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Autore Discussione: GIOVANNA ZINCONE. -  (Letto 18680 volte)
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« inserito:: Novembre 02, 2007, 02:53:59 pm »

2/11/2007
 
Le leggi non bastano
 
GIOVANNA ZINCONE
 
La violenza gratuita non è propria della cultura Rom. Dopo la tragedia di Tor di Quinto ce lo hanno ricordato alcuni di loro. Il furto o la questua importuna sono però comportamenti considerati normali da buona parte della comunità.

E qualche intervistato Rom ieri lo ha candidamente confermato. Un’esistenza non gravata dall’onere del lavoro appare meritevole dei rischi che si corrono a praticare il borseggio e il furto con scasso. Anche perché il modesto impegno profuso dagli apparati dello stato nell’individuare i colpevoli di reati non troppo gravi, l’utilizzo di minori, le clemenze, i condoni e le amnistie abbassano notevolmente i rischi. Si tratta di reati non cruenti, ma certo poco idonei ad attirare simpatia sociale. Infatti, se andiamo a rivedere le classifiche di popolarità delle minoranze presenti in Italia, troviamo da tempo gli zingari in fondo alla classifica, ben prima dell’autista pirata e dell’aggressore di Tor di Quinto. Chi ha ascoltato anche le ragioni delle organizzazioni dei Rom sa che pure per gli zingari poveri e poco nocivi è difficile trovare solidarietà pubblica. Lo è sempre di più, perché anche gli stati sociali un tempo indiscriminatamente generosi sempre di più tendono a comportarsi secondo la diagnosi di Milton Friedman: «Nessun pasto è gratis». Chi vuole sostegno, se non è invalido, deve impegnarsi a cercare un lavoro. Ma per gli zingari trovare lavoro non è facile e non solo perché il lavoro non è al centro della loro cultura, ma perché di loro non ci si fida.

Nicolae, l’accusato, comunque ci provava a lavorare: faceva il manovale a giornata. Non guadagnava abbastanza, il che poteva spingerlo a rubare. Ma secondo la vecchia cultura Rom, la vittima non si stupra, non si malmena a morte. Infatti, in tal caso i rischi di finire dentro crescono, e l’approvazione della comunità declina. E poi, perché danneggiare la mucca che si munge? Dietro la violenza gratuita si profila la distruzione di un tessuto sociale, di una (sia pure discutibilissima) etica ricevuta. Quello che ora si ruba non è più un bene sostituibile: l’integrità della persona non ha succedanei, chi la danneggia di proposito vuole nuocere. Lo fa per abitudine alla violenza, forse per rabbia accumulata contro il piccolo o grande agio di normali vite borghesi. Di questa nuova propensione alla violenza i Rom che si trovano da generazioni in Italia, che sono spesso cittadini italiani, accusano i nuovi venuti: i rumeni, in particolare. La Romania, che ovviamente non esporta solo Rom, è la prima nazionalità straniera tra i denunciati e arrestati sia per il reato di violenze sessuali (sono il 16% degli stranieri e il 6,2 del totale), sia per gli omicidi volontari (15,4 e 5,3%). Ma occorre osservare pure che quella rumena è la prima minoranza immigrata in Italia: con 556 mila presenze rappresenta il 15,1% degli stranieri. E si distingue semmai per la maggiore propensione ad altri reati: ad esempio, il furto con destrezza (in cui rappresenta il 37% del totale degli stranieri denunciati e il 24,8 del totale dei denunciati), i furti di autovetture (il 29,8 e l’11,2%), le rapine in esercizi commerciali (il 26,9 e l’8,7%). Questo confronto tra le percentuali di presenze regolari e percentuali di incidenza sui reati è tuttavia piuttosto azzardato, perché i protagonisti dell’attività delittuosa sono gli immigrati irregolari, che sommando tutte le nazionalità, per alcuni reati (sfruttamento della prostituzione, estorsione, contrabbando, ricettazione) raggiungono 4 casi su 5. La promozione incondizionata - non più sottoposta a requisiti di reddito e di lavoro - di molti immigrati rumeni da irregolari a regolari potrebbe modificare il quadro statistico, ma non la realtà dei fatti.

Ricordiamoci infatti di un dato di fondo. Sono i più sradicati che delinquono, quelli che delle regole se ne infischiano. Sappiamo infatti che gran parte degli immigrati oggi regolari sono stati in passato irregolari: ma hanno fatto di tutto per rientrare nelle regole. Sono, ad esempio, le nostre badanti. Chi invece si mantiene sfruttando prostitute dopo averle domate a suon di botte può infischiarsene della regolarità del permesso di soggiorno. Il decreto varato d’urgenza dal governo, che prevede la possibilità di espulsione a opera dei prefetti anche nei confronti dei comunitari, se rappresentano un rischio per l’ordine pubblico, può essere utile se il nostro esecutivo riuscirà, come sta cercando di fare, a ottenere la collaborazione dei Paesi di origine. Teniamo però conto del fatto che immigrati di origine albanese e marocchina, nazionalità non comunitarie e quindi già espellibili, competono con la comunità rumena nella classifica dei reati commessi. Le leggi vanno fatte per il buon motivo che non abbiamo molti altri strumenti a nostra disposizione, ma non contiamo troppo sull’immediatezza dei loro risultati.
 
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 05, 2008, 10:28:28 am »

5/6/2008
 
Immigrati, il bastone e la carota
 

GIOVANNA ZINCONE
 

E’ stato un bel colpo di scena, quello del presidente del Consiglio che si dissocia «a titolo personale» dal reato di immigrazione clandestina: un po’ nel genere teatro dell'assurdo, essendo lui, infatti, il primo firmatario del progetto di legge che lo contiene. Perché questa stravagante, ancorché forse utile, marcia indietro?

Perché tutto il pacchetto sicurezza è stato costruito in fretta, per pagare a rotta di collo la cambiale politica emessa quando il centro-destra era all'opposizione e sotto elezioni. Di questa fretta ora subiscono i contraccolpi. La fretta ha prodotto un'altra mossa surreale ma significativa. I luoghi dove si tengono gli immigrati irregolari non si chiamano più «Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza», ma «Centri di Identificazione ed Espulsione». Per cambiare nome è stato utilizzato il decreto legge. Non si capisce dove stesse l'urgenza di questo repentino colpo di spugna linguistico, se non si guarda dietro le due etichette date ai centri. Dai nomi traspaiono con chiarezza atteggiamenti tradizionalmente tipici della sinistra e della destra. Da una parte, il pudore nell'uso degli strumenti repressivi, dall'altra un non meditato ricorso a quegli stessi strumenti, con un sovrappiù di minacciosi proclami. Ma qual è la reale sostanza dei provvedimenti presi, progettati o ripensati?

Quando è stato al governo, il centro-sinistra ha adottato importanti misure repressive. Ha introdotto i suddetti Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza. Ha varato norme punitive nei confronti del trasporto e dello sfruttamento dell'immigrazione clandestina. Ha previsto l'espulsione successiva o alternativa alla pena. Ha persino inserito l'espulsione preventiva, in via amministrativa, per motivi di sicurezza dello Stato e di ordine pubblico. Ma, soprattutto, il centro-sinistra ha adottato a suo tempo le ricette teoricamente più efficaci per contenere gli ingressi clandestini: più controlli sul lavoro nero, più accordi bilaterali con i Paesi di provenienza e di transito.

Perché la strategia del centro-sinistra non ha convinto? Perché le sue leggi non sono state applicate con la dovuta fermezza. Perché - anche in seguito all'indulto, ma non solo - in Italia è tutt'altro che garantita l'efficacia dissuasiva dell'intero sistema delle norme penali. Perché comunque e dovunque il controllo dell'immigrazione è un obiettivo troppo difficile da raggiungere. Infine, perché ha tardato a presentarsi esplicitamente all'elettorato come tutore dell'ordine, e su questo terreno ha conosciuto profonde divisioni interne. Come risultato adesso tocca di nuovo al centro-destra.

Questa compagine ha pensato, al contrario, che fosse utile promettere molto e fare la voce grossa. Ed è proprio questa voce grossa che le ha procurato pesanti e autorevoli rimbrotti. Eppure l'apparato repressivo proposto dal centro-destra non viaggia poi molto al di fuori dei binari europei. È vero, ad esempio, che altri Paesi hanno adottato il reato di immigrazione clandestina. Peraltro, il fatto che altri Paesi abbiano imboccato una strada non significa che quella strada li abbia portati lontano. In Gran Bretagna il reato c'è, ma la fattispecie è poco utilizzata. Anche in Francia c'è, ma le badanti irregolari sono tante e in rivolta.

Come tutti i reati, il nostro non può essere retroattivo, riguarderebbe inoltre solo l'ingresso clandestino, quindi non toccherebbe né i clandestini che sono già qui, né in futuro chi avesse il permesso scaduto, né i temutissimi romeni inclusa la loro componente Rom, perché, come comunitari, possono entrare liberamente. A loro semmai si applica, e solo in casi estremi, l'espulsione. Ed è possibile - come sostiene Calderoli - che lo strumento intenda solo rimandare a casa chi attraversi illegalmente la frontiera. Tuttavia, visto che l'azione penale è obbligatoria, cosa accadrebbe se si arrivasse comunque - come teme pure Berlusconi - a colpire troppi clandestini con processi per direttissima e incarcerazioni? Già oggi i tribunali sono intasati e le carceri scoppiano, con una percentuale di stranieri detenuti che arriva al 38%. Pensiamo a quanto può costare allo Stato, in termini di spesa per processi e detenzione, perseguire pure gli immigrati, clandestini sì, ma onesti. È questa una priorità per le magre finanze pubbliche nazionali? Bene quindi il ripensamento di Berlusconi, ma sarebbe da estendere ad altri aspetti del pacchetto.

