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Autore Discussione: Quegli agenti "Nessuno" al lavoro in prima linea ...  (Letto 2416 volte)
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« inserito:: Settembre 26, 2007, 12:13:17 pm »

ESTERI

A volte se ne intuisce il nome quando una vedova riceve un'onorificenza

Nel tempo della "politicizzazione dell'intelligence" è il rapporto con il potere il "fattore primario"

Quegli agenti "Nessuno" al lavoro in prima linea

di GIUSEPPE D'AVANZO

 
ANCHE con la vita affidata ormai soltanto a un respiratore artificiale, è Nessuno il suo nome - il nome dell'agente del Sismi catturato e colpito alla nuca nel distretto di Shindad. Non ha una faccia, una famiglia, una storia.

L'agente sul campo, non official cover, l'intelligence operativa che agisce senza alcuna copertura ufficiale, non deve averne, non può averne. A volte se ne intuisce il nome quando una vedova riceve un'onorificenza al Quirinale o se ne comprende il destino quando la sua morte viene archiviata in fretta come "incidente stradale" senza un dettaglio, senza una ricostruzione e senza un nome, appunto.

Una volta gli "agenti sul campo" erano, più o meno, sempre falsi uomini d'affari che vivevano nelle lounge dei grandi alberghi. Gli italiani, soprattutto in Africa e in Medio Oriente e nei "quartieri occidentali". Offrivano da bere. Pagavano qualche donnina. Rubacchiavano un po' dai fondi riservati. Combinavano improbabili affari e intanto annotavano un paio di dettagli, una connessione, un interesse. Se erano audaci, si spingevano a fotografare uno stabilimento industriale sospetto. Il loro lavoro di spie finiva, più o meno, qui. Operazioni che includevano una diarrea, come abituale inconveniente da mettere nel conto, non veniva nemmeno immaginata o programmata.

La "guerra al terrore", le missioni all'estero del nostro esercito - anche quelle con low intensity warfare, con azioni militari a bassa intensità - hanno cambiato le carte in tavola, gli obiettivi, i metodi di lavoro e la forza d'animo necessaria per fare quel lavoro ingrato. Perché bisogna innanzitutto sapere qualcosa in più delle troppe cose che si ignorano, avere conoscenze politiche e territoriali, districarsi tra i clan, venire a capo dei loro obiettivi e della loro forza militare. Chi è chi, in Afghanistan, nel garbuglio di bande criminali, milizie della droga, reparti di polizia infedeli e corrotti, taliban fanatici?

Per saperlo non ci sono scorciatoie o tecnologie che facciano il lavoro in tua vece. Occorre andare incontro al nemico, conoscerlo, incontrarlo, prenderne le misure, magari stringere con lui patti segreti, come in passato, i sovietici hanno fatto con Massoud e gli americani con i mujahiddin, prima, e i signori della guerra e della droga, poi. E come abbiamo fatto anche noi italiani con Padasha Khan Zadran, un signore della guerra che controllava e pretendeva un tributo per qualsiasi cosa si muovesse lungo la strada per Gardez, unica via di rifornimento per la base di Khost, al confine con il Pakistan, dove i nostri soldati erano impegnati nella missione Nibbio.

Un altro modo di fare la spia, andarsene in borghese per settimane lungo le vie di montagna senza copertura e protezione con la vita affidata alla fedeltà del tuo "sherpa", a una pistola leggera infilata sotto la camicia, al telefono satellitare, al global position system che dovrebbe permettere alla consolle del comando di individuarti, prima o poi. Un modo che, nel Sismi, la divisione "Operazioni Internazionali" di Nicola Calipari inaugurò già alla vigilia dell'invasione in Iraq, alla fine del dicembre 2002.

