così dopo alcuni libri sul tango (documentatissimi), uno sulle sirene, un altro sulle canzoni rivoluzionarie dell’America latina, ora per i tipi di DigiSet (23 euro) ci offre un libro il cui titolo impedisce ai maligni di definire maniacale la sua passione: “Dizionario maniacale del sette”.

Certamente nel corso del tempo ci sono state mistiche del tre (la Trinità, passato presente e futuro, le tre grazie, le tre furie, le tre parche, i tre piani dell’arca, e via dicendo), mistiche del quattro (l’uomo quadrato e ben tetragono ai colpi di ventura, gli elementi, i venti principali, i punti cardinali, le fasi della luna, le stagioni, le lettere del nome “Adam”) e mistiche del cinque, il numero circolare che moltiplicato rinviene continuamente su di sé - e abbiamo le essenze delle cose, le zone elementari, i generi viventi, il Pentateuco, le cinque piaghe del Signore, mentre l’uomo è inscrivibile in un cerchio di cui centro è l’ombelico, mentre il perimetro formato dalle linee rette che uniscono le varie estremità dà la figura di un pentagono.

Viene però il sospetto che il sette sia il numero magico di maggiore popolarità, e credo che se alcuni amici si riunissero intorno alla tavola dopo cena riuscirebbero (dati per scontate i molti sette che si trovano nell’Apocalisse) a citare i sette nani, i re e i colli di Roma, le opere di misericordia, i vizi capitali, gli anni di guai, il prurito del settimo anno, il settimo cielo, i sette colori dell’arcobaleno, i sette dolori, i doni dello Spirito Santo, i fratelli Cervi, i giorni della creazione, la guerra dei sette anni, i magnifici sette e i sette samurai, le sette meraviglie, le opere di misericordia, i peccati capitali, i pilastri della saggezza, i sette savi, i sette ponti di Könisberg, i sacramenti, il settennato presidenziale, il seven-up, gli stivali delle sette leghe, il settimo cavalleggeri che salva la diligenza, le sette sorelle petrolifere, le sette spose per sette fratelli, le vite del gatto, i Boeing 707, 747, 767 e 777, per finire con zero zero sette. Ma sarebbero una trentina di voci, e invece Meri Lao ne identifica 707 (ovviamente) per più di trecentocinquanta pagine, con curiose illustrazioni, e ampi commenti storici.

L’autrice dice che ha iniziato a pensare al sette a Babilonia, a Bagdad ripensando ai sette viaggi di Sinbad, a Samarra per i sette giri del minareto elicoidale o a Khorsabad davanti a ziggurat di sette piani. E poi naturalmente esplorando esoterismi vari, letterature e mitologie orientali, New Age e dintorni; e cara grazia che dichiari di essere rimasta “laicista, agnostica e scettica”.

In ogni caso questa scettica ci porta a scoprire i sette affluenti del San Lorenzo, sette alberi d’oro in Dante, gli anni della dittatura argentina e di Einstein a Berna, e quelli di “studio matto e disperatissimo” trascorsi da Leopardi nella biblioteca paterna, quelli passati da Ulisse con Calipso, le sette arti liberali, Pasqualino sette bellezze, i sette caratteri della pianta di pisello studiati da Mendel, i punti della coccinella, i venticinque riferimenti al sette che appaiono nel Corano, gli dei giapponesi della felicità, i drammi sopravvissuti di Sofocle e di Eschilo (sette per ciascuno), le stelle della bandiera della Nazione Cherokee, i figli e le figlie di Niobe, quelli avuti da Bach con la prima moglie, i musical girati da Fred Astaire e Ginger Rogers, i Paesi di lingua portoghese, le parti che spuntano dal tronco umano, le corde della lira di Apollo, le stelle delle Pleiadi, i sette romanzi della “Recherche” proustiana, i raggi della corona della Statua della Libertà, le vocali dell’alfabeto greco, le vertebre cervicali, i tagli di banconote dell’euro, gradini, volte, porte, del Teatro della Memoria di Camillo, le scienze classificate da Comte e i tipi di ambiguità analizzati da Empson.

E qui devo fermarmi perché mi è finito lo spazio. Salvo che volevo trovare almeno una dimenticanza e ce l’ho fatta: “The House of Seven Gables” di Hawthorne. È una gran bella soddisfazione.

14 marzo 2014 © Riproduzione riservata

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Titolo: UMBERTO ECO. Il diritto alla felicità
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 11:57:22 am
Umberto Eco

La bustina di minerva

Il diritto alla felicità

La Dichiarazione d’indipendenza americana lo riconosce a tutti gli uomini. Ma c’è un equivoco. Dovremmo abituarci a pensare una vita piena in termini collettivi e non come soddisfazione solo individuale
   
Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono – dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in tv, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa – siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d’indipendenza americana del 4 luglio1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che «a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità».

Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell’obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche.

La letteratura sulla felicità è immensa, a iniziare da Epicuro e forse prima, ma a lume di buon senso mi pare che nessuno di noi sappia dire che cos’è la felicità. Se si intende uno stato permanente, l’idea di una persona che è felice tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota – o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse, e vengono in mente Filemone e Bauci. Ma anche loro, poesia a parte, qualche momento di turbamento dovrebbero averlo avuto, se non altro un’influenza o un mal di denti.

La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l’amato o l’amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l’esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l’Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione.

Inoltre l’idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l’infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista.

Questa idea di felicità pervade il mondo della pubblicità e dei consumi, dove ogni proposta appare come un appello a una vita felice, la crema per rassodare il viso, il detersivo che finalmente toglie tutte le macchie, il divano a metà prezzo, l’amaro da bere dopo la tempesta, la carne in scatola intorno a cui si riunisce la famigliola felice, l’auto bella ed economica e un assorbente che vi permetterà di entrare in ascensore senza preoccuparvi del naso degli altri.

Raramente pensiamo alla felicità quando votiamo o mandiamo un figlio a scuola, ma solo quando comperiamo cose inutili, e pensiamo in tal modo di aver soddisfatto il nostro diritto al perseguimento della felicità.

Quando è al contrario che, siccome non siamo delle bestie senza cuore, ci preoccupiamo della felicità degli altri? Quando i mezzi di massa ci presentano l’infelicità altrui, negretti che muoiono di fame divorati dalle mosche, ammalati di mali incurabili, popolazioni distrutte dagli tsunami. Allora siamo persino disposti a versare un obolo e, nei casi migliori, a impegnare il cinque per mille.

È che la dichiarazione d’indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra, e così tanti americani avrebbero capito che non devono opporsi alle cure mediche gratuite – e invece vi si oppongono perché questa idea bizzarra pare ledere il loro personale diritto alla loro personale felicità fiscale.

26 marzo 2014 © Riproduzione riservata
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Titolo: UMBERTO ECO. - Joyce e la Maserati di La Russa
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:37:15 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Joyce e la Maserati di La Russa
Che senso ha svenarsi e comprare all’asta un’auto blu solo per posare il sedere sul posto già scaldato da un sottosegretario? E fare follie per le lettere erotiche di uno scrittore? Il collezionismo è sempre una forma di feticismo

Sfogliando i cataloghi di case d’asta come Christie o Sotheby si vede che, oltre a opere d’arte, libri antichi, autografi e cimeli vari, sono battuti quelli che si chiamano “memorabilia”, tipo, che so, le scarpette portate dalla diva tale nel tale film, una penna appartenuta a Reagan, e cose del genere. Ora occorre distinguere tra collezionismo bizzarro e caccia feticistica al cimelio. Il collezionista è sempre un poco folle, anche quando si svena a raccogliere incunaboli della Divina Commedia, ma la sua passione è concepibile. Andando a sfogliare bollettini di collezionismo si vede che c’è anche chi raccoglie bustine di zucchero, tappi di Coca Cola o schedine telefoniche. Ammetto che sia più nobile collezionare francobolli che tappi di birra, ma al cuore non si comanda.

