LA-U dell'OLIVO
Maggio 21, 2024, 05:23:24 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
  Home Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
  Visualizza messaggi
Pagine: 1 ... 304 305 [306] 307 308 ... 529
4576  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / FRANCESCO SEMPRINI“ - Fermiamo trafficanti e gommoni. Se qualcuno prova a... inserito:: Agosto 08, 2017, 06:27:41 pm
“Fermiamo trafficanti e gommoni. Se qualcuno prova a impedircelo ricorriamo a qualsiasi mezzo”
Parla un comandante italiano delle Forze di sicurezza libiche

Pubblicato il 07/08/2017

FRANCESCO SEMPRINI

«La polemica sulle Ong trova poco spazio qui in Libia, noi abbiamo il compito di fermare i trafficanti, e l’impiego di una missione militare italiana non crea nessun problema per la grande maggioranza di persone qui a Tripoli» 

Giulio Lolli, 51 anni, in una precedente vita è stato imprenditore nautico sulla riviera adriatica. Dopo una «controversa» bancarotta è approdato latitante in Libia e in seguito a un mandato di cattura internazionale è finito nelle galere di Gheddafi. Liberato dai rivoluzionari ha combattuto al loro fianco fino alla caduta del regime. Oggi, in virtù del suo passato e della impossibilità di rimettere piede in Italia, ha trovato una nuova occupazione in Libia. «Sono uno dei capi delle Forze speciali di sicurezza marittima del porto di Tripoli guidate dal comandante Taha El Musrati, in sostanza la polizia marittima che è cosa diversa dalla Guardia costiera. Ho l’incarico di intercettare i migranti che vengono spediti in mare e riportarli in territorio libico».
 
Quando lo raggiungiamo al telefono ci spiega che è in emergenza perché è giunta la segnalazione di una massiccia partenza dalle coste in prossimità della capitale. Si deve attivare con i suoi uomini per fermarli il prima possibile.
 
Prima che vengano intercettati da imbarcazioni di Organizzazioni non governative? 
«Devo fare una premessa. Qui in Libia il fenomeno dei migranti è molto meno centrale di quanto sia in Italia, e anche il dibattito sulle Ong è assai marginale. Le stesse forze interessate a fermare i traffici, noi o la Guardia costiera, non hanno molto interesse sulla discussione. Noi abbiamo l’incarico di fermare gommoni e barconi e riportarli indietro. Se qualcuno prova a impedircelo noi usiamo metodi forti per portare a compimento il nostro lavoro».
 
Quindi il lavoro delle Ong non interferisce con quello delle forze libiche? 
«Non è che le Ong ci diano fastidio, se arrivano prima loro, anche dentro le acque territoriali libiche, non possiamo fermarli, loro fanno il loro lavoro».
 
Avete avuto sentore che ci sia collusione tra qualche operatore e i trafficanti? 
«Il sentore ce l’ho io personalmente, e non sono il solo, ma non dal punto di vista ufficiale. Anche perché se qualcuno chiedesse alle autorità libiche del fenomeno delle Ong, probabilmente non saprebbe neppure di cosa si stia parlando».
 
Addirittura. 
«Non è un tema che è importante per la Libia, è un tema importante per l’Italia è un dibattito vostro. Per chi vuole accogliere i migranti le Ong sono importanti, per chi non li vuole sono forse un problema. Quindi si tratta di capire qual è la priorità, ma queste sono questioni politiche italiane su cui io non mi pronuncio. Io penso a fare il mio lavoro, ovvero fermare le imbarcazioni dei trafficanti».
 
Cosa succede quando li fermate? 
«Li riportiamo in porto, gli diamo da mangiare e da bere, facciamo fronte alle loro necessità più immediate, assicuriamo all’adempimento di tutte le procedure sanitarie in coordinamento con la Mezza luna rossa con cui lavoriamo sempre assieme. Poi li consegniamo all’immigrazione, lì il nostro lavoro è finito».
 
Lei ha un suo progetto che porta avanti per contrastare il traffico di esseri umani, ci può spiegare su quali criteri si basa? 
«Si vuole fermare l’immigrazione? A tutti costi? Allora si fa un programma determinato, duro, inattaccabile. Non si vuole fermare? Allora lasciamo fare le Ong. Si vuole fermare a metà? Allora si aprono hot spot in Libia e si fa passare quello che si vuole, con le rotte gestite dai trafficanti delle “business class” che permettono di dare approdo sicuro solo ad alcuni. Nel frattempo noi, come Forze Speciali possiamo fermare l’immigrazione sul serio perché siamo gli unici ad avere le capacità tecniche garantendo ai migranti recuperati un certo livello di umanità che altri gruppi non possono dare perché questa è nel nostro Dna. Se avessimo i mezzi necessari saremmo in grado di fermare qualunque barca, in un massimo di 5 miglia dalla costa, quindi prima dell’intervento di qualunque Ong».
 
La richiesta di aiuto all’Italia con una missione militare può aiutare in questo o è vista come una ingerenza? 
«E’ vista normalmente, Fayez al-Sarraj ha fatto un invito, la maggior parte della popolazione libica è consapevole e accetta questo. Se poi alcune persone ritengono che sia un’invasione, che dire gli ignoranti sono dappertutto. Noi non abbiamo nessun problema, gli italiani sono sempre i benvenuti a Tripoli. Se poi vogliamo parlare di Khalifa Haftar, lui fa la sua propaganda perché ha bisogno di visibilità, e noi stupidamente gliela diamo. La sua flotta può fare ben poco dinanzi a unità militari italiane».
 
Quindi sull’effettiva autorità di Sarraj non si discute? 
«Noi qui siamo sotto il governo Sarraj, sosteniamo tutte le forze rivoluzionarie che lavorano col suo governo sostenuto dall’Onu. E osserviamo le sue disposizioni. Se poi dobbiamo ragionare sull’utilità della nave italiana per fermare i migranti è un altro discorso, ma rispettiamo ed eseguiamo i suoi ordini».

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/08/07/esteri/fermiamo-trafficanti-e-gommoni-se-qualcuno-prova-a-impedircelo-ricorriamo-a-qualsiasi-mezzo-F9giwGcOMBHpXXMfiepFPN/pagina.html
4577  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / FABIO TONACCI. Porno, calcio e scommesse online: lo scandalo dei telefonini di S inserito:: Agosto 08, 2017, 06:26:05 pm
Porno, calcio e scommesse online: lo scandalo dei telefonini di Stato
Dai cellulari in dotazione alle amministrazioni pubbliche sono partite migliaia di chiamate verso numeri ben poco istituzionali.
Con un danno di quasi 8 milioni di euro. Lo studio sul traffico di oltre 400 mila sim card Coppola (Pd): "Molte potrebbero essere truffe".
Donazioni via sms a carico del contribuente, biglietti per eventi e abbonamenti a oroscopi


Di FABIO TONACCI
07 agosto 2017

ROMA. Siamo sicuri che tra gli 840 dipendenti pubblici che hanno attivato l'abbonamento a "SexyLand" sul telefono di servizio, pagato coi soldi degli italiani, ci sia qualcuno che lo ha fatto per sbaglio. E siamo anche ragionevolmente certi che tra i 665 funzionari, assessori e dirigenti statali che risultano abbonati a "Le porno Erasmus", ci sia chi è soltanto vittima di una truffa telefonica. Così come se andiamo a frugare tra i 564 abbonamenti attivati tra aprile e giugno di quest'anno a "Video hard casalinghi", i 12.000 abbonamenti a "Serie A Tim", i 630 a "Dillo alle Stelle" e i 260 a "Pronto a tavola", troveremo certamente chi ignora di avere questa roba nelle bollette. Ma che c'entra il televoto con l'uso del cellulare "per ragioni di servizio"? Cosa c'entrano le telefonate ai call center per i biglietti dei concerti, o le donazioni via sms addebitate allo Stato?
Quel che ha scoperto la Commissione parlamentare d'inchiesta sulla digitalizzazione (e gli sprechi) dell'Amministrazione pubblica analizzando i 401.839 cellulari a carico dello Stato è un quadro assai poco edificante, di sciatteria e di consapevole sperpero. Tanto, appunto, paga lo Stato.

La Commissione si è fatta mandare da Telecom Italia il prospetto con il traffico - telefonate, sms e dati Internet - di tutte le sim dei cellulari consegnati ai dipendenti pubblici. Rientrano nelle due distinte convenzioni Consip (Telefonia mobile 5 e Telefonia mobile 6) che hanno rifornito circa 4.400 amministrazioni centrali e locali. L'obiettivo era capire quanto si può risparmiare se si eliminano i consumi che niente hanno a che fare con il lavoro di un sindaco, di un assessore, di un funzionario ministeriale, di un dirigente statale. Sono quindi andati a vedere quanto è stato speso, dal 2012 al 2017, per chiamate a numeri speciali con addebito (i call center), per servizi di intrattenimento via sms e mms, per i servizi interattivi sulla Rete. Risultato: 7,7 milioni di euro sprecati. Una media di quasi due milioni all'anno, con picchi tra il 2013 e il 2015. Non sono cifre che sconvolgono il bilancio di un Paese, ma dicono molto dei suoi costumi.

"Basterebbe fare i controlli sulle bollette, smettendola di complicare le norme, e non ci troveremmo di fronte a questo spreco", osserva il deputato del Pd Paolo Coppola, presidente della Commissione.

Andiamo con ordine. Per avere un'indicazione statistica dei consumi abusivi è stato chiesto alla Tim il dettaglio del traffico di tutte le sim pubbliche nei mesi tra aprile e giugno 2017. In numeri speciali spendiamo 39mila euro non dovuti per colpa di 1.382 chiamate al call center di Trenitalia (11.500 euro), 1.108 a quello di Alitalia (8.754 euro), 267 al desk di Ticketone per avere informazioni su biglietti e concerti (1.907 euro), 120 telefonate al call center di Sky (293 euro) e altro. Piccole cifre, ma che non dovrebbero esistere visto che l'uso del cellulare è consentito solo nell'ambito dell'incarico svolto.

Un po' di più, 132 mila euro, è stato buttato via con gli sms per comprare prodotti bancari e promozioni di natura sociali. Si contano 15.000 messaggini (costati 52.390 euro) ricevuti da Banca Intesa per le comunicazioni di home banking che, ovviamente, non dovrebbero essere attivate col telefono di servizio. Facendolo, furbescamente il possessore carica la commissione della banca su una bolletta non sua. Ci sono anche alcune voci che si riferiscono ad acquisti con Mediaset e altre televisioni. Pure un migliaio di euro in sms di beneficenza, perché è facile essere generosi con i soldi di tutti. Per non parlare di chi ha entusiasticamente partecipato con gli sms (altri 1.000 euro) al televoto di Sanremo e Miss Italia. Ripetiamo: piccole cifre, ma esemplari.

