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5791  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MAURIZIO MOLINARI 2017, l’arrivo del tycoon inserito:: Gennaio 06, 2017, 03:01:49 pm
2017, l’arrivo del tycoon

Pubblicato il 31/12/2016  -  Ultima modifica il 31/12/2016 alle ore 07:18

Maurizio Molinari

La maggiore incognita del nuovo anno è anche la più evidente novità con cui inizia: Donald J. Trump nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca. Il 20 gennaio, sui gradini di Capitol Hill a Washington, il 45° Presidente degli Stati Uniti giurerà sulla Costituzione e da quel momento l’imprevedibile magnate di New York diventerà l’uomo più potente del Pianeta. Le incognite si legano al fatto che si tratta di un leader anomalo, che non ha alle spalle un partito politico, un sistema di «think thank» o una parte dell’establishment di Washington. Esprime la forte volontà di cambiamento degli americani ma debutta da leader solitario.

L’identità di Trump è quella del tycoon della Grande Mela: un protagonista del business che programma, realizza e rinnova sulla base di singoli progetti a cui affida scommesse e fortune, battendosi a viso aperto per riuscire. Per comprendere come governano i tycoon bisogna tornare alla New York di inizio Novecento quando John Jacoob Astor, Cornelius Vanderbilt, Andrew Carnegie, John D. Rockefeller, Henry Ford e Joseph P. Kennedy guidarono la trasformazione della città appollaiata sulla Baia dell’Hudson in una metropoli applicando un metodo nitido: investimenti da capogiro, polso di ferro e scarsa predisposizione a prendere prigionieri fra gli avversari.

Se il presidente Theodore Roosevelt riuscì a modernizzare l’America fu perché furono i tycoon a suggerirgli, con il loro modo di operare, la formula che descrisse la prima proiezione del potere dell’America fuori dai propri confini: «Parlare dolcemente, tenendo nelle mani un grande bastone». A tratteggiare l’identità del tycoon sono le mosse con cui Trump sta mettendo assieme la propria amministrazione: i generali Michael Flynn, James Mattis e John Kelly per gli incarichi chiave nella sicurezza, il petroliere Rex Tillerson al Dipartimento di Stato ed i veterani di Goldman Sachs Steve Mnuchin e Gary Cohn alla guida dell’economia. Ovvero, su ogni fronte Trump si affida a uomini di polso espressione dei poteri che formano la spina dorsale della nazione: forze armate, energia e finanza. 

Se Barack H. Obama, quando si insediò nel 2009 alla Casa Bianca scelse di avere per governo un «team di rivali», ovvero politici in forte contrasto fra loro, ripetendo il modello di Abramo Lincoln, Trump dimostra di volere un team di leader forti, ognuno nel proprio settore, per riunire attorno ad un tavolo chi più assomiglia ai tycoon di New York ovvero con capacità, risorse ed esperienze per ricostruire l’America. Saranno i primi 12 mesi di governo a dirci se tale formula avrà successo nel sanare le ferite economiche della nazione, far accelerare la crescita Usa e trainare quella dell’intero Pianeta. 

Quanto avvenuto nell’ultima settimana suggerisce che Obama sta tentando in ogni modo di ostacolare l’insediamento di Trump: il provocatorio discorso di John Kerry contro Israele e l’espulsione di 35 diplomatici russi svelano l’intenzione di far deragliare sin dall’inizio il nuovo Presidente nei rapporti con due partner strategici come Gerusalemme e Mosca. Ponendo le premesse per lotte politiche al Congresso ed indagini giudiziarie capaci di immobilizzare l’amministrazione. Obama ha capito che ha a che fare con un tycoon e tenta di imbrigliarlo, per togliergli l’iniziativa. Sono le avvisaglie di una feroce sfida dentro la Beltway fra chi guiderà i democratici dopo la sconfitta di Hillary e i nuovi repubblicani di Trump. Quale che sarà l’esito del debutto del tycoon, avremo a che fare con le sue conseguenze.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/31/cultura/opinioni/editoriali/larrivo-del-tycoon-kMOCE3SHb4o1zDu6S4S72J/pagina.html
5792  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Sandra Riccio. Nel 2016 Milano è la Borsa peggiore inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:59:45 pm
Nel 2016 Milano è la Borsa peggiore   
Colpa delle banche e di Mps (-87%). Il Cda dell’istituto senese studia bond da 15 miliardi

Pubblicato il 31/12/2016
Ultima modifica il 31/12/2016 alle ore 13:39

Sandra Riccio
Milano

Nonostante la Brexit e Trump il 2016 è stato un anno da record per le Borse mondiali. Piazza Affari però non festeggia: il listino milanese è stato il peggiore tra i principali Paesi europei con un calo del 10,2%. Eppure l’anno era iniziato bene dopo un 2015 fortunato che aveva spinto l’FtseMib in cima alla classifica dei migliori con guadagni del 13%. 

Non sono bastati gli ultimi due mesi di forte recupero per riportare di nuovo a galla la Borsa di Milano. A pesare è stato l’annus horribilis del settore bancario con perdite che hanno quasi dimezzato l’indice di settore (-39%). Tradotto in euro vuol dire che nei dodici mesi appena trascorsi, tra i bancari, sono andati in fumo ben 43 miliardi di capitalizzazione. Per dare qualche numero: Unicredit ha perso 14,8 miliardi (-46,8%), Intesa 11 miliardi (-21,4%), Banco Popolare 4,95 miliardi (-75,7%), Ubi Banca 3,4 miliardi (-57,8%) e Bpm 2,46 miliardi (-60,8%). Montepaschi è stato il titolo peggiore con un crollo dell’87% e 3,2 miliardi di capitalizzazione bruciati. Ieri, intanto, si è riunito a Siena il Cda della banca senese. Il board ha ragionato sui dettagli di un emissione di 15 miliardi di bond che nel 2017 permetterà a Rocca Salimbeni di tornare ai livelli di liquidità di fine 2015. E’ solo uno degli appuntamenti in programma nel 2017 per Mps. Tra i più attesi c’è quello del nuovo piano industriale che dovrà essere pronto entro fine gennaio. 

Tornando alle Borse, a sorpresa la miglior performance l’ha messa a segno il listino londinese ha è riuscito a chiudere il 2016 sui massimi storici con un progresso del 14,4% (in valuta locale). Il tanto temuto effetto Brexit - la decisione di lasciare l’Unione europea - non ha colpito la Borsa londinese. Tuttavia il risultato, se calcolato in euro, è ribaltato e mostra un calo di un punto e mezzo per Londra. Ha, invece, brillato senza incertezze l’indice di Francoforte che ha chiuso il 2016 sui massimi con guadagni del 6,9%. Tendenza analoga anche per Parigi che ha portato a casa un progresso del 4,9% mentre Madrid ha perso due punti percentuali. 

Bene è andata negli Stati Uniti dove la Borsa di Wall Street, incurante del temuto arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, ha messo in fila un record storco dopo l’altro. Il Dow Jones ha così finito l’anno sui massimi e con un rialzo del 13,7%. Dall’altra parte del mondo ha, invece, deluso la Borsa cinese con perdite dell’11,2% e si colloca così tra i listini che hanno fatto peggio nei dodici mesi, insieme a Lisbona (-11,9%), Shanghai (-12,3%), Shenzhen (-14,7%) e Città del Messico (-11,3%).

Il 2016 sarà ricordato, oltre che per la débâcle delle banche italiane, anche per il forte recupero del prezzo del petrolio che in pochi mesi è salito del 52% (Brent). L’indice di settore europeo ha subito guadagnato il 22% ed Eni ha concluso l’anno con un buon recupero del 12%. Anche l’oro ha fatto bene arrivando a 1.156 dollari l’oncia (+8,9%). Indietro invece l’euro che ha perso quasi tre punti percentuali sul biglietto verde.

A Piazza Affari tra i migliori si sono piazzati tecnologici (è stato questo il miglior settore dell’anno a Milano), industriali e lusso. Stm ha guadagnato il 7%, Tenaris il 57%, Buzzi il 40%, Cnh il 39% mentre Moncler ha fatto +33% e Ferrari +26%. Intesa Sanpaolo è stata l’azione più trattata per controvalore, con un totale di 78 miliardi, mentre Unicredit è stata la più scambiata in termini di contratti con 5,8 milioni di contratti.

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http://www.lastampa.it/2016/12/31/economia/nel-milano-la-borsa-peggiore-colpa-delle-banche-e-di-mps-bJxownh9deXovU9olz6bBN/pagina.html
5793  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Elena Loewenthal. Pio IX e i predatori del bambino perduto inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:51:16 pm
Pio IX e i predatori del bambino perduto   
La storia di Edgardo Mortara, il piccolo ebreo bolognese battezzato in segreto e sottratto alla famiglia per volontà del Papa, diventerà un film di Spielberg. Nell’800 originò una battaglia politica e culturale che divise l’Italia e l’Europa

Pubblicato il 04/01/2017
Elena Loewenthal

È una storia terribile e spietata, ma anche carica di una malinconia straziante e persino di una strana, assurda dolcezza. È un incrocio fatale di destino personale e interessi pubblici, un gomitolo di contraddizioni che non c’è modo di sciogliere. È una storia oscena nel senso originario dell’aggettivo: l’assurda implosione di qualcosa che non doveva accadere e invece accade e diventa un pubblico scandalo. È, prima di tutto questo, una storia di dolore insopportabile, detto e taciuto, come ben racconta il quadro di Moritz Oppenheimer che ritrae la scena madre: un bambino smarrito ma al centro di tutto, conteso da mani e abiti talari. E una donna straziata. Chissà se in questo magnifico e tragico dipinto troverà ispirazione Steven Spielberg, che fra poche settimane inizierà in Italia le riprese del film basato su questa storia da cui è rimasto folgorato appena l’ha letta.