Diverso è volere a tutti i costi le scarpette portate dalla diva in quel film. Se tu collezioni tutte le scarpette portate da dive, da Meliès in avanti, allora la tua follia ha un senso, ma che cosa te ne fai di un unico paio?
Su “Repubblica” del 28 marzo scorso ho trovato due notizie interessanti. La prima, che appare anche in altri quotidiani, riguarda l’offerta su Ebay delle auto blu messe all’asta da Renzi. Capirei ancora che qualcuno possa desiderare una Maserati e colga l’occasione di acquistarne una, sia pure onusta di chilometri, a prezzo stracciato, accettando poi di spendere un sacco di soldi per la sua manutenzione. Ma che senso gareggiare a suon di migliaia di euro per impadronirsi di quella comperata coi soldi nostri da La Russa, a un prezzo doppio o triplo di quello registrato nella lista dell’usato di “Quattroruote”? Qui il feticismo è evidente, anche se non si riesce a comprendere la soddisfazione di chi potrà posare il sedere sui sedili in pelle già riscaldati da un personaggio illustre. Per non dire di chi offre cifre esorbitanti per crogiolarsi là dove si è scaldato le natiche un semplice sottosegretario.

Ma passiamo ora a un argomento apparentemente diverso, che appare sullo stesso numero, e in doppia pagina. Sono state messe all’asta lettere d’amore scritte a 26 anni da Ian Fleming, con prezzi intorno ai 60 mila euro l’una, lettere in cui il giovane agente non ancora troppo segreto scriveva «Vorrei baciarti sulla bocca, sul seno, sulle regioni più basse». Ora esiste legittimamente un collezionismo di autografi e, autografo per autografo, può risultare più divertente uno alquanto pruriginoso. Anzi, persino un non collezionista sarebbe lieto di mettere le mani sulla lettera dove Joyce scriveva a Nora «sono il tuo bambino, vorrei che tu mi picchiassi, frustassi persino… non per gioco ma sul sedere e sulla carne nuda». O quella in cui Oscar Wilde scriveva all’amato lord Douglas «è un miracolo che quelle tue labbra rosse come petali di rosa siano fatte non meno per la musica del canto che per la follia dei baci». Sarebbero se non altro ottime “conversation pieces” da mostrare agli amici per passare una serata spettegolando sulle debolezze dei grandi.

Quello che invece non mi pare sensato è il valore che si suole dare a questi reperti per la storia della letteratura e per la critica letteraria. Il sapere che Fleming a ventisei anni scriveva lettere tipiche di un adolescente in calore, cambia forse il nostro diletto nel leggere le storie di James Bond o il giudizio critico che si può pronunciare sullo
 stile del suo autore? Per capire l’erotismo di Joyce, quale fatto letterario, basta leggere lo “Ulisse”, specie l’ultimo capitolo – anche se chi lo ha scritto avesse vissuto vita castissima. Visto che per molti grandi non solo è accaduto che la loro pagina fosse lasciva ma la vita proba, bensì che la loro pagina fosse proba ma la vita lasciva, cambierebbe il nostro giudizio su “I promessi sposi” se venisse alla luce che Manzoni a letto era un birichino e le sue due mogli sono morte sfiancate dalla sua satiriasi?
So che è diverso volere la Maserati di La Russa e avere documenti che provano come certi autori fossero fisicamente (o solo mentalmente!) erettili. Ma, tutto sommato, sono due forme di feticismo.
07 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2014/04/02/news/joyce-e-la-maserati-di-la-russa-1.159417


Titolo: UMBERTO ECO. - Parlamento e governo sono legittimi. Lo dice la Costituzione...
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 06:30:14 pm
Umberto Eco
La bustina di minerva

Parlamento e governo sono legittimi. Lo dice la Costituzione, che nessuno legge

Il Parlamento sarebbe delegittimato perché è frutto del Porcellum. E Renzi sarebbe un capo del Governo 'abusivo' perché non eletto dal popolo. Ma questi discorsi, agitati non solo dalla destra populista, non reggono. Basterebbe conoscere la Carta Costituzionale e farsi guidare da quella
   
Parlamento e governo sono legittimi. Lo dice la Costituzione, che nessuno legge
Su questo argomento mi ero intrattenuto in una bustina di due anni fa, ma non sono io che mi ripeto. Infatti ritrovo sempre nel corso delle varie discussioni su Governo, Parlamento, legge elettorale, due affermazioni che sino a ieri sembravano patrimonio di gruppi della destra populista, ma talora vengono ripresi anche da persone di altra estrazione politica e altro spessore culturale.

La prima affermazione è che questo Parlamento è delegittimato perché è stato eletto con il Porcellum, legge dichiarata incostituzionale. Ma nel momento in cui questo Parlamento è stato eletto il Porcellum era legge dello Stato, non si sarebbe potuto votare secondo altra legge, e quindi il Parlamento è stato eletto secondo la legge allora vigente. Si dovrà certo procedere a nuove elezioni in base a una nuova legge, ma chi deve decidere quale sia questa nuova legge è pur sempre il Parlamento attuale, nel pieno dei suoi poteri in quanto eletto secondo le regole che vigevano al momento della sua elezione.

Capisco che la situazione possa suscitare perplessità, ma o si mangia questa minestra o si salta questa finestra, e ogni affermazione sulla illegittimità di questo Parlamento appare campata in aria.

L'altra idea che circola è che il capo del Governo attuale e i suoi ministri non sono stati eletti dal popolo. È vero che sarebbe stato meglio per Renzi affrontare nuove elezioni e presentarsi sulla scena politica come capo eletto del partito che avesse riscosso la maggioranza dei consensi, ma questo non avrebbe per nulla significato che Renzi, in quanto futuro capo del Governo, sarebbe stato eletto dal popolo. È stata astuzia berlusconiana, ponendo il suo nome e il suo volto come simbolo della sua lista, ad avere convinto chissà quanti elettori che votando la sua lista si eleggeva lui come capo del Governo. Niente di più falso, tanto è vero che Berlusconi avrebbe potuto vincere le elezioni e poi andare a proporre al capo dello Stato un premier di sua scelta, Santanché, Scilipoti o Razzi, tanto per dire, senza per questo violare il dettato costituzionale.
La Costituzione infatti stabilisce che il popolo elegge i parlamentari (con preferenze o liste bloccate, questo è un altro problema, ma la Costituzione non si pronuncia in merito), il Parlamento elegge il presidente della Repubblica il quale, dopo avere ascoltato i rappresentanti dei vari partiti, nomina lui, sponte propria, il capo del Governo e i suoi ministri, e in linea di principio potrebbe nominare anche sua nonna, o il capostazione di Roccacannuccia, se la maggioranza delle forze politiche gli avesse fatto il loro nome.

Spetterà poi al Parlamento dare fiducia al Governo nominato dal presidente della Repubblica (così istituendo un controllo da parte dei rappresentanti del popolo) e se questa fiducia viene negata tutto ricomincia da capo a quindici, sino a che il presidente della Repubblica non trova un Governo che piaccia al parlamento. Così è avvenuto che presidenti della Repubblica abbiano nominato come capi del Governo personaggi non parlamentari come Dini e Ciampi, e come ministri vari tecnici, e persino quando il presidente ha nominato Monti, facendolo senatore a vita un minuto prima, Monti non era stato affatto eletto dal popolo bensì appunto nominato dal presidente.