Arriviamo al tasto più doloroso e oneroso, da mezzo milione di euro in tre mesi: le transazioni sulla Rete per contratti con strani provider. Qui, a voler stare al prospetto della Tim, si entra nella fiera del futile. Dunque: 6.976 abbonamenti mobilepay a Beengo Tuk Tuk (in Rete si trovano decine di utenti che si lamentano per l'attivazione non voluta); 9.176 a Mobando; 6.438 a TimGames, 12.000 circa a Serie A Tim, migliaia e migliaia di servizi per entrare nelle chat erotiche e ricevere e materiale pornografico, oroscopi, ricette, scommesse sportive. "Credo che la maggior parte di questi abbonamenti siano stati attivati involontariamente, frutto di truffe telefoniche", sostiene Paolo Coppola. "Se chi lavora nella pubblica amministrazione ci casca così facilmente, chissà quanti utenti privati vengono fregati".

Rimangono però un paio di punti da chiarire. Pure in presenza di truffe, c'è da chiedersi perché non vengano rilevate da chi controlla i bilanci di comuni, province, regioni, ministeri. Basterebbe avvertire il dipendente, disattivando il servizio, e risparmieremmo tutti. Non solo. Gli sms per il televoto a San Remo, le chiamate ai call center a pagamento, l'home banking, la beneficenza farlocca: tutto ciò assomiglia più al reato di peculato che a un inconsapevole errore. "Ci penserà la procura, nel caso", dichiara Coppola. "Più avanti consegneremo la relazione finale complessiva al Parlamento, e immagino che i magistrati saranno interessati. Sull'immediato, come commissione di inchiesta, daremo l'indicazione perché nella convenzione Consip sia inserita una clausola per mettere automaticamente nella black list questo tipo di servizi".

© Riproduzione riservata 07 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/08/07/news/porno_calcio_e_scommesse_online_lo_scandalo_dei_telefonini_di_stato-172542915/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1
4578  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Pier Luigi BATTISTA La puzza sotto il naso degli ex turisti low cost inserito:: Agosto 08, 2017, 06:24:37 pm
La puzza sotto il naso degli ex turisti low cost

  Di Pierluigi Battista

Questa campagna ridicola e malmostosa contro il cosiddetto «turismo low cost», che pena. Che spocchia da nuovi ricchi, da penultimi arrivati che vogliono dimenticare quando low cost erano loro e le ciabatte che indossavano non erano più eleganti di quelle di adesso e le code per una visita mordi e fuggi ai musei non erano meno colpite dalla zaffate di afrore quando a inondare le città del mondo erano quelli che adesso si ergono a paladini del borgo natio, che poi natio non lo è mai stato perché veniamo tutti, immenso ceto medio vagante per il pianeta, da qualche provincia, da qualche periferia, da qualche ricerca della trattoria low cost.
In quel film formidabile che è «C’eravamo tanto amati» di Ettore Scola, noi italiani poveracci usciti da una guerra catastrofica e perduta facevamo pellegrinaggio al «Re della mezza porzione», perché non potevamo permettercene una intera e Nino Manfredi affamato invocava «una mezza porzione, ma abbondante». E poi per sentirci cittadini del mondo, vagabondi di una patria universale, ci si sdilinquiva con le gesta e la retorica dell’epopea «on the road». E adesso? Adesso ci fanno schifo i nuovi vagabondi inquadrati dai tour operator, i milioni di poveracci che ora consumano solo una bottiglietta d’acqua minerale, e facciamo finta di apparire buoni e rispettosi con la tradizione difendendo la botteguccia, il ciabattino d’una volta, il falegname che non si frequenta più dopo essere andati in massa all’Ikea: low cost.
Barcellona, città moderna e cosmopolita, boicotta i turisti che tirano fuori pochi soldi, fa la schizzinosa, se la prende con la nuova volgarità, dimenticata quella vecchia di tutti noi.
Che poi una cosa in realtà non facevamo: gettarci ignudi nelle fontane, per esempio, oppure scaraventarsi nella laguna di Venezia dal ponte claudicante di Calatrava, o vergare graffiti osceni sui monumenti pensando di fare street art, chissà, o abbuffarci di pastasciutta sulle scalinate delle dimore storiche. Perché eravamo beneducati, forse?
No, perché sapevamo che le locali forze dell’ordine, i vigili urbani o chi per loro ci avrebbero ruvidamente preso per un orecchio prima di pagare una cospicua multa, se ti trovavi a vandalizzare in qualche democrazia, o di trascorrere qualche ora in una inospitale stazione di polizia, in quei Paesi che non erano propriamente campioni dei diritti umani.
E allora prendiamocela con le autorità che non si fanno rispettare. E smettiamola di fare i sussiegosi, gli snob ridicoli, noi che ancora dobbiamo nascondere le pezze ai pantaloni con cui giravamo il mondo per conoscere posti fantastici. Low cost.

6 agosto 2017 (modifica il 6 agosto 2017 | 20:40)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_agosto_07/puzza-sotto-naso-b8f95308-7ad4-11e7-8803-6174d9288686.shtml
4579  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Angelo PANEBIANCO. Legge elettorale, una gara tra chi urla di più inserito:: Agosto 08, 2017, 06:23:27 pm
IL COMMENTO

Legge elettorale, una gara tra chi urla di più
Col proporzionale ognuno gioca per sé e si premia l’estremismo

Di Angelo Panebianco

La comunicazione politica funziona per automatismi: si dice ciò che ci si aspetta che i propri elettori vogliano sentire anche se si tratta di frasi senza senso o riferite a oggetti non più esistenti. Ecco due esempi: «Un centrodestra unito vincerebbe» (Berlusconi e i suoi). «Il leader del partito che risulterà più forte alle elezioni sarà il candidato-premier» (Renzi). Peccato che il «centrodestra» non esista più e che, difficilmente, nelle vigenti condizioni il leader del partito che avrà più voti diventerà primo ministro. Spesso, gli stati maggiori si preparano per la prossima guerra immaginando che sia simile alla precedente. Allo stesso modo i politici usano gli slogan di una stagione passata quando ormai il contesto è radicalmente mutato. Nel 1994 si tennero le prime elezioni con il sistema maggioritario. Anziché adattarsi immediatamente alle nuove condizioni i politici iniziarono quella campagna elettorale facendo riferimento agli schemi di gioco, agli stilemi e ai tic della passata epoca, quando era in vigore la proporzionale. Solo quando «scese in campo» Berlusconi, il primo autentico leader dell’età maggioritaria, il gioco cambiò bruscamente.
Accade oggi di nuovo: ci avviamo (dopo un ventennio) alle prime elezioni con la legge proporzionale e molti politici parlano «come se» fosse ancora in vigore il sistema maggioritario. Se non sapessimo che è una finzione dovremmo accusare di incoerenza e di illogicità Berlusconi e i suoi quando evocano il «centrodestra».

Il centrodestra esiste in regime di maggioritario e scompare in regime di proporzionale (da noi, ormai resiste sul piano locale e regionale solo perché lì è ancora in vigore una variante del maggioritario). Non si può volere la proporzionale, come vogliono Berlusconi e i suoi, e poi evocare una «creatura» che con la proporzionale non c’entra nulla.

Idem per quanto riguarda la possibilità che diventi premier il leader del partito elettoralmente più forte. Sono cose da maggioritario, non da proporzionale. In età proporzionale si formano governi di coalizione dopo le elezioni e a nessuno dei partner conviene che il primo ministro sia anche il capo del partito più grande: meglio, per loro, che la presidenza del Consiglio vada a un esponente politicamente meno forte, con meno truppe al seguito. Dal loro punto di vista, poniamo, un Gentiloni sarebbe sempre molto più accettabile di un Renzi.

Se si passa dal maggioritario al proporzionale (e viceversa) significa davvero che tutto cambia. La prima cosa che cambia è questa: se vige il sistema maggioritario si vota «contro», se vige il sistema proporzionale si vota «per». Nel primo caso, voto per A non necessariamente perché mi piace A ma perché votare A è il modo migliore per impedire che vinca B (da me detestato). Nel secondo caso, invece, scelgo, nell’ampio menù che mi viene presentato, la pietanza (il partito) che più si adatta ai miei gusti. È vero che, in circostanze eccezionali — come quelle propiziate in Italia dalla guerra fredda — si può votare «contro» anche in regime di proporzionale (come ci ricorda il celebre invito di Indro Montanelli: «Tappatevi il naso e votate Dc»). Ma non è la regola.
Che si sia entrati in un nuovo mondo lo hanno capito per primi gli scissionisti del Pd, D’Alema, Bersani e soci: se vige la proporzionale ritorna il voto identitario (che è un tipico voto «per») e ci sarà pure nel Paese una quantità di nostalgici sufficiente per assicurare una rappresentanza parlamentare al loro partitino. Allo stesso modo, sul versante opposto, sembra che Salvini abbia compreso meglio dei berlusconiani come ci si deve muovere (e comunicare) in epoca di proporzionale.

Certamente, la retorica politica ha le sue esigenze. E la democrazia ne vive. Prepariamoci a una campagna elettorale in cui verranno dette tante parole destinate a finire nel dimenticatoio appena si chiuderanno le urne. Si ipotizzeranno alleanze nonché fiere opposizioni alle presunte alleanze altrui. Ma solo quando si conosceranno i risultati elettorali, e la consistenza parlamentare dei vari partiti, cominceranno le manovre per formare un qualche governo di coalizione. Fra quelle manovre e le cose promesse in campagna elettorale non ci sarà una stretta relazione. Così vanno le cose in regime di proporzionale dove ciascuno gioca per sé e le alleanze si fanno dopo il voto. Fin qui i fatti. Dopo di che, cominciano le valutazioni. Non siamo in pochi a tremare per gli effetti che può avere il ritorno della proporzionale. Essa ha garantito in Italia la democrazia (pur al prezzo di una continua instabilità governativa) quando esistevano partiti forti, radicati nel Paese. Ora quei partiti non ci sono più (né mai più ci saranno): ci attende un futuro di instabilità e forse anche di rischi per la democrazia.

Per giunta, il sistema proporzionale, quando la maggior parte dei partiti presenti è priva di un forte insediamento sociale, finisce facilmente per premiare l’estremismo. Per due ragioni. La prima è quella del tertius gaudens: i più moderati sono impegnati a combattersi fra loro per portarsi via i voti e ciò dà un vantaggio al partito estremista che li combatte tutti. La seconda ragione ha a che fare con le regole della comunicazione: tante voci, tante facce, tanti messaggi in conflitto confondono l’elettore e lo annoiano. In tanto bailamme, le voci degli estremisti risaltano. Essi urlano più forte di tutti e catturano l’attenzione dei presenti vendendo l’elisir di lunga vita: soluzioni semplicissime per problemi complicatissimi.

