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Autore Discussione: Ok a Vicenza e... ci troviamo in guerra assieme agli USA  (Letto 2743 volte)
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« inserito:: Agosto 03, 2007, 10:29:57 pm »

Spareremo solo con il vostro ok
di Roberto Di Caro

Da Vicenza non partirà nessun attacco senza il via libera italiano. Parla il comandante Usa. E promette: nella nuova base non ci saranno missili, né tank.

Colloquio con Frank G. Helmick


Ma se, poniamo, gli Stati Uniti decidono un attacco, totale o mirato, contro l'Iran, e il governo italiano è contrario, non foss'altro per la tela di ragno dei nostri business in quel Paese, lei che cosa ordina alla sua 173 Airborne Brigade? La fa partire lo stesso, violando i trattati internazionali? Oppure disobbedisce al suo presidente e alla catena di comando dell'U. S. Army e tiene la Brigata ferma a Vicenza? Frank G. Helmick, 55 anni, texano di Houston, comandante della Usasetaf, United States Army Southern European Task Force, di base alla Caserma Ederle di Vicenza, non è un politico, ma un soldato: 11 foglie di quercia appuntate sul petto sommando le varie decorazioni, ultimo incarico in zona di guerra dal luglio 2003 al febbraio 2004 in Iraq come assistente comandante della 101 Divisione di Fanteria di stanza a Mosul, cioè di quel generale David Petraeus nelle cui mani stanno oggi le sorti dell'avventura militare americana nel 'paese dei due fiumi'.

Ma del politico deve aver affinato le doti e l'affabilità nei tre anni in cui, come assistente militare, è stato il braccio destro prima di Paul Wolfowitz, vicesegretario alla Difesa fino al giugno 2005, quando divenne presidente della Banca mondiale, e poi del suo successore Gordon England: fino al ritorno a Vicenza nel luglio 2006. Ritorno, perché nella città del Palladio Helmick era già stato destinato a inizio carriera, dall'86 all'89: prima di turbinare da un incarico all'altro, incluso il comando dell'Intelligence antiterrorismo dell'U. S. Army a Washington.

Generale, la questione è: cosa resterà della sovranità italiana quando nel 2011 concentrerete a Vicenza l'intera 173, cioè il pugno di combattimento dell'amministrazione statunitense verso l'area più calda del pianeta, il Medio Oriente?
"Guardi che noi non godiamo, né godremo, di nessun tipo di extraterritorialità. Il comandante della caserma Ederle è italiano, il colonnello Salvatore Bordonaro".

Bene, ipotizziamo allora che la Casa bianca decida di impiegare la 173 in una qualsivoglia operazione militare contro l'Iran e il governo italiano sia contrario. Lei è un soldato, deve obbedire ai suoi ordini. O no?
"Mi è assai difficile immaginare che una situazione del genere possa determinarsi. Noi pianifichiamo l'impiego delle nostre unità sulla base di decisioni politiche prese da chi ha il potere di farlo.".

Appunto.
"E gli accordi sull'uso della base sono chiarissimi, illustrati con grande precisione in parlamento dal vostro ministro della Difesa Arturo Parisi. Non abbiamo mai violato quegli accordi, né ci è consentito violarli".

Chi ha l'autorità per bloccare una qualunque vostra attività militare?
"Se il comandante italiano della Ederle dice di no, non mi è permesso muovere neppure un pullmino con 12 soldati senza la scorta dei carabinieri".

Cosa succederebbe in tal caso?
"La questione finirebbe immediatamente a Roma, all'esame della Jmc, la Commissione mista militare Italia-Stati Uniti. Capisce che non posso neanche lontanamente immaginare di spostare una colonna di 3 mila persone contro il parere del vostro governo".

Significa che un veto italiano può inceppare l'intera politica militare degli Stati Uniti sul Medio Oriente?
"Ci sono altre opzioni: la 173 non è la nostra sola Airborne Brigade".