Il bello è che queste cose sono dette, sia pure in maniera un poco indiretta, dall’articolo 64 della Costituzione, dove a un certo punto si precisa: «I membri del governo, anche se non fanno parte delle camere, hanno diritto, e se richiesti obbligo, di assistere alle sedute. Devono essere sentiti ogni volta che lo richiedono». Capito? Per i costituenti era talmente ovvio che i membri del governo potessero benissimo essere estranei al Parlamento che si precisava in che modo però potessero o dovessero partecipare alle sue riunioni. A essere onesti, quando a Berlusconi si rimproverava di farsi vedere pochissimo in Parlamento, non si sarebbe dovuto censurarlo come presidente del Consiglio bensì come deputato o senatore neghittoso.
16 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2014/04/16/news/leggiamoci-la-costituzione-1.161364


Titolo: UMBERTO ECO. 'E quant’altro'
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 10:50:24 am
Umberto Eco
La bustina di minerva

'E quant’altro'

Per fortuna alcune parole di moda come “attimino” o “esatto” sono tramontate. Molto meglio certi neologismi giovanili. Alcuni ne ho adottati: mitico, lecchino, rinco, allupato, bollito, caramba, tamarro e fancazzista
   
È ovvio che le persone che hanno raggiunto un’età sinodale siano infastidite dallo sviluppo della lingua, non riuscendo ad accettare i nuovi usi degli adolescenti. E la loro unica speranza è che questi usi durino lo spazio di un mattino, così come è accaduto con espressioni come “matusa” (anni Cinquanta-Sessanta, e chi la impiega ancora si rivela appunto, lui o lei, come matusa) o “bestiale” (ho udito una signora di incerta età usarlo e ho capito che era ragazza nei lontani anni Cinquanta). Però sino a che i nuovi usi circolano tra i ragazzi, direi che sono affari loro, talora molto divertenti. Diventano urtanti quando ci coinvolgono.

Non ho mai potuto sopportare, diciamo dagli Ottanta in avanti, che mi si chiamasse “prof”. Forse che un ingegnere lo si chiama “ing” e un avvocato “avv”? Al massimo si chiamava “doc” un dottore, ma era nel West, e di solito il doc stava morendo alcolizzato.

Non è che abbia mai protestato esplicitamente, anche perché l’uso rivelava una certa affettuosa confidenza, ma la cosa mi dava noia e me la dà ancora. Meglio quando nel ’68 gli studenti e i bidelli mi chiamavano Umberto e mi davano del tu. Chissà perché quando uno dice “prof” mi viene in mente uno con la faccia di Ricky Memphis.

Un’altra cosa a cui ero abituato è che le donne si dividevano in bionde e brune. A un certo punto “bruna” è diventato forse fuori moda e certo a me evoca le canzoni degli anni Quaranta e le pettinature con la frangetta. Fatto sta che a un certo punto non solo i ragazzi ma anche gli adulti hanno iniziato a parlare di una “mora” (e l’altro giorno ho letto su un giornale che un ballerino classico è un bel moro).

Orribile espressione, perché ai tempi andati “mora” veniva riservato alle odalische musulmane che danzavano sui cadaveri degli ultimi difensori di Famagosta, e oggi mi evoca il richiamo scurrile di un maschiaccio in canottiera che grida a una ragazza che passa “ehi, bella mora!”, e fatalmente si pensa alle maggiorate fisiche di Boccasile, o a giovani italiane che vincevano il concorso Cinquemila Lire Per Un Sorriso, olezzanti di profumi nazional popolari e con una foresta sotto le ascelle. Ma è così, le bionde rimangono bionde (platinate o cenere o paglierino che siano) mentre chi ha capelli scuri diventa una mora, anche se ha il viso di Audrey Hepburn. Insomma, preferisco gli inglesi che dicono “dark-haired” o “brunette”.

Detto questo, non è che sia misoneista, e via via ho assorbito nel mio lessico, se non come parlante attivo almeno come ascoltatore passivo, gasato, rugare, tavanare, sgamare, assurdo, punkabbestia, mitico, pradaiola, pacco, una cifra, lecchino, rinco, fumato, gnocca, cannare, essere fuori come un citofono, caramba, tamarro, abelinato, fighissimo, allupato, bollito, paglia e canna, fancazzista, taroccato, fuso, tirarsela. Ancora giorni fa un quattordicenne mi ha informato che a Roma, anche se si capisce ancora “marinare”, in ogni caso non si usa più “bigiare” ma si dice “pisciare la scuola”.

Comunque, a essere sincero, preferisco i neologismi giovanili al vizio adulto di dire a ogni piè sospinto “e quant’altro”: Non potete dire “e così via” o “eccetera”? Per fortuna son tramontati “attimino” ed “esatto”, per cui l’Italia era diventato il bel paese dove l’esatto suona, ma “quant’altro” rimane anche nei discorsi di persone serie ed è pareggiato in Francia solo dall’uso incontenibile di “incontournable” che serve a dire (udite, udite) che qualcosa è importante (e al massimo è imprescindibile). “Incontournable” è qualcosa che quando lo incontri non puoi giragli intorno ma devi farci i conti, e può essere una persona, un problema, la scadenza del pagamento delle tasse, l’obbligo della museruola per i cani o l’esistenza di Dio.

Pazienza, meglio i vezzi linguistici che l’uso improprio della lingua e, visto che recentemente un nostro deputato, per dire che non l’avrebbe tirata per le lunghe, ha affermato in Parlamento che sarebbe stato “circonciso”, sarebbe stato preferibile che si fosse limitato a dire soltanto “sarò breve, e quant’altro”. Però, almeno, non era antisemita.
07 maggio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/la-bustina-di-minerva/2014/04/29/news/e-quant-altro-1.163199


Titolo: Umberto Eco, dialogo con Roberto Saviano sul nuovo romanzo 'Numero Zero'
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:34:39 am
   
Il caso
Umberto Eco, dialogo con Roberto Saviano sul nuovo romanzo 'Numero Zero'
Il nuovo romanzo del semiologo e scrittore racconta una redazione che sforna ricatti.
Un tema al centro di questo dialogo con l'autore di 'Gomorra'

Di Wlodek Goldkorn
12 gennaio 2015

Un semiologo e intellettuale, il più importante oggi in Italia, prestato, con successo e da decenni, all’arte del romanzo, e che ha 83 anni. E uno scrittore 35enne, autore di libri, saggi e articoli di denuncia dell’intreccio tra criminalità e politica, e per questo da anni sotto scorta e spesso diffamato e delegittimato. Umberto Eco e Roberto Saviano ragionano su “Numero zero”, il romanzo in cui Eco racconta una immaginaria redazione, messa in piedi nel 1992, l’anno di Tangentopoli e di Mani pulite, con un solo scopo: costruire dossier, ricattare, diffamare gli avversari. In questo dialogo, spiegano come la questione dei media sia cruciale non solo per la democrazia ma perfino per il progetto di costruzione di una nazione. E suggeriscono: forse quel progetto, in Italia, è fallito. Ma, dicono, rimane la questione delle responsabilità personali di ciascuno di noi. E forse da lì, dalla testimonianza, si può e si deve ricominciare.

SAVIANO - In “Numero zero” c’è uno sguardo sui meccanismi della comunicazione che in Italia non c’è ancora stato e che mi ricorda le analisi di Julian Assange. Tu, Eco, parli a modo di romanziere, non di saggista, quindi nel modo più godibile possibile, di un meccanismo di comunicazione il cui scopo non è informare. Immagino che volessi costruire un romanzo che riuscisse a dire una molteplicità di cose. Ma per me è quasi un manuale della comunicazione del nostro tempo. Vorrei allargare il discorso alla Rete, visto che i giornali sono letti ormai da una minoranza. Oggi la macchina del giornale spesso funziona solo da innesco di una catena interpretativa che dilaga nel Web e serve agli altri per commentare. È un paradosso: i blog, i social media nascono dal lavoro di una redazione. Ma quel lavoro non viene letto, viene solo interpretato.

Eco - Non ho voluto scrivere un trattato sul giornalismo; ho insistito su una particolare redazione, che fa parte della macchina del fango. Però da oltre quarant’anni continuo a riflettere e discutere sui limiti e sulle possibilità del giornalismo. In questo romanzo ho riusato una quantità di cose che ho già scritto, a partire dalla polemica, negli anni Settanta, con Piero Ottone, sulla possibilità di separare i fatti dalla riflessione. Quindi la mia è una storia sui limiti dell’informazione giornalistica. Ma non ho parlato dei giornalisti in genere. Ho disegnato il peggiore dei casi, per dare un’immagine grottesca di quel mondo. Aggiungo che il meccanismo della macchina del fango, dell’insinuazione era usato già ai tempi dell’Inquisizione.