6 agosto 2017 (modifica il 6 agosto 2017 | 22:19)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/politica/17_agosto_06/legge-elettorale-gara-chi-urla-piu-ddf1b2cc-7ae3-11e7-8803-6174d9288686.shtml
4580  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FEDERICO RAMPINI. La lunga campagna elettorale del non candidato Zuckerberg inserito:: Agosto 08, 2017, 06:21:41 pm
La lunga campagna elettorale del non candidato Zuckerberg
Mr. Facebook: "Niente politica". Ma visita 30 Stati per "conoscere meglio gli americani"
E assume i consiglieri di Obama e Hillary.
La sua popolarità però è solo al 24 per cento

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
08 agosto 2017

MARK ZUCKERBERG for President? La sinistra americana, tuttora depressa e disorientata nonostante il caos-Trump, sogna un cavaliere bianco che arrivi al galoppo per salvarla. Chi meglio del giovane che ha inventato il social media da due miliardi di utenti? Il padrone di Facebook smentisce: "Non sarò candidato". Ma dicono tutti così, fino a un minuto prima del fatidico annuncio. Sui piani di Zuckerberg per scalare la Casa Bianca - e scalzare The Donald il più presto possibile - è lui stesso ad aver seminato indizi. E' partito per un tour nazionale in 30 Stati Usa con lo scopo dichiarato di "conoscere meglio gli americani". Ha cominciato dall'Iowa dove hanno inizio ogni quattro anni le primarie per la nomination. Poi il Michigan dove ha incontrato a Detroit gli operai della Ford, una constituency che fu decisiva per l'elezione di Trump. E' passato nell'Ohio, altro Stato-chiave per conquistare la presidenza. Prima di partire aveva assunto nella propria Fondazione uno degli strateghi delle vittorie di Barack Obama, David Plouffe, considerato un genio del marketing elettorale. Pochi giorni fa un altro reclutamento, Joel Benenson: pure lui lavorò con Obama come esperto di analisi demoscopiche, poi fu il chief strategist della campagna di Hillary Clinton. Alle dietrologie su queste due assunzioni, Zuckerberg risponde: Plouffe e Benenson sono talenti al servizio dell'impegno umanitario. Quei due aiutano la Fondazione Chan Zuckerberg (il primo cognome è della moglie) nei progetti per "curare malattie, migliorare l'istruzione, dare voce a tutti coloro che vogliono costruire un futuro migliore".

Non bastano queste smentite a placare i sospetti. La Fondazione può diventare un ideale trampolino per la candidatura. Nell'azione umanitaria c'è un condensato dei valori che Zuckerberg propone agli americani, un suo identikit etico e politico. Non è detto che un suo ingresso in politica debba avvenire attraverso uno dei due partiti tradizionali. Altri imprenditori si candidarono da indipendenti: Ross Perot che fu battuto alle presidenziali del 1992 ma ebbe un seguito superiore alle previsioni e prefigurò il protezionismo di Trump; Michael Bloomberg con più successo come plurieletto sindaco di New York. Tuttavia se c'è un partito che in questo momento ha un gran bisogno di volti e idee nuove, ricambio generazionale e progettuale, è il partito democratico. "Missing in action", come i soldati scomparsi in guerra: per quanti disastri abbia combinato Trump nei primi 200 giorni, si parla solo di lui. Cosa faccia l'opposizione democratica, lo sanno in pochi. E sul partito incombe ancora il potere dei Clinton che non hanno mollato la presa. La selezione di una nuova classe dirigente urge: già tra 15 mesi si vota per le legislative di mid-term, la prima occasione di rivincita contro Trump. Guai ad arrivarci senza messaggi chiari e candidati convincenti.

Zuckerberg ha delle qualità evidenti. E' giovane: 32 anni. E' un outsider. Ha costruito un'impresa che vale cento volte quella di Trump: 45 miliardi di dollari la capitalizzazione di Facebook. E non è un'impresa qualsiasi, è la nuova "piazza virtuale" dove quasi un terzo della popolazione mondiale dialoga e socializza, si scambia informazioni, emozioni, amicizie. E' disinteressato: donerà alla sua Fondazione il 99% della ricchezza. E' progressista... ma su quest'ultima affermazione si apre un problema. I liberal della Silicon Valley sono fin troppo di sinistra - rispetto al baricentro politico della nazione - su temi come l'ambiente, i matrimoni gay o la marijuana. Ma hanno costruito un'alleanza malefica con Wall Street e un capitalismo diseguale, afflitto da problemi sociali enormi. Che non si risolvono a colpi di beneficenza: proprio Zuckerberg è incappato in un disastro quando ha donato 100 milioni per risanare le scuole pubbliche di Newark (New Jersey) con risultati fallimentari. E così dal sito Politico.com parte una messa in guardia, dell'opinionista Bill Scher: "Zuckerberg, stai attento. Non confondere la popolarità di Facebook con la tua personale ". In effetti solo il 24% degli americani ha un'opinione positiva di lui. La sinistra rischia di credere che dopo Trump qualsiasi imprenditore può vincere. Dimenticando due cose. Primo, Trump si è allenato per decenni come figura pubblica, protagonista di controversie e polemiche feroci (per esempio su "Obama nato all'estero") per saggiare i suoi potenziali elettori. Secondo: una regola d'oro è che gli americani dopo un presidente vogliono un successore che sia l'estremo opposto. Vedi la sequenza Bush-Obama-Trump. Il multimiliardario forse deve saltare un turno.

© Riproduzione riservata 08 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/08/08/news/la_lunga_campagna_elettorale_del_non_candidato_zuckerberg-172612628/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S1.8-T1
4581  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MARIO CALABRESI. Perché non vinca la propaganda inserito:: Agosto 08, 2017, 06:20:31 pm

Perché non vinca la propaganda

Di MARIO CALABRESI
08 agosto 2017

UN’ONDA melmosa, composta di false percezioni, di paure e di sconsiderata propaganda, sta sommergendo il nostro dibattito pubblico, rendendolo sterile e spaventoso. La razionalità è scomparsa da un pezzo, sostituita da emozioni, immagini forti e pericolose semplificazioni. È diventato molto complicato riuscire a ragionare chiamando le cose con il loro nome, rispettando la realtà e le sue sfumature.

Si sono persi di vista numeri e contesti: nessuno ha più il coraggio di far notare che 100mila persone che arrivano dalle coste africane sono certo tantissime e destano allarme (una richiesta di sicurezza che le Istituzioni troppo a lungo hanno sottovalutato) ma sono pur sempre quanto i tifosi di due partite della Roma o del Milan. Li si può contenere in uno stadio e mezzo di un Paese che di abitanti ne ha sessanta milioni. Questo non significa non condividere la necessità di provare a controllare e gestire i flussi migratori e il dovere di combattere i trafficanti di esseri umani, ma significa chiamare le cose con il loro nome e non accendere allarmi sociali che rischiano di devastare la nostra società. Che il senso della realtà sia smarrito lo racconta la percezione dei numeri: gli italiani sono convinti che ormai un quinto della popolazione sia di religione islamica, quando lo è meno di un trentesimo.

L'onda melmosa chiude gli occhi e rende tutto dello stesso colore, impedisce di cogliere differenze fondamentali, così un immigrato che spaccia cancella tutti quelli che riempiono le cucine dei ristoranti, scaricano le cassette ai mercati generali, fanno il pane la notte, tengono vivi i pascoli, vendemmiano o si prendono cura dei nostri vecchi.

Allo stesso modo la legge che viene definita Ius Soli è stata criminalizzata, snaturandone completamente senso e finalità. Non c’entra nulla con sbarchi e accoglienza e serve a integrare chi è nato in Italia, ma questo poco interessa a chi gioca con le paure e subdolamente insinua che i compagni di classe dei nostri figli potrebbero essere terroristi in erba.

Questa propaganda e questo imbarbarimento del discorso hanno fatto breccia e, come ci ha raccontato domenica Ilvo Diamanti, stanno vincendo.

L’ultima vittima sono le Ong, le associazioni di volontariato e quella parte della Chiesa che è più impegnata nell’assistenza. Colpevoli di non sottomettersi al nuovo politicamente corretto, che è l’esatto ribaltamento di quello vecchio e proclama a gran voce che ci siamo rotti le scatole dei bisogni e delle sofferenze degli altri. Lo slogan berlusconiano “padroni a casa propria”, coniato per favorire le ristrutturazioni, ora è diventato una filosofia e un modo di essere che giustifica qualunque comportamento e assolve da ogni responsabilità. Ammette addirittura la rinuncia al pensiero razionale. Non possono esistere due Italie: quella che sta con gli italiani e un’altra che sta con gli scafisti. È il senso profondo che si può cogliere anche nel messaggio di Mattarella: i diritti degli uomini e le regole che li governano devono stare assieme.

Certo, c’è chi ha sbagliato, ma di fronte a singoli e circoscritti episodi di presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mai — secondo gli stessi magistrati che hanno mosso l’accusa — per motivi di lucro, si criminalizza un mondo di cui invece dovremmo andare orgogliosi.

Non importa che esistano Organizzazioni non governative che agiscono su scala globale e piccole associazioni nazionali, che ci siano organizzazioni umanitarie che si dedicano all’emergenza e altre che fanno assistenza, prevenzione, non contano le storie di ognuna di loro, la competenza e la trasparenza, non hanno valore le biografie di medici, ingegneri, agronomi, sacerdoti, insegnanti, cooperanti, conta solo colpire nel mucchio per poter rafforzare il nuovo paradigma.

Perché funzioni, il discredito va diffuso ad ampio raggio, va usato come un’accetta e nessuna distinzione è possibile. Se poi si condisce il tutto con una buona dose di volgarità e di insinuazione, allora si arriva al risultato di gettare il sospetto su un intero mondo.

Un mondo che è tanto italiano, perché siamo un Paese che si è sempre speso in silenzio, dando esempi di impegno e di volontariato incredibili. Se gli si può rimproverare qualcosa è proprio di essere stati troppo silenziosi, loro che potevano spiegare a tutti noi cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo, aprendoci gli occhi sulle situazioni di crisi e le possibili ricette. Finora ci siamo accorti di quel mondo solo quando arrivava la notizia di una morte, penso a persone come Maria Bonino, pediatra piemontese morta in Angola mentre cercava di contenere un’epidemia di febbre emorragica.

Di fronte all’onda melmosa, un giornale ha una sola possibilità: restituire ai fatti e alle parole il loro significato e cercare di ripulire il dibattito dalle scorie e dai veleni.

Lo dobbiamo fare ogni giorno e per questo da oggi vi raccontiamo cosa sono davvero le Ong e chi sono le donne e gli uomini che ci lavorano.

© Riproduzione riservata 08 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/08/news/perche_non_vinca_la_propaganda-172612626/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T2
4582  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FRANCESCO BEI. Se il Colle si sostituisce a Gentiloni inserito:: Agosto 08, 2017, 06:19:28 pm

Se il Colle si sostituisce a Gentiloni

Pubblicato il 08/08/2017

Francesco Bei

La crisi istituzionale che ha investito ieri il governo, arrivando a far traballare la poltrona del ministro dell’Interno, sembra rientrata solo grazie all’intervento diretto del capo dello Stato. Secondo la Costituzione (articolo 95), spetta al presidente del Consiglio mantenere l’unità di indirizzo politico del governo, coordinando l’attività dei ministri. Ora era evidente da giorni che, sulla materia del contrasto all’immigrazione clandestina, la cacofonia nell’esecutivo aveva raggiunto livelli di guardia.

Ma lo sforzo di persuasione di Gentiloni con quei ministri più propensi ad ascoltare il grido di dolore delle Ong, non era stato sufficiente ad evitare l’isolamento e la conseguente minaccia di dimissioni del titolare del Viminale. Così si è resa necessaria la copertura del capo dello Stato, che ieri ha rimesso in equilibrio l’asse del governo facendo capire a tutti che Minniti gode dell’apprezzamento del Quirinale. A conferma della legge della fisarmonica presidenziale: quando la politica è debole i poteri del capo dello Stato si dilatano. Per Mattarella è la prima volta. 