Se si vuole alzare la detenzione nei Centri fino a 18 mesi, mentre il termine massimo di carcerazione preventiva prevedibile per reati di questo tipo è di 9 mesi, bisognerebbe ribattezzarli ancora una volta, e chiamarli «Centri di Minaccia e Pena». Anche i 18 mesi, però, non sono un'invenzione nostrana: li prevede pure la proposta di direttiva europea che la prossima presidenza francese caldeggia. Come si spiega, allora, la subitanea levata di scudi contro l'attuale politica italiana? Non credo che la motivazione chiave delle riprovazioni nazionali ed estere stia nei dubbi di costituzionalità e conformità alla normativa internazionale, che pure circolano, anche sulla clandestinità come aggravante. Persino nella versione attuale si tratta di norme forse inutili, forse controproducenti, ma non liberticide. La dissonanza dipende soprattutto dai toni e dall'assenza di contrappesi «benevoli».

Le politiche di controllo in altri Paesi sono state bilanciate da misure di apertura e tolleranza. Così mentre Sarkozy propone, come prossimo presidente dell'Unione, una linea ferma contro gli ingressi clandestini, la bilancia con una riduzione dei tempi d'ingresso in Francia dei lavoratori di Paesi che hanno aderito nel 2004. Per funzionare, le politiche migratorie del centro-destra hanno dunque bisogno di ripensare tre punti: una comunicazione meno aggressiva, una valutazione realistica dei costi-benefici dei provvedimenti che intendono adottare sia in termini economici sia di consenso interno e internazionale, un bilanciamento delle misure repressive con misure di apertura.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 23, 2010, 11:08:04 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 10, 2008, 09:36:10 am »

10/10/2008
 
Se la Sinistra si rifugia nel privato
 
 
 
 
 
GIOVANNA ZUCCONI
 
Sergio Cofferati annuncia di non volersi più candidare a sindaco di Bologna per «ragioni private». Un modo pudico e asciutto per dire che un figlio piccolo e una nuova famiglia, a sessanta anni, possono anche entrare in conflitto con gli oneri della vita pubblica.

Voci non amichevoli dicono che i sondaggi vedono favorito, in un eventuale match tra personalità mature, il redivivo Guazzaloca. E che sarebbe un presagio di sconfitta, non una libera scelta personale, la vera ragione dell’abbandono di campo. Ma una volta tanto la motivazione ufficiale è più «calda», e interessante, dei retroscena politici e partitici. Non si hanno molte notizie di maschi che lasciano la politica, e il potere, per dedicarsi agli affetti. E dunque, benvenuto lo «scandalo» di un padre celebre che può far venire utili dubbi ad altri padri.

In America i due campi hanno confini meno netti, la famiglia è spesso un trofeo da esibire davanti alle telecamere, e Sarah Palin è l’esempio lampante (non si sa se più passionale o più cinico) di uso pubblico del privato, con tutti quei figli, una a sua volta contenente un piccino, usati per fare da sherpa alla sua dura scalata alla Casa Bianca. Da noi non funziona (ancora) così, il «colore» familiare dei politici è appunto soltanto colore, non pesa più di tanto sulla scena pubblica e mediatica: prova ne sia la fitta presenza di politici clericali ma divorziati, che negli Usa sarebbero massacrati dalle critiche e dalla diffidenza.

A far pesare le vicende private in politica, in questo caso, è una dichiarata inconciliabilità tra le due vite, quella affettiva e quella pubblica: «Mia moglie e mio figlio abitano a Genova - ha spiegato Cofferati - e un bambino non può crescere in autostrada». Probabilmente ha contato anche una speciale ritrosia, da parte di un uomo in fin dei conti «all’antica», sobrio fino alla scorbuticità, di giocarsi la paternità tardiva anche come una carta politica, come forse un leader americano avrebbe saputo fare con disinvoltura, e tra gli applausi.

Fin qui la vicenda privata di una persona che, a quanto pare, sceglie di spostare le sue energie dalle mura di un palazzo comunale così insigne alle sue stanze private. In più, e oltre, naturalmente c’è da riflettere sulla decaduta, scolorita passione politica di un leader che, fino a pochi anni fa (anche se sembra un secolo), era tra le bandiere della sinistra italiana, capace di portare in piazza milioni di persone. Se il luogo chiamato sinistra fosse così seducente, e carico di attese, quanto è stato per molti fino a pochi lustri, o peggio pochi mesi, or sono, forse Cofferati, arrivato al suo bivio, avrebbe esitato. Il sacrificio pubblico, la dedizione politica sono stati, per la sua generazione, una ragione di vita: fino a morirne, come accadde a Enrico Berlinguer, caduto sul suo palco, tra le bandiere. E le famiglie (a volte più di una per ciascuno) erano tenute rigorosamente al riparo, quasi sempre grazie al sacrificio privato di mogli silenziose e pazienti: tanto che a nessun maschio di potere veniva il dubbio di dover rinunciare all’auto blu per il passeggino.

Per quali ideali, ora, per quale futuro si può tirare fino allo stremo la corda dell’impegno pubblico? Se un figlio e una famiglia hanno maggiore appeal di una piazza gremita, viene da pensare che un ciclo sia chiuso e un altro ancora non sia aperto, e che lo sfinimento politico sia uno dei sentimenti più evidenti, e ingombranti, per la sinistra italiana. In questo senso Cofferati il Vecchio è forse meno vecchio della politica. È nuovamente paradigmatico in quanto non-leader, come gli accadde di essere pochi anni fa in quanto leader. Il ritorno al suo campicello è un segnale di fine della corsa, di gioco che non vale più la candela. La sua stanchezza, in mezzo a tanti vecchi finto-giovani, scalpitanti e rifatti, è onesta. È riflessiva e invita, magari, a riflettere, ognuno come meglio crede, sui costi umani del potere. Sarà disposto all’elogio chi chiede alla politica (perfino alla politica) una misura più umana. Sarà incline alla critica, forse anche alla derisione, chi gode dello spettacolo di una sinistra sfiduciata, ripiegata su se stessa. La verità vera comunque è destinata a sfuggirci. La conosce solo Cofferati, e non sembra disposto a farne materia di dibattito.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 16, 2008, 09:06:13 am »

16/10/2008
 
Purché sia un ponte
 
 
GIOVANNA ZINCONE
 
La fretta non è buona consigliera né per chi propone, né per chi si oppone. L’osservazione calza anche rispetto alla mozione leghista che vuole introdurre «classi ponte» per ragazzi stranieri con carenze linguistiche. L’ingresso di studenti di questo tipo, soprattutto ad anno scolastico già iniziato, crea problemi a tutti. Li crea ai ragazzi stessi, in particolare se sono già in un’età in cui imparare in fretta un’altra lingua diventa più difficile e gli studi che si devono affrontare sono più complessi. Per le loro carenze linguistiche, gli stranieri possono essere inseriti in classi arretrate rispetto all’età e rischiano, più spesso degli italiani, la bocciatura. Perciò accumulano più ritardi. Ma, fatto ancora più grave, si concentrano negli istituti tecnici e professionali, lì vengono talora indirizzati anche studenti che, nel loro paese, frequentavano licei più sofisticati.

In un percorso di istruzione semplificato non conoscere bene la lingua costituisce uno svantaggio minore. Questo fenomeno rappresenta un grave svantaggio non solo per i ragazzi stranieri, ma anche per il nostro paese, che così spreca potenziali talenti.

Insomma il problema c’è ma va affrontato seriamente e serenamente. Quali sono i pro e i contro delle «classi ponte» o «di inserimento» che dir si voglia? Il grande pro consiste certamente nel far conoscere in anticipo la lingua della scuola che si frequenterà. Però i contro o almeno i dubbi connessi a questa specifica soluzione non mancano. Innanzitutto, a chi si fa il test? Anche ai bambini nati in Italia? Anche a quelli arrivati qui in fasce? Ma allora perché non farlo a tutti i bambini, italiani e non? Un certo numero di bimbi connazionali viene infatti da famiglie dove si parla un italiano piuttosto approssimativo. Un altro «contro» riguarda il quando. Il termine massimo di inserimento dei bambini e dei ragazzi stranieri nelle classi ordinarie, previsto dalla mozione approvata, è il 31 dicembre.< Quindi, entro quella data, o si è imparata la lingua e si è persa una bella fetta di programma, o non si è imparata la lingua e si prosegue fino all’anno seguente in segregazione. Come già nella situazione attuale, gli stranieri rimangono indietro. Ma il tempo è solo un tassello della controindicazione. In alcuni cantoni svizzeri «le classi di accoglienza» possono durare da due mesi fino ad un anno e mezzo. Ed è evidente che in Italia, ancor più che in Svizzera, ci si trova di fronte ad un insieme di allievi terribilmente differenziati: si va da bambini con una lingua madre di ceppo latino ad adolescenti analfabeti o con lingue madri assai distanti. I tempi di apprendimento possono essere completamente diversi e, a volte, lunghi. Però, nelle classi svizzere lavorano, a turno, tutti gli insegnanti che avranno in futuro quegli stessi allievi. C’è quindi una familiarizzazione tempestiva con la scuola «normale». Insomma si cerca di evitare che le classi ponte diventino classi scivolo verso la segregazione e la discriminazione. Ma il metodo implica che tutti gli insegnanti, di qualunque materia, debbano imparare a insegnare la propria lingua in modo semplice ed efficace, che debbano tutti sapere comunicare con allievi stranieri.

Purtroppo, i corsi di insegnamento dell’italiano come seconda lingua, destinati a chi lavora nella nostra scuola, non sono seguiti dai titolari di tutte le discipline e sono spesso poco utili in termini pratici. E qui qualche cambiamento serve ed è pure ideologicamente neutro. A me sembra, inoltre, che in Italia si siano già sperimentate formule interessanti, degne di essere diffuse. Mi riferisco, ad esempio, ad una soluzione che, almeno per un certo numero di potenziali allievi, elimina o riduce gli sprechi di tempo. Si tratta di utilizzare le iniziative di aggregazione operative nei mesi di giugno, luglio e agosto, note come «estate ragazzi». In quel momento dell’anno e in quelle sedi - come è stato già fatto ad esempio a Torino - si può insegnare italiano e insieme farlo praticare. Perché giocando, facendo sport con ragazzi italiani, quelli stranieri fanno, per forza e con piacere, pratica linguistica. E in più non percepiscono esclusione.