Saviano - Parli dei giornali. Oggi, nell’era di Internet le nuove generazioni spesso si illudono che basta non avere un editore che cerca il profitto, basta fare le cose gratuitamente, per fare un’informazione onesta, giusta, pulita. Ma non è così. Pensa all’universo della dietrologia. È un mondo fiorente in Rete. Da quella gente, noi due siamo considerati massoni, appartenenti all’ordine degli illuminati e robe simili. Chi costruisce in Rete le teorie cospiratorie lo fa spesso senza compenso in denaro. E la gratuità è un aspetto interessante. È come si volesse sollecitare la parte più vendicativa dell’essere umano. Insinuare è un modo per ridistribuire i peccati: nessuno si salva, siamo tutti colpevoli. Ti chiedo: tu che hai conosciuto il mondo prima di Berlusconi (io sono troppo giovane per ricordarmelo), pensi che con Berlusconi sia cambiato tutto o che il nostro ex premier ha solo peggiorato lo stato delle cose esistente?

Eco - Rispondo così. Una volta esistevano le istituzioni della macchina del fango. Si trattava di giornali specializzati. Non era invece pensabile una macchina del fango messa in opera da un grande quotidiano. Ai tempi della “Tribuna politica” in tv, se tre personaggi si fossero parlati addosso e insultati in pubblico, tutti li avrebbero presi per pazzi, oggi invece viene accettata la tecnica dell’insulto e della sopraffazione. Non sto dicendo che è colpa di Berlusconi, ma prendendo il 1992 come la data di displuvio, un cambiamento c’è stato. Prendiamo il caso Montesi, e siamo nel 1953. È stato usato, in un modo canagliesco, un fatto di cronaca, un’orgia finita male, cui partecipò il figlio di un ministro democristiano, per distruggere questo ministro. L’operazione è stata fatta da avversari interni alla Dc. Ma tutto si è svolto dietro le quinte. Non si è travalicato il confine di una certa riservatezza. Oggi invece tutto è in pubblica piazza.

Il buon giornalista parte sempre da un punto di vista. Secondo voi, dove finisce il punto di vista e comincia invece la manipolazione?
Saviano - Io credo che la macchina del fango comincia là dove finisce l’inchiesta. L’inchiesta fornisce una serie di fatti che permettono al lettore di farsi un’idea generale, anche se sono elementi scelti dal giornalista. La macchina del fango invece ne prende uno solo di questi elementi e su questo, isolato dal contesto, costruisce una realtà. Nel suo libro Eco spiega cosa sia la macchina del fango. Ad esempio, il gossip. Il gossip è una parola che copre un meccanismo terrificante: il mondo del retroscena. La Rete ha generato da questo punto di vista dei veri mostri.

Eco - Tipico della macchina del fango è che raramente l’aggressione è diretta. Non si dice il signor Tal dei Tali è un noto pedofilo e ha strangolato la nonna. Si dà invece un elemento apparentemente innocuo, ma che genera sospetto. Un episodio che ho usato nel romanzo ma che è vero: per destare il sospetto nei confronti di un magistrato si disse che portava i calzini blu e fumava tanto. Ecco, non c’è niente di male nel portare calzini blu e fumare tanto, ma presentato come fatto isolato desta sospetti nel lettore e lo induce a porsi la domanda: ma che cosa vorrà dire questo? Vorrei citare un episodio della mia infanzia. Avevo dieci o undici anni. Una signora mi ferma e mi chiede: “scriveresti una lettera per me? Ti darò una lira”. Ho pensato che per qualche motivo non poteva scrivere lei e ho detto che l’avrei fatto gratis. Poi mi ha offerto un gelato. E la lettera era per un signore, un negoziante della città e diceva più o meno: “noi abbiamo saputo che lei vuole sposarsi con la signorina Tal dei Tali. Della signorina possiamo solo dire che è una persona perbene. Cordiali saluti”. Quando ho raccontato a casa l’episodio mi hanno detto: “Ti hanno usato per una lettera anonima!”. Cosa ha fatto questa signora? Non ha detto niente di sgradevole sulla futura sposa. Non ha scritto che era una puttana. Ma in chi ha ricevuto la lettera, per il fatto stesso che qualcuno se ne interessava, ingenerava un sospetto, “forse la signorina non è così perbene come credevo”. Ecco questo è il sospetto che infanga.

Saviano - Il punto centrale è che la delegittimazione non parla ai tuoi nemici ma ai tuoi amici, alla tua famiglia, a chi ti ama. E poi, insisto, fare un’inchiesta costa tanti soldi, mentre per far gossip basta poco. Nelle redazioni dei giornali, dove si parla troppo dell’ultima dichiarazione del politico di turno e poco delle vere questioni nazionali e internazionali, sono ossessionati dal gossip. E i politici fanno a gara per essere presenti sui giornali senza aver niente da dire. In Rete è anche un vantaggio economico. Basta vedere quanti contatti quindi quale giro di pubblicità genera un servizio su un presentatore tv o su un’attricetta e quanti gli articoli politici, per non parlare della cultura che dovrebbe essere la spina dorsale dell’informazione.

Eco - Pensa al recente episodio di una ministra raffigurata mentre mangia il gelato. Cosa c’è di male nel mangiare un gelato? Ma basta mettere un titolo leggermente allusivo e goliardico ed ecco che fai la delegittimazione del personaggio.

Torniamo al romanzo. L’impressione è che Eco voglia dire alla fine: in Italia il progetto di costruzione della nazione è fallito.
Eco - Questo Paese ha attraversato momenti in cui sono successe cose incredibili e di cui tuttavia non è fregato niente a nessuno. Sì, sotto sotto, c’è un’idea di una nazione e di uno Stato incapaci di funzionare.

La stessa idea, del fallimento di noi tutti, si trova in un recente articolo di Saviano su “la Repubblica” circa “Mafia Capitale”, quando dice: la terra di mezzo, il mondo di mezzo di cui parla Carminati, siamo tutti noi...
Saviano - La terra di mezzo non è la cerniera tra i colletti bianchi e la teppa. È invece un territorio, l’Italia, in cui se non forzi le regole, non puoi fare business, non puoi lavorare. Ed è anche un modo per dire: liberi tutti, tutti si comportano così. Quindi tutti colpevoli nessun colpevole.
ECO - L’Italia ha scelto dal 1861 di vivere nel mondo di mezzo. In questo senso è fallita l’idea di uno Stato unitario.

Avete detto peste e corna dei retroscena, del gossip. Però il genere retroscena, gossip politico, il ministro fotografato con l’aspirapolvere in mano, lo ha inventato in Italia “l’Espresso”, di cui voi siete rubrichisti illustri...
Eco - Ma non ha insinuato, ha denunciato. Il problema è lo stato della nostra informazione. Prendi la mattina il giornale, anche il più importante, e trovi quattro o più pagine di pettegolezzi su fatti politici nostrani. Se prendi “Le Monde”, trovi invece pagine su quanto avviene in Africa o in Asia, tanto che quasi mi chiedo, ma perché mi parlano di queste cose e non dell’amante di Hollande?

“Le Monde” ha parlato dell’amante del presidente.
Eco - Sì, ma perché la storia è stata fatta circolare da un altro giornale, specializzato negli scandali, e solo così è diventata notizia.

