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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 120265 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Dicembre 19, 2012, 11:41:04 pm »

TECNICHE DI UNA CANDIDATURA

Un sentiero assai stretto

Viene dato da molti per probabile, anche se il principale interessato continua a non pronunciarsi, che alle prossime elezioni intorno al nome di Mario Monti e ad un programma da lui delineato si costituisca una confederazione di varie liste, le quali saranno diciamo così autonome ma avranno in lui il proprio punto di riferimento, insomma il proprio capo politico. Un capo però alquanto sui generis. Monti, infatti, sarà - potrà essere - solo un capo simbolico. Un capo per procura. E questo perché, essendo già senatore a vita, gli sarà consentito, sì, di far comparire il proprio nome sulla scheda elettorale delle varie liste partecipanti alla coalizione, ma non potrà mettere in gioco la propria persona nella competizione elettorale né per la Camera né per il Senato. Se dunque per ipotesi ottenesse la maggioranza parlamentare e ritornasse alla guida del Paese, si verificherebbe la singolare circostanza per cui egli sarebbe l'unico capo di governo dell'Unione europea non solo privo di un suo partito, ma neppure uscito direttamente consacrato dal risultato delle urne.

È difficile non vedere in tutto ciò un ennesimo scostamento rispetto al modello disegnato dalla nostra Carta costituzionale, del resto ormai già divenuta per merito del servizio pubblico (!) televisivo l'oggetto delle divagazioni di un comico - anche questo, credo, un caso unico in Europa. Si tratta peraltro di uno scostamento destinato a sua volta a produrre tutta una serie ulteriore di anomalie e di ambiguità.

È probabile, ad esempio, che la scelta delle candidature nelle varie liste - in queste elezioni una scelta carica di significato politico come poche altre volte - non possa avvenire, diciamo così, che per interposta persona, attraverso intermediari incaricati di riferire e attuare le indicazioni del premier in pectore . Un sistema tutt'altro che trasparente ed esposto, come si capisce, a mille equivoci, a fraintendimenti e pressioni di ogni tipo. Per non parlare della campagna elettorale. Sarà possibile a Monti quel dialogo continuo con i cittadini che ne costituisce un momento essenziale? E in quale veste egli comparirà nei dibattiti televisivi con gli altri capipartito candidati a un posto di parlamentare, lui che non è candidato a nulla ma in realtà lo è alla massima carica politica (carica che peraltro nel nostro ordinamento non può essere conferita dal voto popolare ma solo da una maggioranza parlamentare su designazione del capo dello Stato)?

E se poi, mettiamo, la coalizione guidata dall'attuale premier dovesse risultare sconfitta alle elezioni, e domani si formasse un governo Bersani di centrosinistra in tutto e per tutto autosufficiente, saremo forse chiamati ad assistere allo spettacolo - diciamo pure singolarissimo - di un'opposizione parlamentare rappresentata tra gli altri da un senatore a vita, cioè per l'appunto da Monti? Con un senatore a vita che ogni volta che può, come è giusto che faccia un leader dell'opposizione, attacca pubblicamente il presidente del Consiglio? Oppure - sempre nel caso di una mancata vittoria - Monti abbandonerà il campo per chiudersi in un austero riserbo istituzionale? Ma che cosa dovranno pensare allora coloro che gli hanno dato il voto? Che hanno votato per un fantasma?

Sono queste alcune delle perplessità che suscita la discesa sul terreno elettorale del presidente del Consiglio. La cui misura di stile, di prudenza e di onestà, che gli è congeniale appare destinata ad essere sottoposta di sicuro - se mai egli decidesse di partecipare indirettamente alle elezioni - ad una prova non indifferente.

Ernesto Galli Della Loggia

19 dicembre 2012 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_19/un-sentiero-assai-stretto-gallidellaloggia_fa7f5910-49a3-11e2-8f39-57d26b118e07.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Gennaio 06, 2013, 06:35:26 pm »

PAR CONDICIO SENZA MINUETTI

Problemi concreti, domande scomode

Nella prossima settimana inizia per la radio e la televisione la par condicio. Inizia cioè quel periodo di stretta regolamentazione circa i tempi e i modi della presenza dei politici previsto dalla legge per le campagne elettorali. I candidati saranno ospiti delle tribune politiche della radio e della tv per dibattere tra di loro, ma soprattutto per rispondere alle domande dei giornalisti. Così come del resto stanno facendo con particolare intensità già da qualche settimana con decine di interviste sui giornali (e, ahimè, anche via twitter. Perfino il presidente Monti, il quale a mio modesto avviso avrebbe tutto da guadagnare invece se ne facesse a meno).

L’occasione è buona, allora, per osservare che nel degrado così evidente che ha colpito la politica italiana negli ultimi vent’anni qualche colpa, forse, ce l’hanno pure l’informazione e chi ci lavora. Una soprattutto: quella di aver troppo tollerato la vacuità della chiacchiera politica. Cioè di aver troppe volte permesso ai politici di «parlare d’altro», di non dire nulla, di sottrarsi a ogni confronto con i fatti ricorrendo alle parole. Di aver troppe volte concesso ai propri interlocutori di indulgere al vizio, molto italiano, di intendere la politica non come cose da fare ma come discorso di puro posizionamento: «Se lei, egregio onorevole A, si sposta troppo a destra non teme che allora B occupi più spazio al centro?»; «Ma se il PP vuole perseguire una linea di destra come fa a tenere agganciato il DD che invece vuole da destra spostarsi al centro?», e così via interrogando e interrogandosi su tutti gli arabeschi geometrico-politici immaginabili.

Ora, non intendo dare consigli o fare lezioni a nessuno ma esprimere solo un augurio, che forse è condiviso da qualche lettore. Mi piacerebbe che nei prossimi quarantacinque giorni si prendesse l’abitudine di sottoporre ai candidati al Parlamento questioni e problemi veri. Non solo, ma—cosa alla fin fine non così inaudita —anche pretendere da loro risposte altrettanto vere.
Mi prendo la briga di fare degli esempi.

a) Che cosa non ha funzionato nell’adozione dell’euro? E che cosa dovrà ottenere l’Italia dagli altri partner della moneta unica?

b) La priorità è la crescita. Per aiutare la ripresa economica può indicare una misura a favore delle imprese e una a favore del lavoro?

c) Il welfare in Italia ha bisogno di modifiche: le politiche di austerity e la riforma delle pensioni hanno dato i primi frutti, ma che cosa andrebbe fatto ora per le fasce più deboli? Come intervenire per sostenere l’occupazione dei giovani e delle donne?

d) La pressione fiscale raggiunge ormai il 45%. C’è qualche tassa-imposta che abolirebbe o ridurrebbe? E con quali proventi sostituirebbe il mancato introito? Ritiene possibile la riduzione delle imposte sui redditi da lavoro?

e) Quali misure concrete propone per ridurre la spesa pubblica? Può indicarne almeno una?

f) Dei moltissimi contributi a fondo perduto che lo Stato eroga alle più varie attività produttive pensa che ne andrebbe abolito qualcuno?

g) La semplificazione della macchina burocratica non è andata mai al di là degli annunci. Quale sarà il primo provvedimento in questa direzione?

h) Una delle fragilità del sistema Italia è il calo dei consumi. L’aumento dell’Iva potrà essere cancellato? Come incentivare gli acquisti?

i) Quale riforma per il sistema giudiziario: è favorevole alla separazione delle carriere tra giudice e pm e all’abolizione dell’appello in caso di assoluzione?

l) Che cosa propone per risolvere il problema delle carceri: è favorevole all’amnistia e alle depenalizzazioni o servono nuovi istituti penitenziari?

m) Che cosa pensa: della concessione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori non italiani; di matrimoni e adozioni per le persone omosessuali?

n) Vanno sostenute la diffusione di termovalorizzatori per lo smaltimento dei rifiuti e grandi opere come la Tav? Sono troppe domande, forse. Forse sì, diciamo comunque che a un italiano medio basterebbe ascoltare la risposta a solo tre o quattro di esse per farsi un’idea di chi ha davanti. E per scegliere mi pare che basti e avanzi.

Ernesto Galli della Loggia

6 gennaio 2013 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_06/dellaloggia-problemi-concreti_f6ad7ba2-57cf-11e2-9a31-1eca72c52858.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Gennaio 14, 2013, 05:54:27 pm »

I PARTITI E LA SOCIETÀ CIVILE

Gli equivoci dell'antipolitica

Tutto cominciò con «Mani Pulite». Poi Berlusconi terminò l'opera. Fu nel 1992-93, infatti, che in Italia, sull'onda della protesta contro la corruzione dei partiti, iniziò a diffondersi fino a dilagare un sentimento di disprezzo per la classe politica in quanto tale, un sentimento di avversione profonda per la politica come professione, direi per la dimensione stessa della politica e per la sua naturale (e aggiungo sacrosanta) pretesa di rappresentare la guida di una società. Giunto il momento di tirare le fila alle elezioni del '94, l'uomo di Arcore cavalcò l'onda da par suo. Mise insieme tutti gli ingredienti appena detti; li miscelò con il confuso antistatalismo ideologico prodotto dalla globalizzazione; e si presentò come il profeta di quella società civile che nel biennio precedente era stata osannata da tutti (in Italia qualunque idiozia, purché di moda, può contare quasi sempre su adesioni unanimi: il federalismo è un altro caso), osannata come la matrice per antonomasia del «nuovo» e dell'«onestà».