Ma sarà la principale forza d'intervento americana dislocata in Europa.
"Comunque non l'unica: in Germania, a Grafenwoehr, resterà di stanza la Stryker Brigade Combat Team. E in ogni caso i nostri soldati possono muovere dal Kentucky come da qualunque altra nostra base".

Lei e il suo staff vi recate spesso in Romania, da qualche mese. In cerca di nuove basi? Di possibili dislocazioni alternative a Vicenza?
"Niente di tutto questo. Un centinaio di effettivi in servizio a Vicenza svolgono ora compiti di supporto per le prossime esercitazioni congiunte della nostra artiglieria pesante di stanza a Baumholder in Germania con forze romene e bulgare. A ottobre vi prenderanno parte circa mille soldati americani. In seguito è previsto che in diversi siti in Romania e Bulgaria si svolgano cicli di addestramento di sei mesi, a rotazione, su scala di un'intera brigata".

della 173 in Germania li mostra un filmato in rete (GUARDA IL VIDEO QUI A SINISTRA) sul sito dell'U. S. Army: cannoni, tanks, esplosioni, un crepitare assordante di armi leggere e pesanti. Dove svolgerete queste esercitazioni, quando l'intera 173 sarà unificata a Vicenza?
"Esattamente dove le svolgiamo ora: a Grafenwoehr con armi e munizioni vere, a Hohenfels le simulazioni con armi al laser. Non ci sono in Italia aree abbastanza grandi per addestramenti sulla scala di un battaglione (circa 750 persone) e neppure di una compagnia (sulle 140 persone)".

Unificate a Vicenza l'intera 173 per poi mandarli ogni volta a sparare fino in Germania?
"Su strada sono otto ore di trasporto, più o meno come per arrivare a Monte Romano nel Lazio, dove addestriamo al fuoco i nostri parà a livello di plotone, o a Santa Severa, per i cecchini. A tre ore da Vicenza c'è l'area di Foce del Reno, che usiamo per esercitazioni con armi pesanti; a due il poligono di Cao Malnisio, adiacente alla base di Aviano, dove si allenano con le gun-machines, le mitragliatrici, assieme all'esercito italiano".

Prevedete in Italia di utilizzare poligoni più grandi degli attuali?
"No. Stiamo solo investendo in migliorie su Cao Malnisio per utilizzarlo più di ora. Non abbiamo segreti".

Ammetterà che finora la percezione è stata ben diversa.
"Ci eravamo come chiusi a riccio dopo l'11 settembre 2001, per reazione. Ma da quando sono arrivato a Vicenza, nel luglio 2006, il giorno dopo la vittoria dell'Italia ai Mondiali di calcio, ho mirato all'assoluta trasparenza. I nostri vivono con le famiglie a Vicenza, Caldogno, Torri di Quartesolo, siamo parte di questa comunità. Non vogliamo fare niente di nascosto".

Allora chiariamo alcuni punti. Tutti ripetono che non avete nessuna mira sull'altra metà del Dal Molin, che l'aeroporto rimarrà di esclusivo uso civile.
"Non ci serve la pista. È più conveniente muovere le truppe in autobus ad Aviano".

Neanche con i nuovi aerei da trasporto C-27 che gli Stati Uniti hanno comprato dall'Italia?
"No. L'unico nostro aereo che decolla dal Dal Molin è il C-12 a sei posti che uso io per recarmi in Germania o in Romania".

Scusi, ma il quartier generale dell'unità chiave della strategia americana in Medio Oriente a 135 metri da una pista dove può atterrare qualunque sedicente businessman arabo con un executive imbottito di dinamite non sembra proprio il massimo della sicurezza.
"Non è affatto una situazione inusuale. È così in Germania, e a Napoli Capodichino, dove ha sede un generale a quattro stelle".

E quando nel 2011, se i lavori procedono come previsto, sarà operativa la base Dal Molin?
"Non ci sarà nulla di diverso da quanto c'è oggi alla Caserma Ederle. Semmai qualcosa in meno, intendo scuole e supermercati, visto che il Dal Molin ospiterà solo militari single, non famiglie".