Nel libro Eco presenta una teoria cospiratoria, un personaggio suggerisce che lo stragismo in Italia è stato manipolato da Mussolini che non è stato fucilato il 28 aprile 1945 ma fatto fuggire all’estero. E arriva a essere convincente. Perché le teorie complottiste hanno tanto successo?
Eco - Faccio un esempio. Sabato pomeriggio mi trovo in un’autostrada intasata. Mi arrabbio e comincio a chiedermi di chi è la colpa. Cerco istintivamente il Grande Vecchio. Non mi viene in mente che la colpa è mia, che sono uscito di sabato in macchina, sapendo di contribuire all’intasamento. Ma se la stampa con un’inchiesta, mi desse una spiegazione sul perché l’autostrada si intasa, anziché raccontare la polemichetta tra un assessore e un deputato, forse non cercherei il Grande Vecchio. E invece, immagino che a far intasare l’autostrada siano stati Andreotti, la massoneria, la Trilaterale. Facciamo un esempio al contrario? La vicenda “Mafia Capitale”. Dal momento che i magistrati spiegano come stanno le cose e i giornali lo raccontano bene, nessuno cerca una teoria cospirativa. Chi c’è dietro Carminati? C’è Carminati. Non credo che a qualcuno verrà in mente di dire che dietro Carminati ci siano i Rosacroce.
Saviano - Io insisto sul ruolo della Rete. Basti pensare alla diffusione dei Protocolli degli anziani savi di Sion da quando esiste il Web. Aggiungo: per un dietrologo chiunque si oppone alla sua teoria, fa parte del complotto.

Avete descritto un mondo assai brutto, di diffamazione, fango, dossieraggio. Voi come fate a opporvi?
Eco - Ciascuno di noi cerca di fare bene il proprio mestiere. Per quanto mi riguarda: io ho dato la mia testimonianza. Io vi ho raccontato come stanno le cose.

Saviano - Io ho sentito che la mia testimonianza ha innescato molto. Dall’altro lato ho sempre sentito l’esigenza di rimarcare la mia diversità. Diversità, non superiorità morale. Mi hanno proposto incarichi politici, ma me ne sono sempre tenuto lontano, perché temevo che il sistema mi avrebbe stritolato. Confesso: mi sento isolato. Non ci sono più gruppi che condividono un percorso intellettuale, come accadeva quando Eco aveva la mia età.

Eco - Anche gli intellettuali sono vittime della liquidità della società. Oggi, non ti rimane altro che lasciare il tuo messaggio nella bottiglia. Saviano lo fa, dovrebbe mettere su una bottiglieria. Io ho scritto questo romanzo, di più in una società liquida non si può fare.

Testimoniare non è agire politico.
Eco - Se dico che la società è liquida dico anche che non c’è più la nozione dell’agire politico.

© Riproduzione riservata
12 gennaio 2015
Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2015/01/12/news/umberto-eco-parla-con-roberto-saviano-di-numero-zero-1.194654?ref=HRBZ-1


Titolo: Umberto ECO.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2016, 11:17:22 pm
L'articolo di Umberto Eco sull'Espresso su come prepararsi alla morte: "Convincendosi che tutti gli altri siano coglioni"

L'Espresso
Pubblicato: 20/02/2016 12:19 CET Aggiornato: 12 minuti fa ECO

Per l'Espresso, il 12 giugno 1997, lo scrittore Umberto Eco ha scritto un interessante articolo dal titolo "Come prepararsi alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo".
L'articolo è stato poi pubblicato nella raccolta "A passo di gambero". Eccone un estratto:

Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: "Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?". Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni.
Allo stupore di Critone ho chiarito. "Vedi," gli ho detto, "come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.

Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?"

Critone mi ha allora domandato: "Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?" Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perchè qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/02/20/umberto-eco-prepararsi-al_n_9280570.html?utm_hp_ref=italy&ir=Italy&ref=hfmvudbeh-1


Titolo: Umberto ECO, morto a 84 anni.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2016, 11:26:51 pm
La morte di Umberto Eco

È stato uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, oltre che l'autore di "Il nome della Rosa"
Umberto Eco, morto a 84 anni
Lo scrittore e intellettuale Umberto Eco è morto venerdì notte a Milano.
La Stampa scrive che Gianni Coscia, avvocato e vecchio amico di Eco, ha detto, commentando la sua morte: «Sapevo che Umberto era malato da due anni di tumore, ma nessuno pensava che la sua fine sarebbe stata così imminente». Coscia scrive che «era uscito di casa per l’ultima volta a metà gennaio».
Sempre La Stampa scrive che “secondo voci vicine alla famiglia” Eco verrà commemorato martedì alle 15 a Milano, con rito civile.

Umberto Eco era nato il 5 gennaio 1932 ad Alessandria, dove suo padre lavorava in una ferramenta. Quando era già importantissimo e noto in Italia per il suo lavoro di studioso e linguista diventò famoso in tutto il mondo nel 1980 grazie al romanzo Il nome della Rosa, scritto dopo avere investito con l’editore Valentino Bompiani – della cui casa editrice fu condirettore dal 1959 al 1975 – sulla possibilità che anche nella società di massa si sarebbe potuto scrivere un best-seller senza venire meno alla qualità. Nel 1988 Umberto Eco pubblicò Il pendolo di Foucault, un altro best-seller mondiale. La sua attività di intellettuale e studioso era iniziata però molto prima, già negli anni Cinquanta: Eco si era laureato in filosofia con una tesi su Tommaso d’Aquino, poi entrò alla Rai e contribuì alla fondazione del cosiddetto “Gruppo ’63”. I suoi saggi e articoli sull’influenza dei mezzi di comunicazione di massa sulla cultura risalgono ai primi anni Sessanta.

Nel 1961 Umberto Eco pubblicò Diario minimo che conteneva il saggio, poi famosissimo, “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, in cui Eco spiegava che il motivo del successo del conduttore – e della televisione in generale – era la sua capacità di corrispondere e interpretare la medietà umana: e la capacità di affrontare seriamente e scientificamente un tema così “pop” divenne un tratto ammiratissimo della sua opera. Nel 1964 uscì Apocalittici e integrati: il titolo della raccolta fu scelto dall’editore Bompiani, mentre in un primo tempo Eco aveva scelto Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee. Anche in questa raccolta di saggi, Eco analizzava il rapporto tra cultura di massa e cultura cosiddetta colta, riprendendo le teorie sulla cultura bassa, media e alta espresse da Dwight Mac Donald nel 1962 nel saggio Against the American Grain: Essays on the Effects of Mass Culture.

Nello stesso periodo Umberto Eco cominciò a interessarsi di semiotica – lo studio dei segni – materia che insegnò all’università di Bologna a partire dal 1965, anche da direttore dell’Istituto di Comunicazione e spettacolo del DAMS. All’insegnamento universitario e all’attività di studioso, Umberto Eco affiancò per molto tempo la collaborazione con i giornali, iniziata nel 1955 su L’Espresso, dove negli ultimi trent’anni ha tenuto la rubrica “La bustina di Minerva” sull’ultima pagina del giornale: la rubrica si occupava di politica, libri, cinema, fumetti con una libertà e una curiosità inizialmente insoliti per un intellettuale italiano.

Per Umberto Eco il lavoro intellettuale – ed è stato questo a renderlo unico rispetto agli altri studiosi della sua generazione – non poteva essere confinato in alcuna specializzazione. Eco voleva specializzarsi in tutte le discipline del sapere o almeno nel maggior numero possibile, non avendo paura di esprimersi sulla cultura in ogni sua forma, dalla televisione, al fumetto, dalla filosofia medievale alla letteratura contemporanea, dalle canzoni alla semiotica alla politica. Per esempio Eco firmò delle lettere aperte già sul caso Pinelli – l’anarchico morto precipitando da una finestra della questura di Milano nel 1969 – autodenunciandosi per solidarietà con il giornale Lotta Continua che accusò la polizia, mentre negli ultimi anni schierandosi su posizioni fortemente antiberlusconiane (fu tra i fondatori del movimento di intellettuali antiberlusconiani Libertà e Giustizia).

Nell’ottobre scorso Umberto Eco era stato tra i fondatori della Nave di Teseo, la casa editrice nata dall’uscita della direzione editoriale di Bompiani dopo l’acquisizione del gruppo RCS Libri da parte di Mondadori. Il nuovo libro di Umberto Eco dovrebbe essere tra i primi a uscire per la nuova casa editrice, che incomincerà a pubblicare in primavera.