A questo scopo bisognerebbe incentivare il ricongiungimento familiare dei minori alla fine del loro anno scolastico e a ridosso dell'inizio delle vacanze del nostro. I piccoli hanno e creano meno problemi. Un tempo si distingueva tra «governi ponte» e «governi balneari», questi ultimi erano eminentemente estivi. Propongo è di riflettere sull’idea di diffondere «classi balneari» che rendano superflue o più brevi le «classi ponte».
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 19, 2008, 06:01:26 pm »

19/11/2008
 
Immigrati, il "rubinetto" inceppato
 
GIOVANNA ZINCONE

 
A essere conservatori non si sfigura mai: è una convinzione che ho difficoltà a condividere. Non mi pare che oggi lo stile conservatore vada per la maggiore. Assistiamo semmai a un’ambiziosa corsa al cambiamento. Però, quando si toccano questioni che intrecciano esigenze forti e difficili da conciliare, quella convinzione ci torna utile.
Così, svariati governi italiani, hanno spesso presentato decreti sui flussi migratori che erano la fotocopia di quelli precedenti, magari già votati da una maggioranza antagonista. L’hanno fatto nel tentativo, da una parte, di non spaventare l’opinione pubblica con grandi numeri e, dall’altra, di non contrariare imprenditori e famiglie con numeri troppo risicati. Anche per il 2009, si pensa di riproporre gli ormai quasi classici 170 mila ingressi, lo stesso numero degli ultimi anni. Il fatto è che le esigenze di forza lavoro cambiano nel tempo e questo è un tempo in cui stanno mutando drammaticamente. Si aggiunga che a farne le spese, come sta emergendo dai dati sulla disoccupazione, sono soprattutto gli immigrati.

La proposta di bloccare il «flusso» per due anni
Questa constatazione ha suggerito alla Lega di proporre il blocco dell’immigrazione per i prossimi 2 anni. Non si tratta di una proposta inusitata. Piace anche a qualche sindacalista Cgil. Governi non tacciabili di xenofobia, come quelli di Spagna e Inghilterra, stanno prospettando misure simili. In passato, dopo lo shock dell’aumento del petrolio nel 1973, molti Stati europei chiusero le frontiere. Per la verità con scarso successo. Bisogna semplicemente chiedersi se si tratti di una strategia utile e praticabile. È necessario il blocco per evitare ingressi superflui? No, perché gl’immigrati ai quali viene concesso di risiedere e lavorare in Italia devono avere comunque un datore di lavoro disposto ad assumerli. Inoltre, i «nuovi» immigrati sarebbero tali per modo di dire: i permessi servono in larga misura a regolarizzare chi è già qui con un lavoro.
La proposta leghista affronta un problema reale, quello di fare i conti con una forte crisi economica. Ma non convince del tutto. La moratoria dei flussi pretende di proteggere lavoratori nazionali e immigrati colpiti dalla disoccupazione. Ma le liste di mobilità non funzionano per tutti, perché il mercato del lavoro non è fluido: la hostess che perde il posto non va a fare la badante, il pizzaiolo egiziano non va a fare la baby sitter. Semmai è il tempo troppo breve previsto dalla Bossi-Fini per trovare lavoro prima di perdere il diritto al soggiorno che non consente al pizzaiolo di trovare posto in un’altra pizzeria. Comunque, se si vogliano favorire gli immigrati rimasti disoccupati occorre seguire almeno in parte la ricetta Epifani: dare più tempo ai licenziati per cercare lavoro.

Urgente la radicale riforma del sistema d’ingresso
Insomma il problema c’è, ma non ammette soluzioni scorciatoia. Inoltre, la crisi economica rende particolarmente vistosa un’inadeguatezza di regole troppo rigide nella gestione dei permessi di soggiorno che non sono mai state valide. Al di là della crisi, è l’intero meccanismo dei flussi programmati e dei rinnovi dei permessi di soggiorno che appare poco funzionale. Infatti, non siamo stati in grado di gestirlo neppure in condizioni normali: restano da assegnare permessi dello scorso anno, mentre una montagna di domande di rinnovo degli anni passati giace inevasa. In particolare è la patente finzione di lavoratori che entrerebbero chiamati a evidenziare l’incongruenza del meccanismo, la sua incapacità di gestire i fenomeni reali. La finzione della chiamata dall’estero è tanto nota ai nostri attuali governanti che, per i 170 mila programmati per l’anno a venire, hanno pensato di attribuire i «nuovi» permessi utilizzando la vecchia lista delle richieste presentate in occasione del decreto del 2007. Non è pensabile che per più di un anno imprenditori e famiglie che avevano fatto richiesta siano rimasti in attesa di singoli lavoratori sconosciuti. Allora erano pervenute più di 750 mila domande per i soliti 170 mila posti disponibili. Quelli che non ce l’avevano fatta nei click days dello scorso anno, potrebbero farcela ora, purché abbiano ancora un datore di lavoro italiano.

Per i datori di lavoro stranieri si vuole seguire una procedura più selettiva, che prevede l'obbligo della carta di lungo soggiorno al fine di evitare assunzioni fasulle. Tutto sommato, con alcuni aggiustamenti, è la vecchia ricetta. Ma neppure la proposta di blocco è davvero innovativa perché si basa anche essa su un rubinetto rudimentale. Un rubinetto che si apre lasciando passare più o meno la stessa quantità di immigrazione o che si chiude del tutto per un po’ di tempo. Credo che sia arrivato il tempo di disfarsi del rubinetto. Occorre una più attrezzata e tempestiva rilevazione delle necessità di forza lavoro, una diluizione nel tempo delle concessioni, un maggiore decentramento e snellimento delle procedure di rilascio e di rinnovo. La ristrettezza dei tempi impedisce forse per il 2009 di cambiare radicalmente il nostro sistema di gestione dell’immigrazione, ma non vieta né di iniziare a sperimentare, né di riflettere su ipotesi di radicale riforma. Su questa necessità mi pare si stia profilando un largo accordo. Perché a essere conservatori qualche volta non solo si sfigura, ma ci si mette pure nei guai.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 17, 2009, 03:57:31 pm »

17/3/2009
 
Patrie e lavoro
 
 
GIOVANNA ZINCONE
 
Lavoro prima agli italiani» è una ricetta politicamente appetitosa. La crisi economica in corso sta producendo disoccupazione e la situazione è destinata a peggiorare, anche se non si arrivasse a sfondare il 10%, come prevede la Cgil. Si capisce quindi che i lavoratori italiani chiedano protezioni e tutele. Finora l’immagine dell’immigrato «ruba lavoro» aveva attecchito poco dalle nostre parti. I sondaggi effettuati in anni passati rivelavano la presenza di questo timore soprattutto in Germania a partire dagli Anni 90 e, di recente, in Gran Bretagna.

Da noi l’immigrazione finora aveva generato soprattutto paure legate a flussi fuori controllo: troppo rapidi e consistenti, pieni di irregolari e con una componente criminale vistosa.

Si tratta di preoccupazioni non prive di riscontri nella realtà, anche se amplificate dalla tradizionale diffidenza che gli umani provano nei confronti degli stranieri non danarosi. A questi incubi, già sufficientemente lievitati, se ne sta sommando un altro: quello di un’occupazione scarseggiante sottratta agli italiani da mani straniere. In un punteggio che va da 1 a 10, questa paura ha già superato la media del 5, mentre in passato il timore di essere spiazzati dagli stranieri riguardava solo un terzo circa degli intervistati. La ricetta che il leader leghista propone vuole sfamare una paura in crescita. Ma non è priva di controindicazioni. La nostra appartenenza alla Ue implica l’impossibilità di discriminare comunitari, quindi i romeni che sono la prima comunità immigrata in Italia. In secondo luogo, il meccanismo discriminatorio costituirebbe una lungaggine burocratica in più, dunque un passo indietro rispetto alla maggiore libertà e allo snellimento nelle pratiche di assunzione messi in atto con l’abolizione delle liste di collocamento. E in una congiuntura che richiede di non incentivare chiusure di attività in Italia e delocalizzazioni all’estero, rimettere fardelli burocratici e divieti nella gestione della forza lavoro sul territorio nazionale non giova. Aggiungo che forse neppure funzionerebbe. In Italia c’è già l’obbligo di verificare che non ci siano italiani o comunitari disponibili al momento di rilasciare permessi di lavoro a immigrati non comunitari. Quindi, in teoria, a nuovi immigrati da fuori. In pratica, tutti sappiamo che il grosso dei «nuovi» immigrati è costituito da individui che hanno già un datore di lavoro, di solito poco propenso a cercarsi un altro dipendente. Perciò la verifica di mancanza di alternative nazionali o comunitarie allo straniero riguarda già una parte di lavoratori stranieri, quelli teoricamente inseriti nei decreti flussi. E, in questo caso sperimentato, la precedenza si è risolta quasi sempre in un atto formale: i Centri per l’Impiego appendono in bacheca l’avviso di richiesta, lo mettono sul sito e spesso non si presentano candidati italiani. E poi, come in tutti i Paesi del mondo, anche nel nostro una gran parte delle assunzioni non avviene attraverso i Centri dell’Impiego, ma segue la via del passa parola, via sulla quale il semaforo rosso agli immigrati non si colloca agilmente.