Ordinato prete a 23 anni 
Il 23 giugno 1858 il piccolo Edgardo Mortara, neanche sette anni, viene prelevato per sempre dalla sua casa di Bologna. È ebreo, ma un giorno era stato segretamente battezzato dalla giovane domestica di casa, Anna Morisi, poco più che una bambina pure lei, tredici o quattordici anni. Tempo dopo l’Inquisizione di Bologna, città che all’epoca si trovava ancora entro i confini dello Stato Pontificio, avvia le ricerche e ottenuta conferma dell’accaduto invia i gendarmi a prelevare il bambino per portarlo nella casa dei Catecumeni - istituzione creata apposta per neoconvertiti e mantenuta grazie a una tassazione imposta alle comunità ebraiche - così da avviare la sua «ineludibile» educazione cattolica.

Perché? Per una terribile catena di incongruenze. I Mortara avevano in casa una domestica cattolica anche se agli ebrei ciò era vietato. Anna battezza il bambino (Edgardo aveva un anno soltanto, allora) per il terrore che muoia privo del sacramento, anche se ai cattolici era vietato battezzare ebrei di nascosto. Stando a una ferrea logica della fede, tutto era ormai irreparabile: entrato all’insaputa nella comunità di Cristo, il bambino andava strappato al suo mondo perché non incorresse nel peccato di apostasia. Doveva essere educato cristianamente, lontano da quel mondo di «perfidi» (nel senso di «infedeli») ebrei cui non apparteneva più dal momento in cui aveva ricevuto il battesimo.
Da quel giorno i suoi genitori non lo videro quasi più, se non per brevi e strazianti sprazzi. Il piccolo Edgardo Mortara fu ordinato prete a ventitré anni, e prese il nome di Pio - lo stesso di quel Papa che lo aveva strappato alle sue radici, a sé stesso. Viaggiò a lungo nei panni di evangelizzatore e missionario. Trascorse gli ultimi anni di vita rinchiuso in un monastero e morì a Liegi nel marzo del 1940, mentre il nazismo imperversava in Europa.

«Non possumus» 
Chissà quale e quanta solitudine attraversarono quel bambino e l’uomo che divenne: prima nel rapimento, poi nella vocazione, infine dentro la cella del monastero. Negli sporadici scambi di sguardi e parole con i genitori e i fratelli. Perché in realtà al piccolo Edgardo la vita fu rubata due volte, non una. La prima quel giorno in cui lo portarono via di casa perché vedesse la luce di quella fede che il battesimo gli aveva donato senza che lui lo sapesse. La seconda, e forse fu ancor più feroce, perché il suo divenne «il caso Mortara»: una battaglia culturale e politica che vedeva schierata da una parte la Chiesa più conservatrice e dall’altra le forze politiche e intellettuali - compresa una parte di clero - che premevano per far respirare al mondo il liberalismo. Quando la notizia del ratto prese a circolare si levarono proteste in tutta Europa. Si disse che al conte di Cavour il fattaccio facesse buon gioco per mettere in cattiva luce papa Pio IX e rinforzare le ragioni del Regno di Sardegna. «Non possumus», rispose puntualmente il Pontefice ogni volta che gli chiedevano di restituire il piccolo alla sua famiglia, al suo mondo. 

Uno scontro di civiltà 
E poi c’era lui: il piccolo Edgardo che ben presto incominciò a parlare di illuminazione, di grazia della Provvidenza. Che da quando venne ordinato prete passò la vita e la vocazione a cercare di convertire ebrei. Che ancor prima dell’ordinazione non ne volle più sapere di tornare a casa, anche quando all’indomani del 20 settembre 1870 - presa di Porta Pia e fine dello Stato Pontificio - ne avrebbe avuto facoltà. 

Lo scontro di civiltà che si combatté intorno alla vita di Edgardo Mortara segna quel delicatissimo momento di passaggio verso il liberalismo, accompagna il processo di Emancipazione degli ebrei d’Europa e più in generale la conquista collettiva dei diritti civili. E spesso, nei lunghi strascichi della storia, nell’eco di dolore e rabbia ch’essa porta con sé, nella contemplazione disarmata di tutta quella assurdità, ci si dimentica che al centro c’è lui, quel bambino e quell’uomo che dal buio del giorno in cui lo portarono via da casa in poi e anche nella lunga stagione di una fede vissuta con dichiarata pienezza, conserva dentro di sé qualcosa di ermetico. Chissà qual era per lui il sapore della nostalgia, chissà quali ricordi di casa serbava nell’animo. Chissà se sapeva chi era. Chissà che cosa la sua fede incrollabile gli rivelava, e che cosa gli teneva nascosto. 

Elena.loewenthal@gmail.com 

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5794  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / CARMELO LOPAPA. Martina: "Reddito ai più poveri, pronti a fare un decreto" inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:48:10 pm
Martina: "Reddito ai più poveri, pronti a fare un decreto"
Il ministro dell'Agricoltura in campo per l'assegno di "inclusione" alle famiglie sotto i 3 mila euro. "C'è un miliardo, va sbloccato in poche settimane"

Di CARMELO LOPAPA
03 gennaio 2017
 
ROMA. Tempi stretti per il "reddito di inclusione". A beneficiarne, una buona fetta del milione 600 mila famiglie italiane che l'Istat ha certificato come nuovi poveri. Per loro, un aiuto mensile fino a 400 euro. Esiste già un budget per quel che si preannuncia (quando sarà approvato) come il provvedimento più popolare del governo Gentiloni. A spingere la misura è soprattutto il ministro pd delle Politiche agricole, Maurizio Martina, che non esclude il ricorso al decreto d'urgenza: "Per me è lo strumento migliore per renderla operativa nel giro di poche settimane".

Sarà la priorità di questo inizio 2017?
"Noi dobbiamo rispondere all'appello lanciato giorni fa da "Alleanza contro la povertà", l'associazione che raggruppa 35 organizzazioni con cui abbiamo lavorato in questi anni. Dobbiamo concretizzare in tempi rapidi il reddito di inclusione per svoltare con gli strumenti di contrasto alla povertà, in sostegno di famiglie e persone in grave difficoltà economiche. Un gran lavoro è stato fatto dal governo Renzi: con la legge di stabilità 2016 abbiamo definito un fondo da 1 miliardo 150 milioni. Adesso quel lavoro deve dare i suoi frutti".

A quale platea è destinato?
"I dati Istat ci dicono che un milione e 600 mila famiglie, ovvero 4,5 milioni di persone hanno varcato la soglia della povertà assoluta, un minore su tre è a rischio. Ecco, loro devono essere la priorità. Parliamo di famiglie con reddito Isee sotto i tremila euro".

Di cosa si tratta? Un assegno mensile o cosa?
"Si tratterà di un sostegno finanziario non assistenziale, che dovrà rispettare determinati criteri e che coinvolgerà nella prima fase famiglie con minori. Per ampliare poi il bacino con l'aumento delle risorse. In questi anni la sperimentazione del Sia (Sostegno per l'inclusione attiva) è stato un passo importante in alcune città".

Lo sa che vi accuseranno di orchestrare la più grande mancia preelettorale, vero?
"Non scherziamo. È un provvedimento atteso da parecchio tempo. Per la prima volta abbiamo risorse strutturali per finanziare un intervento come questo, siamo l'unico Paese in Europa a non avere uno strumento di contrasto universale alla povertà. Si colma piuttosto una lacuna. Io rivendico il lavoro fatto dal governo Renzi in questo senso. La legge delega votata alla Camera nel luglio scorso è oggi al Senato. Occorre fare presto".

La relatrice, Annamaria Parente (Pd), propone un disegno di legge.
"Sono d'accordo sulla necessità che si faccia presto. Personalmente sono per un provvedimento di urgenza, proporrò che si prenda in considerazione il ricorso al decreto".

Piacerà a sinistra. Faciliterà il dialogo con il nuovo soggetto al quale lavora Pisapia?
"Non da oggi sostengo che noi dobbiamo riorganizzare il campo del centrosinistra. E penso che il Pd giochi ovviamente un ruolo fondamentale e debba aprire una stagione nuova. Il tentativo che Pisapia, Zedda e altri stanno portando avanti è importante. Dobbiamo combattere la sindrome divisiva che troppe volte ha fatto male alla sinistra, con un nuovo progetto, per contrastare le derive populiste".

Dovete trovare intanto una legge elettorale che vi consenta di farlo.
"Credo che questo bisogno di riorganizzare si debba perseguire prima ancora della legge elettorale. Io sono assolutamente favorevole al rilancio del Mattarellum che il mio partito sta portando avanti, coinvolgendo le forze che ci staranno. Anche prima del pronunciamento della Consulta. Non vorrei rinunciassimo a una certa idea di democrazia dell'alternanza".