Da allora tutto il fronte antiberlusconiano non si stanca di denunciare l'«antipolitica» che rappresenterebbe l'anima del «populismo» del Cavaliere, di denunciarne ad ogni occasione i pericoli. Ma ciò nonostante proprio da allora, e forse non per caso, esso sembra spinto irresistibilmente a imitarlo. Da allora anche gli avversari di Berlusconi sono diventati sempre più inclini a vellicare i luoghi comuni dell'antipolitica. Come si vede bene oggi, tanto al centro che a sinistra, con l'inizio di questa campagna elettorale.
Dietro un omaggio di facciata (per carità, non sia mai detto «scendere», bensì «salire», in politica), in realtà l'intera piattaforma centrista di Monti si fa un vanto esplicito, ripetuto, insistito, della propria (reale?) estraneità alla politica: estraneità che neppure si sforza di nascondere la sua effettiva ostilità alla politica. Ne è espressione eloquente il bando comminato a chiunque abbia seduto alla Camera o al Senato per più di un certo numero di anni.

Monti e i suoi collaboratori hanno aderito all'idea - questa sì tipica di ogni populismo - che la politica non ha bisogno di persone esperte dei suoi meccanismi, persone pratiche del funzionamento delle amministrazioni, conoscitrici dei regolamenti delle assemblee parlamentari. No. Il nostro presidente del Consiglio - parlano per lui le procedure con cui ha voluto formare le liste dei candidati - sembra aver fatto proprio, invece, il pregiudizio volgare secondo cui il professionismo politico sarebbe il peggiore dei mali. Mentre un industriale, un economista, un professore universitario - loro sì, espressione della celebrata «società civile» - sarebbero invece per ciò stesso non solo onesti e disinteressati, e capaci di scelte giuste nonché di farle attuare presto e bene, ma anche in grado di soddisfare quella condizione non proprio tanto secondaria che è il consenso.

Pure per questa via, insomma, affiora nell'insieme del montismo, se così posso chiamarlo, quell'opzione irresistibilmente tecnocratica che, se ne sia consapevoli o no, rappresenta essa pure un esito classico dell'«antipolitica».
La quale antipolitica poi, a ben vedere, alla fine non è altro che politica con altri mezzi. Lo dimostra quanto sta accadendo sempre in queste settimane stavolta a sinistra, nel Pd. Qui pure tutta l'operazione della designazione «dal basso» delle candidature elettorali è stata condotta - in maniera perlopiù non detta, ma comunque chiarissima - facendo leva sull'ostilità verso il professionismo politico, verso chi occupava da troppo tempo la fatidica poltrona. Come appare ormai evidente, si è trattato di una versione per così dire dolce della renziana «rottamazione», guidata però dall'abile regia della segreteria Bersani. La quale, facendosi forte del mito della «società civile» e del «rinnovamento» - reso in questo caso più perentorio dal comandamento del «largo ai giovani e alle donne» - se ne è servito per fare fuori buona parte della vecchia rappresentanza, a lei estranea, e sostituirla con «giovani turchi» e dirigenti interni vicini al nuovo corso. E quindi per rafforzarsi.

Ma naturalmente poche cose sono così sicure come il fatto che, al centro come a sinistra, coloro che risulteranno eletti con il crisma salvifico della società civile, anche loro, alla fine, si adegueranno disciplinatamente ai vincoli e agli obblighi della politica. Anche loro obbediranno a quella regola suprema della politica che chi ha più forza, più potere, comanda: e poiché la gran parte dei cosiddetti esponenti della società civile di forza propria ne hanno poca o nulla, proprio essi - c'è da scommetterci - risulteranno in definitiva i più obbedienti.

Ernesto Galli Della Loggia

14 gennaio 2013 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_14/equivoci-antipolitica_c3595e66-5e13-11e2-8040-f298aabecc61.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Febbraio 06, 2013, 05:57:11 pm »

VERE ÉLITE E CIRCOLI DEL POTERE

Le relazioni miracolose

Che cosa indica nell'Italia di oggi la parola notabile? Non è forse solo un modo volutamente - ma immotivatamente - spregiativo di definire l'élite, cioè quel vertice che esiste e adempie a un ruolo decisivo in ogni società? Non credo. Notabili ed élite sono cose diverse e proprio l'Italia ne è una prova: tra l'altro - come dirò - con l'uso tanto diffuso quanto ambiguo dell'espressione «società civile».

L'élite propriamente detta è composta di figure (spesso con un adeguato sfondo familiare) dotate di competenza in ruoli specifici nel campo delle attività private o dell'amministrazione, nonché di riconosciuto valore, integrità e successo.

Il notabile italiano, invece, è un'altra cosa. È innanzitutto (ma in misura minore) chi, a partire da una base di eccellenza personale, arriva alla politica per cooptazione ma vi rimane poi di fatto vita natural durante (sempre eludendo però il meccanismo della ricerca del consenso elettorale grazie al seggio parlamentare o altro ruolo pubblico assegnato «dall'alto»). Sono, per antonomasia, quegli «intellettuali» e «tecnici» beneficiati in particolare dalla Sinistra, salvo quelli - in genere i migliori tra loro - che dopo una legislatura capiscono come stanno le cose e tagliano la corda. Vi è poi un secondo tipo di notabile, quello diciamo così più autentico, il notabile doc. È colui al quale, forte di opportune relazioni personali quasi sempre politiche (di rado un'eccellenza professionale), non viene già offerto di svolgere uno specifico incarico pubblico in relazione alle sue competenze, bensì - sia pure talora a partire da queste - viene cooptato in un circuito di potere diffuso, al cui centro c'è sempre e comunque la politica. Per rimanervi anch'egli vita natural durante. È il jolly del potere italiano. È il notabile che può essere e fare di tutto: guidare un gabinetto o un ufficio legislativo, un'Authority, un governo tecnico, l'Aspen, un'enciclopedia, un ente pubblico, una fondazione bancaria, il Touring Club, la Federazione Giuoco Calcio, il Cnel, una società aeroportuale, la Cassa depositi e prestiti, Cinecittà, la Rai, un Consiglio superiore di qualunque ministero, le Poste, insomma tutto. Oltre che, beninteso, sedere in centinaia dei più vari consigli di amministrazione; e naturalmente tutto ciò per decenni, passando da un posto all'altro senza alcuna particolare competenza, e magari sommando contemporaneamente le prebende e gli incarichi più eterogenei (inclusi quelli parlamentari).

Come si vede, in Italia è la politica il brodo di coltura essenziale di questa categoria di persone. Non solo perché è la politica, con il suo storico statalismo, che assicura l'enorme estensione delle posizioni, dei posti disponibili per i notabili, ma perché essa costituisce l'amalgama omogeneizzante (ormai transpartitico) che rende possibile la compenetrazione/sovrapposizione di tutto e di tutti: e dunque la moltiplicazione diffusiva del potere di ognuno. È così che per esempio qualunque notabile può assicurare un posto al proprio coniuge o al proprio figlio in pratica dappertutto. È per l'appunto sempre questa esigenza della compenetrazione, in vista dell'accrescimento della capacità d'influenza, che spiega la tenace propensione del notabilato italiano di origine politica ad autonomizzarsi. In particolare dando vita e riconoscendosi in reti di legami alternativi a quelli ufficiali di tipo politico-partitico: da quello di parentela (più frequente di quanto si pensi) al legame di tipo massonico, oggi più in voga che mai, a quello delle «cricche» e consorterie consimili.

Cresciuto enormemente in potenza con la seconda Repubblica, il notabilato è divenuto in tal modo, e sempre più spesso, il serbatoio e insieme il traguardo, la «sistemazione», del ceto politico, una volta lasciato l'impegno parlamentare.

Se così stanno le cose si capisce perché è tanto difficile per l'Italia avere una classe dirigente. Questa è possibile, infatti, quando l'élite come l'ho definita sopra (figure con competenza in ruoli specifici, di riconosciuto valore, integrità e successo), quando i membri di tale élite, dicevo, sono in grado di accedere ai luoghi del comando pubblico (statale e non). Proprio ciò in Italia però non avviene, non può avvenire, dal momento che tali luoghi sono pressoché interamente monopolizzati dal notabilato d'origine politica. Il quale vi impone le sue regole: prima di ogni altra la regola della inamovibilità. Il massimo a cui un membro dell'élite può aspirare in Italia è un inutile posto di senatore o deputato, nel quale si accorgerà presto chi è che comanda davvero. In quest'ottica emerge in pieno il carattere sostanzialmente di alibi che finisce per avere la nozione di «società civile»: una nozione, guarda caso, che solo qui da noi ha la diffusione che sappiamo. Ma che in realtà serve al ceto politico per evitare un confronto vero con le eccellenze sociali, con l'élite vera e propria, e di conseguenza per evitare il problema di dar vita ad un sistema di potere complessivamente diverso dall'attuale. Viceversa l'evocazione rituale della «società civile» serve piuttosto per fingere di rinnovarsi, di «andare verso il popolo», approvvigionandosi (tuttavia solo in occasione delle elezioni) di persone, perlopiù sconosciute o di secondo rango, e però pomposamente esibite come provenienti per l'appunto dalla «società civile». Destinate regolarmente, come è ovvio, a non contare niente e a poter fare ancor meno.