Guardando il progetto nelle sue successive versioni la sola area officina occupa quasi un terzo dello spazio. Che cosa ci dovete aggiustare?
"Automezzi e jeep. Niente carri armati, se è questo che intende. E niente missili, niente aerei spia, niente sotterranei segreti".

Le dure contestazioni in città e nel paese possono pregiudicare il progetto?
"Non vedo come. Due mesi per le proposte dei partecipanti alla gara d'appalto, ed entro dicembre chiuderemo la selezione. Contiamo di cominciare i lavori a inizio 2008".

La 173 è da maggio in Afghanistan.
"Sì, l'intera brigata, circa 3.500 uomini. Il quartier generale è a Jalalabad, le operazioni hanno luogo nelle province orientali del Nurestan, Nangahar, Kunar, Laghman. Sotto il comando internazionale Isaf, non nell'ambito di Enduring Freedom".

Ci sono stati casi di violazione dei diritti umani, denunciati da un embedded australiano.
"Un caso, nel 2005. I responsabili sono stati indagati e puniti. Non siamo perfetti, non siamo angeli: ma non metterei a confronto la disciplina dei miei soldati con quella di nessun altro esercito al mondo".

Fino al mese di gennaio, però, la 173 era destinata all'Iraq. Un cambio di destinazione per non mettere in imbarazzo il governo Prodi nei mesi in cui doveva pronunciarsi sul Dal Molin?

"No, non c'entra nulla. La scelta di inviare in Afghanistan due brigate invece dell'unica prevista ha coinciso con la decisione di prolungare da 12 a 15 mesi la permanenza in missione di tutte le nostre unità".

Ha forse influito la disastrosa situazione irachena e il cambio di strategia attuato con l'arrivo del generale Petraeus?
"Non voglio fare speculazioni, manco dall'Iraq da tre anni, ormai.".

Ma da allora ha seguito l'evoluzione della guerra nel cuore dei centri di decisione, come braccio destro di Wolfowitz e poi di England. Quali errori ritiene siano stati compiuti in Iraq?
"Io posso parlare dei miei errori. Arrivammo in Iraq con una limitatissima conoscenza della cultura del posto, dell'ambiente in cui operavamo. Non ci sembrava così importante. A Mosul, come assistente comandante della 101, stipendiai un certo numero di iracheni perché dipingessero strisce divisorie a tre corsie sulla più grande arteria della città: ma nessuna auto viaggiò mai dentro quelle strisce. Pensavo che Mosul fosse (o io dovessi farla diventare) come Houston nel Texas, mia città natale. Mi sbagliavo".

L'applicazione di schemi americani sì-no, bianco-nero, equivale a non avere la più pallida idea della forte complessità della società irachena.
"Fu un grave errore. Oggi, prima di inviare i soldati della 173 in Afghanistan, li abbiamo addestrati sulla cultura del posto in un corso di tre settimane in Germania: docenti, 50 membri dell'esercito afghano più 600 esperti di origine mediorientale".

E in Iraq cos'è cambiato con la nuova strategia del generale Petraeus, di cui lei è buon amico?
"Se c'è un uomo che ha capito la cultura irachena, e le difficoltà che una nostra incomprensione di essa ha provocato, è lui".

Ha rivoluzionato la strategia o solo introdotto aggiustamenti tattici?
"Le posso dire è la mia idea. Credo dobbiamo operare non più attraverso grandi basi chiuse in sé e lontane dalle città, ma con piccole basi in numero maggiore, a contatto diretto e in aiuto agli abitanti, agli iracheni".

Forse è troppo tardi.
"No, l'Iraq non è una situazione senza speranza. Ma non possiamo immaginare una vittoria meramente militare".

A metà settembre arriva, per il generale Petraeus, la resa dei conti: dovrà presentare al Congresso il rapporto sui risultati conseguiti con la strategia da lui adottata. Cosa pensa che dirà?
"La verità. Accanto alla relazione militare del generale ci sarà quella politica dell'ambasciatore a Baghdad. A conferma che la soluzione non può essere solo militare".

(02 agosto 2007)
da espresso.repubblica.it
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