Infine, si tratterebbe d’imporre per legge quello che i datori di lavoro italiani già fanno in pratica. L’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha commissionato ricerche empiriche sulla discriminazione in vari Paesi europei. Il metodo adottato consiste nel far rispondere ad annunci di lavoro squadre di candidati assolutamente identici sotto tutti i punti di vista, a parte l’appartenenza: una squadra è costituita da cittadini di etnia nazionale, l’altra è fatta da membri di minoranze immigrate. E si vede, ad esempio, che già al momento della prima telefonata il posto per il nazionale c’è ancora, mentre all’altro candidato si comunica che è stato assegnato. Oppure, al nazionale si danno opportunità di prova che all’altro non vengono offerte. Il metodo ha ovvi limiti: pochi casi, solo annunci, lavori di un certo tipo. Il risultato è comunque che in tutti i Paesi osservati si discrimina, e in Italia più che altrove. Insomma, a parità di merito, sembra che il datore di lavoro italiano tenda già a privilegiare il connazionale senza che la legge glielo imponga.

Eppure i dati, almeno fino allo scoppio della crisi, rivelavano un incremento relativamente più forte delle assunzioni degli immigrati. I tassi di attività e di occupazione erano più alti tra gli immigrati, ma lo era anche il tasso di disoccupazione. Prima della crisi la manodopera immigrata funzionava, quindi, come un polmone che aspira ed espira lavoro più intensamente e velocemente. È ipotizzabile che la crisi porti a più rapide e forti «espirazioni». Già nel secondo trimestre del 2008 il tasso disoccupazione generale è aumentato dell’1% rispetto al trimestre dell’anno precedete, quello degli immigrati dell’1,2%. Ma un dato più recente seppure parziale, quello dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, segnala una situazione drammatica: a gennaio 2009 il 24% della disoccupazione nel Veneto era costituito da stranieri, con un picco del 32% a Treviso. Le piccole aziende, dove si concentra il lavoro immigrato, sono poco tutelate dagli ammortizzatori sociali, e il rischio di perdere, con il lavoro, il permesso di soggiorno e quindi di diventare irregolare è alto.

Gli imprenditori sono preoccupati. È vero che molti lavoratori stranieri stanno rientrando nel Paese d’origine, ma cosa accadrebbe se a quelli che rimangono, disoccupati e con scarse tutele, fosse davvero sbarrata anche la via verso una nuova occupazione? Le tensioni sociali che può comportare una massa di stranieri emarginati sono notoriamente gravi. Anche in questi giorni le rivoltose banlieues francesi ce lo ricordano. Imporre agli imprenditori (e alle famiglie) l’obbligo di assumere un italiano meno capace e diligente a scapito dell’immigrato meritevole che si sarebbero liberamente scelti non funziona. Certo non è una via burocraticamente facile ed economicamente fruttuosa. È un colpo alla coesione sociale e non so neppure se sia eticamente accettabile. La condizione di cittadino comporta per definizione dei privilegi; però l’essere nato sotto un altro cielo è un caso, non una colpa.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 27, 2009, 11:44:23 am »

27/3/2009
 
La vera vita in diretta
 
 
GIOVANNA ZUCCONI
 
Ieri per una volta la «vita in diretta» è stata davvero tale. Vita vera. Nel pomeriggio di Raiuno, Lino Banfi ha detto: «C’è una donna bella che amo, che adoro, che ha 45 anni e ha il tumore». È sua figlia Rosanna. Come sono semplici e pure le parole, quando toccano davvero.

Anche la sera prima, l’altro ieri, è andata in onda la vita: la verità del male, di un altro male, nel monologo di Roberto Saviano sulla terza rete, a Che tempo che fa. «Voglio fare strategia di me e della mia parola», contro le mafie che tutto corrodono, così come Rosanna Banfi ha chiesto al padre di parlare del suo cancro, perché altre donne sappiano e non ne vengano corrose.

Difficile immaginare due persone e due denunce più diverse, in situazioni televisive più lontane. È uguale però il sentimento, quasi inconfessabile, di noi che guardiamo: sollievo. Dunque si può. Dunque la vita può esserci, lì dentro. Con un formidabile uno-due, improvviso e inatteso, la televisione italiana ha demolito quel vecchio mantra reazionario. Non è più vero che il mezzo è il messaggio, condannati entrambi al nulla, alla simulazione, al blob. Il mezzo è appunto un mezzo, il resto dipende dal chi e dal come. Altrove, su altri canali, stavano stravaccati i ragazzi del Grande Fratello (guardateli, sono sempre sdraiati, sbracati, sfatti). Roberto Saviano e Lino Banfi avevano, hanno la schiena dritta di chi ha fatto invece vero servizio pubblico.

Perché il vero servizio al pubblico è mostrargli che non è idiota come vorrebbero i mercanti di falsi sentimenti, gli spacciatori del nulla in diretta e in differita. Con la scusa che è quello che la gente vuole («Mangiate merda, miliardi di mosche non possono avere torto»). La televisione è soltanto una cornice, che fa risaltare quello che ci mettono dentro: il vuoto, anche cerebrale, oppure una materia umana viva e vera.

E la verità è inversamente proporzionale al tornaconto di chi in televisione ci va. Le amebe dei reality andranno a fare serate milionarie nelle discoteche, particina dopo contrattino. Saviano è uscito (forse il momento più commovente) circondato dai carabinieri che l’hanno sorvegliato, in piedi, in studio, per tutta la puntata, visibili soltanto quando sono tornati insieme, scorta e scortato, alla non-vita che condividono. Lino Banfi sarà rientrato, immaginiamo, alla sua angoscia domestica, dopo avere pronunciato un’altra frase memorabile: «Ho promesso a me stesso che non devo piangere, quindi non lo devo fare», detto da un attore che dell’esibizione ha fatto il suo mestiere, detto in un luogo dove fiottano lacrime sceneggiate e il pudore non fa audience.

La vita esiste, anche se i manovratori della televisione vogliono tenerla lontana dai nostri occhi. La vita è anche il male potente, quello della camorra e delle collusioni e omissioni dove fermenta, e quello della malattia («Ha il tumore, molti di noi abbiamo vergogna a dire questa parola»). «Vergogna» è un’altra parola che ha riacquistato la sua intensità, ieri pomeriggio e l’altro ieri sera, sulle reti della Rai. E anche «privacy» ha cambiato tonalità. Se ne spogliano quelli che smaniano per diventare personaggi e vendono la propria oscenità al primo fotografo o alla telecamera compiacente. Jade Goody, famosa per il Big Brother inglese, ha invece avuto il coraggio di trasformare il voyeurismo del gossip in sguardo collettivo sulla sua sofferenza. Popolarissimi, ciascuno a suo modo, con le loro paure Lino Banfi e Roberto Saviano in televisione non erano neanche più personaggi: ma persone. «Io voglio essere un fenomeno mediatico», ha detto Saviano, come può esserlo soltanto la vita, vera, che perfora. Grazie a quei due è il messaggio che ha fatto il mezzo, finalmente. E così la televisione italiana ha preso una clamorosa rivincita contro se stessa.

 
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 23, 2009, 02:53:09 pm »

23/4/2009

Clandestini, la macchina inceppata
   
GIOVANNA ZINCONE


Le decisioni pubbliche sono macchine imperfette, si fermano davanti agli ostacoli, fanno marce indietro, non sempre portano a destinazione. Anche la nuova guida dell’immigrazione, che si annunciava ferma e severa, non conduce alle mete prefissate.

A rendere difficile uno dei suoi obiettivi prioritari, la gestione dei flussi irregolari, si frappongono ostacoli esterni. Il caso del mercantile «Pinar», carico di clandestini soccorsi in mare, e le riluttanze di Malta ad accoglierlo hanno ribadito la necessità di utilizzare macchine con targa europea, se si vogliono ottenere certi obiettivi. Quanto alla macchina con targa italiana è stata spesso costretta a cambiare percorso e qualche volta la sua azione sembra aggravare i problemi che voleva risolvere. L’idea di bloccare i clandestini considerando il loro comportamento un reato, con annessi più solerti processi e incarcerazioni, si è trasformata con il tempo in una minaccia di ammenda pecuniaria e di immediata espulsione.

Il progetto, seppure più moderato, continua a incutere timore e ha prodotto un effetto perverso: ha incentivato una corsa in massa ad arrivare prima che scatti la misura. La norma è infatti contenuta nel disegno di legge sulla sicurezza ancora in discussione alla Camera. La stessa molla che spinge a evitare ostacoli all’orizzonte si applica probabilmente anche all’accordo con la Libia che entrerà in vigore il 15 maggio e dovrebbe limitare gli arrivi da quelle sponde. Stando ai dati di Frontex, l’agenzia europea che si occupa delle frontiere comuni, gli sbarchi in Italia, nel secondo semestre del 2008, sono aumentati del 107% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il ministero dell’Interno segnala invece risultati più confortanti per i primi mesi del 2009. Ma è sensato ipotizzare che la fuga in anticipo da leggi e accordi internazionali più restrittivi abbia fatto crescere i flussi clandestini, certo non li ha bloccati. Si può credere, però, che, una volta che le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina siano approvate e applicate, le cose migliorino. Non la pensano così gli oltre 240 tra magistrati e avvocati torinesi che hanno rivolto un appello ai deputati perché non passino la sanzione contro gli irregolari, temono infatti un ingorgo di ricorsi in Cassazione da parte di irregolari riluttanti ad accettare ammende ed espulsioni.

La giustizia italiana ha altre priorità anche in tema d’immigrazione. A questo proposito non pare che il muso duro contro la criminalità straniera abbia moderato l’ondata di reati odiosi. E la confusione tra irregolari e criminali non aiuta. Punire gl’immigrati che non rispettano le regole dell’ingresso e del soggiorno nel Paese non scoraggia i delinquenti veri. Chi stupra una ragazzina, chi spacca la testa a un commerciante, chi sequestra e massacra una coppia di anziani coniugi non si spaventa all’ipotesi di essere trattenuto qualche mese in un centro di detenzione temporanea o di pagare un’ammenda per il fatto di avere un permesso scaduto o per aver attraversato la frontiera di straforo. Con questo non sostengo che si debbano smantellare gli strumenti di controllo dei flussi irregolari. Del resto quelli che un tempo si chiamavano ipocritamente Centri di permanenza temporanea (Cpt) e oggi ottimisticamente Centri di identificazione ed espulsione (Cie) non sono un’invenzione dei governi di centro-destra. In Italia, sono stati introdotti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano. Dovevano servire a identificare e rimandare in patria gli immigrati non in regola.