Per due settimane, una ventina di agenti sul campo "sotto copertura" - coperture che richiesero un sforzo molto fantasioso, fu detto - si infiltrarono nelle aree metropolitane di Bassora, Bagdad, Kirkuk per prendere contatti con un'affidabile rete di informatori dell'intelligence militare, costituita da ufficiali addestrati nelle nostre accademie militari e diventati, nel corso del tempo, generali e capi di stato maggiore; da tecnici che avevano lavorato a fianco degli italiani e in Italia quando il nostro Paese, negli anni Ottanta, riforniva Saddam Hussein di navi, sistemi di armamento, tecnologie. Gente che non aveva dimenticato Roma e che, da Roma, non era stata dimenticata nemmeno durante la prima guerra del Golfo. Saddamiti del partito Baath. Alti ufficiali sunniti.

In quel Natale del 2002 diventano fonti preziose. Raccontano agli agenti di Nicola Calipari che, negli arsenali di Saddam, non ci sono armi di distruzione di massa. Non c'è l'ordigno nucleare. Non ci sono i missili a lunga gittata. Non c'è la possibilità di armare testate missilistiche con veleni biologici e chimici. C'è soltanto uno stato maggiore che attende di arrendersi al miglior prezzo possibile. Un esercito che non vuole combattere né può farlo con il morale sotto le scarpe, in qualche caso nemmeno con le scarpe, armato con tank e veicoli da combattimento che sono relitti della guerra 1980/1988 contro l'Iran, privi di parti di ricambio, arnesi arrugginiti e inutilizzabili.

Sono informazioni decisive che consentono alle forze della coalizione di dare il via all'invasione senza l'angoscia di dover "perdere", come andavano prevedendo gli analisti del Pentagono, trentasettemila uomini. Sono informazioni che consentono all'esercito americano di attraversare il deserto fino a Bagdad con camion e cingolati con portelloni e botole aperti, senza sopravestiti protettivi, in colonne immense con distanza intraveicolare quasi nulla.

Grazie ai venti Nessuno della "Operazioni Internazionali", i comandi delle forze di coalizione sapevano che l'aggressione chimico-biologica non ci sarebbe stata; che i ponti di Bagdad non sarebbe stati distrutti; che insomma sarebbe stata più o meno una passeggiata, come fu.

Sono queste informazioni, raccolte dagli agenti sul campo, che danno, per un certo periodo, credibilità internazionale alla nostra intelligence militare e che convincono l'oligarchia che la controlla e il governo che la indirizza a "politicizzare" sempre di più l'intelligence con lo scopo esplicito - per chi volesse vederlo - di influenzare l'opinione pubblica, ottenere il sostegno alla guerra, declinare la paura come un'idea politica e farne un mestiere, anzi una carriera. E' la svolta che lascia in un canto, dimenticati, e per un lungo periodo, gli agenti sul campo come Nessuno.

A che servono ormai? Nel tempo della "politicizzazione dell'intelligence", delle manovre tutte "interne" della sua oligarchia, è il rapporto con il potere il "fattore primario", la priorità. Così è più facile incontrare il capo del controspionaggio nei pressi di Montecitorio che in un aeroporto in partenza per la zona delle operazioni. Più consueto che un direttore di divisione si "lavori" giornalisti a grappoli e non che diriga gli uomini sul terreno.

A questi tocca tornare all'attenzione, sotto pressione e in zona operazioni soltanto in occasione delle crisi degli ostaggi. Con un lavoro ribaltato rispetto alla missione originaria. La raccolta delle informazioni, in questi casi, muta di segno. Le notizie non servono per individuare il nemico e annientarlo né per conoscerne le intenzioni e le strategie né magari per cooptarlo. Di quel nemico bisogna valutare le pretese, renderle accettabili, soddisfarle per recuperare gli ostaggi.

Gli agenti sul campo diventano mediatori e niente di più che "ufficiali pagatori". Anche questa stagione sembra finita e il sottile filo che tiene in vita un uomo di trent'anni in un ospedale militare afgano ci ricorda l'oscuro e misconosciuto lavoro dei Nessuno che un'intelligence obliquamente ambiziosa aveva messo da parte.

(26 settembre 2007)
da repubblica.it
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