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

5 febbraio 2013 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_05/relazioni-miracolose-galli-loggia_62e0dad8-6f5b-11e2-b08e-f198d7ad0aac.shtml
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« Risposta #154 inserito:: Febbraio 13, 2013, 05:27:27 pm »

UNA DIVERSA VISIONE DEL SACRO

Il seme fertile di una rinuncia

Con il passare delle ore appare sempre più evidente che il gesto con cui Benedetto XVI ha posto fine al suo pontificato, lungi dall'essere un gesto di «rinuncia», è stato in realtà l'opposto: un gesto di governo di grande portata e insieme un atto di alto magistero spirituale. Un gesto che ha qualcosa di quella risolutezza del pensiero, pronta a divenire decisione concreta nella prassi, di cui negli ultimi due secoli hanno dato tante prove le vicende della Germania di cui Ratzinger è un figlio.

Le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un'oggettiva desacralizzazione della sua carica. Il contenuto teologico di questa (l'essere cioè egli il vicario di Cristo) rimarrà pure inalterato, ma sono i suoi modi di designazione e il suo esercizio, la sua «aura», che vengono riportati a una dimensione assolutamente comune. Se infatti è possibile che il Papa si dimetta - rovesciando così una prassi secolare del vertice supremo - allora anche altre novità sono possibili. Anche altre prassi secolari possono egualmente essere rovesciate ai livelli inferiori. Con il gesto di Benedetto XVI è dunque il modo d'essere della struttura centrale del governo della Chiesa che viene in realtà messo in discussione: sottoposto al riscontro dei fatti, alla dura prova del tempo e della pochezza umana. E i fatti di quella struttura, come si sa, hanno offerto ultimamente uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini. Colpa delle regole fin qui in vigore nella Curia e non solo lì: ma quelle regole possono e devono cambiare, dice il gesto del Papa. Come per l'appunto egli ha fatto con una regola (e quale regola!) che lo riguardava. Può ancora, per esempio, la sua stessa elezione essere riservata a un pugno di anziani oligarchi maschi per entrare nel cui novero non si bada a nulla? Può ancora il potere delle Congregazioni essere tutto concentrato nelle loro mani? È ammissibile che esista tuttora un bubbone come lo Ior, la banca vaticana?

Le dimissioni di Benedetto XVI interrogano esplicitamente la Chiesa su queste e molte altre questioni di fondo. Con un sottinteso non detto che però non è difficile intuire: o voi o io. In questo senso esse rappresentano un gesto di governo di assoluta risolutezza: l'unico probabilmente che gli consentiva il suo isolamento politico e la fragilità del consenso interno. Un gesto estremo, il più clamoroso, compiuto senza esitare.

Tuttavia, si dice, le dimissioni sono pur sempre un tirarsi indietro, una rinuncia. Certamente. Ma una rinuncia che in questo caso suona come un invito a ridefinire la gerarchia delle cose, a stabilire priorità più autentiche, a distinguere ciò che conta da ciò che non conta. E dunque a cambiare rispetto a ciò che siamo. Un invito che va ben oltre i confini della cattolicità. Di fronte al travolgente mutamento dell'epoca che incalza da ogni dove, il capo della più antica e veneranda istituzione dell'Occidente, dà una lezione spirituale di segno fortissimo mutando esso per primo attraverso la rinuncia. Le nostre società, noi stessi - esso sembra dirci - non possiamo essere più ciò che fino ad oggi siamo stati. I segni dei tempi ci impongono di trovare altre regole, di immaginare altri scopi, altri ideali per il nostro stare insieme. Dal tratto più intimo, più sobrio, più vero. È di un tale rinnovamento che abbiamo bisogno. Ma la premessa necessaria non è proprio, secondo l'esempio del Papa, dichiarare consapevolmente il proprio tempo finito?

Ernesto Galli della Loggia

13 febbraio 2013 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_13/il-seme-fertile-di-una-rinuncia-ernesto-galli-della-loggia_3901ba56-75a6-11e2-a850-942bec559402.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:48:17 pm »

VINCOLO ESTERNO E VIZI ITALICI

Il sentimento di una Nazione

Le elezioni di domenica rappresenteranno la prova del fuoco per quella tendenza di fondo - la tendenza a governare in nome del «vincolo esterno» - con la quale negli ultimi trent'anni le classi dirigenti italiane hanno pensato di risolvere i problemi del Paese. Un Paese fin dall'Unità sentito (non a torto!) come assolutamente restìo a cambiare abitudini e pregiudizi inveterati, legato ai suoi vizi, ai suoi mille interessi contrapposti, leciti e meno leciti, ai suoi tenaci corporativismi d'ogni tipo; un Paese quindi sempre riottoso alle direttive dall'alto, alle norme, abituato a usare lo Stato e a piegarlo al proprio utile, ma mai o quasi mai a piegarsi all'utile di quello. Insomma politicamente indomabile.
Che tale fosse l'Italia che la Repubblica aveva ereditato dal passato le classi dirigenti hanno dovuto prenderne atto specialmente a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Allorché fu chiaro che il carnevale della spesa pubblica facile, iniziato quindici anni prima, stava creando una situazione finanziariamente insostenibile, e che però togliere a un tale Paese le rendite, i privilegi, gli abusi, o semplicemente ridimensionare i benefici, a cui esso si era ormai abituato, era impossibile. Impossibile riorganizzare l'amministrazione pubblica all'insegna del merito e dell'efficienza; impossibile rivedere il catastrofico ordinamento regionale; impossibile rivedere le leggi dappertutto eccessivamente permissive appena approvate; impossibile rifare la scuola sempre più sfasciata, e così via per molte, troppe voci. Impossibile beninteso stante il suffragio universale: dal momento che chiunque ci avesse provato avrebbe pagato di sicuro un prezzo elettorale catastrofico.
Si cominciò allora a toccare con mano quanto fosse ormai impossibile cambiare dall'interno il rapporto politica/società. Si cominciò allora ad ascoltare sempre più spesso il ritornello «Sì, è questo ciò che ci vorrebbe, ma non si può fare!», «Sì, le cose stanno così, questa è la verità, ma non la si può dire!». Lo sussurravano non pochi politici intelligenti e informati: ma regolarmente e inevitabilmente rassegnati. Intimidita, la politica si trovò ormai messa nell'angolo da un Paese che di prendere atto del modo in cui stessero le cose non voleva assolutamente saperne.
È a questo punto, in questa distretta sempre più soffocante, che - per convincere la società italiana di ciò di cui essa da sola non poteva convincersi, per farle accettare ciò che da sola non avrebbe mai accettato - la parte più avvertita della classe dirigente si decise a imboccare con decisione la strada del vincolo esterno. Sull'esempio - ormai si può dire - di quello che in fondo era stato lo stesso atto fondativo del regime repubblicano: quando dopo il 1943 fu per l'appunto un fattore esterno, la sconfitta militare e la vittoria alleata, a stabilire la democrazia in Italia.
Questa volta il vincolo esterno fu rappresentato dall'Unione Europea. Sarebbero state le direttive e le politiche comunitarie a mettere le briglie al Paese. Sarebbe stato l'euro a imporre il ravvedimento finanziario agli italiani dissipatori e riottosi. A partire dagli anni Novanta l'Unione Europea si trasformò nel salvagente al quale si aggrappò una parte maggioritaria della classe politica, via via che da un lato diveniva evidente la non riformabilità dall'interno della società italiana, e dall'altro, insieme, l'incapacità della politica nazionale di guadagnare con i propri mezzi il consenso necessario ad un mutamento di rotta.
Come in nessun altro luogo del continente l'adesione incondizionata all'europeismo e alla sua ideologia divennero così la nuova carta di legittimazione del sistema: obbligatoria per chiunque volesse non solo accedere al governo, ma perfino essere ammesso ad una piena rispettabilità politica. È inutile sottolineare quanto l'ultima fase della politica italiana si sia identificata con la prospettiva ora indicata. Che domenica si trova ad affrontare la prova del fuoco elettorale nella situazione più difficile principalmente, a me pare, per una ragione. La ragione è che il vincolo esterno, per risultare accettabile e non ferire il legittimo (insisto: legittimo, sacrosanto) sentimento di autostima di un Paese, deve essere assolutamente trasformato da chi se ne fa forte in un fatto nazionale. E cioè innanzi tutto produrre anche un immediato beneficio: altrimenti esso finisce per apparire inevitabilmente un'imposizione esterna fatta nell'interesse precipuo della parte esterna. Ora, disgraziatamente, in 14 mesi il vincolo esterno europeo è stato ben lungi dal soddisfare questa condizione dell'immediato beneficio. La situazione generale del Paese invece di migliorare è peggiorata. E dire, come si sente dire, «poteva andare molto peggio», non può avere altro effetto, sui molti che versano in condizioni di disagio, se non quasi di una presa in giro. Così come l'affermazione - anche questa molto ripetuta - «non c'era altro da fare» è un'affermazione che ha lo svantaggio di non poter essere suffragata da nessuna prova davvero convincente agli occhi degli elettori.
C'era un altro modo ancora, però, e a prescindere dagli effetti economici, in cui il vincolo esterno avrebbe potuto essere depurato della sua origine e trasformato in un dato dall'impatto fortemente nazionale: e non lo è stato. Se esso fosse diventato il pretesto per un invito appassionato - rivolto non già alle forze politiche, ma alla società italiana nel suo complesso - perché nell'occasione essa affrontasse uno spietato esame di coscienza, perché ripensasse una buona volta la propria storia iniziando a capire il peso, ormai insopportabile, delle sue troppe pigrizie, delle sue troppe incapacità, delle sue troppe indulgenze. Vi sono circostanze critiche in cui il governo democratico di un Paese deve essere capace anche di questo: di una pedagogia civile ispirata dalla verità e sorretta dalla cultura. In caso contrario il prezzo da pagare - non solo elettorale, e non solo per chi ha governato - può rivelarsi molto alto.