Di fatto dai centri di detenzione temporanea passa solo una goccia del vasto mare di irregolari e clandestini. E sono ancora di meno quelli che, fermati nei Cie, si rimandano davvero in patria. I Cie servono ad affermare un principio: abolirli significherebbe accettare che chiunque possa entrare e stare in Italia senza rispettare le regole, vorrebbe dire eliminare le frontiere non solo italiane, ma indirettamente anche quelle europee. Il fatto è che questi centri stracolmi e mal gestiti si sono trasformati in intollerabili luoghi di pena, in focolai di rivolta, in occasioni di sproporzionate repressioni. Lo strumento che doveva produrre ordine è diventato una fucina di dolore e disordine. Perciò, in Senato l’articolo che voleva alzare i tempi di permanenza fino a 18 mesi non è passato e il tentativo di riproporlo con una riduzione a 6 mesi nel decreto anti-stalking è fallito. Per ora, perché gira l’ipotesi di ripresentarlo nella versione aumento a 4 mesi,massimo 6. Insomma questa è una macchina che va a singhiozzo. Resta il fatto che, più i tempi aumentano, più i centri si riempiono e degradano.

Intanto la proposta di consentire e di fatto obbligare gli operatori sanitari, in quanto incaricati di pubblico servizio, a denunciare i pazienti senza permesso di soggiorno stava anch’essa producendo guai prima di essere approvata. Innanzitutto, promesse e dichiarazioni di disobbedienza civile che hanno coinvolto la gran parte del personale sanitario, inclusi molti elettori dei partiti di governo. Ma soprattutto la paura di essere denunciati aveva già drasticamente ridotto il numero degli irregolari che si facevano curare. In alcuni ospedali erano già state rilevate diminuzioni intorno al 15%, in altri fino al 50%. Anche se le strutture specificamente dedicate agli immigrati erano riuscite a tranquillizzare gli animi, questo non valeva per tutti gli ospedali e gli ambulatori, con la conseguenza di casi di malati ridotti in fin di vita pur di evitare il ricovero. Le associazioni dei medici hanno evidenziato anche la potenziale espansione di malattie infettive: un pericolo non vistoso e diluito nel tempo, quindi elettoralmente poco temibile. L’insieme di queste considerazioni pare che possa spingere a stralciare questa norma dal disegno di legge sulla sicurezza e a ripresentarla a parte magari debitamente riformata. Insomma si parte in quarta spensierati e poi si fa marcia indietro con un po’ più di pensiero. Si annuncia, si propone perché spesso quel che conta a livello elettorale è più l'altoparlante che la macchina: la retorica pubblica, la proclamazione di intenti, i comportamenti vistosi. Come nelle vecchie campagne elettorali, di fatto, le macchine delle decisioni pubbliche si muovono lentamente, cambiano percorso, possono persino cappottare e andare fuori strada, ma gli altoparlanti continuano ad andare a tutto volume. L’elettore spesso ci casca. Però il gioco della strombazzante macchina inconcludente non regge in eterno.

Ma quella macchina è sempre e necessariamente inconcludente? Se così fosse, staremmo freschi. Faccio solo due esempi positivi riferiti al governo in carica. La legge anti-stalking contro i comportamenti persecutori ha dato subito buoni frutti: solo nel primo mese sono state 54 le persone messe sotto accusa per minacce e molestie ripetute. Anche i vari provvedimenti voluti dal ministro Brunetta stanno avendo successo. Ad esempio, l’assenteismo nel settore pubblico si è molto ridotto rispetto ai dati di partenza, con una media che si può valutare intorno al 45%, ma con punte massime come quelle dell’Ispra che hanno raggiunto il 94%. E, quanto al referendum elettorale, la Lega fa bene a temerne il successo, perché, consegnando al partito che ha semplicemente più voti la maggioranza assoluta sufficiente a governare, renderebbe il suo ruolo superfluo. Come pure superfluo risulterebbe l’eventuale ruolo dell’Udc come possibile ruota di scorta in caso di defezione leghista. Berlusconi completerebbe in tal modo e senza colpo ferire l’opera di controllo sui suoi dopo aver contribuito a scompaginare con successo la squadra avversaria. Ma l’esito di un sì vittorioso dovrebbe impensierire un po’ tutti: quel che verrebbe fuori somiglia infatti in modo preoccupante alla legge Acerbo di fascista memoria. Insomma, talvolta le macchine delle decisioni pubbliche fanno retromarcia o avanti e indietro, vanno persino fuori strada, talvolta raggiungono le mete prefissate o almeno ci si accostano molto. Altre volte le mete le raggiungono sì, ma sono luoghi piuttosto insalubri per la democrazia.

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« Risposta #8 inserito:: Maggio 30, 2009, 10:20:40 am »

30/5/2009
 
Gli immigrati rendono più di quanto costano
 
GIOVANNA ZINCONE
 
La relazione della Banca d’Italia per il 2008 presenta un quadro dell’immigrazione in Italia già noto. Si tratta di un’immagine variegata: molti studenti, ma troppi di loro in ritardo sul percorso scolastico; molti lavoratori, persino più occupati degli italiani, ma non abbastanza istruiti. Inoltre, sappiamo che gli stranieri stanno oggi perdendo il lavoro più in fretta degli italiani. Insomma, un’immigrazione importante, ma sulla quale bisognerebbe investire, soprattutto in formazione. Spicca tra gli altri un dato particolarmente positivo: gli immigrati rendono per ora più di quanto non costino. Versano il 4% del gettito fiscale e contributivo, mentre assorbono solo il 2,5% delle spese per scuola, pensioni, sanità e altri interventi sociali. Questo ottimistico bilancio si basa su dati 2006, quindi parla di uno ieri, sia pure recente. Proprio per questo la stessa relazione usa prudenza rispetto al domani. Un numero crescente di lavoratori immigrati arriverà a riscuotere la pensione, e potrebbe costituire una piccola onda d’urto sul sistema. Si spera che un numero crescente di figli di immigrati utilizzi e «consumi» istruzione pubblica, e anche questo comporterà costi aggiuntivi. Si deve poi osservare che nel bilancio Banca d’Italia non sono computate le spese che derivano da quella che possiamo definire la parte «scura» dell’immigrazione: ad esempio, i costi dei respingimenti e delle detenzioni nei Centri di identificazione, quelli degli immigrati processati e detenuti.

Ma fortunatamente la Relazione Draghi guarda soprattutto alla parte «chiara» dell’immigrazione. Meno male, una volta tanto è salutare che i riflettori siano puntati su un versante positivo e troppo spesso trascurato: quello degli immigrati che lavorano, studiano, contribuiscono al benessere nazionale. Nel 2008 gli immigrati erano l’8,9% dei lavoratori dipendenti e il 4,5% degli autonomi. Insomma Banca d’Italia ci ha confermato ieri quello che Istat ci aveva detto qualche giorno fa: gli immigrati regolari costituiscono una componente stabile della nostra società, utile, anzi necessaria al suo funzionamento quotidiano: basti ricordare che al 1 gennaio 2009 gli immigrati regolari in Italia erano quasi 4 milioni.

Purtroppo l’azione pubblica italiana appare oggi prevalentemente, se non esclusivamente, interessata a governare la parte «scura» dell’immigrazione. E lo fa a volte con misure e stili che ci valgono richiami a livello internazionale. Questo comportamento non costituisce soltanto un grave errore strategico sui tempi lunghi, perché non cura gli italiani di domani, ma è un abbaglio anche sui tempi brevi. Questa maggioranza così attenta agli umori della opinione pubblica, così pronta a cogliere le paure e gli spaesamenti degli italiani di fronte all’immigrazione, non si è accorta che nel Paese ci sono anche disponibilità e aperture. Un recente sondaggio svolto in vari Paesi europei e negli Stati Uniti rileva in Italia un persistente favore a concedere il voto locale agli immigrati, una larga maggioranza (79%) propensa a rendere più facili gli ingressi per studio e per lavoro, una schiacciante maggioranza (90%) contro la discriminazione, e (86%) che appoggia l'idea di combattere l’immigrazione clandestina destinando maggiori aiuti ai paesi svantaggiati. Peccato che l'Italia dia solo un misero 0,11% del suo Pil, e si trovi così in fondo alla lista dei donatori. Insomma una politica che si occupasse non solo di punire i comportamenti illegali, ma anche di valorizzare e premiare i molti immigrati onesti e produttivi, non solo gioverebbe all’Italia di domani, ma non dispiacerebbe neppure ai suoi elettori di oggi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:44:21 pm »

16/9/2009

Il voto agli immigrati uno spazio per i laici
   
GIOVANNA ZINCONE


Gli immigrati in Italia già votano alle elezioni amministrative e possono ottenere la cittadinanza dopo 4 anni di residenza. Purché siano comunitari, ad esempio quei rumeni che costituiscono, come è noto, la prima nazionalità nel nostro paese. Visto che i figli minori seguono la cittadinanza dei genitori, ne consegue che un bambino rumeno potrà sperare di diventare italiano dopo 4, mentre il figlio di filippini o canadesi dovrà aspettare 10 anni, il termine previsto attualmente per i non comunitari.

Nella discussione su una possibile riforma della cittadinanza alla Commissione Affari Costituzionali della Camera pare che la maggioranza voglia tener duro sui 10 anni. C’è però anche una proposta trasversale, condivisa da una parte di maggioranza e opposizione: prevede la conoscenza dell’italiano, ma abbassa gli anni di attesa a 5. Non si tratta di un coniglio uscito dal cappello a cilindro di Fini: era il tempo previsto per tutti gli stranieri dalla legge del 1912, nell’Italia liberale. È il tempo che si ritrova più di frequente nelle legislazioni di altri paesi europei, ad esempio in Francia, Svezia e Regno Unito. Il Portogallo, che condivideva con l'Italia i 10 anni, il termine più alto in Europa, lo ha abbassato a 6. Ma i bambini nati nel paese di immigrazione normalmente hanno l’opportunità di diventare cittadini prima e più facilmente dei genitori. Il principio dello ius soli, della facilitazione a chi nasce sul territorio, è accettato ovunque, con modalità diverse.

