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Autore Discussione: ARUNDHATI ROY. "Il silenzio di Barack una ferita per il Kashmir"  (Letto 1838 volte)
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« inserito:: Novembre 10, 2010, 03:22:30 pm »

L'INTERVENTO

"Il silenzio di Barack una ferita per il Kashmir"

La scrittrice paladina dell'autodeterminazione del territorio conteso.

Una generazione intera è cresciuta in guerra: non ha più né pazienza né paura

di ARUNDHATI ROY


Prima di vincere le elezioni, nel 2008, il presidente Obama disse che risolvere la disputa sulla lotta per l'autodeterminazione in Kashmir (che ha innescato tre guerre fra India e Pakistan dal 1947 a oggi) sarebbe stato uno dei suoi "compiti fondamentali". Da allora non si è più pronunciato al riguardo. Ma lunedì in India, con immenso piacere dei suoi ospiti, ha detto che l'America non si intrometterà nel Kashmir, annunciando l'appoggio all'India per un seggio nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ha parlato di terrorismo, ma non un parola sulla violazione dei diritti umani nel Kashmir. Però, né il silenzio di Obama né un suo intervento indurranno il popolo del Kashmir a mollare le pietre che serrano in pugno.

Ero in quelle terre dieci giorni fa, in quella meravigliosa valle al confine con il Pakistan, patria di tre grandi civiltà: islamica, induista, buddista. È una valle di miti e di storia. Oggi il Kashmir, dove convergono le influenze dell'Islam militante pachistano e afgano, gli interessi regionali dell'America e il nazionalismo indiano (sempre più aggressivo e "induizzato") è considerato una polveriera nucleare. Pattugliato da oltre mezzo milione di soldati, è diventato la zona più militarizzata al mondo.

In quei giorni, ho ascoltato tante storie sulla rivolta di quest'anno. Un ragazzino mi ha raccontato che quando tre suoi amici sono stati arrestati per avere lanciato pietre, la polizia ha strappato loro le unghie: tutte le unghie, di entrambi le mani.

Da tre anni di fila, i kashmiri manifestano in piazza contro quel che considerano una "occupazione violenta da parte dell'India". Ma la ribellione contro il governo indiano, iniziata venti anni fa con il sostegno del Pakistan, perde terreno. Stando alle stime dell'Esercito indiano, oggi nella Valle del Kashmir restano meno di 500 militanti. La guerra ha fatto 70mila morti e decine di migliaia di persone hanno subito danni permanenti per le torture. Molte altre migliaia sono "scomparse". Oltre 200 mila kashmiri di origine indù sono fuggiti. Eppure il numero di soldati indiani non è diminuito.

Il dominio militare indiano, però, non va confuso con una vittoria politica. Una generazione intera di giovani è cresciuta in un garbuglio di checkpoint, bunker, campi militari, interrogatori, catture, assassinii e finte elezioni. Non ha più né pazienza né paura. Armati di un coraggio quasi folle, i giovani hanno affrontato i soldati armati e sono tornati in piazza. Il governo indiano ribatte con pallottole, coprifuoco e censura. Solo negli ultimi mesi sono state uccise 111 persone, per lo più adolescenti; a questi si aggiungono oltre tremila feriti e 1000 arresti.
Ma i giovani continuano a uscire, e a tirare pietre. Non sembra abbiano leader, né partiti politici. Rappresentano sé stessi. Di colpo, il secondo esercito più grande al mondo non sa bene cosa fare. Molti indiani s'accorgono d'avere sorbito bugie per decenni. Il consenso sul Kashmir, un tempo solido, ora sembra vacillare.

Giorni fa, a Delhi, ho detto che il Kashmir è un territorio "conteso", e, a differenza di quanto sostenga il governo, non può essere definito parte "integrante" dell'India. Politici e giornalisti hanno chiesto il mio arresto per sedizione. Mi hanno definita "traditrice", "terrorista". Ma in viaggio nel Kashmir, non mi sono affatto pentita delle mie parole. Soprattutto, quando ho ascoltato da Shakeel la storia di sua moglie Nilofar, 22 anni, e la sorella Asiya, 17 anni, stuprate e uccise. O i racconti, terribili, che non compaiono mai nei resoconti sui diritti umani, della sorte delle donne nei villaggi sperduti dove ci sono più soldati che civili.

Mentre andavo via, il padre di Nilofar, la giovane sposa uccisa, col suo soprabito liso mi ha rincorso per darmi una cesta di mele e due uova sode. Me le ha appoggiate sul palmo delle mani. Le uova erano ancora calde. "Che Dio la benedica e la protegga", mi ha salutato. Di ritorno a Delhi, non sono stata arrestata. Le autorità delegano la punizione alla folla. La mia casa è stata circondata da donne del BJP (la destra nazionalista indù) che chiedevano il mio arresto. Gli assassini del Bajrang Dal, i militanti indu che nel 2002 lanciarono gli attacchi contro i musulmani a Gujarat finiti con migliaia di morti, annunciano che mi "sistemeranno" con ogni mezzo.

I nazionalisti indiani e il governo credono di poter consolidare così la loro immagine dell'India risorgente. Non capiscono quale sia la forza eversiva delle uova sode, ancora calde.
(© The New York Times - la Repubblica; traduzione di Fabio Galimberti)

(10 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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