Lei parla di misure che non sembrano da governo "primaverile", cioè destinato secondo tanti nel Pd soltanto a portare al voto entro giugno.
"La legislatura volge al termine, dopo il 4 dicembre. Iniziative come il reddito di inclusione o altre misure sociali possono essere approvate nel giro di poche settimane. Io mi rifaccio alle valutazioni di Gentiloni a fine anno: la stabilità di un Paese non può rendere prigioniera la democrazia, le elezioni non sono una minaccia".

Ancora con Renzi leader e candidato premier?
"Per me lui è la risorsa fondamentale per questo partito".

© Riproduzione riservata
03 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/03/news/martina_reddito_ai_piu_poveri_pronti_a_fare_un_decreto_-155310123/?ref=HREC1-4
5795  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Wlodek Goldkorn L’ettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:44:53 pm
L’ettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico.
Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche.
Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico".
Il controcanto di Bernard Manin


Di Wlodek Goldkorn 
29 dicembre 2016

La democrazia? E' viva e lotta insieme a noi
Bernard Manin, 65 anni, marsigliese, professore alla New York University e a L’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, è considerato uno dei massimi studiosi dei sistemi politici e della loro storia. Autore del fondamentale “Principi del governo rappresentativo” (il Mulino), da anni parla dell’evoluzione della democrazia verso un “democrazia del pubblico”, dove non sono più i partiti con i loro apparati a scegliere i leader, ma l’ascesa e la carriera dei politici dipende dal loro rapporto con i potenziali elettori, rapporto talvolta diretto, talvolta mediato attraverso i mezzi di comunicazione.

Ha ancora senso parlare della democrazia?
«Sì. Penso che la forma che diamo a questo tipo di sistema politico cambia con il tempo. Ma non è esaurita. La democrazia ha un interessante futuro davanti».

Manca però il dibattito ponderato, razionale e dove alla fine gli elettori votano a seconda delle convinzioni e interessi 
ben compresi. Oggi, qualunque governo perde 
comunque qualunque referendum. La classe politica 
non ci rappresenta più?
«Non confonderei quello che è un fenomeno del tempo breve con i tempi lunghi della storia. L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche, intese come “policy”, come soluzioni concrete. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico, e cioè il fatto delle elezioni periodiche, dell’autonomia degli eletti e degli elettori e della libertà di esprimere le proprie opinioni ed esigenze».

E lo scontento?
«È dovuto alla globalizzazione. In quel processo ci sono 
i vincitori e gli sconfitti. La democrazia non è in grado 
di venire in soccorso ai perdenti. E questo è un problema».

E allora che fare?
«Non parlare della post-democrazia; non cedere alle utopie 
di stampo retrò e romantico; continuare a credere nei valori dell’Illuminismo e insistere sull’importanza dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà di parola. In altri termini: dobbiamo resistere, per migliorare la qualità delle nostre democrazie e non affossarle come fanno invece coloro 
che parlando della “postdemocrazia”. Ricordiamoci 
di cosa era il secolo scorso. Se la democrazia non è morta allora, vuol dire che ha una vita lunghissima davanti».

© Riproduzione riservata
29 dicembre 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/12/22/news/la-democrazia-e-viva-e-lotta-insieme-a-noi-1.292002
5796  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EZIO MAURO. I tempi della politica malata e lontana dai cittadini inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:41:46 pm

I tempi della politica malata e lontana dai cittadini

Di EZIO MAURO
31 dicembre 2016

IPNOTIZZATI dall’intruso, non vediamo più il male che lo ha generato. L’intruso è il populismo, cioè il soggetto politico che più di ogni altro segna l’epoca che stiamo vivendo, ormai terzo incomodo fisso della tradizionale partita tra destra e sinistra. Il male è sotto gli occhi di tutti, ma fatichiamo a dargli un nome, perché sta divorando le categorie tradizionali della politica con la crisi della rappresentanza, la fine del lavoro come strumento di inclusione, di libertà materiale e di cittadinanza, la rottura del patto di società che teneva insieme i forti e i deboli, consapevoli di far parte di una comunità di destino che chiamavamo società.

Diamo un nome alla cosa. Quando l’individuo non si sente rappresentato e non sa che farsene dei suoi diritti di cittadino perché non si traducono più in realtà, siamo davanti ad una vera e propria crisi della democrazia. Questa è la grande novità con cui si chiude l’anno e si apre un’incognita. Il paesaggio democratico classico in cui siamo cresciuti e dentro il quale abbiamo immaginato il futuro dei nostri figli sta andando in pezzi.

Dopo aver combattuto per un secolo intero la battaglia europea contro i due totalitarismi, la democrazia che ha vinto si ferisce da sola, perdendo forza e autorità. Non produce risultati rilevanti per le condizioni materiali delle persone, non governa le crisi dell’immigrazione, del terrorismo islamista, della finanza, tutte fuori controllo e refrattarie ad ogni sovranità, non esercita più quell’egemonia culturale che si era conquistata dopo la caduta del Muro, a cavallo del secolo, riducendosi quasi ad una qualsiasi credenza in un mondo che non crede più in nulla.

In poche parole scopriamo che la democrazia non basta a se stessa. Dovevamo saperlo, perché non è un’ideologia fissa e immobile, definita una volta per sempre, ma un insieme di valori, principi, istituti, procedure, diritti e doveri che nascono, vivono e prosperano per la volontà di uomini e donne e per le condizioni della realtà. Dunque quell’insieme di regole che ci siamo creati per garantire la combinazione della nostra libertà con le libertà altrui e far prosperare l’insieme, può anche deperire come sta accadendo: generando un sentimento di spaesamento repubblicano, di solitudine del cittadino.

Fino a porci la domanda più radicale e più scomoda: e se la democrazia che abbiamo creduto universale fosse soltanto una creatura del Novecento? Se fosse incapace di entrare nel nuovo secolo, e soprattutto di governare le sue contraddizioni, prima fra tutte la metamorfosi della politica, clamorosamente in atto?

La più grande trasformazione della politica è la sua divaricazione dalla vita delle persone. La democrazia del lavoro, così com’è nata in Europa, teneva insieme capitalismo, welfare e rappresentanza politica, dando un senso alla costruzione sociale che ne derivava. La catena che legava lavoro, impresa, tassazione, sanità, pensioni dava una proiezione concreta alla politica o almeno all’amministrazione, rendendola visibile, materiale, riscontrabile: e dunque motivava il cittadino a intervenire con il voto, correggendo, confermando, cambiando.

Oggi tutto ciò che incide sull’esistenza concreta degli individui pare sfuggire alla stessa dimensione della politica, ai suoi strumenti, alle sue promesse che rischiano di sembrare chiacchiere. Le tre crisi di cui abbiamo parlato hanno tutte un’evidenza globale, un profilo sovranazionale, un’insidia mondiale: ma generano qui e ora, sul territorio indifeso, impotenza e frustrazione nel cittadino che si sente esposto perché non protetto.

Non aveva delegato allo Stato il monopolio della forza in cambio di una garanzia di sicurezza? Dov’è finita la forza della democrazia, dov’è lo Stato, mentre le nuove insicurezze galoppano, soprattutto nei ceti più deboli?

Infine le disuguaglianze, che la democrazia ha sempre scusato dentro un progetto di crescita complessiva, ma oggi stanno diventando esclusioni, qualcosa che la democrazia non può permettersi, perché siamo oltre il “forgotten man” cui si è rivolto Trump: siamo al cittadino perduto.

Senza più scettro, la politica si è spogliata anche della sua maestà, rinunciando ai paramenti sacri con cui si era resa riconoscibile per più di un secolo, coniugando i valori con la tradizione, la storia con gli interessi legittimi. Intendo dire che la pretesa di superare la destra e la sinistra fingendo che siano uguali, per puntare all’indistinto democratico ha condotto i partiti in un imbuto culturale che li sta stritolando. Una terra di nessuno dove la performance diventa la misura della leadership, l’improvvisazione prende il posto della cultura, il gesto politico sostituisce ogni progetto, e si consuma mentre si compie, lasciando solo cenere. Il risultato è un deserto culturale, dove di fronte all’impatto devastante delle tre crisi e alla fatica della democrazia manca la capacità nella destra di governo e soprattutto nella sinistra di elaborare un pensiero alternativo alla cultura dominante, con il riformismo (ultima speranza politica della sinistra dopo la sconfitta del comunismo) che si è ridotto a pura tecnica di gestione, agitando il cambiamento per il cambiamento, proprio per mancanza di una vera ambizione culturale, senza il coraggio di immaginare e impersonare un’alternativa. Con il risultato che l’alternativa sembra possibile solo fuori dal sistema. Si capisce che di fronte a questo male della democrazia prosperino gli imprenditori del peggio, coloro che non pensano ai rimedi ma all’unzione, perché non si propongono come medici ma come becchini, dopo essersi nutriti della crisi che li ha generati. L’ultimo paradosso della democrazia è questa capacità di produrre col suo malessere - e garantire - le forze antisistema, nate tutte dentro il processo democratico, per una debolezza culturale e istituzionale della politica tradizionale, come i fiori del male.