I paesi di immigrazione da popolamento, come Usa, Australia, Argentina o Canada avevano interesse, specie in passato, a rendere stabile la presenza di immigrati e quindi cercavano di trasformarli subito in cittadini, a partire dai bambini nati lì, adottando soluzioni radicali, come l’attribuzione automatica e immediata della cittadinanza ai nuovi nati. Ma poi si è capito che bisognava evitare una cittadinanza casuale, attribuita a figli di genitori recalcitranti, così come lo shopping all’estero di cittadinanze utili da parte di genitori affettuosamente opportunisti, e si sono introdotti requisiti supplementari di residenza. Negli stati europei si richiede un certo tempo di residenza dei bambini e/o dei genitori, e nessuno in Italia vuole trasformare in cittadini bambini nati qui per caso, o scodellati da genitori furbescamente interessati ad avere pargoli targati Unione Europea. Ma un tempo irragionevolmente lungo blocca i percorsi di integrazione e crea alienazione politica. Le proposte dei «finiani» non caratterizzerebbero insomma il Pdl come un partito di sinistra, ma come un normale partito di centro europeo.

Il Presidente della Camera peraltro guarda alla Europa non solo per la cittadinanza, ma anche per il voto locale agli immigrati. Tutti i paesi scandinavi, Irlanda e Olanda lo hanno adottato da tempo, il Belgio e altri paesi europei, specie tra i nuovi membri, hanno seguito a ruota. È vero che la Francia per anni ha guidato il fronte anti-voto amministrativo, ma il Governo ci sta ripensando e soprattutto ci ripensano i francesi.

Un sondaggio internazionale sull’immigrazione (Tti) segnala una maggioranza favorevole al voto locale tra gli intervistati francesi (74%) e, sia pure meno ampia, tra gli italiani (57%).

Ancora più interessanti sono i dati dei deliberative polls, i «sondaggi istruiti» che registrano il cambiamento di opinione dopo che gli intervistati sono stati meglio informati sui temi, attraverso dibattiti condotti da esperti favorevoli o contrari ad una specifica proposta, come il passaggio al nucleare o il voto agli immigrati. Ebbene, dopo avere ascoltato varie tesi pro e contro e aver dibattuto tra loro in piccoli gruppi, gli intervistati in tutti i paesi dove è stato fatto l’esperimento, Italia inclusa, sono emersi più favorevoli a concedere diritti agli immigrati, tra cui il voto locale. Insomma, i suggerimenti del Presidente della Camera, se debitamente argomentati presso l’opinione pubblica, potrebbero giovare al Pdl rispetto a un rischio che sta correndo: lasciare scoperto uno spazio politico vitale per le sue sorti future.

È uno spazio che in questo momento nessuno dei partiti italiani copre con coerenza: una posizione rispettosa della religione, ma fermamente laica, attenta alla sicurezza, ma anche al rispetto delle minoranze e dei diritti umani. Per ora il Pdl può sperare di vincere le prossime partite elettorali appiattendosi sulle posizioni xenofobe della Lega, ma se un Pd redivivo o una nuova formazione riuscissero a coprire, in un paese ben più secolarizzato di quanto comunemente si creda, lo spazio laico moderato che un tempo occupavano i repubblicani, i socialdemocratici, i liberali e i socialisti di Craxi, il partito di Berlusconi potrebbe trovarsi spiazzato nel suo stesso elettorato. Già adesso ha dimostrato di trovare ostacoli notevoli nella sua classe dirigente che da quel mondo in gran parte proviene: infatti, i «medici spia» e altri pezzi indigesti della politica dell’immigrazione sono stati affossati in parlamento o hanno avuto bisogno della stampella del voto di fiducia. Forse è questo lo scenario che qualcuno nel Pdl comincia a temere: una competizione da parte di un attore politico laico e moderato, radicato nella cultura democratica europea. Qualcun altro, magari, ci spera.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 22, 2009, 10:27:39 am »

22/10/2009

Un nuovo binario per l'immigrazione
   
GIOVANNA ZINCONE

Un gruppo trasversale di parlamentari (PdL, Pd, Udc, IdV) appare decisamente intenzionato a rimettere in moto il treno dell’integrazione. La linea su cui il treno è avviato è chiara: ai doveri, ai comportamenti virtuosi che esigiamo dagli immigrati, devono corrispondere anche meritati diritti. Riparte quindi la proposta di fare uno sconto sui tempi di attesa per ottenere la cittadinanza italiana: uno sconto riservato a quegli immigrati regolari che dimostrino di conoscere sufficientemente la nostra lingua, la vita civile e i valori costituzionali del nostro Paese. Torna sul tappeto l’idea di favorire i bambini nati in Italia o che, arrivati da piccoli, vi abbiano studiato e quindi siano qui presumibilmente bene inseriti. Di nuovo, si profila la possibilità di concedere, a certe condizioni, il voto locale anche agli immigrati non comunitari. I comunitari, romeni in primis - come si sa - godono già di questo diritto. Il vice-ministro Urso vorrebbe anche mettere un mattone nella costruzione di un Islam italiano; propone, infatti, di sottrarre l’insegnamento religioso dei bambini musulmani dall’influenza di possibili cattivi maestri per consegnarlo ad insegnanti affidabili, nelle rassicuranti mura della nostra scuola pubblica. Questo è un vagone più isolato, sia per motivi tecnici che per ragioni culturali. È difficile trovare un interlocutore unitario in un ambiente complesso e conflittuale come quello dei musulmani in Italia ed è un problema trovare oggi insegnanti adeguati. C’è poi un arroccamento difensivo da parte di una sezione del mondo cattolico. E però va detto che a simili ostacoli in alcuni Laender tedeschi una soluzione si è trovata, e che la costruzione di un Islam europeo è da tempo un’ispirazione di fondo in diversi Paesi dell’Unione.

Comunque, nell’insieme, tira proprio un’aria nuova nelle politiche migratorie italiane. E non solo e non tanto per i contenuti delle proposte: si tratta, infatti, di misure ampiamente sperimentate in Europa e che, seppure con diverse sfumature, sono già state presentate in passato nel Parlamento italiano. La grossa novità sta nel modo, nell’evidente unione trasversale dei proponenti. Sta nel timing, nel momento, nel clima politico in cui cadono queste proposte. La recente politica italiana si è infatti caratterizzata per un severo contrasto dell’immigrazione irregolare. È un contrasto che prevede la classica mistura di «slittamento» e «sovrapposizione» delle frontiere. Da una parte, si fa «slittare» la nostra frontiera al di fuori dei confini, in particolare attraverso il rafforzamento degli accordi con la Libia che dovrebbero bloccare la principale rotta via mare, e lo si fa anche a rischio di ledere diritti umani. Dall’altra, si «sovrappongono» alle barriere agli ingressi le barriere ai diritti: il reato di immigrazione clandestina e di permanenza irregolare, l’attestazione di regolarità per la fruizione di servizi e diritti servono a sbarrare l’accesso a prestazioni sociali e al compimento di atti civili. E anche quando - come nel caso della sanità - la nuova legge sulla sicurezza non ha annullato il divieto per medici e operatori sanitari di denunciare i pazienti non in regola con il permesso di soggiorno, la paura diffusa opera come potente dissuasore. Insomma, mentre gli ultimi provvedimenti legislativi avevano aumentato la repressione sugli irregolari, non si profilava nessun bilanciamento a favore dei regolari.

Anzi, troppe volte abbiamo ascoltato leader di maggioranza dichiarare di non volere che l’Italia diventasse un Paese multietnico, detto altrimenti, un Paese di immigrazione, quale peraltro l’Italia è già ed è destinata ad essere in futuro. Né sono mancate offese gratuite alle comunità immigrate, in particolare a quella musulmana. Ora il bilanciamento finalmente si profila, e il treno guidato dal gruppo politicamente trasversale appare instradato su un binario decisamente nuovo. C’è il rischio che si riveli un binario morto? In modo più o meno brusco, qualcuno sta già manovrando sugli scambi ferroviari, ma sarebbe un peccato per il Paese. In ogni caso, dovunque vada a finire, il nuovo treno costituisce un evento positivo. Dimostra sia che c’è una parte del centro-destra italiano che vuole essere europeo, alla Merkel e alla Sarkozy, sia che c’è una parte del centro-sinistra che non si limita a contrastare, ma che è disposto a collaborare per costruire.

da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 29, 2009, 10:26:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 29, 2009, 10:26:56 am »

29/10/2009 - DOSSIER CARITAS

Immigrati una risorsa incompresa
   
GIOVANNA ZINCONE


È rapida, consistente, supera ormai la media europea, ha cospicue immissioni di irregolari, è ben radicata nel tessuto sociale. Nel Dossier Statistico sull’immigrazione italiana, presentato ieri da Caritas, questi caratteri emergono chiaramente.

Gli immigrati sono circa 4.300.000, il 7,2% della popolazione. Con Spagna (+726%) e Irlanda (+400%), l’Italia (+292%) è tra i Paesi europei che hanno visto moltiplicare più in fretta la quantità di stranieri negli ultimi 10 anni. A nutrire la rapida moltiplicazione dei nostri immigrati sono stati anche, e molto, flussi irregolari. Lo dimostrano le cifre delle numerose regolarizzazioni, inclusa l’ultima, quella che ha registrato 300.000 richieste, ed erano solo lavoratori domestici. È una cifra enorme, se si pensa che esclude neo-comunitari come i romeni perché non ne hanno più bisogno. È una cifra enorme, se si considera che la crisi economica sta producendo importanti controesodi e che anche dall’Italia i rientri sono iniziati. In Spagna e in Germania il numero dei residenti immigrati è già sceso. Ma certo gli esodi non modificheranno il fatto che in Europa e in Italia l’immigrazione ha un carattere strutturale.