Ernesto Galli della Loggia

22 febbraio 2013 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_22/galli-della-loggia-sentimento-di-una-nazione_2136a438-7cc0-11e2-a4ef-4daf51aa103c.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Febbraio 27, 2013, 11:52:02 pm »

Atlante populista italiano

È populista chiedersi quali «sacrifici» hanno compiuto l'on. Rosy Bindi, faccio per dire, o chessò il senatore Latorre, in questi ultimi quindici mesi, mentre alcune centinaia di migliaia di italiani perdevano il loro posto di lavoro? È populista chiedersi quali effetti del «rigore» governativo abbiano subito l'on. Bondi o l'on. Cesa, sempre tanto per dire, nello stesso periodo, mentre ottocentomila famiglie italiane chiedevano la rateizzazione delle bollette della luce e del gas che non riuscivano a pagare, o decine di piccole aziende e di negozi erano costretti ogni giorno a chiudere? È populista? Forse sì, chissà. Ma allora, per passare dalle stalle alle stelle, erano populisti anche i sovrani inglesi quando decidevano durante la Seconda guerra mondiale di restare a Buckingham Palace nel cuore della Londra colpita ogni notte dai bombardieri della Luftwaffe; o forse erano populisti - e va da sé della peggior specie - anche i membri dello Stato Maggiore tedesco che nell'autunno del '42 decidevano di consumare alla mensa di Berlino lo stesso misero rancio che a qualche migliaia di chilometri di distanza consumavano i loro commilitoni assediati senza speranza a Stalingrado.

Eh sì, orribili populisti, ci assicurerebbero i sapientissimi nostri intellettuali che sermoneggiano in ogni sede su che cosa è la vera democrazia. Sì, tutti populisti: come Beppe Grillo, naturalmente, e chi lo ha votato.

Si dà il caso tuttavia che le classi dirigenti vere, i veri governanti, facciano proprio questo, guarda un po': specie nei momenti critici, cioè, cercano di mettersi allo stesso livello della gente comune, di condividerne pericoli e disagi, e in questo modo di meritarne la fiducia. Non vanno ogni sera in tv da Bruno Vespa o da Floris, o da Santoro (in trasmissioni che, sia detto tra parentesi, mostrandone la vuotaggine parolaia hanno contribuito come poche cose a disintegrarne l'immagine). Una classe politica che ha il senso del proprio onore e delle proprie funzioni deve essere capace di sentire quando è il momento di stare dalla parte dei suoi concittadini. Se non lo sente, ecco che allora sorge inevitabilmente a ricordarglielo il cosiddetto «populismo».

Certo, il populismo si limita perlopiù a invocare comportamenti diversi, denuncia ingiustizie e latrocini, insiste sulla moralità e sulla qualità delle persone. Non è «propositivo», come si dice; non indica vasti programmi di misure strutturali. Fa come ha fatto Grillo, appunto. Ma sarà pure lecito chiedere: c'è per caso qualcuno tra coloro che stanno leggendo queste righe che ricorda invece una vera proposta, per così dire strutturale, avanzata in questa campagna elettorale da Casini o da Bersani? E c'è qualcuno che ha ascoltato Vendola illustrare come immaginava di finanziare l'Eden che nei suoi programmi si compiaceva di dipingere per il futuro? Stranamente però non sono in molti a dare del populista a Vendola.

Volendo però entrare nel cuore della presunta assenza di proposte e di veri obiettivi politici da parte del cosiddetto populismo grillino, la domanda decisiva da farsi mi sembra questa: a conti fatti, voler mandare a casa un'intera classe politica costituisce o no un obiettivo politico (e non da poco, direi)? Costituisce o no un programma, anzi un ambizioso programma elettorale? E se la risposta è positiva, allora sopraggiunge di rincalzo un'altra domanda ancora: nelle condizioni date, qui, oggi, in questo Paese, quale altra via esisteva, per cercare, non dico di realizzare ma di affermare con forza quell'obiettivo, se non il voto per la lista di Beppe Grillo? Quale altra via esisteva per esprimere il proprio rifiuto nei confronti di una classe politica che in venticinque anni non ha saputo mettere in prima fila una sola faccia nuova? Che ancora oggi vede da un lato un vecchio leader 76enne, circondato da uno stuolo di camerieri, e dall'altro un partito, il Pd, che alla candidatura di Matteo Renzi ha saputo opporre solo la rabbia antiriformista dei vecchi oligarchi tardoberlingueriani alleati con i giovani turchi dell'apparato, entrambi oggi pronti, magari, a sostenere disinvoltamente che pure Grillo «è una costola della sinistra»? Quale altra via per protestare davvero contro una classe politica (ma non solo: né Monti né alcuno dei suoi ministri «tecnici» ha mai osato proporre alcunché, e tanto meno minacciare di dimettersi), una classe politica (ma non solo), dicevo, che travolta da scandali di ogni tipo e misura non è stata capace di inventarsi nulla, assolutamente nulla, per riguadagnare la fiducia dei cittadini?

E però non bisognava votare Grillo - si dice - per non dispiacere ai mercati e all'Europa, per non farci massacrare dallo spread. Evidentemente però molti hanno pensato che forse la qualità dei governanti è un prius rispetto a qualunque altra urgenza. Che forse una classe politica screditata e corrotta non solo alla fine non dà alcuna vera garanzia alla stessa Unione europea, ma soprattutto (ed è cosa non da poco) non garantisce un rappresentanza e una difesa adeguate degli interessi nazionali.

Questo è il punto: una classe politica chiusa nella supponenza delle sue chiacchiere e nell'impotenza del suo finto potere, la quale non ha voluto prendere atto che c'è un'Italia sempre più numerosa che non ne può più: né di lei né dei suoi partiti. Un'Italia che quindi ha fatto la sola cosa che poteva fare: se n'è inventato un altro, di partito. Praticamente dal nulla e con il nulla: affidandosi a una sorta di fool , di «matto», di buffone shakespeariano, l'unico capace, nella sua follia, di dire ciò che gli altri non potevano. Con l'augurio - che a questo punto, immagino, è di tutti gli italiani - che alla fine, però, possa esserci del metodo in quella sua follia.

Ernesto Galli della Loggia

27 febbraio 2013 | 11:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_27/Atlante-populista-italiano-della-loggia_39c34d86-80bb-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Marzo 09, 2013, 12:06:14 am »

Risultato elettorale e protesta

M5S, il voto e quell'Italia insoddisfatta che da quarant'anni cerca di cambiare

Votare per M5S non significa necessariamente aderire al programma politico del movimento

di  ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA


Nell'interpretazione che viene data del massiccio consenso elettorale ottenuto dal Movimento 5 Stelle si nota spesso un fraintendimento: cioè l'assunto che votare per M5S abbia significato aderire al programma del movimento stesso o, ancora di più, confidare nelle capacità di leadership politica di Beppe Grillo. Sicché ci si chiede scandalizzati come sia stata possibile questa apertura di credito da parte di tanti pur dotati di qualche giudizio.

Non sapendo darsi una risposta, allora, secondo un antico costume nazionale, si avanza immediatamente il sospetto di opportunismo, trasformismo, «voltagabbanismo», e quant'altro.

A mio giudizio chi vede le cose a questo modo si condanna a capire poco o nulla della storia recente e meno recente d'Italia. A non capire un dato di fondo: che c'è una generazione d'Italiani, c'è una parte del Paese, la quale già a partire dalla fine degli anni Settanta si accorse di quattro fatti che solo ora, dopo decenni, stanno entrando nella consapevolezza di tutti. Questi: a) che il sistema di governo sancito dalla seconda parte della Costituzione, nonché la legge elettorale proporzionale, erano ormai del tutto inadeguati ai bisogni del Paese; b) che esisteva un fenomeno come la partitocrazia, responsabile non solo di aver distorto profondamente il funzionamento del sistema suddetto ma anche di un malcostume e di un malgoverno sempre più vasti e opprimenti, c) che la Democrazia cristiana stava esaurendo la sua originaria spinta propulsiva e la sua funzione di salvaguardia democratica; d) che la presenza egemone a sinistra del Partito comunista equivaleva alla perenne subalternità della sinistra italiana, e cioè che con il Pci questa sinistra non avrebbe mai vinto un'elezione, non sarebbe mai andata al governo. Quella parte del Paese, insomma, vedeva con molto anticipo che un'intera fase storica - la fase del dopoguerra - andava ormai terminando, pur potendo continuare a contare sull'immane forza di una vischiosa continuità. E che dunque era necessario imboccare strade nuove.