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/08/08/cultura/opinioni/editoriali/se-il-colle-si-sostituisce-a-gentiloni-Kd4zQeKcqFKmrYxyZq3lBL/pagina.html
4583  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / DARIO DEL PORTO. Torre del Greco: arrestato il sindaco Ciro Borriello per ... inserito:: Agosto 08, 2017, 06:18:19 pm
Torre del Greco: arrestato il sindaco Ciro Borriello per corruzione
Il primo cittadino avrebbe riscosso tangenti dagli imprenditori dei rifiuti

Di DARIO DEL PORTO
07 agosto 2017

Tangenti dalla ditta dei rifiuti. Con questa accusa il sindaco di centrodestra di Torre del Greco, Ciro Borriello, è stato arrestato nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura di Torre Annunziata e dalla guardia di finanza.

In carcere sono finiti anche due imprenditori, Massimo e Antonio Balsamo. Ai domiciliari vanno invece Ciro Balsamo, Francesco Poeti e Virgilio Poeti. Secondo l'accusa, il sindaco avrebbe avvantaggiato la ditta Balsamo, una importante realtà economica attiva nel settore dei rifiuti.

In cambio, l'azienda avrebbe accumulato fondi neri di denaro contante destinato al sindaco. Le somme sarebbero state consegnate nel corso, spiega la Procura di Torre Annunziata, di "incontri mensili che avvenivano in luoghi appartati, privi di copertura di cellulari, mediante passaggi da un'auto all'altra".

Incontri che però sono documentati da video riprese e intercettazioni ambientali. L'indagine ipotizza che già l'ingresso della ditta Balsamo nell'appalto sia stata "connotata da illegalità", perché il sindaco avrebbe "determinato la decadenza" della ditta originariamente assegnataria, favorendo così l'azienda dei Balsamo.

Fin qui la ricostruzione dell'accusa. Tutti gli indagati potranno replicare adesso alle accuse nei successivi passaggi del procedimento. Nei prossimi giorni il gip fisserà la data del l'interrogatorio di garanzia.

Borriello, esponente del centrodestra, è stato eletto nel 2014 e di recente aveva rassegnato le sue dimissioni. Negli ultimi mesi le sue posizioni politiche si erano sempre più avvicinate a quelle di Matteo Salvini. Oltre a condividerne post e proclami su Facebook, il sindaco ha infatti partecipato al comizio partenopeo del segretario della Lega Nord lo scorso marzo. Attualmente l'amministrazione di Torre del Greco è retta dalla vicesindaco Romina Stilo, estranea all'indagine.

© Riproduzione riservata 07 agosto 2017

Da - http://napoli.repubblica.it/cronaca/2017/08/07/news/torre_del_greco-172553411/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1
4584  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Fiorenza SARZANINI. «Gara Consip, l’appalto era truccato» ... inserito:: Agosto 08, 2017, 06:16:57 pm
L’INCHIESTA

«Gara Consip, l’appalto era truccato»
Tre aziende si sono spartite 2,7 miliardi
L’appalto per la gestione dei servizi nella pubblica amministrazione potrebbe essere truccato: questa la clamorosa conclusione contenuta nella relazione dell’Anac, l’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone

Di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini

L’appalto Consip da 2,7 miliardi di euro per la gestione dei servizi nella pubblica amministrazione potrebbe essere stato truccato. C’è il fondato sospetto di un «accordo di cartello» fra tre imprese concorrenti per spartirsi i lotti principali escludendo così le altre aziende. Quattro mesi dopo l’avvio dell’istruttoria, è questa la clamorosa conclusione contenuta nella relazione dell’Anac, l’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone.
Il dossier
Il dossier è stato trasmesso alla Procura di Roma, titolare dell’inchiesta sull’aggiudicazione di quei lavori che ha fatto finire in carcere l’imprenditore Alfredo Romeo per corruzione, mentre Tiziano Renzi e il suo amico Carlo Russo sono indagati per traffico di influenze illecite; nell’ambito della stessa indagine sono coinvolti anche il ministro Luca Lotti, il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette e il generale Emanuele Saltalamacchia, inquisiti per la fuga di notizie che mise sull’avviso i vertici Consip degli accertamenti della magistratura. Ma adesso si apre un altro filone nel quale si dovrà verificare l’operato dei vertici della «centrale acquisti», per stabilire che ruolo abbiano avuto rispetto alla divisione tra le aziende delle commesse per la manutenzione e la ristrutturazione di centinaia di edifici pubblici.
La richiesta degli atti
L’indagine di Cantone viene avviata nel marzo scorso con una richiesta di trasmissione di atti alla Consip proprio per valutare l’esistenza di eventuali irregolarità nella procedura. Si scopre così che nell’elenco di chi ha presentato offerte ci sono le stesse aziende sanzionate dall’Antitrust per aver siglato un patto illecito nella gestione dei servizi di facility management per gli istituti di istruzione. È il famoso appalto «belle scuole» assegnato nel 2015 che per questo si è stati poi costretti ad annullare. La delibera dell’Antitrust era infatti perentoria: «Il consorzio Cns, Manutencoop, Kuadra spa e Roma Multiservizi spa hanno posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza consistente in una pratica concordata avente la finalità di condizionare gli esiti della gara con Consip, attraverso l’eliminazione del reciproco confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti da aggiudicarsi nel limite massimo fissato dalla legge». Le sanzioni inflitte andavano dai 56 milioni di euro per l’assegnazione dei lotti maggiori a quasi 6 milioni di euro per quelli più piccoli. Su questo la Procura di Roma ha terminato qualche settimana fa gli accertamenti, ipotizzando il reato di turbativa d’asta, e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio degli amministratori delle ditte coinvolte.
L’azienda esclusa
Nel corso delle verifiche sull’appalto Fm4, Anac analizza la posizione delle aziende finite sotto accusa, ma anche quella di Manital, esclusa dalla gara dopo aver vinto quattro lotti per una contestazione di tipo fiscale, e che per questo aveva presentato ricorso al Tar. Secondo Anac la decisione di Consip di non consentire la partecipazione «presenta ripetute omissioni in materia di verifica», e l’avvio della procedura che determinò l’esclusione viene definito «irrituale». Inoltre, si sottolinea come il successivo ricorso al Consiglio di Stato da parte di Consip, che annullò la riammissione di Manital decisa dal Tar, avvenne dopo la scoperta che l’offerta di Manital era risultata vincente con un risparmio per le casse dello Stato di 25 milioni. Tra le «anomalie» contestate ai vertici Consip ci sono anche quelle relative alle offerte tecniche ed economiche per la «mancata allegazione ai verbali della Commissione delle valutazioni effettuate nelle sedute riservate e in quelle pubbliche» ma anche «la scelta di assegnare a tutti i concorrenti il medesimo punteggio vanificando l’incidenza di tali elementi sulla valutazione complessiva e quindi riducendo il peso dell’offerta».
La divisione dei lavori
Elementi sufficienti per decidere di analizzare le offerte presentate da ogni azienda già sanzionata per precedenti accordi di «cartello». Si è così scoperto che «l’Ati Cns ha presentato offerta per sette lotti di gara mentre Manutencoop ha presentato offerta per cinque lotti di gara senza mai sovrapporre le proprie offerte». Ed ecco le conclusioni di Anac: «La probabilità del verificarsi di tale evento risulta essere evidentemente assolutamente marginale. Tale probabilità scende ulteriormente allorché si osservi la distribuzione geografica delle istanze dei due concorrenti nella quale si rileva una disposizione a scacchiera, con l’Ati Cns e Manutencoop che si sono spartite tutte le Regioni escludendo Campania, Calabria e Sicilia.
Il patto illecito
Quanto basta per convincere Anac sull’esistenza di «possibili intese fra Cns, Manutencoop e Kuadra, che fa parte dell’Ati Cns». E infatti nella relazione trasmessa ai magistrati di Roma è scritto: «Appare ragionevole pensare che per la gara Fm4 siano state adottate intese restrittive della concorrenza. A rafforzare tale ipotesi contribuisce il ritiro delle proprie offerte per tutti i sette lotti da parte dell’Ati Cns alla vigilia dell’apertura delle offerte economiche». Gli «investigatori» dell’Anac sottolineano anche altre criticità a riscontro del possibile accordo illecito, con una vera e propria spartizione preventiva degli appalti: «Per Manital non risultano mai sovrapposte le quattro offerte con le sette di Cns e solo per un lotto è in competizione con Manutencoop; la Romeo Gestione non si sovrappone mai con Manutencoop e solo per un lotto è in competizione con Cns».
L’avviso alle imprese
La relazione è stata notificata alle aziende coinvolte che adesso potranno presentare le proprie controdeduzioni per evitare le sanzioni dell’Anticorruzione. I magistrati dovranno invece stabilire se — proprio come accaduto per l’appalto delle «belle scuole» — per l’accordo tra le imprese ci siano anche contestazioni penali per i responsabili delle imprese coinvolte.

5 agosto 2017 | 23:48
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/17_agosto_05/consip-cartello-tre-aziende-bfb2133c-7a1c-11e7-9488-fb4c3ebc9cd4.shtml
4585  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / FRANCESCA SCHIANCHI. Migranti e Libia, l’agente infiltrato sulla nave della Ong inserito:: Agosto 08, 2017, 06:15:33 pm
L’INCHIESTA DI TRAPANI

Migranti e Libia, l’agente infiltrato sulla nave della Ong: «Così ho scoperto i contatti tra Iuventa e i trafficanti libici»
Il poliziotto dello Sco per 40 giorni a bordo dell’imbarcazione di “Save the children”

  Di Fiorenza Sarzanini

Era un addetto alla sicurezza, imbarcato sulla Vos Hestia, la nave di “Save the children” per conto di una società privata. Nessuno immaginava che in realtà fosse un agente sotto copertura, poliziotto dello Sco, il servizio centrale operativo impegnato da quasi un anno nell’indagine sull’attività delle Ong per il salvataggio dei migranti al largo della Libia. È rimasto a bordo per quaranta giorni, «l’esperienza più impegnativa, ma anche più emozionante della mia carriera». E adesso rivendica con soddisfazione di essere riuscito a «documentare con foto e video i contatti tra l’equipaggio della Iuventa e i trafficanti». Ma anche «di aver restituito al suo papà, nigeriano che da tempo vive in Italia, una bimba di 15 mesi imbarcata su un gommone con la mamma che invece non è riuscita a terminare il viaggio».