I nostri immigrati - stando ai dati Caritas - sono lavoratori (2 milioni), studenti (629.000). Sono fonti di benessere perché producono il 10% della ricchezza nazionale e versano 7 miliardi di contributi previdenziali. Caritas, mentre evidenzia questi e altri aspetti confortanti, cerca di attenuare quelli preoccupanti: sbarchi di clandestini, immigrazione come fonte di aumento della criminalità e sfida all’ordine pubblico. Il Dossier, a ragione, rileva che gli sbarchi rappresentano una quota minima (1%) degli ingressi e soprattutto osserva che quelle navi trasportano disperati, molti dei quali hanno diritto all’asilo. Caritas ritorna a segnalare che la percentuale di devianti tra gli immigrati regolari corrisponde a quella tra gli italiani. Rileva pure che i tassi di attività e di occupazione degli stranieri sono più alti di quelli dei nazionali. Consiglia di non temere la comunità musulmana perché la vede in gran parte pacifica.

Questa determinazione all’ottimismo deriva dal suo impegno etico a difesa dei deboli. È degno perciò del massimo rispetto, anche se la realtà ne esce un po’ trasfigurata. Resta il fatto che il tasso di criminalità immigrata nel complesso è troppo alto. L’aumento della disoccupazione tra gli stranieri, che si accompagna a un aumento seppur minore tra gli italiani, genera tensioni. La quieta comunità musulmana ospita in grembo piccoli nuclei sovversivi che potrebbero produrre guai, come l’attentato milanese insegna.

L’immigrazione non è un valzer per signorine. È un percorso doloroso e difficile per chi emigra. È un fatto duro da metabolizzare per gli abitanti dei Paesi di immigrazione. A chi ha oggi difficoltà a metabolizzare suggerisco una visita, anche solo virtuale, al neonato Museo Nazionale dell’Emigrazione: sfata molti luoghi comuni e aiuta a mettersi nei panni degli altri. Gli italiani sono emigrati in massa anche dalla Padania, non solo dallo sciagurato Mezzogiorno. Nel 1890 il Prefetto di Vicenza informa che «all’emigrazione si abbandonano moltissimi contadini, i quali vi devono essere spinti non tanto dalla speranza di trovare in America di che arricchire rapidamente, quanto dall’impossibilità di campare più oltre la vita nella loro Patria». Anche i nostri immigrati varcavano le frontiere di frodo o con poco credibili permessi turistici. L’emigrazione italiana ha portato con sé non solo potenti mafie, ma anche gruppuscoli sovversivi e autori di attentati eccellenti. Le nostre comunità erano quindi considerate pericolose per l’ordine pubblico. Come se non bastasse, agli italiani si rimproverava pure di rubare il posto ai lavoratori locali. E, mentre il grosso dei nostri emigrati di fatto contribuiva ad arricchire i Paesi ricettori, indebite generalizzazioni anti-italiane da parte di politici e opinionisti di spicco finivano per legittimare cacce all’uomo e stragi. Come nel caso del linciaggio di 11 lavoratori italiani ad Aigues-Mortes, seguito dal prevedibile processo farsa. L’immigrazione purtroppo non è un valzer per signorine, perciò è bene che ci si impegni tutti, classi dirigenti italiane e straniere in testa, per evitare che degeneri in una danza macabra.

da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Dicembre 07, 2009, 04:01:40 pm »

4/12/2009


Integrare con regole flessibili
   
GIOVANNA ZINCONE

Il rapporto privilegiato Bossi Berlusconi è una premessa e una conseguenza delle tensioni con Fini.
Se, come è probabile, lo scontro recente accentuerà il patto tra i due leader, a farne le spese potrebbero essere gli immigrati.
Perché i loro diritti fanno parte di un facile baratto politico. Non se ne torneranno a casa loro, come Bossi ha auspicato di recente.

Questo significherebbe il collasso della nostra società e della nostra economia. E troppi produttori e famiglie che votano Lega lo sanno.
Il punto è se sarà ancora politicamente possibile adottare provvedimenti che facilitino la loro integrazione. Dopo l’ondata di misure repressive, si tratterebbe di varare qualche misura di inclusione per immigrati operosi e rispettosi della legge, per i loro figli. Il recente sondaggio del Transatlantic Trends sull’immigrazione conferma che gli italiani giudicano gli immigrati troppi e in prevalenza irregolari. Non conoscono i dati reali ed hanno paura. Ma nonostante i timori e le campagne contro sono ancora favorevoli a concedere diritti agli immigrati regolari. Su questa linea di integrazione dei regolari, nel Pdl sono posizionati non solo i finiani, ma anche una parte di ex socialisti e di cattolici. C’è per loro ovviamente ben di più di una sponda nell’opposizione. Ma il carattere trasversale di alcune proposte pro immigrati è stato considerato, all’interno della maggioranza, come un regalo al nemico.

Il fatto è che riformare la cittadinanza o estendere il diritto al voto locale significa riformare le regole del gioco democratico. Si stabilisce, infatti, chi ha diritto a partecipare al gioco: esattamente come quando si decise per il voto alle donne o ai diciottenni. Di fatto, tutte le riforme della cittadinanza dal 1992 ad oggi sono state approvate all’unanimità e nessuno ha mai gridato al tradimento. La sola eccezione ha riguardato l’innalzamento degli anni di matrimonio con un cittadino italiano necessari per naturalizzarsi, norma inserita nel pacchetto sicurezza. Peraltro questa misura era già inclusa nel progetto di riforma della cittadinanza dell’ultimo governo di centro-sinistra, anche se ovviamente non da sola. Insomma, un ampio consenso, come è sempre successo in passato, si può trovare, purché i diritti degli immigrati non siano oggetto di baratto tra Lega e presidente del Consiglio. Se si evita, come è auspicabile, questa trappola, si possono trovare soluzioni sensate. Ma lo si può fare solo partendo da un’onesta conoscenza dei fatti.

In Italia non è solo l’opinione pubblica ad avere opinioni infondate. Il voto locale agli immigrati può non piacere, ma non lo si può considerare - come ha fatto di recente il senatore Bossi - un’assurdità. Perché, nelle elezioni amministrative, in Italia gli immigrati comunitari (quindi ad esempio i romeni) già votano e i non comunitari votano in un sacco di civilissimi Stati europei: ad esempio in tutti i Paesi scandinavi e in Olanda. Si aggiunga che secondo il sondaggio di Transatlantic Trends il 53% degli italiani si dichiara tuttora favorevole al voto locale. Neppure si può considerare un’ignominia la proposta di abbassare i tempi di attesa per fare domanda di naturalizzazione a cinque anni di residenza regolare, perché è il termine più frequentemente adottato in Europa. Si tratta di cose sapute e risapute, da chi le vuole sapere, ovviamente. D’altra parte, in molti Paesi europei si osserva una crescente selezione dei potenziali cittadini e pure dei possibili residenti attraverso l’adozione di indicatori di integrazione.

Il timore di includere individui pericolosi per l’ordine pubblico, suscitato dagli attentati in Inghilterra, in Olanda, in Spagna, la volontà di accogliere stranieri più facili da inserire socialmente hanno spinto molti Paesi a introdurre corsi più o meno obbligatori e test di integrazione e di lingua, giuramenti di accettazione di valori condivisi anche prima di arrivare alla tappa conclusiva della cittadinanza: per la concessione della carta di soggiorno, per il rinnovo e persino per il rilascio del permesso e pure per i ricongiungimenti familiari. Il test di lingua è previsto per la domanda di permesso di soggiorno di lungo periodo anche da noi: è stato inserito dalla legge sicurezza approvata nel luglio scorso. Questo tipo di provvedimenti ispirati da giustificate motivazioni politiche dovrebbe essere guidato da principi di ragionevolezza. Si tratta insomma di individuare criteri flessibili ed adattabili a circostanze diverse: la nonna cinese non imparerà mai un italiano da conferenziere, ma vogliamo obbligarla a rinnovare faticosamente per lei e per i nostri uffici il permesso dopo che sta già qui da svariati anni? E’ possibile trovare punti di incontro, purché i conti delle attuali tensioni interne alla maggioranza non vengano presentati agli immigrati.

da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Gennaio 12, 2010, 09:48:32 pm »

12/1/2010

Diventeranno tutti italiani
   
GIOVANNA ZINCONE

Le decisioni pubbliche italiane presentano falle ricorrenti, che prescindono dal colore politico dei proponenti.
La prima consiste in annunci di fondamentali novità che, una volta illustrate, finiscono per rivelarsi come suggerimenti a fare quel che in gran parte già si faceva.

È andata così con il tetto del 30% per i bambini stranieri. La nota ministeriale è partita prudentemente elastica, consentendo possibili eccezioni per chi sapesse l’italiano, quindi presumibilmente per i nati in Italia o, comunque, in caso di bisogno. Poi per gli studenti nati nel nostro Paese il tetto è stato del tutto scoperchiato. La necessità di non sovraccaricare le classi con allievi che hanno difficoltà di apprendimento è cosa che i direttori scolastici sanno benissimo, e applicano già questa regola di buon senso, per l’appunto quando possono: magari, per renderla davvero efficace, vorrebbero le risorse umane ed economiche che ora finalmente il ministro promette. La falla della misura-novità di solito si allarga: all’annuncio di grandi svolte, da una parte, si contrappongono denunce di lesione di fondamentali diritti umani, dall’altra, spostare un po’ di bambini in bus può essere invece una buona mossa contro la segregazione. In fondo il sistema del bus non fu usato negli Usa per fare uscire i bambini neri dalle scuole ghetto, con grandi opposizioni dei bianchi razzisti?