Da allora - dapprima esigua, poi negli anni sempre più numerosa - quell'Italia del cambiamento è alla disperata ricerca del modo in cui riuscire finalmente a mutare lo stato delle cose: di uno strumento, di un'idea, di un varco. Ed è così che da allora quella parte del Paese, e con lei una fascia generazionale d'Italiani, di volta in volta ha guardato con simpatia al Partito radicale, ha sperato in Craxi, si è schierata con le iniziative referendarie di Mario Segni, ha cercato di capire le ragioni della Lega, ha puntato inizialmente su Berlusconi. Così come adesso fa un'apertura di credito a Grillo. Ma vogliamo dirlo? Non identificandosi mai, realmente, con le scelte di volta in volta compiute. Vedendone benissimo limiti e contraddizioni, ma sperando sempre, se si vuole illudendosi di servirsene strumentalmente: come una sorta di grimaldello.

Ingenuità? Certo, ingenuità. È facile dirlo (dirlo ieri e dirlo oggi), ma l'alternativa quale era? Una sola, evidentemente: stare dall'altra parte. Dalla parte, cioè, che fino ad oggi ha resistito o si è opposta ogni volta al cambiamento, o vi si è adattata solo perché non poteva altrimenti; di chi ha dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per decidere di non dirsi più comunista; dalla parte che ha preferito vedere la Dc disintegrarsi piuttosto che fare qualcosa prima; che fino a ieri giurava sull'intangibilità della Costituzione; dalla parte di chi a suo tempo (per quanto tempo!) giudicava una bestemmia qualunquistica parlare di partitocrazia; di chi per decenni non ha mai fatto nulla di concreto, mai nulla, per arginare corruzione e sperperi di misura inaudita. Ma che naturalmente - proprio come sta facendo anche oggi - ogni volta non mancava di arricciare il naso atteggiandosi a custode del bon ton politico, esibiva la propria educata compostezza di Padre Fondatore di fronte alla sgarbata impertinenza dei nuovi venuti, impartiva a destra e a manca lezioni di coerenza. L'Italia del cambiamento, così, si è dovuta (e si deve) sentire dare dell'opportunista e del voltagabbana da chi in quarant'anni è passato tranquillamente dal Pci di Togliatti e Longo al Pd di Bersani ma è convinto che però lui no, per carità, lui non ha mai cambiato idea! Solo gli altri fanno queste cosacce.

Un'Italia del cambiamento, irrequieta, sempre divisa, destinata regolarmente a vedere le sue speranze deluse per mille motivi, tra cui non da ultimo l'inadeguatezza dei partiti e degli uomini cui è stata fin qui costretta ad affidarsi. E molto probabilmente sarà così anche stavolta, con gli sprovvedutissimi parlamentari del M5S e con il loro capo. «Ma non era ogni volta prevedibile?» - mi sembra già di sentire chiedere dall'immancabile censore. Sì, forse sì: era prevedibile (e anche previsto, aggiungo). Ma almeno un dubbio, una sia pur tenue possibilità ogni volta c'era. Mentre dall'altra parte che cosa c'era ancora alla vigilia delle ultime elezioni? Il tetragono immobilismo di chi in dodici mesi non aveva trovato il modo di cancellare una legge elettorale nefanda o di avviare la minima riforma istituzionale, l'insensibilità di chi in un anno intero non aveva mosso un dito per tagliare davvero costi e privilegi della politica, neppure per abolire una manciata di province. E come sola alternativa accreditata la presunzione che per governare bastino i conti in ordine.
Prigioniera di un lungo passato, tramutatosi in un eterno e soffocante presente, l'Italia del rinnovamento ha preferito chiudere gli occhi.
E fare un salto nel buio.

8 marzo 2013 | 8:06

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_08/movimento-5-stelle_946d0c88-87bc-11e2-ab53-591d55218f48.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Marzo 17, 2013, 11:33:15 am »

LE ELEZIONI APPAIONO PIÙ VICINE

La non politica e i suoi calcoli

Con l'elezione alla presidenza delle Camere di Pietro Grasso e di Laura Boldrini, grazie ai voti della coalizione di sinistra animata dal Partito democratico, che li aveva eletti - si consuma definitivamente quella lunga storia della Sinistra italiana che per settant'anni ha avuto al suo centro l'esperienza comunista, e della quale quel partito è stato fino a oggi in qualche modo la prosecuzione.

Una lunga storia, dicevo: che nei decenni passati ha visto già sedere sul più alto scranno di Montecitorio quattro suoi eminenti rappresentanti: Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante. Basta per l'appunto ricordare quei nomi per misurare l'ampiezza senza misura della frattura che oggi si consuma a sinistra. Non si tratta delle idee. È ovvio che i valori e le visioni del mondo delle persone che oggi sono investite delle due massime cariche parlamentari siano molto diversi da quelli dei loro predecessori ricordati sopra. Ma ciò che innanzitutto colpisce è quanto siano sideralmente distanti le rispettive biografie. In sostanza, infatti, nelle biografie degli attuali presidenti del Senato e della Camera non ha il minimo posto la politica; che invece è stata la vita e la passione inesausta degli altri.

Intendo la politica come scontro di idee, esperienza di conflitti sociali, come elaborazione di strategie di lotta, come partecipazione ad assemblee elettive e pratica nell'attività deliberativa e legislativa: nulla di tutto questo c'è nel passato di Grasso o di Boldrini. Non si tratta di stabilire se ciò sia un bene o un male. Quel che importa notare è che qui c'è un punto di diversità assoluta rispetto a quella che per decenni, viceversa, è stata la vita concreta (e aggiungo l'ideale di impegno civile) degli uomini e delle donne che si sono riconosciuti nella Sinistra. Alla quale peraltro non risulta che fino a ieri né l'uno né l'altra abbiano mai detto di appartenere. Si può allora forse dire che l'elezione di Grasso e di Boldrini segni non tanto una vittoria dell'antipolitica quanto piuttosto, in senso proprio, della non politica.

È come se quella Sinistra che viene da lontano (e la parte cattolica che da tempo le si è aggiunta) si fosse convinta di non poter più trovare al proprio interno, nella propria storia, né volti, né voci, né biografie capaci di rappresentarla veramente. Come se essa giudicasse ormai irrimediabilmente inutilizzabile la propria vicenda politica, vicina e meno vicina: in un certo senso le proprie stesse radici. Rifiutatasi dopo essere stata comunista di divenire socialdemocratica, e sempre in preda all'antica paura di dispiacere a sinistra, la cultura politica del Partito democratico sembra aver smarrito il filo di qualunque identità che si colleghi al suo passato. Sicché oggi le è apparso naturale designare ai vertici della rappresentanza del Paese da un lato un importante membro della magistratura inquirente, dall'altro una apprezzata funzionaria internazionale, impegnata nella difesa dei diritti umani.

Certo, dietro tale designazione c'era evidentemente anche un calcolo politico. Quello che, presentando candidature ben viste a sinistra, il Pd riuscisse finalmente ad agganciare i grillini, nella speranza di portarli domani ad appoggiare il tentativo di un governo Bersani. A tale obiettivo è stato consapevolmente sacrificato vuoi ogni residuo rapporto con il Centro di Monti, vuoi ogni eventuale avvio di negoziati armistiziali con il Pdl e con la Lega. È quanto mai dubbio, però, che una manciata di voti grillini per il presidente Grasso annunci davvero una conversione del Movimento 5 Stelle e l'alba di un nuovo ministero. Assai più probabile, dopo questa giornata, è che sull'orizzonte italiano si allunghi, invece, solo l'ombra di elezioni anticipate.

Ernesto Galli Della Loggia

17 marzo 2013 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_17/la-non-politica-e-i-suoi-calcoli-ernesto-galli-della-loggia_b200c10e-8ec4-11e2-95d7-5288341dcc81.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Marzo 24, 2013, 05:08:44 pm »

LE ÉLITE ITALIANE E LA POLITICA

Ciò che il centro non ha capito

Il fallimento del Centro registrato alle recenti elezioni - e dunque, per logica conseguenza, il fallimento del personale di governo alla guida del Paese per oltre un anno - dice molte cose sulle caratteristiche delle élite italiane. Proprio perché per la sua parte più significativa è da queste élite che proveniva un tale personale di governo.

L'aspetto che più colpisce è la scarsa conoscenza da esso dimostrata dei meccanismi della politica e quindi la sua scarsa capacità di leadership. Non vorrei apparire ingeneroso verso Mario Monti e i suoi ministri, impegnatisi in un compito certo non facile. Sta di fatto però che per oltre un anno tutti hanno potuto vedere come essi non siano riusciti in alcun modo ad accompagnare all'adozione di provvedimenti tecnici indispensabili, tecnicamente obbligati, l'idea che tali provvedimenti dovessero poi anche essere «venduti» politicamente ai cittadini (e perciò, ad esempio, comprendere forti indicazioni di equità sociale). Invece la democrazia - cioè il regime del suffragio universale e dell'«uomo della strada» - è precisamente questo: e lo è tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono sacrifici non indifferenti.