Gli untori della crisi rischiano di ereditarne gli avanzi, incapaci di convertire la rabbia sociale che eccitano e raccolgono in un progetto culturale nuovo, appagandosi soltanto di dare forma pubblica agli istinti e ai risentimenti: come se fosse possibile fare politica soltanto contro, senza mai qualcosa in cui credere. Sono gli istinti che uniscono Trump, Le Pen, Orban, Salvini e infine Grillo, il quale nel miserabile calcolo del tornaconto anti- immigrati svela la vera natura del suo movimento, col corpo mimetizzato a sinistra ma con l’anima naturalmente a destra. La conseguenza più rilevante non è nemmeno la partita contingente per il governo. Ma è il rischio che la buona vecchia cultura liberale - e tanto più quella liberal-democratica - stiano entrando in minoranza nel mondo occidentale. Il pensiero liberale ha influenzato le culture di governo della destra


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31 dicembre 2016
5797  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / GIULIA ZANICHELLI. Premi Nobel e attivisti contro Aung San Suu Kyi: stop allo .. inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:39:50 pm
Premi Nobel e attivisti contro Aung San Suu Kyi: stop allo sterminio dei Rohingya   
La leader birmana, premio Nobel per la Pace nel 1991, è accusata di “pulizia etnica” della minoranza musulmana dei Rohingya.
Lettera aperta al consiglio di sicurezza dell'Onu, tra i firmatari anche Prodi e Bonino

Di GIULIA ZANICHELLI
30 dicembre 2016

Premi Nobel contro premio Nobel: Aung San Suu Kyi finisce nel mirino di tanti che, come lei, hanno ottenuto il più importante riconoscimento mondiale nel campo dei diritti umani, il premio Nobel per la Pace appunto, per la sua politica nei confronti della minoranza Rohingya in Birmania. I firmatari di una dura lettera aperta recapitata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite contro il governo della Birmania, e in particolare contro Aung San Suu Kyi sono 23: fra loro nomi importanti che vanno dall'attivista pachistana Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice di un Nobel per la Pace, all’arcivescovo sudafricano simbolo della lotta all’apartheid Desmond Tutu, dalla giornalista e attivista yemenita Tawakkul Karman alla pacifista liberiana Leymah Gbowee, entrambe Nobel per la Pace nel 2011.
 
La leader birmana Aung San Suu Kyi è premio Nobel per la Pace nel 1991, conferitole per il suo “esempio eccezionale del potere di chi non ha potere”, ed è figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, il generale Aung San. A lungo Suu Kyi non è stata solo un Nobel, ma il volto più noto della lotta per la democrazia al mondo: ha ricevuto il Nobel quando era agli arresti, dove è rimasta per 15 anni: anni lunghi e solitari, senza poter vedere i figli né partecipare ai funerali del marito, morto di cancro a poco più di 50 anni.
 
Oggi, seppur non formalmente a capo del governo perché la Costituzione lo vieta a chi ha figli di un’altra nazionalità (i suoi sono, come il marito, inglesi) Suu Kyi è la guida della Lega Nazionale per la Democrazia (Nld), il partito che ha vinto le prime elezioni democratiche del Paese dopo 25 anni, nel novembre 2015. Ministra degli Esteri e consigliere di Stato, detiene de facto il potere e ha posto alla presidenza il suo fedelissimo Htin Kyaw.
 
Aung San Suu Kyi non sembra oggi volersi impegnare per la fine della repressione dei Rohingya, minoranza musulmana nella buddista Birmania. Il testo della lettera evidenzia come i Rohingya possano e debbano essere considerati “tra le minoranze più perseguitate del mondo e per decenni hanno subito campagne di marginalizzazione e deumanizzazione”. Residenti perlopiù nel nord dello stato birmano del Rakhine, i Rohingya in Birmania sono più di un milione ma non sono mai stati riconosciuti come cittadini: anzi dal 1982 sono stati privati di ogni diritto civile e possibilità di ricevere aiuto umanitario. Lo stesso trattamento viene loro riservato in Bangladesh, nazione sono fuggiti a migliaia per scampare a quello che Amnesty ha definito “un potenziale crimine contro l’umanità”.

Le violenze contro di loro si sono intensificate da ottobre 2016 a seguito dell’uccisione di 9 poliziotti birmani da parte di militanti rohingya. Le violenze spietate e spesso gratuite hanno portato molti Rohingya a cercare rifugio nel confinante Bangaldesh. Il ministro degli Esteri del Bangladesh denuncia oggi la presenza di circa 50 000 rifugiati birmani sfollati nel Paese, mentre il commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati parla di almeno 43 000. E il flusso non accenna a diminuire, nonostante l’aumento dei controlli alle frontiere.

Da tempo Suu Kyi è nel mirino per la sua posizione sulla vicenda, giudicata complice. Ma ora hanno raggiunto il culmine nella lettera che tra i propri firmatari annovera nomi importanti, di attivisti ma anche di politici ed economisti come l’inventore bengalese del moderno microcredito Muhammad Yunus (anche Nobel per la Pace nel 2006). Per l’Italia, le firme autorevoli dell’ex primo ministro Romano Prodi e dell’ex ministra degli Esteri Emma Bonino.

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30 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/12/30/news/premi_nobel_e_attivisti_contro_aung_san_suu_kyi_stop_allo_sterminio_dei_rohingya-155130564/
5798  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Alfredo Sessa. Addio a John Berger, implacabile osservatore del reale inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:38:13 pm
1927-2017
Addio a John Berger, implacabile osservatore del reale

Di Alfredo Sessa 03 gennaio 2017

John Berger, lo scrittore, saggista, disegnatore, sceneggiatore inglese, è morto ieri nel sobborgo di Antony, a pochi chilometri da Parigi. Aveva 90 anni. Berger era un alfiere della controcultura, libero come l’aria, e come tale difficile da inquadrare nelle tradizionali categorie che ruotano intorno alla letteratura e alle arti visive, che finiscono per essere, nei suoi confronti, del tutto riduttive.

Una delle sue opere più conosciute, il saggio “Ways of seeing”, del 1972, dal quale la Bbc ha tratto anche una serie televisiva (ampi stralci sono disponibili su youtube), fu infatti una sorta di dichiarazione di guerra al tradizionale modo di considerare l’arte. Berger amava sovvertire secoli di una tradizione critica di élite, che inquadrava le espressioni artistiche soprattutto da un punto di vista formale, ignorandone, il più delle volte, il contesto politico e sociale.

La letteratura come atto di resistenza
L’autore inglese preferiva mollare gli ormeggi, rompere gli schemi e usare la letteratura come un atto di resistenza. Sapeva far risuonare tutte le note della scrittura: il saggio, il romanzo, la critica d’arte, l’intervento politico, la drammaturgia. Un cittadino del mondo che si teneva lontano dai cenacoli degli artisti, dalle mode, e non si lasciava mai domare. Uno dei suoi romanzi, misteriosamente intitolato “G”, che gli valse il Booker Prize nel 1972, ruotava intorno a un personaggio che era, allo stesso tempo, un seduttore e un anarchico in bilico tra libertà e solitudine, sullo sfondo dell’Italia di inizio Novecento. Quando vinse il Booker Prize, Berger offrì la metà del premio alle Black Panthers, delle quali ammirava la capacità di resistere «sia in quanto neri, sia in quanto lavoratori, allo sfruttamento degli oppressi».
Nato a Londra nel 1927 in una famiglia di piccola estrazione borghese, il giovane John manifestò ben presto una grande insofferenza per la scuola, che abbandonò a 16 anni, e si dedicò con passione alla poesia, con qualche escursione nella pittura. Nel 1974, quando la sua fama di critico era probabilmente al massimo, si trasferì da Londra a Parigi, quindi a Ginevra. Successivamente decise di abbandonare i contesti urbani, e si trasferì in una remota comunità contadina, Quincy, nelle Alpi francesi, dove imparò ad allevare il bestiame e scrisse un saggio “Into their way”, nel quale esaminava il fenomeno della migrazione dei contadini verso le città.

Un eremita mondano
In questo contesto bucolico, fatto di trattori e di rondini, di rispetto della terra, ma anche di inquietudine, Berger ha condotto una vita da quasi-eremita, pur in continuo contatto con il mondo. Ha dipinto, disegnato, scritto articoli. Si è spostato per incontrare personaggi noti e meno noti. Ha lavorato per il cinema. Ha dato voce agli esclusi e ai dimenticati. È stato soprattutto un implacabile osservatore del reale, che ci ha spiegato che ciò che vediamo può essere spesso manipolato.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-01-03/addio-john-berger-implacabile-osservatore-reale-114042.shtml?uuid=ADLOAHPC
5799  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Marco DAMILANO - Preferivate Renzi o la grande bonaccia? inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:36:52 pm
Politica   
Preferivate Renzi o la grande bonaccia?
Al posto del temuto Giudizio Universale del dopo-referendum arriva a sorpresa la Grande Restaurazione: il congresso di Vienna dopo la caduta del Napoleone di Rignano sull’Arno

Di Marco Damilano   
03 gennaio 2017
   
«Ricostruire da zero Stromboli. Ricostruire da zero l’Italia. Un nuovo modo di vivere, una nuova luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi colori, nuovi sapori... Tutto nuovo!». Era il 1993, Nanni Moretti affidava al personaggio del sindaco di Stromboli in “Caro Diario” il manifesto ideale degli anni che sarebbero venuti: fare tabula rasa del vecchio, ricostruire da zero, tutto nuovo. E vennero i sindaci e la fantasia al potere nelle città, e poi l’Imprenditore con il suo nuovo modo di parlare in politica, i nuovi suoni, i nuovi inni: «Forza alziamoci, il futuro è aperto entriamoci...».