La missione
La scelta di agire in missione segreta viene presa nel maggio scorso. Il pool investigativo guidato dal vicequestore Maria Pia Marinelli, che lavora da oltre sette mesi per verificare la fondatezza delle denunce presentate da alcuni volontari di “Save the children” per conto della procura di Trapani, ha raccolto numerosi indizi sui possibili legami tra volontari e organizzazioni criminali. Nel mirino c’è Jugend Rettet, definita dalle altre organizzazioni «temeraria» proprio perché entra in acque libiche e carica migranti che poi trasferisce su altre navi. Ma servono prove concrete, bisogna documentare gli incontri con gli scafisti, i possibili accordi. Il direttore dello Sco Alessandro Giuliano sa bene che l’unica strada è quella della “copertura”, proprio come accade nelle indagini sui trafficanti di droga o di armi. Consulta il prefetto Vittorio Rizzi, direttore dell’Anticrimine. Ottiene subito il via libera.

Tra gli agenti impegnati nelle verifiche, c’è Luca B., 45 anni che ha le caratteristiche giuste. È esperto di sub, tanto da avere il brevetto Divemaster oltre a una serie di abilitazioni per il soccorso medico in mare, la patente nautica. Ma è soprattutto un agente esperto. Quando gli propongono l’incarico non ha dubbi: «Felice di accettare». Il 19 maggio si imbarca. Viene alloggiato in una cabina con altre tre persone, sa che deve «stare continuamente all’erta per non essere scoperto».
I soccorsi
La nave partecipa a numerose incursioni di fronte alle acque libiche. Effettua tre operazioni di soccorso, lui aiuta gli operatori, salva i migranti, collabora quando c’è necessità di trasferire le persone da una imbarcazione all’altra. Tiene i contatti con Roma inviando messaggi via whatsapp. Li aggiorna su quanto accade a bordo, sulla posizione delle navi delle altre Ong. «Devo stare attento, perché si insospettiscono se faccio foto o filmati», comunica ai suoi capi. «Non abbiamo mai perso la sua posizione - conferma Marinelli - perché avevamo comunque il supporto della Guardia Costiera che ci teneva informati degli spostamenti e di eventuali emergenze». Riesce a scendere dalla nave tre volte. Incontra i colleghi in luoghi segreti, consegna aggiornamenti e informazioni utili all’inchiesta. Ma ancora non basta, bisogna continuare per dimostrare che quanto raccontato nelle denunce sia vero. Il 18 giugno arriva la svolta. Sono gli ultimi due soccorsi, quelli decisivi «All’alba la Vos Hestia e la Iuventa si incrociano in alto mare. Pochi minuti dopo si avvicina un barchino dei trafficanti. Rimane a pochi metri da Iuventa, gli uomini parlano con i volontari. Arriva un’altro barchino che scorta un gommone carico di migranti». L’infiltrato scatta foto, gira video, documenta minuto dopo minuto l’incontro che segna la svolta per l’indagine. Tre ore dopo c’è un altro contatto e anche questa volta riesce a filmare ogni passaggio. «Ho tutto, comprese le immagini dei barchini restituiti ai trafficanti e riportati in Libia», comunica ai suoi capi.

La bambina salvata
La missione è compiuta, ma bisogna attendere ancora qualche giorno. Portare a termine l’incarico così come previsto dal contratto proprio per non destare sospetti. A fine giugno l’agente torna a casa. Racconta quanto ha visto, «anche quell’emozione di aver salvato tante vite». Ma il ricordo più bello lo dedica a Rejoyce, la bimba di 15 mesi che il 5 giugno hanno salvato mentre era su un gommone con altri 125 migranti. «La mamma era caduta in acqua, l’abbiamo issata a bordo, le ho fatto il massaggio cardiaco, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare». In tasca la donna ha alcuni bigliettini con un numero di telefono italiano. L’infiltrato li comunica ai colleghi della mobile di Trapani quando, tre giorni dopo, arrivano in porto. L’utenza appartiene a un nigeriano che da tempo vive in Italia e lavora come bracciante a Salerno. L’uomo viene subito trasferito in Sicilia. Conferma che quella donna morta è sua moglie. Racconta che la stava aspettando insieme con la figlioletta. Si decide di effettuare l’esame del Dna a entrambi per avere la certezza che non menta. Il risultato è arrivato ieri e non lascia dubbi: è sua figlia. Per l’infiltrato «la missione è davvero compiuta». Ma lui è pronto a ripartire. Ai suoi capi l’ha detto con chiarezza: «Per me è stata un’esperienza bellissima. Impegnativa ma esaltante, perché ti porta a contatto con queste persone che soffrono, ti fa capire che a volte per salvarli hai soltanto pochi secondi».

3 agosto 2017 | 23:01
© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/17_agosto_04/agente-infiltrato-nave-ong-cosi-ho-scoperto-contatti-iuventa-trafficanti-libici-e765329e-7880-11e7-8ef0-c9b41f95269b.shtml
4586  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / FRANCESCO BEI. Berlusconi: “Parigi deve capirlo, non è più il tempo di Colbert inserito:: Agosto 08, 2017, 06:13:54 pm
Berlusconi: “Parigi deve capirlo, non è più il tempo di Colbert e del Re Sole”
Il leader di Fi: “Fincantieri? L’Italia ha perso peso con gli ultimi governi”. E sui retroscena dell’intervento in Libia nel 2011: “Il tempo è galantuomo”
Ex Premier Silvio Berlusconi è tornato a essere uno dei protagonisti del dibattito politico

Pubblicato il 04/08/2017

FRANCESCO BEI
ROMA

Reduce da una settimana a Merano in un centro benessere, dal quale torna «in forma, “ricaricato”, con molte idee e molti progetti per l’Italia», Silvio Berlusconi attacca l’atteggiamento «né liberale né europeista» del presidente Macron sul caso Fincantieri/Stx e attende invece speranzoso a settembre un «successo» elettorale della Merkel per trovare un nuovo equilibrio in Europa. 

I francesi propongono una partnership 50-50 allargata anche al settore militare. Ma il ministro Padoan anche oggi ha ribadito il no del governo. Lei accetterebbe? 
«Certamente no. I governi francesi, forse memori della lezione di Colbert, non esitano ad usare la forza politica, diplomatica e anche militare dello Stato per difendere gli interessi delle aziende francesi e ostacolare quelle straniere. Non dimentico che fui costretto a cedere la rete tv che avevo creato in Francia, La Cinq, che aveva troppo successo perché il governo di allora potesse accettarla. Però dall’epoca del Re Sole il modo di intendere i rapporti in Europa dovrebbe essere cambiato. Ma i presidenti francesi se ne sono accorti?».
 
Parigi teme per l’occupazione e per il possibile scippo di tecnologia... 
«Il cantiere di Saint-Nazaire non è un’impresa pubblica che viene privatizzata, bensì un’impresa che i francesi avevano già venduto a un gruppo coreano che deteneva il 66% ed è poi fallito, e che Fincantieri, con una operazione dalla logica industriale impeccabile, ha rilevato. Bloccarla non mi sembra un atteggiamento né liberale né europeista».
 
Anche in Libia gli interessi italiani e francesi si scontrano. Gentiloni non è stato invitato al summit di Parigi e la Francia sostiene Haftar che ha un forte atteggiamento anti-italiano. Esiste una via d’uscita? 
«Dispiace dirlo, ma in questi anni il peso specifico del nostro Paese a livello internazionale è sensibilmente diminuito. Basti pensare alla dilettantistica e sciagurata gestione dell’emergenza immigrazione da parte della sinistra. Il mio governo era riuscito, stipulando accordi bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, prima fra tutti la Libia di Gheddafi, a impedire che i migranti partissero dall’Africa». 
 
È il lavoro che sta portando avanti Minniti. Anche Forza Italia ha votato la missione, no? 
«Adesso sembra che a sinistra abbiano finalmente capito che questa è la strada giusta da seguire, e siamo i primi a compiacercene. Abbiamo espresso un voto favorevole all’iniziativa del governo per senso di responsabilità, da settembre verificheremo puntualmente quello che accade. Bisogna operare sui punti di imbarco e sulle acque libiche per fermare e controllare sul nascere l’invasione». 
 
Giorgio Napolitano ha ricostruito su Repubblica il retroscena dell’intervento in Libia nel 2011, attribuendo al suo governo la decisione finale sulla missione decisa da Francia e Inghilterra. Conferma la versione del Presidente emerito? 
«Non mi piacciono le ricostruzioni interessate e autoassolutorie. Per fortuna il tempo è galantuomo e posso dire anche io, come il Presidente Napolitano: “ho un ricordo che altri forse hanno cancellato”. Quello che è importante è che anche il Presidente Napolitano ricorda e riconosce come io fossi contrario all’intervento militare in Libia e come lo abbia manifestato in quella e in altre circostanze, fino alle dimissioni del governo. Tanto da aggiungere: “che Berlusconi abbia evitato quel gesto per non innescare una crisi istituzionale al vertice del nostro Paese, fu certamente un atto di responsabilità da riconoscergli ancora oggi”. E questo mi basta».
 
A settembre si vota in Germania: un’elezione importante anche per far ripartire l’Europa? 
«Elezioni importantissime, dalle quali mi aspetto – e naturalmente mi auguro - un successo della signora Merkel e del suo partito, che è come noi parte integrante del Ppe, il centro cristiano e liberale, alternativo alla sinistra, che noi orgogliosamente rappresentiamo in Italia».
 
Quali sono i suoi rapporti con la Cancelliera? 
«I miei rapporti con la signora Merkel sono sempre stati eccellenti. Non sono riusciti a scalfirli neppure le dicerie malevole su una battuta volgare che non ho mai pronunciato, e che le solite intercettazioni, una volta tanto utili, hanno clamorosamente smentita. E neppure è servita la “trappola” creata da Sarkozy contro l’Italia nel 2011, quando la signora Merkel fu coinvolta suo malgrado, con un sorriso, in un giudizio sarcastico sul nostro Paese. Oggi la signora Merkel è in Europa forse l’unico statista con una visione all’altezza dei tempi». 
 
A novembre invece sarà la volta delle elezioni in Sicilia. Chi vince lì vince in Italia? E Forza Italia alla fine si presenterà con Ap? 
«Per dire la verità, le elezioni siciliane sono molto importanti, ma non sono e non saranno decisive per il futuro del Paese, come tanti vorrebbero far credere. L’eventuale accordo con Ap si baserà su considerazioni locali: già in altre importanti regioni, la Lombardia e la Liguria, governiamo bene insieme, senza che questo preluda ad alleanze nazionali, impossibili con chi fino ad oggi ha sostenuto la sinistra». 
 
Lei di recente ha rilanciato il sistema elettorale tedesco, naufragato alla Camera. Ma senza un premio di maggioranza non c’è il rischio di non avere alcuna maggioranza dopo il voto? Non la spaventa il caso spagnolo, con lo spettro di dover tornare al voto a giugno 2018? 
«Se non sbaglio la Spagna dalla morte di Franco, come la Germania dal 1949, hanno conosciuto governi democratici che, in un regime di alternanza, hanno portato i due paesi ad una trasformazione e ad una crescita straordinaria. Dunque il sistema proporzionale non funziona così male. Le difficoltà a formare un governo non dipendono dalla legge elettorale: il problema si è posto poche settimane fa anche nel Regno Unito dove il sistema di voto è strettamente uninominale». 
 