Allora più che mai coloro che governano hanno l'obbligo non già solamente di spiegare, di enumerare cifre, vincoli, e rimedi: tutte cose sacrosante, intendiamoci, ma che tuttavia devono essere accompagnate da altro. Dalla capacità di parlare ai cuori più che alle menti, di invogliare al riscatto, di muovere alla tenacia, all'orgoglio, alla speranza. Tutte cose che appartengono alla politica, e di cui i veri capi politici devono essere capaci. Per le quali però bisogna essere convinti della propria autorevolezza, avere una dimestichezza con il comando sociale e con l'esposizione pubblica, essere animati da un pathos di condivisione nazionale, da un capacità di comunicare e di mettersi personalmente in gioco, che le classi dirigenti italiane, chiuse nel loro autoreferenziale esclusivismo professionale e proprietario, evidentemente possiedono in scarsissima misura. E tutte cose, aggiungo, alle quali il lungo e feroce dominio degli apparati dei partiti sulla cosa pubblica le ha da tempo disabituate. Staccandole nel profondo dalla politica.

Lo si è visto al momento di organizzarsi in vista delle elezioni. Il Centro ha mostrato di aver capito poco o nulla dell'ansia di grande cambiamento che agitava l'Italia. A un Paese percorso dalle performance di Grillo, ha pensato di potersi presentare da un lato con figure della più esausta nomenclatura partitica (Udc, Fli), dall'altro con il pallido volto di un notabilato catto-confindustriale insaporito da qualche prezzemolino sportivo-accademico. In complesso la raffigurazione di una compiaciuta oligarchia italiana all'insegna del «lei non sa chi sono io e quanto sono importante». Nessuno invece che fosse capace di un parlare vivo e autentico, di una proposta suggestiva, che desse voce a una qualche novità culturale, che incarnasse una figura sociale inedita.

Un'oligarchia, quella del Centro, che ha dato la misura della sua mancanza di sintonia rispetto alla condizione politica reale del Paese quando ha deciso, segnando così la propria sconfitta, di contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad allora era stato della Destra. Come si è visto allorché Monti si è rifiutato di prestare il benché minimo ascolto all'invito di essere il «federatore dei moderati» rivoltogli da Berlusconi: nonostante fosse ovvio che l'elettorato della Destra costituiva l'unico elettorato dove il Centro avrebbe potuto ottenere il consenso di cui andava in cerca.

Perché questo errore? Forse per l'influenza dell'onorevole Casini e del cattolicesimo politico più sprovveduto, mai rassegnatosi al bipolarismo e invece sempre vagheggiante un'illusoria collocazione al di là della Destra e della Sinistra? No, non credo per questo; anche se certamente tutto questo ha contato. Sono invece convinto che nel paralizzare qualunque interlocuzione con il popolo della Destra da parte di Monti e dei suoi, nel far loro escludere qualunque approccio meno che ostile in quella direzione, ha contato molto di più quella sorta di generico interdetto sociale che da sempre la Sinistra si mostra capace di esercitare nei confronti della Destra stessa: in modo specialissimo da quando a destra c'è Berlusconi.

È l'interdetto che si nutre dell'idea che la Destra costituisca la parte impresentabile del Paese, il lato negativo della sua storia. L'Italia imbrogliona, priva di senso civico, che evade le tasse, che non fa la fila e urla al telefonino; l'Italia incolta dei cinepanettoni, che non sa le lingue e non è iscritta al Fai, che non gliene importa nulla dell' Economist e non è di casa né alla Biennale né alla Columbia. E che di conseguenza non può che essere naturalmente clericale, conformista, sessista, solo e sempre reazionaria. In una parola quell'Italia che non è possibile ricevere in società e con la quale non conviene avere alcun rapporto se si vuole essere annoverati tra le persone per bene.

La borghesia che conta, il grande notabilato di ogni genere, l'alto clero in carriera, insomma l' élite italiana, ha profondamente introiettato questo stereotipo (che come tutti gli stereotipi ha naturalmente anche qualcosa di vero). Uno stereotipo tanto più potente perché in sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale. Con la Destra dunque l' élite italiana non vuole avere nulla a che fare: per paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel mirino dell'interdizione della Sinistra. Cioè di farsi la fama di nemica del progresso, di non essere più invitata nei salotti televisivi de La7, a Cernobbio o al Ninfeo di Valle Giulia; di diventare «impresentabile» (oltre che, assai più prosaicamente, per paura degli scheletri negli armadi, che non le mancano...).

Il Centro - così affollato di avveduta «gente per bene» - è rimasto vittima di questo interdetto, del timore di farsi etichettare di destra dalla Sinistra (e magari per giunta dal Club Europeo). In questo modo esso ha mantenuto sì la propria rispettabilità, ma al prezzo non proprio insignificante di diventare un attore politico di terz'ordine.

Ernesto Galli della Loggia

24 marzo 2013 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_24/galli-della-loggia-il-centro-non-ha-capito_9a6bcae2-9451-11e2-bd1c-50cadb6c1382.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Aprile 08, 2013, 11:17:40 am »

LA CHIESA E L'IMMAGINE DEL PAESE

Una periferica appartenenza

Troppo antico e profondo è il legame storico tra la Penisola e il cattolicesimo perché possa passare inosservato il fatto che con l'elezione di Papa Francesco ormai è da circa mezzo secolo che a Roma non siede più un Papa italiano. Se per la Chiesa universale ciò sia un male o un bene non saprei (anche se propendo per questa seconda ipotesi); quello che però mi pare indubbio è che si tratta di uno dei tanti sintomi del declino italiano. Se non altro perché nel corso dei secoli la Chiesa cattolica ha rappresentato la sola istituzione internazionale, o meglio sovranazionale (e che istituzione!), nella quale l'elemento italiano ha avuto un'evidente e ininterrotta centralità. A cominciare dalla centralità della nostra lingua: che, come ha fatto notare di recente Diego Marani proprio sul Corriere , rappresenta da sempre una specie di «inglese dei preti».

Se le cose stanno ormai così è perché evidentemente negli ultimi decenni agli occhi dell'universo cattolico la Chiesa italiana è andata perdendo la rappresentatività positiva che una volta essa bene o male possedeva, e invece ha assunto un'immagine sempre più grigia, addirittura dei tratti negativi. Decisiva, in questo senso, è stata la sua perdurante intrinsichezza con la Curia romana (ancora oggi è italiana la metà dei capi dei dicasteri vaticani: 14 su 28): una Curia, va ricordato, che negli ultimi tempi non ha certo brillato per immagine di irreprensibilità e che, resa più indipendente proprio per la presenza di pontefici non italiani, ha mostrato la tendenza a procedere quasi per conto proprio, fino ad apparire - in non molti casi, ma significativi - pressoché interamente fuori controllo.

Dietro la perdita di prestigio della Chiesa italiana c'è tuttavia anche dell'altro. C'è un problema di qualità del personale ecclesiastico, in specie del suo vertice. Il sommarsi della forte secolarizzazione della società con il mantenimento però, da parte dell'alto clero, di un forte potere istituzionale e di influenza, ha prodotto nella gerarchia cattolica molti aspetti di quella stessa degenerazione «castale» che ha colpito tanta parte dell' élite italiana. Autoreferenzialità, gerontocrazia, carrierismo con relativi accordi di «cordata», prevalere di una comunicazione pubblica sempre più vuota e formale, criteri di cooptazione in base soprattutto alla docilità e all'obbedienza: questi caratteri tipici della classe dirigente della Penisola si ritrovano, più o meno tali e quali, anche tra coloro che occupano i posti di comando nella Chiesa italiana. Si aggiunga a tutto ciò - esattamente come per la classe politica, e verosimilmente con effetti negativi non dissimili - il finanziamento pubblico ingentissimo dell'8 per mille.

La Chiesa italiana riflette dunque quello che sembra il destino del Paese. Vede scemare il proprio ruolo rispetto al resto del mondo. Non esprime più, perlomeno nei suoi luoghi «alti» e ufficiali, momenti importanti di dibattito e di elaborazione culturali. E oltre alle idee stenta anche a dar vita a personalità significative capaci di riscuotere attenzione e consenso oltre i propri confini. Pure alle gerarchie cattoliche, insomma, come a tutti gli italiani, oggi servono meno convegni pomposi quanto inutili, meno chiacchiere vuote, e invece più consapevolezza delle proprie insufficienze, più coraggio nel farla finita con consuetudini e pigrizie antiche, più prontezza ad abbandonare linguaggi che ormai non dicono più nulla.

Ernesto Galli Della Loggia

8 aprile 2013 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_08/una-periferica-appartenenza-galli-della-loggia_2028966a-a00a-11e2-b85a-0540f7c490c5.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Aprile 08, 2013, 07:10:05 pm »

Tregua angosciosa

Diranno i prossimi giorni quale esito avrà l'estremo tentativo del capo dello Stato di dare un governo al Paese attraverso la complessa e irrituale procedura da lui illustrata ieri. La cui riuscita dipenderà necessariamente anch'essa, peraltro, dalla possibilità di costituire quella maggioranza trasversale che finora non si è riusciti a costituire. E che nulla lascia credere potrà mai essere messa in piedi tra una settimana.