E ora invece il futuro si chiude, con il 2017 si avverte inconfondibile l’atmosfera dell’indietro tutta, il cambiare verso ma in retromarcia, la nostalgia dell’antico, il fascino imprevisto della conservazione. Sigillato il 20 dicembre dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso nel Salone dei Corazzieri del Quirinale alle alte cariche dello Stato, finora il più importante del suo settennato. Quando al tirar le somme di un anno drammatico, vissuto sullo scontro da fine-mondo sul voto referendario, il Capo dello Stato ha soavemente sepolto trenta, forse quarant’anni di progetti, propositi, velleità di Riforma costituzionale. «Il testo vigente - conservato inalterato dal voto popolare - costituisce la Costituzione di tutti gli italiani, che tutti dobbiamo amare e rispettare», ha scandito con mitezza Mattarella. Allitterazione a parte (costituisce la Costituzione), sono parole definitive, pronunciate di fronte a una platea di ministri, parlamentari, vertici militari, prefetti, magistrati, alte burocrazie: il Contesto che regge e governa lo Stato. «Il testo conservato inalterato dal voto popolare». Quella riga (il testo conservato, anzi, di più, inalterato, ovvero non alterato, non adulterato, integro, intatto, per di più con il voto popolare), avverte che siamo giunti all’ultima stazione di un lungo percorso che non ha portato da nessuna parte. La transizione italiana, per ora, si ferma qui, al punto di partenza. Addio nuovo.

Per capire quale sia lo stato d’animo degli inquilini del Palazzo devi raccogliere le confessioni di un ministro, riconfermato nel governo Gentiloni: «Con Matteo Renzi il Consiglio durava un quarto d’ora, parlava solo lui. Quando qualcuno di noi si dilungava a presentare un provvedimento veniva subito interrotto: “Faccio io la sintesi!”. I minuti finali li dedicava a darci i compiti mediatici: “Tu vieni con me in conferenza stampa. Tu invece vai questa sera in tv, da Vespa. E domani fai un’intervista con un quotidiano del Nord...”. Da quando c’è Paolo, abbiamo ripreso a parlare tutti...». O quelle del dirigente di un’importante azienda pubblica: «C’è un clima di sollievo. Fino a qualche settimana fa ogni iniziativa doveva essere comunicata a Palazzo Chigi e se Renzi decideva di partecipare doveva essere mediaticamente trasformata in un evento, “senza precedenti”, si capisce. Ora siamo tornati alla normalità...».

Al posto del temuto Giudizio Universale del dopo-referendum arriva a sorpresa la Grande Bonaccia. La Tregua. La Restaurazione, forse: il congresso di Vienna dopo la caduta del Napoleone di Rignano sull’Arno. «I vostri sovrani, nati sul trono, possono lasciarsi battere venti volte e rientrare sempre nelle loro capitali», aveva confidato l’Imperatore francese al conte di Metternich nel 1813. Una lezione destinata a durare: il leader che non è «nato sul trono» per rimanere al potere è costretto al movimento perpetuo, alla destabilizzazione di ciò tutto che è ordine costituito, istituzione. A essere sempre nuovo: il Nuovo.

Il referendum del 4 dicembre ha sconfitto, anzi, ha travolto questa idea di cambiamento perenne provocato dall’alto, da una leadership personalistica e ambiziosa. Ma il ritorno al Vecchio non riguarda solo la politica italiana. Perché anche la novità più dirompente di questo tempo, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, «non è tanto sisma quanto sismografo dei mutamenti sociopolitici in corso. I quali, almeno in America e in Occidente, si profilano come tecnicamente reazionari», si legge nell’editoriale dell’ultimo numero di “Limes” (11/2016). Una reazione contro la globalizzazione che «negli anni Novanta era asso pigliatutto, misura di tutte le cose». Oggi invece si indeboliscono i flussi finanziari, i traffici internazionali, gli investimenti esteri. Tornano gli interessi nazionali: come prima, più di prima.

In Italia il fenomeno significa la chiusura di una lunga stagione che ha preceduto il Pd renziano, il Movimento 5 Stelle, e anche il berlusconismo. L’ideologia del Nuovo (le nuove istituzioni, i nuovi partiti, le nuove leadership, i nuovi comportamenti politici) ha modellato tutte le identità politiche degli ultimi decenni: la sinistra, la destra, il centro. Nuova la Grande Riforma istituzionale lanciata nel dibattito da Bettino Craxi con un articolo sul quotidiano del Psi “L’Avanti” intitolato “Ottava legislatura” il 28 settembre 1979: «Una legislatura già nata sotto cattivi auspici vivrà con successo se diventerà la legislatura di una grande Riforma che abbracci l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale». Parole riprese in modo letterale da Renzi durante la presentazione del suo governo al Senato il 24 febbraio 2014: «Propongo a questo Senato di essere la legislatura della Svolta». Nel frattempo però le legislature erano diventate diciassette.

Il Nuovo è stato il mito fondativo delle leadership degli ultimi decenni. Ciriaco De Mita, combattivo, orgoglioso (e alla fine vincente) sostenitore della conservazione della Carta con Renzi nello studio tv di Enrico Mentana, spiegò l’11 aprile 1983 in un colloquio con Eugenio Scalfari su “Repubblica” la novità della Democrazia cristiana da lui guidata: «Destra e sinistra sono schemi mistificanti. Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo». (Intervista lungimirante, perché De Mita consegnava a Scalfari un suo tormento: «Temo il rifiuto della politica per colpa dei politici. Badi, il qualunquismo di trent’anni fa riguardava gruppi sociali culturalmente impreparati, ma oggi il rifiuto della politica è un campanello d’allarme molto più preoccupante perché proviene da gruppi sociali avvertiti, culturalmente e professionalmente qualificati». L’anti-politica sembrava lontana, Beppe Grillo faceva il comico. E commentò negli studi Rai qualche settimana dopo il tracollo elettorale della Dc di De Mita, due milioni di voti persi, in un’atmosfera da lutto televisivo nazionale: «Calma, ci sono gli ultimi seggi di Lourdes e Fatima, chissà, un miracolino...»).

Nuova fu la Svolta di Achille Occhetto, la Cosa post-comunista, nata dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989. «Un nuovo inizio che ha in sé il meglio della nostra tradizione», la definì con un capolavoro di illusionismo verbale (il nuovo è il meglio del vecchio) il leader di fronte al Comitato centrale del Pci inferocito per aver appreso del cambio del nome e del simbolo senza una discussione. Al successivo congresso di Bologna, nel 1990, Occhetto volò ancora più in alto, citando l’Ulisse di Alfred Tennyson: «Venite amici/ che non è mai troppo tardi per scoprire un nuovo mondo./Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte conosciuto...». Oltrista, fu definita la creatura di Occhetto, la Quercia che per fare il partito nuovo si apriva alla società civile e si batteva per la riforma del sistema politico, il triangolo magico del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta e Duemila, dall’Ulivo fino al Pd. Svoltista, anzi, nuovista, neologismo inventato dal “Manifesto” e fatto proprio dai nemici del leader. «Sei tecnicamente obsoleto», gli dirà Massimo D’Alema al momento di spodestarlo dalla segreteria nel 1994, ma il discorso con cui il lider Maximo lancia la sua candidatura alla segreteria è una requisitoria contro «il nuovismo esteriore di chi sostiene che è finita l’epoca dei partiti politici e che essi hanno un senso soltanto come partito del leader». Notazione destinata a una certa fortuna. E anche D’Alema userà la categoria del Nuovo quando toccherà a lui la conquista del potere: «la nuova Italia per la nuova Roma», fanno scrivere sotto la sua foto da candidato al consiglio comunale di Roma nel 1997 gli spin Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino (nella battaglia referendaria del 2016 iper-renziani). E la riforma costituzionale della Bicamerale da lui presieduta è, inutile dirlo, la «Grande occasione». Perduta.

Nuovo è, e figuriamoci, il Cavaliere dell’eterno presente che dal 1994 scende in campo in politica, lui il nuovo che avanza preconizzato da Michele Serra. Il mix perfetto dell’impresario: serialità e novità, essere sempre uguali e sempre nuovi, ricominciare sempre da zero, il berlusconismo non ha mai un passato, declina i tempi al futuro, è un eterno presente, è il colpo di lifting permanente che restituisce come nuovo il leader al suo popolo. E nuovi, nuovissimi gli ultimi arrivati, il grillismo che vuole aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, il renzismo della rottamazione dove tutto è inedito, mai visto, mai udito, «siamo quelli che non c’eravamo prima», ripete il sindaco di Firenze al momento della scalata al potere nazionale. L’anagrafe come garanzia di novità e di purezza. Conclusa nel rovescio del 4 dicembre.