Se si andasse invece a votare, nonostante l’appello di Mattarella, con i due sistemi attuali, è possibile immaginare una lista unica Forza Italia-Lega-Fdi? 
«Non voglio neppure prendere in considerazione l’idea che il saggio appello del Capo dello Stato a modificare l’attuale legge elettorale sia lasciato cadere nel vuoto, vanificando così ancora una volta la possibilità per i cittadini di scegliere davvero il loro futuro».
 
Intanto per Forza Italia che programmi ha? 
«Mi dedicherò ad un intenso programma di incontri con i protagonisti dell’impresa, delle professioni, del lavoro, della cultura, ai quali spiegherò le mie idee sulla “rivoluzione liberale” per l’Italia, e che spero di convincere a scendere in campo con noi».

 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati

Da - http://www.lastampa.it/2017/08/04/italia/politica/berlusconi-parigi-deve-capirlo-non-pi-il-tempo-di-colbert-e-del-re-sole-XSOAsyc52RE5EgW2ScNNCK/pagina.html
4587  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EZIO MAURO. I demoni di Pietrogrado. - Cronache di una rivoluzione /2 inserito:: Agosto 08, 2017, 06:12:34 pm
I demoni di Pietrogrado

Cronache di una rivoluzione /2 - È il mese dell'autocrazia morente e della marea proletaria montante. Aspettando il giorno del giudizio

Di EZIO MAURO
13 gennaio 2017

I demoni di Pietrogrado A pranzo si era mostrato come sempre allo Yacht Club sulla Morskaja e i nobili soci sussurravano che mentre si sedeva al tavolo d'angolo era "pallido come la morte". Ma quello era un recinto aristocratico protetto. Questa, adesso, era la vera prova. Si avvicinò alla balconata drappeggiata del palco mentre l'orchestra accordava gli strumenti e in quel tempo sospeso tra la musica e la rivoluzione la folla in platea lo vide, si alzò in piedi e gli indirizzò un lunghissimo applauso, pensando così di liberare finalmente i nechistiki, gli spiriti maligni, nel cielo freddo di Pietrogrado.

Fu il primo atto del nuovo spettacolo che stava per andare in scena nella capitale infiammando la Russia, quell'applauso eversivo a un attentato imperiale che decapitava il cerchio più ristretto di comando attorno allo Zar, ribellandosi all'autocrate. Altri spiriti stavano per scendere sul "secolo di ferro", liberandolo per subito imprigionarlo, o forse Kikimora, il mostro maligno del sottosuolo, si preparava a saltare sul campanile della Trinità come nelle fiabe che terrorizzavano i bambini. Attirate dal fragore dell'applauso le ballerine del Mikhajlovskij che corsero a sbirciare dal sipario verso la platea furono le prime a rovesciare inconsapevolmente la prospettiva: guardando dal palco la città come il vero grande scenario dove da quel momento in poi incominciava la rappresentazione dell'impensabile e saliva in cartellone l'impossibile. Quasi che "Piter", costruita sott'acqua come una moderna Atlantide, avesse allineato per due secoli i suoi palazzi di granito, i suoi canali ghiacciati, i suoi ponti ad arco come una gigantesca fata morgana, in attesa di dissolvere tra pochi giorni il miraggio per diventare il gran teatro di un esperimento mai visto di sovvertimento universale. Fiacre, carrozze francesi col tetto di cuoio, mantici scuri e bardature fiammanti, slitte a due posti trainate dai cavalli Orlov aspettavano davanti al teatro in piazza delle Arti, lasciando solchi di gelo smaltato. Qualcuno si fece ancora portare al Circolo Inglese per finire la serata, o a provare la zuppa di gamberi nelle capanne sulla Neva, o fin su alle isole per il caviale di Felicien, o al match di lotta del circo Cinizelli per poi passare all'alba alla sauna di via Konjushennaja, oppure nei saloni dell'Astoria dove si inseguivano al suono del foxtrot ufficiali abituati a vivere di notte, vedove di guerra, crocerossine, prostitute e contesse che conversavano in francese. Tutti correvano, nell'ansia elettrica della città eccitata e snervata dal sentimento oscuro della fine e senza saperlo vivevano l'ultimo viaggio dell'aristocrazia che aveva appena gettato fiori sul palco del balletto, come se nulla fosse: nell'omaggio finale alla musica, alla grazia, alla bellezza e infine soprattutto alla città dei miracoli che radunava le sue meraviglie e poi come nei sogni trasformava ogni cosa in nebbia, acqua e fumo. Sotto l'immobile cupola d'oro di Sant'Isacco e la torre dell'Ammiragliato, davanti alle guglie della fortezza Pietro e Paolo, dietro i recinti di mattone rosso che sono rimasti intatti attorno alle fabbriche di Vyborg, cent'anni fa Pietrogrado, man mano che si lasciava alle spalle il dicembre di Rasputin e si inoltrava nel gennaio del 1917, era la città dei due mondi. Viveva contemporaneamente gli ultimi bagliori moribondi della Corte imperiale più ricca del mondo e l'incubazione di un esperimento rivoluzionario che sarebbe durato settant'anni, fermando il secolo per deviarne l'intero cammino. Il Palazzo reale, ignaro e irresponsabile, fu il simbolo rovesciato per le due correnti che s'incrociavano nelle ore decisive della capitale, l'autocrazia morente e la marea popolare montante. La liturgia imperiale rinsecchiva nell'angoscia della guerra con la Germania, dopo l'offensiva tedesca, la tragica ritirata russa e per la prima volta a Natale non c'era stato lo scambio tradizionale dei doni tra i Romanov, un clan di sessanta persone tra Granduchi, Principi e Principesse, disciplinati a fatica negli appetiti e negli appannaggi dal ministro di Corte Fredericks, che la famiglia imperiale chiamava "our old man".

In realtà i Granduchi formano ormai una specie di partito della sopravvivenza monarchica, deciso a tutto, incalzato rovinosamente dall'apocalisse. "Io e il mio portinaio vediamo perfettamente che la Russia sta perdendo tutto, nel Paese e al fronte - dice il Granduca Kirill Vladimirovic - Soltanto la famiglia imperiale non lo vede". E suo cugino Nikolaj Mikhailovic aggiunge: "L'omicidio di Rasputin è una mezza misura, bisogna togliere di mezzo l'Imperatrice. Mi balenano in mente idee omicide, non del tutto chiare ma logicamente necessarie.... Mi gira la testa... Che tempi, che maledizione si è abbattuta sulla Russia".

Due esponenti dell'opposizione alla Duma incontrano il Granduca in treno e nel viaggio parlano apertamente di zaricidio. "A poco a poco si è formato un vuoto intorno ai sovrani - aveva rivelato già mesi prima l'ex ministro degli Esteri Sazonov - nessuna voce da fuori penetra ormai nella loro casa". E i sovrani, sempre più rinchiusi a Zarskoe Selo, rispondevano odiando la città delle congiure, capitale degli intrighi. "Io sono sul trono da più di vent'anni - dirà in quei giorni la Zarina - , conosco tutta la Russia e so che il popolo ama la nostra famiglia. Chi è contro di noi? Pietrogrado: un piccolo gruppo di aristocratici che giocano al bridge e non capiscono niente". Erano gli Imperatori che non capivano più la loro città.

Solo tre anni prima l'avevano vista inginocchiarsi a terra davanti alla loro apparizione al balcone del Palazzo d'Inverno per la dichiarazione di guerra alla Germania, cantando Bozhe, Zarja khrani, "Dio salvi lo Zar, forte e maestoso, che per la nostra gloria, regna sui nemici atterriti". Vent'anni prima, nel pieno della potenza autocratica, avevano celebrato a Mosca l'incoronazione con un banchetto da settemila invitati. Appena quattro anni prima, il 21 febbraio del 1913, tutte le campane della Russia suonarono insieme dalle otto di mattina per accompagnare a mezzogiorno il cocchio scoperto su cui Nikolaj II e lo zarevic Aleksej arrivavano alla cattedrale Kazan per celebrare i fasti della dinastia, nel trecentesimo anniversario del giorno in cui nel 1613 i bojari proclamarono Zar il primo Romanov, Mikhail. Nel rito solenne del Te Deum, con cento soldati in alta uniforme sul sagrato, pronti a sguainare le sciabole della fedeltà imperiale nel saluto d'onore, si stava in realtà consumando ogni sovranità e qualsiasi potere, realizzando la profezia di Gogol, per cui "a San Pietroburgo tutto è inganno ", perché la città "mente a ogni ora, ma più che mai quando la notte cala sopra di essa come una massa densa". E il primo inganno - perenne - è la neve, che oggi come sempre sui ponti della Mojka cancella ogni traccia e altera i profili, lasciando tutto intatto come in quei giorni, un secolo fa.

Quel vuoto isterico, eccitato, instabile, fu riempito dall'irrazionale come accade quando tutto vacilla, domina la precarietà e in una città condannata al mito eterno della cosmogonia inizia il crepuscolo, quel sumerki in cui la realtà del giorno perde via via i contorni, il buio fatica a scendere e tutto rimane in attesa, incerto, indefinito ma plausibile. Ballavano i tavolini a Corte, a casa delle "montenegrine", le due principesse Militsa e Anastasija. Bussavano gli spiriti nei salotti della capitale, tra i marmi del conte Sheremetev, negli stucchi dorati della contessa Golovkin, mentre nei circoli prosperavano gli "innocenti", intermediari col soprannaturale, i magnetizzatori, gli illuminati. Massonerie che volevano la Costituzione e società segrete improvvisate crescevano ovunque, accanto al potere, mescolando affari, esoterismo, sesso. Così che oggi basta salire da soli di notte le scale di ghisa circolari e silenziose della "Rotonda" di via Gorokhovaja - i "gradini satanici" - per immaginare ad ogni pianerottolo i riti e i bordelli che si nascondevano allora dietro quelle porte, e quindi guardar giù dall'alto nel precipizio del vortice centrale fino alla fossa rinchiusa sopra la testa del demonio: che a Pietrogrado, secondo Dostoevskij, si presenta sempre con i capelli lunghi appena brizzolati, la giacca marrone, la sciarpa larga e logora, un cappello di pelo bianco perennemente fuori stagione.

L'isterismo spirituale nascondeva alleanze di potere, copriva rituali politici di bassa lega nobilitandoli nella preghiera e nascondendoli nell'arcano. A Zarskoe Selo, nel Palazzo Imperiale l'intesa tra il prefetto di polizia, il capitano Nilov, il generale addetto ai cavalli, il maresciallo di Corte formò una rete segreta all'ombra del trono per indirizzare iniziaticamente il potere, la segretissima "Camera Stellata". Tutta la città parlava delle simpatie tedesche del "Partito Occulto", vicino alla Corona. Addirittura, col pieno consenso della Zarina veniva continuamente evocato lo spirito immortale di Rasputin, celebrando un sacro "mistero" dietro il portale sbarrato della cappella di palazzo Aleksandr, con tre ministri in catena, le donne che pregavano invocando il Santo fino al momento culminante dell'"angoscia", quando il ministro dell'Interno Protopopov lo vedeva, lassù nel punto più alto della cupola affrescata, e si faceva dettare gli affari di Stato direttamente dall'oltretomba.