Umberto Eco aveva una casa piena di libri ed era dotato di una memoria prodigiosa. Era un erudito e uno studioso, ma questo non gli ha impedito di essere divertente e curioso e di provare, sempre, a capire quello che gli succedeva intorno. Il presidente del consiglio Matteo Renzi ha scritto che Eco è stato un «Esempio straordinario di intellettuale europeo» e «univa una intelligenza unica del passato a una inesauribile capacità di anticipare il futuro». La notizia della morte sta avendo grande spazio sui principali siti d’informazione internazionali. Il Guardian ha definito Eco «uno dei più importanti nomi della letteratura internazionale» e il New York Times ne ha parlato come di «un esperto nell’arcano campo della semiotica». Daria Bignardi, la nuova direttrice di Rai 3, ha fatto sapere che questa sera ci sarà a Che tempo che fa “uno speciale ricordo” di Eco e che sarà trasmesso il film Il nome della rosa.

Da - http://www.ilpost.it/2016/02/20/umberto-eco-morto/


Titolo: Gay Talese: “Povera Italia, senza Eco”
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 23, 2016, 10:22:42 am
Gay Talese: “Povera Italia, senza Eco”
Lo scrittore americano: «Ha abbracciato la cultura popolare senza snobbarla, conquistando i lettori di tutto il mondo.
Per il vostro Paese la sua scomparsa è un disastro culturale»


22/02/2016
Paolo Mastrorilli
Inviato a New York

Gay Talese ha costruito la sua carriera sulle provocazioni, perciò gli viene naturale farlo anche in morte di Umberto Eco: «È stato il più alto esponente della cultura popolare in Italia, e fra i più alti al mondo. Lascia un vuoto incolmabile, soprattutto nel vostro Paese, perché dietro di lui non c’è nessuno in grado di continuare il suo lavoro fondamentale».

Talese, inventore con Tom Wolfe del «New Journalism» letterario, aveva incontrato di recente Eco: «Ho tenuto il discorso per la consegna dell’ultimo premio che aveva ricevuto a New York. Parlare con lui era sempre un’esperienza molto stimolante. È stato l’autore italiano più influente negli Stati Uniti, dai tempi di Alberto Moravia».

Non dimentica Italo Calvino? 
«No, assolutamente no. Calvino piaceva agli intellettuali raffinati e un po’ snob, alla New York Review of Books, all’Università di Harvard che lo ospitava per tenere conferenze di altissimo livello, ma non vendeva copie. Poco o niente. L’ultimo autore italiano che aveva avuto un vero grande successo di pubblico negli Stati Uniti era stato Moravia: dopo di lui, c’è stato solo Eco».

Vendere copie, successo di pubblico: non sono parametri che fanno inorridire i letterati? 
«Avere successo di pubblico significa avere successo, punto. Vuol dire essere stati capaci di comunicare e di interessare molte persone, che poi dovrebbe essere l’obiettivo di tutti gli scrittori. Se scrivi, lo fai perché pensi di avere qualcosa da dire, ed è importante che ci siano dei lettori interessati ad ascoltarti».

Perché Eco ha avuto questo successo in America? 
«Perché ha abbracciato la cultura popolare, alzandone il livello, invece di snobbarla. Questa è stata la sua vera grandezza. Intendiamoci: Eco era intelligente, colto, erudito, un intellettuale molto profondo e raffinato. Però non rifiutava la cultura popolare. Anzi, la faceva sua e la rendeva migliore. Gli altri intellettuali italiani amano scrivere cose complicate, incomprensibili, spesso illeggibili. Più sono difficili da capire, e meglio è. Così non vendono una copia. Lui invece faceva opere di grande qualità in termini di contenuto, ma anche molto belle da leggere». 

 Questo ha conquistato i lettori americani? 
«No, questo ha conquistato i lettori di tutto il mondo. C’è un aspetto fondamentale del lavoro di Eco, che bisogna sottolineare: amava raccontare, a differenza della maggior parte degli altri autori italiani, e anche europei. Questo fa una grossa differenza, quando sei uno scrittore».

Non è troppo severo? 
«No, è la verità. Eco apparteneva a una grande tradizione della cultura italiana, che includeva la letteratura e la poesia, ma anche l’arte e il cinema, da Fellini a tutti gli altri straordinari registi della stessa epoca. Erano artisti che potevano anche avere obiettivi e progetti diversi, ma possedevano tutti una grande capacità di raccontare, e quindi di comunicare quello che avevano in testa. Se il pubblico non ti segue, forse dovresti chiederti se sei tu che stai sbagliando qualcosa, invece di lamentarti delle fortune degli altri».

Però lo hanno ignorato per il Nobel. 
«Non è l’unico, purtroppo. Ma credo che il valore del suo lavoro si misuri meglio con le dimensioni innegabili del suo successo internazionale». 

Perché la sua morte lascia un vuoto incolmabile? 
«Il lavoro di Eco era fondamentale non solo per la sua qualità, ma anche per il messaggio che lanciava all’intera comunità intellettuale, sfidandola ad avere il coraggio di misurarsi con la cultura popolare, abbracciare generi diversi, cercare di comunicare con tutti. Il vuoto che lascia è incolmabile perché per svolgere un compito di questo genere servono qualità straordinarie, che non vedo in nessun altro autore dopo di lui. E questo vale soprattutto per l’Italia, dove la sua scomparsa rappresenta davvero una perdita enorme. Direi quasi un disastro culturale». 

Perché? 
«Cosa rimane, ora? L’Italia è stato il Paese dove ha avuto origine buona parte della cultura occidentale, e fino a mezzo secolo fa aveva ancora delle eccellenze internazionali, di cui Eco faceva parte. Mi riferisco alla letteratura, all’arte, alla grande e varia tradizione del cinema, dal neorealismo a Fellini, passando per tutti gli altri grandi registi che hanno lasciato un segno nell’immaginario del mondo intero. Ora cosa rimane? Avete ancora la moda, e poco altro. Eco non era importante solo per il valore della sua produzione letteraria, ma anche perché rappresentava uno stimolo, una sfida lanciata alla cultura italiana, affinché avesse il coraggio di aprirsi, sperimentare, cercare l’innovazione in tutti i settori. Per questo è una perdita enorme per il vostro Paese. La sua morte rappresenta la fine di un’era, e dietro non c’è molto altro per continuare quella tradizione di successo. L’unica speranza è che la sua scomparsa rappresenti uno stimolo, un elemento di riflessione, per spingere l’Italia rilanciare una vita culturale più intensa e coraggiosa».
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Da - http://www.lastampa.it/2016/02/22/cultura/gay-talese-povera-italia-senza-eco-MriQlX6EROp4TpbsDHzeuJ/pagina.html