Nessun Paese ha consumato tante leadership nuove, e in così poco tempo, come l’Italia. Esaurita l’analisi del voto referendario bisognerà pur chiedersi se dopo tanto discorrere, ci sia qualcosa di più profondo nella vittoria massiccia del No. La diffidenza, se non il rifiuto, verso la parola Riforma, che negli anni Settanta e Ottanta significava miglioramento delle condizioni di vita e oggi per molti si è capovolta in un annuncio di peggioramento: meno diritti, più precarietà. E la bocciatura del Nuovo e dei novatori, all’interno di una situazione troppo grande per loro. «Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un rovesciamento semantico per cui con rivoluzione si intende in realtà il suo contrario, la distruzione di ogni progetto, di ogni sviluppo coerente di visione del futuro. Una specie di anti-rivoluzione o rovesciamento del pensiero rivoluzionario concepito come passaggio da 2.0 a 2.1...», ha scritto lo storico Paolo Prodi appena scomparso in uno dei suoi ultimi libri, “Il tramonto della rivoluzione”. È il nuovo senza progetto che consuma se stesso e provoca le cause della sua dissoluzione.

Tornerà nel 2017, forse, la legge elettorale proporzionale. E i governi di coalizione. E il manuale Cencelli per fare le nomine (ammesso che sia mai caduto in disuso). E i ministri senza portafoglio. E i vertici notturni. E le verifiche programmatiche. E i caminetti dei capicorrente, che possono lasciarsi battere venti volte e sempre rientrare, come monarchi decaduti. Tutto questo, però, non basterà a restituire all’Italia la felicità perduta. E di tutto questo, almeno in parte, porta la responsabilità il nuovo avanzato, che non avanza più.

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03 gennaio 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/12/29/news/preferivate-renzi-o-la-grande-bonaccia-1.292509?ref=HRBZ-1

5800  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / Marzio Bartoloni «Bufale» sul web, lite Grillo-Antitrust inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:34:51 pm
«Bufale» sul web, lite Grillo-Antitrust   
Marzio Bartoloni -  Sabato 31 Dicembre 2016

Le notizie bufale spopolano sempre di più sul web. Ma per il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella questa «minaccia della democrazia» si può fermare. Come? Smascherandole grazie alla vigilanza di una rete di agenzie pubbliche europee a cui affidare il compito di fissare delle regole per arginare il far west sulla rete. La proposta avanzata da Pitruzzella in una intervista al Financial Times ha scatenato un durissimo braccio di ferro a distanza con Beppe Grillo che ieri si è ritagliato sul suo blog il ruolo di difensore dell’autonomia del web associando il numero uno dell’Authority a Gentiloni e Renzi, definiti come «i nuovi inquisitori del web», desiderosi di «un tribunale per controllarlo e condannare chi li sputtana».

Quello delle fake news, soprattutto dopo il trionfo alle elezioni Usa di Trump, ha scatenato un forte dibattitto oltreoceano arrivato poi anche in Italia, amplificato dopo la bocciatura del referendum. L’obiettivo di Pitruzzella è lottare contro la diffusione in rete delle notizie false. E per smascherarle la via più efficace, secondo il presidente dell’Antitrust, è affidarsi agli Stati: gli utenti continuerebbero «a usare un Internet libero», ma beneficerebbero di un’entità «terza», indipendente dal governo, e «pronta a intervenire rapidamente se l’interesse pubblico viene minacciato». «La post-verità - è la tesi centrale di Pitruzzella - è uno dei motori del populismo ed è una minaccia per le nostre democrazie». Un terreno minato quello del controllo della rete che fa infuriare Grillo: «Vogliono fare un bel tribunale dell’inquisizione, controllato dai partiti di governo, che decida cosa è vero e cosa è falso». Un’accusa a cui Pitruzzella ieri sera ha replicato chiarendo che la sua proposta non è «volta a creare forme di censura, ma a rafforzare la tutela dei diritti nella rete». Contro Grillo si è scagliato anche il presidente del Pd, Matteo Orfini: «Caro Beppe Grillo. Nessuno attacca la rete. Attacchiamo i cialtroni che la inondano di bufale e bugie. A proposito, ne conosci qualcuno?».

Nelle settimane scorse dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, al capo dello Stato Sergio Mattarella, da Giorgio Napolitano fino allo stesso premier tutti hanno espresso le loro preoccupazioni per il clima violento e incontrollato che si sviluppa sulla rete. Ma per Grillo gli attacchi nascondono in realtà solo il timore di doversi scontrare con il giudizio dei cittadini: « I travestiti morali - avverte l’ex comico - sono abituati alla tv, dove se vai con una scheda elettorale falsa i giornalisti ci credono, ma se lo fate sul web i cittadini ve lo dicono che siete dei cazzari, non prendetevela». Con il suo post che si chiude con un avvertimento: «Questo blog non smetterà mai di scrivere e la Rete non si fermerà con un tribunale».

Sulla deriva del dibattito che popola soprattutto i social network si è espresso anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha proposto la loro «responsabilizzazione nel contrasto alla propaganda d’odio», chiedendo la «rimozione di quei contenuti che inneggiano a comportamenti violenti o a forme di discriminazione». In disaccordo il sottosegretario con delega alle Comunicazioni Antonello Giacomelli: «I milioni di cittadini che tutti i giorni usano Facebook o Youtube sanno benissimo come funzionano e non credo accetterebbero l’idea che qualcuno preventivamente decidesse cosa pubblicare e cosa censurare».

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-12-31/bufale-web-lite-grillo-antitrust-081237.shtml?uuid=ADiAgfNC
5801  Forum Pubblico / L'ITALIA DEMOCRATICA e INDIPENDENTE è in PERICOLO. / S. Cagelli - L’internazionale populista in fila dietro Trump. Grillo e Le Pen .. inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:33:00 pm

l'Unità TV > Focus
Stefano Cagelli   @turbocagio
· 4 gennaio 2017

L’internazionale populista in fila dietro Trump. Grillo e Le Pen seguono la linea

Ribaltare la realtà, distrarre l’opinione pubblica, individuare il nemico perfetto, cavalcare il sentimento anti-establishment. Ecco come la strategia prende forma, in vista della stagione elettorale

L’internazionale populista affina le proprie strategie in vista della stagione elettorale. A dare la linea è Donald Trump. L’obiettivo è chiaro: cavalcare l’onda anti-establishment, spostare l’attenzione delle persone dai problemi reali, indurre una sorta di reazione collettiva diretta dall’alto facendo finta che sia una “rivolta dal basso”. Come fare tutto questo? Il processo è lungo e complesso, tutt’altro che scontato, ma in primo luogo occorre preparare il terremo.

In questo senso, la prima cosa da fare è trovare un nemico da dare in pasto all’opinione pubblica. Questo nemico, ancor prima che gli avversari politici, è stato individuato nella stampa, nei giornalisti in generale, rei di essere “schiavi del sistema”, colpevoli, per esempio, di voler mettere in evidenza anche i problemi (e le magagne) dei vari movimenti nazionali. Per fare questo, ecco lo strumento che fino a pochi anni fa non esisteva: i social network. Tramite l’uso massivo di account ufficiali e non, la narrazione populista (spesso creatrice e megafono di vere e proprie fake news) arriva a milioni di persone: senza filtro, senza controlli, senza verifiche.

Ecco quindi che, per distogliere l’attenzione, si sceglie consapevolmente, scientificamente, di ribaltare tutto e puntare il dito (ebbene sì) contro le “bufale” della stampa e delle televisioni cattive. Un paradosso incredibile e quasi inspiegabile ma purtroppo molto, molto reale.

Ecco allora che Grillo, per provare a far dimenticare all’opinione pubblica i guai dell’amministrazione Raggi e per scappare dalle accuse rivolte alla Casaleggio Associati di aver creato un vero e proprio sistema di produzione e diffusione di notizie false sul web, inventa una “giuria popolare” estratta a sorte che si occupi di stabilire la veridicità o meno di quanto riportato dai media tradizionali. Una cosa che, se non fosse ridicola e noiosa, sarebbe quasi preoccupante. E in parte lo è. Non tanto per la sua eventuale (quanto impossibile) applicazione, quanto più per il sentimento che va ingenerando in un’opinione pubblica sempre più disorientata a manipolabile.

D’altronde, se c’è riuscito Trump in America perché non dovrebbe riuscirci Grillo?

E’ quello che deve aver pensato anche Marine Le Pen, candidata dell’estrema destra alle presidenziali francesi, che ha dichiarato di voler condurre una campagna “innovativa” sui social media, rimarcando di non “riconoscersi” nella copertura offerta dalla stampa. “Questo è un canale complementare a quello della stampa tradizionale e penso sia essenziale per noi parlare direttamente alla gente, senza filtro”, ha detto alla stampa la candidata del Front National.

Il partito ha investito da tempo su internet e i social media: la pagina di Facebook di Marine Le Pen conta oltre un milione di contatti, mentre la nipote Marion Maréchal Le Pen, astro nascente del partito, ne ha più di 632.151. Il candidato della destra, François Fillon, favorito alla presidenza, ha 236.729 follower su Facebook e 382.053 su Twitter, dove Marine Le Pen ne ha 1.223.997. Numeri su cui, il gollista Fillon, dovrebbe far riflettere in fretta qualcuno di bravo, prima che sia troppo tardi.