La seconda falla consiste nel non valutare i possibili effetti di provvedimenti diversi combinati tra loro. Con la Bossi-Fini il tempo di tolleranza della disoccupazione per mantenere il permesso di soggiorno era stato accorciato da un anno a 6 mesi, poi la recente Legge Maroni sulla sicurezza ha introdotto il reato di immigrazione clandestina che, si noti, non vale solo per gli ingressi clandestini, ma anche per chi si ferma con un permesso scaduto. Dopo 6 mesi di disoccupazione, dunque, il permesso di soggiorno non è più rinnovabile e il lavoratore può essere incriminato, obbligato a pagare una salata multa, espulso. Siamo in un periodo di crisi e i lavoratori stranieri stanno pagando un prezzo particolarmente alto: tra il III trimestre del 2008 e quello del 2009 la disoccupazione tra gli italiani è aumentata dell’1,2%, tra gli stranieri del 3,8.%. Per evitare di perdere, insieme al lavoro, anche il permesso, i lavoratori immigrati non-comunitari accettano qualunque condizione. Non tutti i braccianti di Rosarno erano clandestini, ma anche i regolari stavano perdendo quella miserevole ombra di occupazione, e con essa la condizione di regolarità. Le aggressioni di cui sono stati vittime hanno solo acceso la miccia di una polveriera sociale che ha scatenato la rivolta. Se le rivoluzioni - come proclamava il compagno Mao - non sono pranzi di gala, neppure le rivolte sono picnic sull’erba. Non c’era bisogno di Rosarno per ricordarcelo. Sono eventi spaventosi, violenti che dobbiamo in tutti i modi cercare di prevenire. Ma certo non aiuta a farlo un’altra falla ricorrente nelle decisioni pubbliche nostrane: il ricorso a succedanei-patacca. Oggi c’è chi propone di affossare o svuotare la riforma della cittadinanza come risposta alla rivolta di Rosarno. Boicottare la riforma è certamente utile per speculare sui sentimenti anti-immigrati e agguantare voti, ma non si capisce in che modo possa risolvere problemi di ordine pubblico. Chi vuole ottenere la cittadinanza italiana deve giurare fedeltà alla Repubblica, impegnarsi a rispettare la nostra Costituzione e le nostre leggi. Se è stato regolare per dieci anni come prevede la legge attuale, o cinque come vorrebbe la riforma Granata-Sarubbi, significa che per tutto quel tempo ha regolarmente lavorato, guadagnato, pagato le tasse e non ha commesso reati. Il progetto Granata-Sarubbi, in cambio dello sconto sul tempo di soggiorno, chiede poi agli aspiranti cittadini di sapere l’italiano: che è un altro indicatore di avvenuta integrazione. Qualcuno pensa che 5 anni siano pochi e che la conoscenza della lingua non basta, altri preferiscono comunque un processo graduale.

Discutiamone, ma smettiamo - per favore - di contrapporre la cittadinanza come premio di un percorso di integrazione in contrapposizione alla cittadinanza come strumento di integrazione. È ovvio che debba essere tutte e due le cose. Facilitare la cittadinanza, o dare il voto locale anche ai non-comunitari, non esclude rischi di rivolta, ma contribuisce almeno a diminuirli. Un grande liberale e studioso di fenomeni sociali, Ralf Dahrendorf, sosteneva che i conflitti sociali si tengono sotto controllo se lo scontento trova a sua disposizione canali di espressione legittimi. Lavoratori che non possono far sentire le proprie ragioni attraverso strumenti di rappresentanza politica o sindacale ricorrono allo sciopero; se neanche lo sciopero funziona, se sono repressi, sfruttati, possono passare a comportamenti pericolosi, violenti. La rappresentanza ovviamente non basta a prevenire la violenza: in assenza di condizioni di vita accettabili e di rispetto umano, chi non riesce a ottenere qualcosa con le buone, può sempre cercare di farlo con le cattive. Ma essere inclusi come cittadini abbassa il pericolo di essere sfruttati come lavoratori, consente di esprimersi politicamente con gli strumenti della democrazia. Oggi un’apertura ai diritti per gli immigrati costituirebbe soprattutto un segnale di rispetto da parte della classe politica nei confronti di tutti coloro che, comunque, prima o poi, cittadini italiani lo diventeranno. Ma la principale falla delle nostre decisioni pubbliche è, in generale, una certa miopia.

da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 08, 2010, 10:07:02 am »

8/2/2010

I super-doveri degli immigrati
   
GIOVANNA ZINCONE

La cittadinanza dell’Ue e quelle dei singoli Paesi membri seguono due logiche antitetiche. Il permesso di soggiorno a punti rischia di imitare quella sbagliata.

Vediamo perché. L’Ue, in quanto figlia non troppo degenere della Comunità economica, adotta una cittadinanza che segue la logica della libera circolazione: incentiva le persone a muoversi dove ci sono più opportunità. La cittadinanza nazionale segue la tradizionale logica dello stato-nazione: pretende comunanza di cultura e di lingua, incentiva le persone a radicarsi sul territorio. Per diventare cittadino europeo basta avere la nazionalità di uno dei Paesi membri, poi si va e si lavora dove si vuole. Non si chiede ai cittadini comunitari di conoscere la lingua, la cultura, le istituzioni dei paesi dell’Unione in cui emigrano. Al contrario, le singole cittadinanze nazionali chiedono assimilazione, vogliono e inducono stabilità. Per naturalizzarsi occorre essere lungo-residenti, oppure essere nati sul territorio, o avervi studiato per un po’ di anni. L’europeo è invitato ad andare negli altri Paesi dell’Unione senza vincoli, mentre il non comunitario che vuole diventare cittadino del singolo Paese deve restare fermo e assimilarsi.

La differenza è comprensibile. Per concedere un diritto che segna l’appartenenza ad una comunità civile lo Stato chiede garanzie. Non vuole dare un titolo importante a chi stia lì quasi per caso, deve capire se chi vuole entrare nel club fa sul serio, anche se alcuni segnali di questo «fare sul serio» variano. Oggi nell’Unione il requisito della residenza va dal minimo di 3 anni in Belgio al massimo di 12 in Grecia (ma quel governo intende ridurlo a 5 anni). Per gli altri segnali di integrazione stiamo assistendo, invece, ad un trend convergente. In quasi tutti i Paesi europei una certa conoscenza della lingua è sempre stata valutata quando si trattava di concedere la naturalizzazione, ma per lo più non si chiedevano prove formali. Da quando, nel 1999, la Germania ha inserito per legge la conoscenza del tedesco, molti Paesi hanno seguito il suo esempio. Poi sono arrivati i test di integrazione, introdotti in Gran Bretagna nel 2002. Anche i test hanno attecchito alla grande, e servono non solo a valutare la competenza linguistica, ma anche la conoscenza della cultura, della storia, della vita civile del Paese di immigrazione. Per fornire le conoscenze ritenute necessarie si sono allestiti corsi di integrazione: ad aprire la pista in questo caso è stata l’Olanda, e di lì i corsi si sono diffusi a macchia d’olio.

L’asticella da superare per diventare cittadino si è talvolta abbassata sui tempi, ma si è alzata per le prove di integrazione. Alcuni esperti considerano queste richieste eccessive e inutili: se un individuo se la cava a vivere e a lavorare senza conoscere bene una lingua, se la può cavare altrettanto bene a votare, una volta che sia stato promosso a cittadino. D’altronde i regimi democratici, con il suffragio universale, hanno concesso la cittadinanza politica anche agli analfabeti. Quanto al caso italiano, fin troppi commentatori hanno già osservato che si pretende dai nuovi cittadini una cultura pubblica che non dimostrano di avere neppure molti parlamentari. Ma questi argomenti funzionano solo se vogliamo continuare ad accontentarci di una democrazia scadente. Altrimenti, proprio dai requisiti che imponiamo agli immigrati perché vogliamo nuovi cittadini competenti, dovremmo prendere spunto per chiedere altrettanto ai nostri concittadini per diritto ereditario. Anziché abbassare l’asticella per gli stranieri, dovremmo saltare tutti un po’ più in alto. Questo implica prendere molto più sul serio l’educazione civica, proporre palinsesti radiotelevisivi appetibili ed eticamente intensi. L’esigente approccio nei confronti dei nuovi cittadini potrebbe offrire uno spunto per chiedere maggiore competenza ai candidati alle elezioni di ogni ordine e grado. Si tratterebbe sia di ristabilire un cursus honorum, una carriera basata sull’apprendimento graduale, sia di restituire ai partiti quella funzione di educatori civili che svolgevano utilmente in passato.

Ma se la severità nelle richieste che facciamo ai nuovi cittadini può essere utile per costruire una democrazia più adulta, non si capisce invece a cosa servano pretese di assimilazione rivolte a chi è qui solo per lavorare. È sensato imporre una buona conoscenza della cultura storica e civica, dei meccanismi del welfare del nostro Paese anche a chi non intende radicarsi e non vuole diventare cittadino? Lo si è già fatto con il pacchetto sicurezza per la concessione della carta di soggiorno, che si può ottenere dopo 5 anni di residenza regolare, adesso pare che lingua e cultura diventino una condizione per restare a lavorare in Italia dopo un tempo di residenza anche più breve. Ma se uno straniero investe tanto per imparare lingua e cultura del luogo, sarà poi riluttante a spostarsi altrove, a tornare in patria. Il suo progetto iniziale, magari a breve termine, si trasformerà in un progetto stanziale a lungo termine. Se si può accettare la sfasatura tra una cittadinanza europea mobile, concepita in una logica economica, e una cittadinanza nazionale stanziale, concepita in una logica da stato-nazione, non si capisce perché calare la cappa della logica statuale anche ai permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Perché imporre ai lavoratori stranieri l’obbligo di assimilarsi? Non ci basta che rispettino le nostre leggi e i valori portanti delle nostre democrazie? Meraviglia che forze politiche convinte dei benefici di un’immigrazione circolare, fluida, si adoperino per spingere gli immigrati a diventare stanziali.

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