Si capisce che fuori, nella città reale, ogni cosa stesse scappando di mano ad un potere cieco. Tutto precipitava, e non si sapeva verso che cosa. Marx era arrivato nella capitale a cavallo del secolo con la prima edizione del Capitale tradotta in lingua straniera (tremila copie, subito esaurite), con gli opuscoli rivoluzionari diffusi nei circoli operai e passati clandestinamente da una cella all'altra tra i detenuti politici della Fortezza Pietro e Paolo. In quel momento, infatti, quando tutto stava per finire e un altro mondo stava per cominciare, i capi rivoluzionari erano in esilio come Lenin a Zurigo e Trotzkij a New York, in prigione come Dzerzhinskij, il futuro capo della Ceka - l'antenata del Kgb - , al confino o deportati sotto sorveglianza dell'Okhrana, la polizia segreta zarista che aveva ereditato metodi e poteri speciali dalla famosa "Terza sezione", e con il suo "Ufficio nero" controllava anche la corrispondenza dei sovversivi. Da qualche tempo sorvegliava con preoccupazione anche le scuole, in particolare i 90 istituti superiori dove c'erano manifestazioni quotidiane di protesta, nate per ragioni studentesche ma diventate ormai apertamente antigovernative: in una Russia in cui nei primi anni del secolo quattro ministri dello Zar erano morti in attentati progettati ed eseguiti da studenti.

Ma era nelle fabbriche e nelle famiglie che cresceva il malcontento, senza sapere che sarebbe diventato rivoluzione. Già i moti del 1905 erano nati dentro le officine Putilov, con gli operai metalmeccanici che chiedevano la giornata di otto ore e l'aumento del salario minimo. Adesso bisognava fare i conti con un costo della vita triplicato e con un salario operaio che era meno della metà rispetto alle fabbriche inglesi. Ma nessun conto si poteva fare con quello che non c'era: il pane e i generi alimentari di immediata necessità. Prima di Natale manca lo zucchero e le grandi aziende Ivanov e Markov a Mosca chiudono il loro mercato all'ingrosso nel Proezd Lubjanskij che rifornisce tutto il Paese. Il prezzo del tram rincara, senza una spiegazione. Il burro a Pietrogrado sparisce di colpo, poi ricompare all'improvviso a prezzi impossibili, e la gente lo compra comunque, spaventata all'idea di non trovarlo più domani. Psicosi e speculazione si danno il cambio nei mercati, nelle vetrine vuote, ovunque ci sia qualcosa da vendere e da comprare per trasformarlo in un pranzo o una cena.
Ma bisogna attraversare i ponti che hanno ancora l'aquila bicipite sui lampioni in ferro battuto, camminare in senso contrario alla folla rivoluzionaria e andare a cercare il punto d'origine di tutto, nei quartieri operai di Vyborg e di Narva. Qui non ci sono più i forni del pane, ma guardandosi intorno tra le ciminiere si rivede lo stesso fumo di cent'anni fa, quando per i lavoratori delle officine c'era il divieto di tenere riunioni, l'impossibilità di cambiare fabbrica, la proibizione di organizzare mense. Prima, il 9 gennaio, gli operai scelgono l'occasione dell'anniversario della "Domenica di sangue" del 1905 e scendono in sciopero. Poi il pensiero europeo di Marx si realizza nelle strade di Pietrogrado, per la materialità della crisi, la vastità dell'emergenza, il clamore della sua evidenza, senza uno schema ideologico. Scende la temperatura, si allarga il gelo, circola la voce che ci sarà un razionamento dei pochi prodotti nei negozi. Si formano code di donne, di vecchie, di uomini inferociti. Si allungano di notte. Si gonfiano di rabbia col freddo. Qualcuno spacca le vetrine, forza le porte nel buio, ci sono i saccheggi disperati del nulla.

Manca soltanto il detonatore, che sta arrivando. Ma nell'attesa la protesta sta già cambiando direzione, sa dove vuole andare e si rivolge subito contro l'Imperatore, "Zar Golod", lo "Zar Fame", colpevole di tutto, la penuria, le code, l'avvilimento e il furore delle famiglie senza cibo e senza diritti, tradite da un potere lontano, separato, inconsapevole perché incosciente, che nella miseria delle tavole vuote perde ogni maestà, qualsiasi sacralità, tutta la potestà imperiale, distrugge perfino l'antica devozione contadina per il "piccolo padre". L'Okhrana con i suoi agenti infilati nelle code vede arrivare il crollo, invia rapporti sempre più allarmati al governo. "Le donne sfinite dalla fame dei figli e dalle attese interminabili davanti ai negozi sono oggi forse più pronte alla rivoluzione dei loro uomini", dice una relazione di gennaio 1917. Nel febbraio 1914 Petr Durnovo, il ministro degli Interni conservatore, aveva già previsto tragicamente ogni cosa in un memorandum quasi profetico all'Imperatore: "Tutto avrà inizio con l'accusa al governo di essere la causa di ogni male. Si scatenerà una violenta campagna antigovernativa con agitazioni rivoluzionarie in tutta la Russia e parole d'ordine socialiste capaci di sollevare la masse, come la spartizione delle terre e di tutti i beni privati. Le forze armate sconfitte saranno troppo demoralizzate per difendere la legalità e l'ordine. Le istituzioni parlamentari e i partiti, mancando di ogni ascendente sul popolo, saranno impotenti ad arginare la marea popolare da loro stessi provocata e la Russia sprofonderà nella più disperata anarchia".

Chi riceveva i rapporti segreti, chi leggeva i memorandum? Il governo sottovaluta, lascia che lo Zar parta per il quartier generale di Mogilev, dopo che a Zarskoe Selo è rimasto nei suoi appartamenti, dietro la porta chiusa su cui vigilano le quattro guardie abissine coi i turbanti candidi, col divieto di parlare e dopo mezzanotte anche di starnutire. La guerra aveva fatto saltare la fiera di beneficienza nella Sala della Nobiltà, ma i pranzi nel Palazzo Imperiale (quattro piatti a colazione, cinque a cena) venivano sempre preparati per dieci persone, pronti per ospiti improvvisi, come se nel villaggio dell'imperatore tutto fosse normale. In sordina, dopo Natale erano iniziate anche le danze (agli ufficiali era proibito il tango se indossavano l'uniforme), con il famoso "ballo bianco" per le ragazze senza fidanzato, e si pensava già al carnevale, ignorando che non ci sarebbe più stato.

Ma la Corte appare immemore, ipnotizzata dalla precognizione indecifrabile della sua rovina e incapace di trasformare il presagio in politica. La cerchia più larga attorno alla Corona è ancora più avvinghiata al rituali, per paura di perderli. Pochi giorni prima che la scintilla rivoluzionaria si accenda nelle strade di Pietroburgo, la ballerina Mathilde Ksesinskaja - ex fiamma di Nikolaj II quando era un giovane ufficiale della Guardia - apre casa per una cena con 24 ospiti con i piatti di Limoges, il servizio da pesce dorato, myosotis e merletti intrecciati al centro del tavolo, accanto a fiori artificiali in pietre preziose e un piccolo albero di Natale dorato addobbato di diamanti.

Così scivolava "Piter" verso il Febbraio della storia, in una corsa inevitabile come quella delle acque della Neva. Come annota in quei giorni Zinaida Gippius nel suo diario azzurro, "non accade nulla fuori da Pietroburgo, tutto ha inizio qui e da qui si diffonde, solo qui si può sapere, vedere, capire". La città dai tre nomi, scrive Aleksej Tolstoj, vive quelle ore dentro una continua notte da sonnambuli, "fosforescente ed eccitata", "folle e voluttuosa con le sue trojke, i suoi duelli all'alba, le parate davanti a un imperatore con gli occhi bizantini": accanto alla disperazione delle file per il pane, alla rabbia popolare che scopre se stessa, forte, autonoma, consapevole e cosciente, in un Paese costruito per un potere solo, assoluto e proprietario più ancora che sovrano. Le due anime travagliate formano insieme Pietrogrado, splendida e terribile nella brace ardente di quei giorni, ultima capitale dell'Impero zarista, prima capitale della rivoluzione, eterna capitale simbolica di ogni fine e di tutti gli inizi. Ma adesso, nella sospensione del destino, "Piter" è il personaggio centrale di tutto, scena e attore, protagonista e fondale, come se la città tutta insieme salisse i 13 gradini della scala di Raskolnikov nel vicolo Stoljarnyj per incontrare il suo delitto e il suo castigo, inaugurando la "grande epoca".

Di notte, cent'anni dopo, tutto sembra com'era, in questa composizione intatta di storia e di luce, di marmi e di fato, di ghiaccio e memoria. Cammino da un ponte all'altro sui canali fino al fiume Prjazhka cercando una finestra. Quella al numero 57 di ulitza Dekabristov dove il poeta Aleksandr Blok passava ore al buio, in quelle notti, guardando il "freddo violetto" di Pietrogrado: e oltre la finestra, "la Russia che vola chissà dove, nell'abisso azzurro- blu dei tempi".

(2. continua) -
© Riproduzione riservata 13 gennaio 2017
4588  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / FRANCESCA SCHIANCHI. “Devi parlare con noi”. “Allora lascio”. inserito:: Agosto 08, 2017, 06:10:36 pm

“Devi parlare con noi”. “Allora lascio”. E Gentiloni chiede aiuto a Mattarella
Lo sfogo di Delrio a Palazzo Chigi: Marco ha sbagliato metodo. Imbarazzo del premier.
L’intervento risolutore del Quirinale

Pubblicato il 08/08/2017

Francesca Schianchi
Roma

Quando ormai è sera, conclusa la giornata più burrascosa di questi otto mesi alla guida del Viminale, il ministro Marco Minniti si sente finalmente rassicurato. Palazzo Chigi ha diffuso un comunicato per ricordare che l’unica linea del governo su Libia, contrasto ai trafficanti e immigrazione è la sua. Ma, soprattutto, il Quirinale ha redatto una nota informale per garantirgli tutto il suo appoggio e apprezzamento per il lavoro che sta facendo, tentativo estremo e riuscito di scongiurare le sue dimissioni e sedare la rivolta che si stava sviluppando tra i ministri contro di lui. Mettendo fine a un pomeriggio ad altissima tensione, che lascia per qualche ora seriamente in difficoltà il governo: «O mi tutelate o lascio. Se la linea politica non è più condivisa, il mio compito è finito», minaccia Minniti a un certo punto.

LEGGI ANCHE - Codice delle Ong, Minniti minaccia le dimissioni. Scudo del Colle per salvare il governo (A. Carugati) 

Alle quattro e mezza del pomeriggio, al termine della riunione del governo, è chiacchierando con i colleghi che il responsabile delle Infrastrutture, Graziano Delrio, sfoga tutta l’irritazione covata in questi giorni sulla vicenda del trattamento delle Ong: «Le scelte strategiche non si fanno fuori dal Consiglio dei ministri, è un problema di metodo, mi sarei aspettato di discutere oggi della questione del codice di condotta». Nel corso della riunione dell’esecutivo si parla di scuola, di stato d’emergenza per la crisi idrica in Lazio e Umbria, di equo compenso nelle prestazioni legali: non una parola invece sul protocollo destinato alle associazioni non governative fonte di tensioni tra lui e Minniti. Anzi, il titolare dell’Interno a Palazzo Chigi non si presenta proprio e avverte il premier Paolo Gentiloni, pare addirittura con una lettera: tutti lo aspettano per avere finalmente chiarimenti sulle sue parole dure dei giorni scorsi (le associazioni che non firmano si mettono «fuori dal sistema di soccorso»), ma dopo la lettura dei giornali che danno conto delle critiche contro la sua linea, decide di disertare. 