In realtà sulle spalle e sulle decisioni del presidente Napolitano si stanno scaricando in modo sempre più pesante le contraddizioni senza uscita in cui il recente risultato elettorale ha posto i partiti tradizionali. Un risultato che ha accentuato in modo parossistico non solo e non tanto i loro reciproci e già assai aspri conflitti, ma che - mostrando la sostanziale fragilità di tutte le formazioni politiche - ha ridotto al massimo le possibilità di manovra per ciascuna di loro. Le ha legate in un viluppo inestricabile di timori per il proprio futuro, di pregiudiziali, di scelte ritenute obbligate, di veti reciproci. E così, pur in una situazione in cui nessuna di esse aveva la maggioranza, e quindi per formarne una il compromesso avrebbe dovuto apparire inevitabile, in realtà proprio ogni spazio di compromesso è venuto a mancare. A parte, rinchiuso in un isolamento più che splendido insolente, il Movimento 5 Stelle, convinto che tale isolamento fosse pegno di chissà quali successi futuri e non già, come invece è di giorno in giorno più probabile, il preannuncio di un memorabile flop politico.

In questo scenario tormentatissimo il presidente Napolitano per giorni e giorni ha esercitato con equilibrio ammirevole un ruolo di moderazione, di consiglio, anche di ammonimento. Inutilmente. In specie contro l'inerzia autoreferenziale e a tratti inspiegabilmente autocompiaciuta dell'apparato del Partito democratico, ogni sforzo si è infranto. Per non offendere la suscettibilità del suo segretario ha accettato perfino di non esigerne la formale rinuncia all'incarico, dopo che per ben una settimana egli aveva inutilmente cercato una maggioranza che non c'era. E così, di consultazione in consultazione, di colloquio in colloquio, la crisi si è trascinata senza sbocchi fino ad oggi: sotto gli occhi sempre più perplessi dell'opinione pubblica internazionale e dei mercati, mentre la tenuta economica del Paese dava segni continui di cedimento, la discesa dei redditi si aggravava, l'inquietudine circa il futuro si stava trasformando in un'incipiente disperazione.

Verremmo meno a un dovere di sincerità verso i lettori e verso un uomo dell'onesta intellettuale di Giorgio Napolitano se dicessimo che la decisione presa ieri dal presidente della Repubblica ci lascia pienamente convinti. Ci sono troppe cose che non ci appaiono chiare circa i lavori e lo scopo delle due commissioni di saggi istituite. A cominciare da chi dovrà utilizzarne i risultati, e come e quando; e se dovrà trattarsi di una maggioranza parlamentare e di un governo futuri. A proposito dei quali, però, l'orizzonte appare oscuro oggi come lo era ieri. A che pro dunque quell'areopago di valentuomini?

Una cosa invece sentiamo chiarissima: l'Italia comincia ad avere paura, sì paura. Nel marasma generale essa avverte tuttavia che la Presidenza della Repubblica è rimasta ormai la sola sede possibile di identificazione della compagine nazionale, la sola fonte autorevole di decisioni libere e disinteressate per quanto possono esserlo decisioni umane. Tutto ciò si deve a Giorgio Napolitano. Possiamo allora chiedere sottovoce: perché rinunciare a un simile presidente?

Ernesto Galli Della Loggia

31 marzo 2013 | 15:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_31/tregua-angosciosa-galli-della-loggia_9b434d62-99bc-11e2-81ce-7be9fc1a292e.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:41:23 pm »

SE OGNI ACCORDO È UN INCIUCIO

Il sospetto universale

«L'inciucio!». Molti italiani si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell'ottica di quest'unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica del loro Paese in una sola luce: quella del sospetto universale.

La prima caratteristica della categoria dell' inciucio , quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. L' inciucio , infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente esso riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è inciucio la trattativa, l'accordo, il compromesso espliciti, così come pure - anzi in special modo! - l'intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di inciucio si possa accusare qualcuno non c'è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, l' inciucio si svolge nell'ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di esso non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza. In questo senso la categoria d' inciucio , nella sua indeterminatezza e nella sua indimostrabilità, costituisce una sorta di versione in tono minore di un'altra ben nota categoria, da decenni ai vertici dei gusti del grande pubblico: la categoria dei «misteri d'Italia» con la connessa tematica del «grande complotto». Ogni vero inciucio , infatti, contiene inevitabilmente un elemento di «mistero», e d'altra parte ogni «mistero» non implica forse chissà quanti inciuci ?

Un ulteriore vantaggio che offre poi l' inciucio in termini polemico-propagandistici è che esso, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici esso è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l'abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l'idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell' anti inciucio . È un'idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l'anticamera dell' inciucio (sempre in agguato!), la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell'avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.

La massima virtù civica non è la probità, è l'indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell'accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell'opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «inciucista», un «traditore», un «venduto», degno di essere consegnato ai dileggi parasquadristici di cui per esempio sono stati vittime gli onorevoli Franceschini e Fassina nei giorni scorsi. Poiché in una tale ottica la mediazione non è il momento inevitabile di ogni prassi democratica; al contrario: ne diviene la più indegna negazione. Naturalmente ordita con i più torbidi scopi.

Inutile dire quanto abbia aiutato a radicare l'idea e la categoria d' inciucio la scoperta della spartizione, concordata per anni dietro le quinte, a opera dell'intera classe politica, di privilegi e benefici di ogni tipo e misura. Cioè la scoperta della «casta». Una realtà verissima e certo scandalosa: se si può muovere un rimprovero all'uso pubblico della quale, però, è di non avere sottolineato abbastanza che l'intera società borghese italiana è in verità una società di caste. Che la radice del male, dunque, non sta tanto nella politica quanto nella cultura, nella mentalità profonda delle classi dirigenti (e non solo) del Paese. Per cui in Italia tendono a essere una «casta» i giornalisti, i giudici, gli avvocati, gli alti burocrati, i professori, i manager, i funzionari dei gabinetti ministeriali, e così via: in vario modo tutti impegnati accanitamente a sistemare i propri figli possibilmente nello stesso mestiere, a impedire l'accesso ai nuovi venuti, ad accumulare privilegi, retribuzioni, eccezioni di varia natura, auto blu, simboli di status, diarie, cumuli pensionistici, trattamenti speciali, ope legis , e chi più ne ha più ne metta. Viceversa, declinata unilateralmente la categoria di «casta» porta a conseguenze strabilianti. Per esempio a quella di proclamare «un uomo al di fuori della politica» (Beppe Grillo) una persona certo degnissima come Stefano Rodotà, ma che comunque nei suoi ottant'anni è stato deputato dal 1976 al 1994, deputato europeo per un altro periodo, presidente del gruppo parlamentare della Sinistra indipendente, vicepresidente della Camera, ministro nel governo ombra Occhetto, presidente del Pds, e infine presidente di un'Authority, carica notoriamente di strettissima nomina politica. Qual è insomma, viene da chiedersi, il criterio d'inclusione nella «casta»? Forse non essere nelle grazie degli «anticasta»?

Ma il punto decisivo - lo sappiamo benissimo, senza che ce lo ricordino i professionisti dell' anti inciucio - è che nella politica italiana c'è Berlusconi. Vale a dire il bersaglio di un'indignazione obbligatoria - del quale, a dire di costoro, bisogna a ogni occasione chiedere l'ineleggibilità, la revoca dell'immunità, l'incriminazione, e quant'altro - mentre il solo evitare di farlo, non parliamo dell'avere un qualsivoglia rapporto con lui o con la sua parte, significherebbe, sempre e comunque, l' inciucio più vergognoso. Quando si discute di Berlusconi o con Berlusconi, infatti, se non si vuole passare per collusi il sistema è semplice: ogni sede pubblica deve divenire l'anticamera di una Corte d'assise. Il fatto che da vent'anni egli abbia un seguito di parecchi milioni di elettori (spesso la maggioranza) appare ai custodi della democrazia eticista un dettaglio irrilevante. Non già l'espressione di un problema della storia italiana, di suoi nodi antichi che solo l'iniziativa, le risorse e le capacità della politica, se ci sono, possono sciogliere. No: solo un problema di codice penale o poco più. E in ogni caso, male che vada, un'occasione d'oro per lucrare un po' di consenso mettendo sotto accusa chi si trovasse a pensare che le cose, come spesso capita, sono invece un po' più complicate.

Ernesto Galli della Loggia

24 aprile 2013 | 8:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_24/sospetto-universale-galli-della-loggia_b518f840-ac9a-11e2-9acc-55424bfd851f.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Maggio 10, 2013, 11:03:53 pm »

QUANDO IL PAESE SAPEVA REAGIRE

Cartoline dall'Italia

Anche un vecchio numero di giornale è storia. Perché al pari della storia può farci capire - raccontandoci com'eravamo, magari negli aspetti all'apparenza minori - quanto siamo cambiati. A me, è capitato leggendo un numero del Corriere che porta la data remota del 31 marzo 1960.

Quel giorno, in una pagina interna, Giovanni Russo, allora giovane ma già brillante inviato del giornale, scrisse di una piccola-grande operazione culturale messa in atto nelle settimane precedenti dalla Rai. La riassumo servendomi anche delle sue parole. In dieci paesi del Salento dove nessun abitante aveva un solo apparecchio radio (riescono a immaginare una cosa del genere i giovani italiani di oggi? I giovani pugliesi hanno mai saputo dalla scuola che così era il loro Paese?), la Rai aveva distribuito in quelle settimane mille apparecchi radio. Non in regalo, solo in prova: ma chi avesse voluto avrebbe poi potuto acquistarli con un forte sconto dai rivenditori della zona, con i quali l'azienda aveva stipulato un apposito accordo (lo fecero oltre la metà delle famiglie). La stessa azienda, poi, aveva trasferito a Maglie ben 50 tecnici, con il compito di installare gli apparecchi e di provvedere alle eventuali riparazioni.