Titolo: ECO un buon professore, di un “buon maestro”, come ce ne sono pochi.
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 23, 2016, 10:52:50 am
Domenica, 21 Febbraio 2016    

 ilsole24ore.com

Sapeva bene di essere il più famoso, il più importante, il più conosciuto al mondo, intellettuale italiano. E anche su questo amava fare dell'autoironia. Come si legge nelle pagine che seguono, Umberto Eco, nonostante la sua impressionante notorietà, ha mantenuto le abitudini di sempre. In primis, certo, l'amore per i libri, per i saperi che essi veicolano, ma anche per il lavoro editoriale ben fatto. Uomo di grande erudizione, e prima di questo filosofo e cultore di un pensiero critico che invitava a esercitare su ogni cosa, nel suo agire intellettuale era animato da un sano edonismo. L'importante è divertirsi. Sempre e comunque, o quasi. Ma il divertimento deve essere della più alta qualità. E orientato alla massima serietà, ispirato da una vocazione morale che miri a far sì che a divertirsi, e a imparare divertendosi, siano anche gli altri. Filosofo, semiologo, medioevista, giovanissimo autore Rai, linguista, enciclopedista, scrittore, bibliofilo, professore universitario, direttore editoriale, brillantissimo saggista e conferenziere, animatore del Gruppo '63, del Dams, delle facoltà di Scienza della comunicazione e di Libertà e Giustizia. Tante, troppe definizioni che ci depistano dal suo atteggiamento di fondo. Che è quello di un buon professore, di un “buon maestro”, come ce ne sono pochi. Di quelli che - come ebbi modo di scrivere per il suo ottantesimo compleanno - sono in grado di salvarti la vita. Mettiamo tra parentesi per un momento il Trattato di semiotica generale, la Rosa e l'Ornitorinco, e pensiamo a un libro del 1977, momento di massimo spaesamento di un'università divenuta velocemente da super elitaria a ultra massificata, intitolato Come si fa una tesi di laurea. Era pieno di arguzia e di umorismo, di letteratura e di filosofia, ma soprattutto di istruzioni per l'uso. Ecco cosa ci mancherà, caro Umberto: la tua capacità di farci sentire la tua indubbia, un po' altezzosa, superiorità intellettuale (che molti ti hanno rimproverato) unita alla sensazione che, a prenderti sul serio insieme a tutti i tuoi deliziosi giochi, tutti possiamo godere con te dei piaceri della cultura.
   
Armando Massarenti - Responsabile il Sole24 Ore - Domenica

 

@massarenti24


Titolo: UMBERTO ECO: "Che bell’errore!": ecco la sua prima storica Bustina di Minerva
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 26, 2016, 11:55:52 am
La nostra storia
Umberto Eco: "Che bell’errore!": ecco la sua prima storica Bustina di Minerva
Era il 31 marzo 1985.
Ripubblichiamo qui la prima delle celebri rubriche ospitate sull'ultima pagina de "l’Espresso". Dove si celebravano lo sbaglio e il caso come strumenti di scoperta

Di Umberto Eco 
26 febbraio 2016

Sto iniziando una rubrica. Mi è accaduto altre volte e ho sempre avuto la forza di smettere nel giro di un anno. L’appuntamento settimanale corrode. Questa volta forse smetterò prima, provo soltanto, per far piacere al Direttore, uomo potentissimo e vendicativo, e in vena di novità.

L’intitolo alla bustina di Minerva, senza riferimenti alla dea della sapienza, bensì ai fiammiferi. Quando capita che la bustina abbia il lembo interno vergine di pubblicità, gli uomini pensosi usano appuntarvi idee vaganti, numeri di telefono di donne che un giorno sarà opportuno amare, titoli di libri da comperare, o da evitare. Valentino Bompiani scriveva (e forse scrive ancora) le idee che gli passavano per la testa sul retro delle scatole di raffinatissime sigarette turche. Credo conservi migliaia di ritagli di scatole nei suoi archivi, e molte delle sue iniziative editoriali sono cominciate così. Dal numero delle schede accumulate felicemente, direi che il fumo non fa male.

Ritengo sia utile appuntare idee sulle bustine di Minerva, e anche Husserl faceva qualcosa del genere. A Lovanio non hanno ancora finito di decifrare tutto quello che ha scritto, e il rettore di quella università, che deve stanziare i fondi per la ricerca su quei crittogrammi, mi diceva tra il preoccupato e il faceto che un uomo che ha scritto tanti foglietti (credo siano centomila) non può sempre aver scritto delle cose sensate. Però le cose che ha pubblicate sono piene di senso. Questo significa che l’umanità pensante si divide tra chi si limita ai Minerva e chi poi coordina questi appunti in un discorso organico. Lì vengono i nodi al pettine.

Per intanto bustine: sull’ultimo libro non letto, sull’intuizione che ci ha attraversato la mente in autostrada mentre si frenava per non finire in coda a un Tir, sull’essere e il nulla, sui passi celebri di Fred Astaire. Poi si vedrà.

Primo pensiero. Sto seguendo il Colombo televisivo, né intendo rubare il mestiere al titolare della rubrica apposita. Semplicemente (e accade ogni qual volta si rilegge la storia di Colombo) stupisce quanto si possa andare lontano con una idea sbagliata. Anzi, con un pacchetto di idee tutte sbagliate: sbagliato il calcolo delle dimensioni della terra, sbagliato il credito dato a certi cartografi, sbagliato il progetto di redenzione dei selvaggi asiatici, sbagliato persino l’investimento economico. Povero Cristoforo finito poi così tristemente. Eppure, la sua scoperta ha rivoluzionato il nostro millennio.

Per questo genere di scoperte, fatte per sbaglio, gli inglesi hanno un termine che non esiste nel nostro lessico se non per ricalco: “serendipità”. È curioso che il termine si formi nel lessico inglese, a causa della storia dei tre principi di Serendip scritta nel Settecento da Horace Walpole. Perché di fatto la storia di questi tre principi, che trovano qualcosa cercando qualcosa d’altro, viene da una antica novella persiana, poi tradotta in italiano nel Rinascimento, poi passata alle altre culture europee, come anche ci ripeteva Carlo Ginzburg nel suo famoso saggio sul paradigma indiziario.

Il fatto è che tutte le grandi scoperte avvengono per una certa qual forma di serendipità. E non sto solo pensando a Madame Curie che lascia la pecblenda sul comodino per disattenzione, o allo sciagurato Bertoldo il Nero che cerca la polvere di proiezione e scopre la polvere da sparo. Ogni grande scoperta avviene perché lo scienziato (o il filologo, o il detective) invece di seguire le vie normali di ragionamento si diverte a pensare che cosa succederebbe se si ipotizzasse una legge del tutto inedita e puramente possibile, la quale però fosse capace di giustificare - se fosse vera - i fatti curiosi a cui con le leggi esistenti non si riesce a dare spiegazione. Ma questa legge inedita non viene fuori al primo colpo: si va per così dire per farfalle, si passeggia con la mente in territori altrui. In fondo il pensatore creativo è colui che decide di fare, ma scientemente, quello che Colombo ha fatto per sbaglio: «Visto che non trovo una risposta a questo problema, perché non cerco la risposta a un altro problema, magari del tutto extravagante?».

Allenarsi a rischiare errori, con la speranza che alcuni siano fecondi. In fondo anche scrivere sulle bustine di Minerva può avere la stessa funzione. Dipende naturalmente se ci scrive Kant o se ci scrivo io (a cui Luis Pancorbo ha attribuito una volta l’angoscioso pensiero: «I can’t be Kant»).

Certe volte temo che chi non scopre mai niente sia colui che parla solo quando è sicuro di aver ragione. È mica vero quel che ci raccomandavano i genitori: «Prima di parlare pensa!». Pensa, certo, ma pensa anche ad altro. Le idee migliori vengono per caso. Per questo, se sono buone, non sono mai del tutto tue.

© Riproduzione riservata
26 febbraio 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2016/02/25/news/umberto-eco-che-bell-errore-prima-bustina-minerva-1.251605?ref=HRBZ-1


Titolo: Manuel Anselmi. 12 motivi per considerare Eco un genio
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 27, 2016, 05:48:07 pm
12 motivi per considerare Eco un genio

Pubblicato: 23/02/2016 09:54 CET Aggiornato: 23/02/2016 09:54 CET

Non ce l'ho fatta a trattenermi dopo aver letto numerosi commenti sui social relativi alla morte di Umberto Eco. Mi rendo conto che ormai è un ambito dominato da dinamiche rituali assurde, senza alcuna pertinenza con la realtà, però da lettore di Eco non potevo tacere.

Innanzitutto c'è questa nuova moda un po' snob di stare a bacchettare gli afflati retorici dovuti alla morte di un grande personaggio (cosa che è già capitata di recente con David Bowie) e che forse tradisce una grande nostalgia di elitismo intellettuale in questo panorama di populismo kitsch.