Una scelta che non piace ai colleghi, a partire da Delrio ma non solo. Nei capannelli a margine della riunione, sono in tanti a mostrarsi scocciati dall’atteggiamento del ministro e delusi dalla mancata discussione sull’argomento, infastiditi non solo dal merito della questione, ma anche dall’atteggiamento “solitario” dal collega: da Andrea Orlando a Maurizio Martina, da Angelino Alfano a Valeria Fedeli e Marianna Madia. Una fronda trasversale che va dalla maggioranza alla minoranza del Pd, passando per Ap, e che decide di rivolgersi al premier. 

Così, al capo del governo impegnato in una perenne mediazione tra le diverse sensibilità dell’esecutivo, si presenta un problema cresciuto in pochi giorni a dismisura. Domenica aveva dovuto richiamare all’ordine il viceministro Mario Giro, per un’intervista critica sulla missione in Libia e, in particolare, sul trattamento dei migranti riportati sulle coste di Tripoli («non possiamo condannarli all’inferno»), incassando frasi di sostegno pubbliche anche da esponenti del Pd. Ieri erano filtrate nuove tensioni con Delrio, che già un mese fa, dinanzi alle minacce di Minniti, aveva assicurato «nessun porto chiuso, lo dico da responsabile della Guardia costiera e delle operazioni di soccorso ai migranti». Parole critiche vengono anche dal ministro della Giustizia Orlando, «dobbiamo disciplinare il settore senza correre il rischio di una criminalizzazione indiscriminata». L’allarme si fa rosso, Gentiloni sente il presidente Mattarella e si decide la exit strategy: garantire a Minniti un sostegno pubblico totale per il suo operato, come lui ha richiesto. Camminando su un fragile crinale che consenta però anche di non sconfessare la linea più “morbida” di Delrio, Giro e chi la pensa come loro.

 

Scongiurato il peggio, evitate dimissioni che avrebbero creato non pochi problemi all’esecutivo, proprio nel momento in cui gli sbarchi invertono la tendenza e nell’opinione pubblica sta passando l’idea che il problema cominci ad essere governato, Minniti può dirsi soddisfatto. Il ragionamento che ha fatto a Gentiloni è chiaro: sono io, in sintesi, quello che da anni, fin dai tempi di Renzi a Palazzo Chigi, tratta costantemente con i libici. Prima da responsabile dei servizi segreti, poi, da dicembre, direttamente da ministro, è lui che ha fatto la spola tra Roma e Tripoli, parlando con il premier Sarraj come coi capitribù, guadagnando il rango di interlocutore con vari attori del complicatissimo panorama libico. Per quanto possa sembrare anomala, la situazione è questa: a chi lo critica, a chi lo definisce troppo decisionista e accentratore, vorrebbe ribattere: e voi dov’eravate? È quello che avrebbe detto loro se fosse andato alla riunione del governo. Ma prima, voleva avere la rassicurazione pubblica che Gentiloni e Mattarella fossero con lui.

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/08/08/italia/politica/devi-parlare-con-noi-allora-lascio-e-gentiloni-chiede-aiuto-a-mattarella-yfRk6rcsSP6G2okomQpWpJ/pagina.html
4589  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / MAURO FAVALE Renzi: "Mio padre è stato male, mi sono sentito in colpa. inserito:: Agosto 08, 2017, 06:06:47 pm
Renzi: "Mio padre è stato male, mi sono sentito in colpa. Ora faccio cose normali come tutti i papà
Dall'inchiesta Consip e dai rapporti con il papà Tiziano alla sconfitta referendaria e ai voltafaccia degli ex alleati. Ma anche i giochi con i figli e i rimproveri della moglie.
L'ex premier si racconta in un'intervista a Vanity Fair: "Non lo immaginavo, ma la discesa dal carro è un momento spassoso"

Di MAURO FAVALE
08 agosto 2017

"QUANDO, qualche settimana fa, mio padre si è operato al cuore e l'ho visto sul lettino, in ospedale, ho pensato fosse colpa mia". Ancora gli strascichi del caso Consip, ancora il rapporto personale tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano, coinvolto nell'inchiesta della procura di Napoli. A parlarne, in un'intervista a Vanity Fair in edicola domani, è il segretario del Pd che torna su una vicenda che, spiega, "fa male, molto male".

Mesi fa, attraverso alcune intercettazioni finite sui giornali, erano emerse le frizioni tra padre e figlio, con Renzi che sembrava dubitare della buona fede del papà. Frizioni che, assicura l'ex premier, non hanno lasciato tracce nel rapporto tra i due. Renzi racconta però i suoi sentimenti dopo l'operazione al cuore subita da Tiziano: "C'era mia madre con me e mi è sembrato di vedere nel suo sguardo lo stesso mio dubbio. Mi sono venute le lacrime agli occhi, ma le ho trattenute e nessuno si è accorto di nulla".

È convito che, alla fine di questa storia, "il procedimento contro mio padre sarà archiviato anche stavolta. Non c'è nulla, se non il cognome che porta. Ma saranno i giudici a decidere, io aspetto di sapere i nomi di chi ha falsificato le prove contro l'allora premier. Nessuno ne parla, ma a livello istituzionale questo è un fatto di una gravità inaudita". Nelle anticipazioni dell'intervista al settimanale, altri momenti 'personali' della vita dell'ex presidente del Consiglio, tornato a casa dopo i 1.000 giorni a Palazzo Chigi. Tre anni che hanno ridefinito gli equilibri interni alla famiglia: "È stata brava Agnese - racconta Renzi parlando della moglie - quando ha deciso che i nostri figli non sarebbero venuti a Roma. Io, all'inizio, non ero d'accordo, ma con il senno di poi le do ragione. Stare a Pontassieve ha consentito ai miei figli di vivere una vita normale. E avere, al massimo, solo qualche compagno che li prendeva in giro per il referendum o per la mia pronuncia inglese".

Ancora scorci di vita privata, del Renzi che rientrava a casa da Roma mettendosi a disposizione dei figli "per giocare alla playstation o fare solo cose divertenti". Atteggiamento "non educativo", secondo la moglie Agnese: "Diceva: non è che io sto sei giorni qui a spaccarmi la schiena e poi arrivi tu e fai lo splendido. Però ci sono stati anche momenti spiacevoli per me - prosegue il segretario Dem - per esempio quando i miei figli non mi volevano alle loro partite perché avevo 10 persone di scorta. Adesso che sono più spesso a casa faccio le cose normali che fanno tutti i papà, tipo mettere la sveglia alle 3 di notte per andare a prendere mio figlio dopo una festa. E non sentire la sveglia…". Infine,

i riflessi della sconfitta referendaria: "Li ho visti i leccaculo professionisti, potrei tenere un corso per riconoscerli. Non lo immaginavo, ma la discesa dal carro è un momento spassoso: quelli che prima ti adulavano smettono di salutarti. Ma è un gioco e io sto al gioco".

© Riproduzione riservata 08 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/08/news/renzi_mio_padre_e_stato_male_ho_pensato_per_colpa_mia_ora_faccio_cose_normali_-172644288/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P3-S1.4-T1
4590  Forum Pubblico / L'ITALIA, FATTI e FETENTI dei nostri PANTANI, dei TUGURI e delle CLOACHE / Ragusa, indagati 15 pompieri volontari: “Appiccavano incendi per guadagnare” inserito:: Agosto 08, 2017, 06:04:59 pm
Ragusa, indagati 15 pompieri volontari: “Appiccavano incendi per guadagnare”
Dalle indagini è emerso che il capo del gruppo si assentava per andare ad appiccare il fuoco. Poi uscivano con l’autobotte a spegnere le fiamme e percepivano così i 10 euro l'ora previsti come compenso. L'uomo è agli arresti domiciliari. Quasi tutti gli indagati hanno ammesso le proprie responsabilità per i fatti avvenuti tra 2013 e 2015

Di F. Q. | 7 agosto 2017

Appiccavano il fuoco per guadagnare 10 euro all’ora. E’ l’accusa contestata dalla Polizia di Stato di Ragusa a un’intera squadra di 15 pompieri volontari, ora indagati a vario titolo per truffa e incendio doloso. Il capo del gruppo è stato arrestato ed è ai domiciliari. La squadra, secondo chi indaga, appiccava incendi e lanciava falsi allarmi alla sala operativa del 115 per percepire i compensi previsti dallo Stato per i volontari dei Vigili del fuoco: riusciva così a fare il triplo degli interventi rispetto alla media degli altri turni. Quasi tutti i 15 uomini hanno ammesso le proprie responsabilità durante gli interrogatori. “Loro sanno tutto, sanno che abbiamo dato fuoco”, si dicevano tra di loro mentre venivano intercettati negli uffici della squadra mobile della Questura di Ragusa.

Dalle indagini della squadra mobile è emerso che il capo del gruppo durante il turno come volontario si assentava, con la complicità dei colleghi, per andare con il suo furgoncino ad appiccare incendi a cassonetti e terreni, per poi uscire con l’autobotte a spegnere le fiamme e percepire così le indennità. Addirittura, sostiene la polizia di Stato, “in una occasione, ha detto di voler ‘fare scoppiare una bomba‘ pur di prendere le indennità”. In altre occasioni invece, i vigili del fuoco volontari chiedevano “aiuto” a parenti e amici, ottenendo così segnalazioni da parte loro del tutto inesistenti. La Procura aveva chiesto provvedimenti cautelari per tutti, ma il Gip ha ritenuto passato troppo tempo dai fatti contestati, avvenuti tra il 2013 e il 2015. Il capo gruppo è stato sottoposto agli arresti domiciliari perché “ha continuato a reiterare il reato”.

La prima segnalazione è arrivata dal Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Ragusa, che aveva notato delle anomalie sul numero di interventi effettuati da quella squadra rispetto alle altre. Rispetto agli altri volontari, gli indagati operavano tre volte in più: a dispetto di 40 interventi di una squadra, loro ne effettuavano 120. Le indagini della polizia erano dunque mirate a chiarire il motivo di eventuali richieste simulate. Nel distaccamento dei Vigili del fuoco di Santa Croce Camerina prestavano servizio, suddivisi in quattro turni, decine di volontari e tra gli altri i 15 indagati tutti nella stessa squadra. Anche se volontari, gli uomini del distaccamento percepiscono delle indennità, ma solo quando effettuano gli interventi. Se invece restano nella caserma, non hanno diritto ad alcun rimborso.

Di F. Q. | 7 agosto 2017

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/08/07/ragusa-indagati-15-pompieri-volontari-appiccavano-incendi-per-guadagnare/3780232/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2017-08-07
Pagine: 1 ... 304 305 [306] 307 308 ... 529
Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!