Non basta: nei vari paesi fu inviata una «radiosquadra», dotata di un pullman, una stazione trasmittente e un presentatore, il cui compito era quello di dimostrare agli abitanti del luogo, grazie al radiocronista Mario Ortensi, «come attraverso la radio la vita quotidiana di questi centri poteva essere rappresentata e descritta». Così «per la prima volta gli abitanti di Salve - scriveva Russo - ebbero per esempio notizia del porto di Bari e quelli di Andrano sentirono parlare del loro castello secentesco (...). Un mondo nuovo si è aperto per gente che viveva chiusa nel suo isolamento (...). Nello stesso tempo si è constatato che sono aumentate le vendite di giornali e riviste, mentre sono sorte piccole officine per la manutenzione e la riparazione degli apparecchi». Si leggeva infine che non casualmente l'operazione era stata condotta in novembre-dicembre, dopo la vendemmia, «quando gli stagionali tornavano nei paesi da dove erano emigrati e circolava un po' di denaro».

Poche righe raccontano come queste ciò che da troppo tempo l'Italia politica e civile non riesce più ad essere. Esse ci parlano di quello che abbiamo perduto, del Paese che eravamo, che dopo tutto siamo stati fino a non molti anni fa. Un Paese impegnato con tutto se stesso nello sforzo di progredire non solo materialmente ma culturalmente. Ansioso di emanciparsi dal suo passato di miseria, di sottomissioni sociali, d'ignoranza. Convinto delle proprie qualità. Fecondo d'iniziative, capace di fantasia, in grado di approntare con intelligenza i mezzi e l'organizzazione adeguati. Ci parlano anche, quelle righe, di classi dirigenti (quella della Rai in questo caso) comprese della necessità di assolvere a degli obblighi nei confronti della collettività: consapevoli, mi viene da dire, della propria funzione nazionale e popolare insieme.

È a quell'Italia che oggi dovremmo ispirarci. Non fu certo il periodo migliore per le forme della nostra vita democratica. Ma allora la politica seppe rappresentare realmente il collettore e l'organizzatore delle energie di cui il Paese traboccava; e i suoi esponenti seppero essere, anche moralmente, all'altezza del loro compito. Le energie ci sono anche oggi. Sta al presidente Letta di saperle mobilitare non solo con la chiarezza e l'onestà dei propositi, ma anche con la forza decisiva delle parole e dell'esempio.

Ernesto Galli Della Loggia

6 maggio 2013 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_06/galli-della-loggia-cartoline-dall-italia_523a5f6a-b60a-11e2-9456-8f00d48981dc.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Giugno 03, 2013, 04:46:53 pm »

L'INTOLLERANZA VERSO LA RELIGIONE

Una libertà minacciata

Una grande rivoluzione sta silenziosamente giungendo al suo epilogo in Europa. Una rivoluzione della mentalità e del costume collettivi che segna una gigantesca frattura rispetto al passato: la rivoluzione antireligiosa. Una rivoluzione che colpisce indistintamente il fatto religioso in sé, da qualunque confessione rappresentato, ma che per ragioni storiche, e dal momento che è dell'Europa che si parla, si presenta come una rivoluzione essenzialmente anticristiana.

Ormai, non solo le Chiese cristiane sono state progressivamente espulse quasi dappertutto da ogni ambito pubblico appena rilevante, non solo all'insieme della loro fede non viene più assegnato nella maggior parte del continente alcun ruolo realmente significativo nel determinare gli orientamenti delle politiche pubbliche - non solo cioè si è affermata prepotentemente la tendenza a ridurre il cristianesimo e la religione in genere a puro fatto privato - ma contro il cristianesimo stesso, a differenza di tutte le altre religioni, appare oggi lecito rivolgere le offese più aspre, le più sanguinose contumelie.

Ecco alcuni esempi, tra gli innumerevoli che potrebbero farsi, di quanto sto dicendo (tratti in parte da una dettagliata denuncia pubblicata su un recente numero di Avvenire ). In Irlanda le chiese sono obbligate ad affittare le sale per le cerimonie di loro proprietà anche per ricevimenti di nozze tra omosessuali; a Roma, nel corso del concerto del Primo Maggio un cantante ha mimato il gesto rituale della consacrazione dell'ostia durante l'eucarestia avendo però tra le mani un preservativo al posto dell'ostia; in Danimarca il Parlamento ha approvato una legge che obbliga la Chiesa evangelica luterana a celebrare matrimoni omosessuali nonostante un terzo dei ministri di questa si siano detti contrari; in Scozia due ostetriche cattoliche sono state obbligate da una sentenza a prendere parte a un aborto effettuato dalle loro colleghe, mentre dal canto suo l'Ordine dei medici inglese ha stabilito che i medici stessi «devono» essere preparati a mettere da parte il proprio credo personale riguardo alcune aree controverse.

Ancora: in un recente video di David Bowie, in cui la celebre rockstar è abbigliato in modo che ricorda Gesù, la scena mostra un prete che dopo aver percosso un mendicante entra in un bordello e qui seduce una suora sulle cui mani subito dopo si manifestano le stigmate; in Inghilterra, a un'infermiera è stato proibito di portare una croce al collo durante l'orario di lavoro, mentre una piccola tipografia è stata costretta ad affrontare le vie legali per essersi rifiutata di stampare materiale esplicitamente sessuale commissionatole da una rivista gay; in Francia, in base alla legislazione vigente, è di fatto impossibile per i cristiani sostenere pubblicamente che le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso costituiscono secondo la loro religione un peccato. E così via in un profluvio impressionante di casi (per informarsi dei quali non c'è che andare sul sito wwww.intoleranceagainstchristians.eu ).

Senza contare che ormai in quasi tutti i Paesi europei, al fine proclamato di impedire qualunque pratica discriminatoria, è stata cancellata l'erogazione di fondi alle istituzioni cristiane, così come è stata cancellata la clausola a protezione della libertà di coscienza nelle professioni mediche e paramediche. Non si contano infine in tutte le sedi più o meno ufficiali, a cominciare da quelle scolastiche, i casi di cancellazione, a proposito delle relative festività, della parola Natale, sostituito dal neutrale «vacanze invernali» o simili.

Ce n'è abbastanza da suscitare la preoccupazione di qualunque coscienza liberale. Qui infatti non si tratta tanto di cristianesimo, di Chiesa, o di religione, bensì di qualcosa di ben più importante: si tratta di libertà. E di storia. Di consapevolezza cioè che in Europa la libertà religiosa ha rappresentato storicamente l'origine (e la condizione) di tutte le libertà civili e politiche. Essere assolutamente liberi di adorare il proprio Dio, di propagarne la fede, di osservarne i comandamenti, di aderire alla visione del mondo e al senso dell'esistere che questi definiscono, di praticarne pubblicamente il culto; ma anche naturalmente essere libero di non avere alcun Dio e alcun culto: da qui è partito il cammino della libertà europea. E c'è bisogno di ricordare che si è trattato del Dio cristiano?

La libertà religiosa vuol dire alla fine null'altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore. Che è appunto la libertà di autodeterminarsi: e pertanto anche di parlare, di scrivere, di discutere a sostegno delle proprie convinzioni, così come di ascoltare quelle altrui e magari farsene convincere.
Insomma, libertà religiosa da un lato e dall'altro libertà di opinione e di parola - che sono i due pilastri della libertà politica - vanno all'unisono. È innanzi tutto da questo punto di vista, dunque, che è quanto mai preoccupante il fatto che oggi, in Europa, in molti luoghi e per molti versi, la libertà dei cristiani appaia oggettivamente messa in pericolo. E non importa che ciò avvenga per il proposito di proteggere da supposte discriminazioni questa o quella minoranza. È anzi semplicemente paradossale, dal momento che nell'attuale panorama del continente sono i cristiani in quanto tali che appaiono una minoranza. Lo sono di certo - e massimamente i cristiani cattolici e la loro Chiesa - rispetto al mainstream dell'opinione e del costume dominanti e culturalmente accreditati.

Basta vedere come nelle materie più scottanti alcuna voce autorevole, riconosciuta generalmente come tale, si alzi quasi mai a sostegno del loro punto di vista; come ogni accusa nei confronti loro e del loro clero raccolga sempre larghissimo favore; come ogni attribuzione di responsabilità storica per qualunque cosa negativa del passato, anche la più fantasiosa, sia invece sempre di primo acchito giudicata fondatissima.
È forse ora che l'Europa che si dice e si vuole «Europa dei diritti» - ma che finisce troppo spesso per essere solo l'Europa del pensiero unico politicamente corretto - ricordi il celebre ammaestramento di una grande figlia dell'ebraismo rivoluzionario, Rosa Luxemburg. La quale si può presumere che come ebrea e rivoluzionaria sapesse bene ciò di cui parlava: «La libertà è sempre e solo la libertà di chi la pensa diversamente».

Ernesto Galli della Loggia

2 giugno 2013 | 8:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_02/una-liberta-minacciata-ernesto-galli-della-loggia_fdbecc20-cb3d-11e2-8266-15b8d315b976.shtml
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