Da - http://www.unita.tv/focus/linternazionale-populista-dietro-trump-grillo-e-le-pen-e-la-linea-del-paradosso/
5802  Forum Pubblico / AMBIENTE & NATURA / Veneto, Ecologisti contro cacciatori, la guerra nei Colli Euganei tra cinghiali inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:29:41 pm
Ecologisti contro cacciatori, la guerra nei Colli Euganei tra cinghiali e speculazione
Veneto, una legge riduce il Parco per allentare i vincoli ambientali
Oggi il Parco regionale dei Colli Euganei si estende su 18 mila ettari. I promotori della nuova legge puntano a ridurne la superficie di due terzi. Il nuovo perimetro sarà discusso entro 3 mesi

Pubblicato il 04/01/2017
Ultima modifica il 04/01/2017 alle ore 01:30
Giuseppe Salvaggiulo

Ambientalisti contro cacciatori, sui dolci pendii lontani «dai tumulti, dai rumori e dalle cure» che Petrarca scelse per trascorrere l’ultimo scorcio di vita e hanno ispirato letterati di tutto il mondo, da Shelley a Foscolo. Un codicillo natalizio inserito nella legge di bilancio della Regione Veneto restringe i confini del Parco dei Colli euganei, estrapolando alcune aree (eufemisticamente definite pre-parco o zone contigue) in cui allentare i vincoli su attività edilizie e caccia. 

Il nuovo perimetro sarà deciso entro 90 giorni. L’obiettivo è ridurre di due terzi la superficie del parco, oggi di circa 18 mila ettari, in cui vivono 50 mila abitanti. Il promotore dell’emendamento, poi votato da tutto il centrodestra, è Sergio Berlato, recordman di preferenze e punta di lancia della lobby dei cacciatori (tra l’altro ha proposto di introdurre nel codice penale il reato di «disturbo e molestie ai cacciatori»).

La norma sostiene la «necessità e urgenza» di cancellare «norme eccessivamente vincolistiche che ingessano il territorio». In particolare, scrive Berlato nella relazione depositata in Regione, bisogna far fronte «a una situazione non più sostenibile» rappresentata «dai danni rilevanti» causati dall’aumento degli animali selvatici, soprattutto cinghiali.

Dodici dei 15 sindaci coinvolti si sono schierati contro, ma non è bastato. «È stata un’imboscata indecente, una cannonata che sbriciola un monumento», lamentano gli ambientalisti del Comitato difesa Colli Euganei in una lettera aperta al governatore leghista Luca Zaia.

I toni riecheggiano quelli del 1968, quando sorsero i primi comitati per tutelare i Colli. L’istituzione del parco, nel 1989, rappresentò uno dei primi casi di successo di mobilitazione popolare a scopo ambientale. All’epoca l’emergenza erano le cave, poi sarebbe diventata il consumo di suolo, che sull’onda dell’industrializzazione ha reso il Veneto una «città continua» di villette e capannoni. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), il consumo di suolo costa ogni anno al Veneto 137 milioni di euro. La superficie impermeabilizzata (edifici, infrastrutture, parcheggi) ha raggiunto il 12,2%. La media italiana è il 7,6%, solo la Lombardia è più cementificata.

Nonostante polemiche, minacce, incendi, tentativi di limitare i vincoli paesaggistici e progetti edilizi sia residenziali che industriali, finora il parco ha resistito. «Assediato» dall’urbanizzazione nelle aree precollinari, in particolare quelle termali, nelle mappe appare ancora un’oasi verde di straordinario pregio e varietà. Diversi intellettuali hanno descritto i Colli con metafore marine, «sorgono isolati come scogli sul mare» scriveva il geologo inglese John Strange nel 1770. E lo stesso Shelley, mezzo secolo dopo: «Sì, molte isole fiorite giacciono/nelle acque della vasta Agonia. / A un’isola così fu stamattina tratta / la mia barca».

Rilievi tra i 400 e i 500 metri si stagliano sulla pianura aprendo luminose insenature, esito di un’originale storia geologica. Monasteri e ville magnifiche punteggiano il paesaggio. Chi vi si addentra lasciandosi alle spalle Padova, dopo una decina di chilometri a Sud, si ritrova avviluppato in «snodi e nodi quasi gordiani creati dalle movenze collinari», come scriveva il poeta Andrea Zanzotto.

I nemici del parco non sono mai mancati: inevitabile, in un territorio assai antropizzato (ma proprio questo è il suo fascino). Gli allarmi sulle conseguenze economiche catastrofiche sono stati smentiti. Un rapporto dell’Ente Parco del 2003 documentava che «i tassi di crescita edilizia sono nella media di quelli della provincia», mentre si sviluppavano nuovi settori: olivicoltura triplicata in 15 anni, riscoperta dei vitigni autoctoni, diffusione del turismo enogastronomico e culturale.

I cinghiali («introdotti illegalmente», denunciano gli ambientalisti) dalla seconda metà degli Anni 90 danneggiano coltivazioni e flora selvatica e provocano incidenti con feriti anche gravi. Perfino il prefetto è intervenuto. Secondo la Coldiretti oggi ce ne sono almeno 4000 e si riproducono del 140-170% l’anno. Il Parco ne ha abbattuti 7.500 negli ultimi anni, ma è una lotta impari: possono operare solo 7 addetti con 41 cacciatori autorizzati a supporto.

Secondo agricoltori, cacciatori e maggioranza di centrodestra, l’unica soluzione è ridimensionare il parco. Secondo gli ambientalisti, bisognerebbe potenziarne le attività, mentre la riduzione del perimetro e dei vincoli sarebbe solo un favore a cacciatori e speculatori. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/01/04/italia/cronache/ecologisti-contro-cacciatori-la-guerra-nei-colli-euganei-tra-cinghiali-e-speculazione-wubk7QYna9eoOSwgBtiDmK/pagina.html
5803  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Rudy Francesco CALVO. - Legge elettorale, l’indizio numero uno per capire ... inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:27:17 pm
   
Rudy Francesco Calvo      @rudyfc
· 4 gennaio 2017

Legge elettorale, l’indizio numero uno per capire come andrà
   
La scelta del nuovo presidente della commissione Affari costituzionali al Senato è il primo tassello del puzzle dell’intesa. Ecco le possibili soluzioni

Al rientro dalle vacanze altoatesine con la famiglia, Matteo Renzi vuole subito mettere sul tavolo della politica la questione della riforma elettorale. Come ribadiscono in questi giorni i maggiorenti dem, a cominciare dal vicesegretario Lorenzo Guerini, il Pd vuole verificare se sia possibile un’intesa larga tra i partiti a cominciare dalla propria proposta sul Mattarellum e vuole farlo prima che arrivi la sentenza della Consulta sull’Italicum e prima che il dibattito si sposti nelle aule parlamentari (la commissione Affari costituzionali ha calendarizzato il tema per la fine di gennaio).

Per il momento, le altre forze politiche rimangono in una sorta di surplace, un equilibrio precario – aiutato dal clima ancora tardo-festivo – che potrebbe però presto vacillare in una direzione o in un’altra. Cioè, verso un Mattarellum corretto oppure verso una legge più marcatamente proporzionale. Magari vicina al modello tedesco, che ha il merito di utilizzare i collegi uninominali per la selezione degli eletti e può condurre facilmente a una Grande coalizione, vero obiettivo di Berlusconi.

Per capire come può evolversi il dibattito sulla riforma, che poi è strettamente connesso alla possibile durata della legislatura, può essere allora utile osservare ogni minima oscillazione nelle scelte dei partiti.

Con la nomina di Valeria Fedeli e Anna Finocchiaro come nuove ministre del governo Gentiloni, a palazzo Madama si sono liberate due poltrone importanti, quelle rispettivamente di vicepresidente dell’Assemblea e di presidente della commissione Affari costituzionali. Nel primo caso, l’avvicendamento dovrebbe riguardare esclusivamente i Democratici e si risolverà probabilmente all’interno della maggioranza interna al partito. La guida della prima commissione, invece, può costituire un elemento importante per oliare i rapporti politici in vista del dialogo sulla nuova legge elettorale. Basti pensare al ruolo centrale che la stessa Finocchiaro ha avuto negli anni scorsi nelle trattative per l’Italicum e per la riforma costituzionale.

Una possibile ipotesi è quella che vede un segnale di apertura nei confronti della minoranza del Pd, per ricompattare il partito. Ma il clima interno non sembra favorire questa soluzione e anche un nome di mediazione come quello di Vannino Chiti, in prima fila nelle battaglie anti-Italicum ma sostenitore del Sì al referendum, non sembrano essere accolti con favore dai post-bersaniani, rappresentanti in commissione da due nomi di primissimo piano come Gotor e Migliavacca.

L’altra possibilità, politicamente più audace, è quella di un’intesa bipartisan in grado di portare alla guida della commissione un esponente di Forza Italia. Potrebbe essere Lucio Malan, oppure un nome proveniente da un’altra commissione. In questo caso, l’elezione sarebbe destinata a slittare ancora un po’, ma costituirebbe un segnale chiaro a sostegno di un’intesa tra l’attuale maggioranza e FI per il varo di una nuova legge elettorale.