Ma veniamo a Eco. Occorre fare chiarezza su alcune cose: se è molto ma molto riduttivo liquidarlo come un romanziere manierista e alessandrino, è davvero un orrore scientifico sostenere come alcuni fanno che non abbia contribuito allo sviluppo di alcuna nozione scientifica. Se sulla prima posizione posso limitarmi a dire che può essere una questione di gusti, la seconda è una semplice questione di ignoranza. Cercherò pertanto di elencare alcuni motivi del valore filosofico e scientifico di Eco, senza nessuna pretesa di esaustività ma solo sulla base della mia personalissima frequentazione dei suoi testi da quando avevo circa venti anni.

1) Eco resta uno dei massimi esperti di estetica medievale degli ultimi 50 anni, non esiste ricerca in questo campo che non lo citi;

2) Eco ha il merito di aver contribuito allo sviluppo di una estetica contemporanea non crociana in un momento in cui il crocianesimo era egemone e parrocchia;

3) Eco ha introdotto categorie di analisi dell'industria culturale che sono ormai classiche quanto il Super Io di Freud in psicologia e mi riferisco ad espressioni come "apocalittici e integrati", "superuomo di massa", "opera aperta", piacciano o non piacciano esistono;

4) Eco ha introdotto in Italia la semiotica, nello specifico quella di indirizzo analitico e ne è stato uno dei massimi studiosi a livello mondiale;

5) Come conseguenza o in abbinamento al punto precedente, Eco ha introdotto in Italia il pensiero di autori come Peirce, del quale non è stato solo un promotore italico ma uno dei massimi studiosi a livello internazionale;

6) Eco ha partecipato come critico dei costumi italiani inventandosi una nuova forma di pamphlet saggio quasi sconosciuta nel nostro paese, peraltro facendoci ridere tanto;

7) In ambito filosofico, insieme ad altri autorevoli esperti come Garroni, ha approfondito e riproposto il tema dell'attualità del trascendentalismo kantiano come questione centrale dei processi di classificazione razionale e di organizzazione dell'esperienza (mi riferisco al libro Kant e l'ornitorinco);

8) Con grande acume ha approfondito aspetti della storia delle idee del Seicento, occupandosi con grande competenza di autori come Athanasius Kircher;

9) Allo stesso modo si è occupato della teoria della cospirazione e delle logiche sociali legate alle organizzazioni esoteriche moderne e contemporanee;

10) Ha svolto costantemente una azione di critica degli aspetti più autoritari della società italiana con testi come Pampini bugiardi oppure con i saggi sulla semiotica del fascismo;

11) Sempre in questa direzione per primo ha parlato del "populismo mediatico" italiano;

12) Parallelamente a tutte queste cose, ciascuna delle quali basterebbe a far fare una carriera straordinaria a ciascuno di noi, Eco è stato un divulgatore rigorosissimo dal primo e rivoluzionario manuale di storia dell'arte con Eugenio Battisti pensato per le medie ma così ben riuscito da essere adottato all'università, alle recenti enciclopedie del Medioevo, dell'Antichità, del Rinascimento, che sono un ottimo modo per conoscere quelle realtà storiche.

Ora questi sono solo alcuni dei motivi per cui Eco resta il più importante e conosciuto intellettuale italiano degli ultimi decenni. E non ho fatto riferimento all'Eco romanziere la cui fama tutti conosciamo. La cosa che mi viene da aggiungere come conclusione: tutta questa stizza e acredine tese alla diminuzione del personaggio sono fondate sulla conoscenza del personaggio? Oppure è solo un modo per liquidarlo sulla base di impressioni e di antipatie soggettive, magari anche alimentate da una certa spocchia dello stesso personaggio?

Mettetevi l'anima in pace, Eco poteva apparire spocchioso ma restava geniale.

Da -http://www.huffingtonpost.it/manuel-anselmi/12-motivi-per-considerare-eco-un-genio_b_9295722.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: Umberto Eco, esce il nuovo libro Pape Satan Aleppe per sopravvivere alla ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2016, 11:51:17 pm
Umberto Eco, esce il nuovo libro Pape Satan Aleppe per sopravvivere alla liquefazione della società

Pubblicato: 26/02/2016 15:36 CET Aggiornato: 26/02/2016 15:51 CET

Essere consapevoli "che si vive in una società liquida che richiede, per essere capita e forse superata, nuovi strumenti". È l'unico modo che abbiamo per sopravvivere, nell'interregno in cui ci troviamo, alla liquefazione. Umberto Eco ci lascia questo grande messaggio nel suo ultimo libro dal titolo dantesco (Inferno, VII, 1) 'Pape, Satan, Aleppe', che esce oggi, a una settimana dalla sua morte, avvenuta il 19 febbraio. S'inaugura così La nave di Teseo, la nuova avventura editoriale che ha fondato con Elisabetta Sgarbi, direttore generale ed editoriale.

"Cronache di una società liquida non a caso è il sottotitolo di questo libro in cui Eco ha raccolto, come spiega nella prefazione, le Bustine di Minerva degli ultimi 15 anni. "Dal 2000 al 2015, calcolando ventisei Bustine all'anno, di Bustine ne avevo scritte più di quattrocento e ho ritenuto che alcune fossero ancora ricuperabili. Mi pare che tutte (o quasi tutte) quelle che raccolgo in questo libro possano essere intese come riflessioni sui fenomeni della nostra 'società liquida', di cui parlo in una delle Bustine più recenti, che pongo a inizio della serie" dice l'autore de 'Il nome della rosa'. Fino all'ultimo lo scrittore ha lavorato a 'Pape Satan Aleppe' che aveva rivisto, corretto e consegnato e per il quale aveva scelto un titolo in cui c'è tutta la confusione e la "sconnessione" che viviamo. Sono parole, come spiega Eco nella prefazione, che "confondono le idee, e possono prestarsi a qualunque diavoleria. Mi è parso pertanto comodo usarle come titolo di questa raccolta che, non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va - come direbbero i francesi - dal gallo all'asino, e riflette la natura liquida di questi quindici anni".

La passeggiata di Umberto Eco nel suo "bosco narrativo"

L'uscita era prevista a maggio, e farlo arrivare in libreria a così pochi giorni dalla morte di Eco, è stata davvero una corsa contro il tempo per gli amici con cui era salito su La nave di Teseo, fra i quali l'editor di una vita Mario Andreose che ne ha parlato come un'opera di grande "intrattenimento" con alcune parti di "pura comicità". Come quella in cui Eco dice di Papa Francesco: "Credo che si sbagli a considerarlo un gesuita argentino: è un gesuita paraguayano. È impossibile che la sua formazione non sia stata influenzata dal "sacro esperimento" dei gesuiti del Paraguay". Ci sono molti parti in cui viene ridicolizzata la banalità che ci circonda. Così, alla frequente domanda su quale sia il libro preferito risponde: "attendo con impazienza il libro che sconvolgerà i miei cento anni". L'idea di società liquida, che come ricorda Eco, dobbiamo a Zygmunt Bauman, percorre tutto il libro in cui viene raccontato il crollo delle ideologie, dei partiti, delle memorie. Siamo in un mondo in cui si è persa la certezza del diritto, dove domina l'individualismo sfrenato, il consumismo che rende subito gli oggetti obsoleti. Un vuoto in cui l'unico punto di riferimento è l'apparire a tutti i costi. "A questo bambino che cresce parrà allora naturale vivere in un mondo dove il bene primario (ormai più importante del sesso e del denaro) sarà la visibilità" scrive Eco rivolgendosi al nipotino nella sezione "Fare ciao ciao con la manina".

Questa raccolta diventa così un viaggio che ci mostra chi siamo e in che realtà ci muoviamo, dove protagonista è anche l'invasione della tecnologia. "I giornali sono spesso succubi della rete" dovrebbero invece dice Eco nella Bustina che chiude il libro "dedicare almeno due pagine ogni giorno all'analisi di siti Web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/02/26/umberto-eco-libro_n_9326394.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001