Più probabile è però la terza via. Cioè che si arrivi a individuare in tempi piuttosto rapidi un nome interno al Pd (probabilmente trasferendolo da un’altra commissione), che sia di stretta fiducia del segretario Renzi e del presidente dei senatori Zanda e che abbia anche quell’esperienza e quelle capacità diplomatiche in grado di farlo considerare come un interlocutore affidabile dagli altri gruppi parlamentari di maggioranza e opposizione.

È la soluzione più semplice, certo, ma non per questo meno delicata. La rosa dei nomi non è larghissima (i papabili non sono più di tre-quattro) e sarà esaminata da Renzi – insieme ovviamente a Zanda – al suo rientro a Roma, incrociando questa partita con le nomine in segreteria e con la proposta del nuovo vicepresidente del Senato, prima di proporre i nomi al gruppo dem e agli alleati di maggioranza.

Da - http://www.unita.tv/focus/legge-elettorale-senato-presidente-commissione-affari-costituzionali/
5804  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / Wlodek Goldkorn Da Bauman a Diamanti, viaggio al termine della democrazia inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:25:07 pm
Da Bauman a Diamanti, viaggio al termine della democrazia   
Avanza l’idea che con la globalizzazione sia finita un’epoca iniziata con l’Illuminismo. E dopo? Ecco le diagnosi

Di Wlodek Goldkorn
29 dicembre 2016

Come il romanzo e la borghesia, i due migliori prodotti della modernità occidentale, anche la democrazia da quando esiste è in crisi: si interroga sempre e in continuazione su se stessa mentre lotta per la propria (non garantita) esistenza. Questa volta però, nel quarto lustro del Ventunesimo secolo, forse non siamo più a una qualche correzione di rotta e aggiustamento delle procedure. Molti studiosi concordano ormai sull’ipotesi che siamo nel “dopo la democrazia”.

O meglio, avanza l’idea che qui in Occidente sia finita la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata a partire dal Secolo dei Lumi e fino alla globalizzazione. E ancora, fin dall’irruzione dei partiti di massa sulla scena politica (una forma di “parlamentarizzazione” della lotta di classe, altrimenti cruenta perché i proletari erano trattati alla stregua di “selvaggi” come i popoli colonizzati; e basti pensare a Bava Beccaris o al massacro dei comunardi di Parigi) a partire dall’ingresso dei partiti socialisti nel gioco parlamentare dunque, eravamo convinti che ci fosse un nesso intimo tra le seguenti categorie: progresso, libertà, democrazia, crescita economica, scolarizzazione di massa, emancipazione. Le cose andavano insieme, più libertà e più consumi; più democrazia e maggiore crescita economica e personale e via coniugando.

Ha descritto un mondo in mano alle élite dove al popolo era concessa solo la “finzione” del voto. «Ma oggi è molto peggio». Parla il sociologo che ha inventato la parola “postdemocrazia”

Certo, le guerre mondiali e i fascismi hanno segnato dei passi indietro, ma dal 1945 regnava in Occidente una specie di stabile e progressiva convergenza tra il liberalismo e la socialdemocrazia (due avversari storici): più profitti e più uguaglianza, più libertà e più garanzie dei lavoratori e fino all’apoteosi, quasi hegeliana, dei diritti umani nel 1989. Poi, all’improvviso tutto è finito. I nostri figli vivranno peggio di noi; il voto non stabilisce legame tra gli eletti e i cittadini; il lavoro è precario quando c’è; e il futuro appare come una minaccia angosciante e non più come promessa e magnifica immaginazione. Del progresso nessuno parla se non per dire che è “cane morto” e illusione del passato, il sol d’avvenire è spento e i politici sembrano figuri grotteschi, dediti a celebrare riti vuoti dal punto di vista semantico, perché incapaci di suscitare un motto di identificazione con chi ci dovrebbe rappresentare (e basti pensare all’immagine delle consultazioni quirinalizie poche settimane fa).


E allora, cosa ci aspetta? L’abbiamo chiesto a studiosi, filosofi, scienziati della politica. A partire da Zygmunt Bauman. Ma prima di sentirlo, due ulteriori premesse. Nel 1991 Christopher Lasch, storico americano scomparso ventidue anni fa, in un libro “Il paradiso in Terra” (Neri Pozza) in cui dava addio all’illusione appunto del progresso, citava un’osservazione di George Orwell (del 1940) per cui mentre le democrazie offrirebbero agiatezza e assenza di dolore, Hitler offriva lotta e morte; e ancora, nell’ultimo anno dell’Ottocento, Georg Simmel, sociologo tedesco cantore della metropoli con il suo caos e il denaro come la misura di tutto, diceva di comprendere comunque i laudatori dei valori all’antica e dei gesti eroici. E allora, anche oggi, di fronte alla Babele del pianeta globalizzato, stiamo cominciando (sotto le mentite spoglie dei populismi) a rivalutare il valore della comunità chiusa, isolata e retta da un uomo forte?

La risposta di Bauman è sì. Il sociologo parte dalla nozione di “retrotopia”, utopia retroattiva: richiamo a un passato mitico, inventato e che si presenta come la più seducente possibilità di fuga dalla angustie di un incerto presente. La retrotopia spiega per esempio il successo di Trump. Il presidente eletto non ha offerto, appunto, alcuna visione di un futuro migliore, di avanzamento della condizione della gente (come un Roosevelt o un Kennedy): il suo messaggio è invece quello di ripristinare il “glorioso” passato degli States rurali e proletari, non contaminato dal linguaggio politicamente corretto delle élite mondializzate, attente alle “regole”; regole incomprensibili però per l’uomo comune che così si sente escluso e non all’altezza di competere per il proprio posto al sole.

"L’elettorato protesta contro l’establishment, non contro il metodo democratico. Siamo scontenti delle scelte immediate dei nostri governanti, delle loro politiche. Ma non vedo all’orizzonte forze che seriamente vorrebbero rovesciare il sistema democratico". Il controcanto di Bernard Manin

Le élite politiche, a loro volta, non sono in grado di mantenere le promesse fatte. E non lo sono perché abbiamo a che fare con «il divorzio tra il potere e la politica». Il potere è sempre meno legato al territorio, sempre più rappresentato da entità astratte e immateriali (banche, finanza, mercati). Tutto questo crea frustrazione, ricerca del colpevole, del capro espiatorio, desiderio di tornare dalla “condizione cosmopolita” (teorizzata già oltre un secolo fa da austromarxisti e da socialisti del Bund ebraico) verso una comunità chiusa e dove è possibile un’illusoria ed estrema semplificazione. Chiusura e semplificazione (accresciute dalla paura dei migranti) che si trasformano nel desiderio di un “uomo forte”. Dice Bauman: «Forse la parola democrazia non sarà abbandonata, ma sarà messa in questione la classica tripartizione di potere tra l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario». Addio, dunque Montesquieu: porte spalancate a possibili forme dittatoriali. Anche perché, «perfino la speranza è stata privatizzata».

Ma forse Bauman, non teorico dell’azione, ma critico dell’esistente è troppo pessimista (in realtà, in privato ammette di sperare in una rinascita della sinistra cosmopolita). Forse occorre aggrapparsi alle parole di Chantal Mouffe, belga, celebre per i suoi studi sul populismo e sul concetto dell’egemonia, quando parla della necessità di tornare a una sinistra antagonista e che rigetti il compromesso liberal-socialdemocratico. O forse ha ragione Pierre Rosanvallon, politologo francese, tra i più rinomati che va ripetendo che non siamo più in democrazia (“Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia”, “Le Bon Gouvernement”) e propone misure concrete di resistenza. Tra queste: sorvegliare, vigilare, controllare il potere e «parlar chiaro e dire la verità». E con quest’ultima parola d’ordine torna alle ricerche di Michel Foucault sulla “parresia”, il dire ciò che si pensa dei Greci ai tempi di Pericle, virtù cittadina e mezzo di opposizione alle tentazioni di ogni tirannide.

Fin qui la speranza, perché Rosanvallon dice anche che la vecchia idea di un parlamento che legifera e un governo che esegue non esiste più, perché il potere politico è ormai in mano all’esecutivo e cresce la voglia di presidenzialismo ovunque. Gli fa eco David Van Reybrouck, uno studioso che arriva a teorizzare il sorteggio di persone chiamate a decidere delle cose della politica, come avveniva appunto ad Atene, tanto da aver scritto un libro intitolato “Contro le elezioni” (e aggiunge: «Gli eletti sono élite»). Dice Donatella Di Cesare, professoressa di Filosofia teoretica a La Sapienza e femminista con forti tendenze anarchiche: «La democrazia è l’ultimo tabù. Nessuno osa metterlo in questione, eppure bisogna cominciare a farlo se non vogliamo la catastrofe e se desideriamo preservare le nostre libertà». Indica l’America per dire: «La democrazia sta diventando dinastia».

E allora che fare? «Rendere la democrazia più femmina e meno maschio. Accettare, in questi tempi di mondializzazione e di flussi di migranti, una sovranità limitata, condizionata, distaccata dall’ossessione identitaria, aperta invece ad Altri. Chi esalta la sovranità rigida, finirà per rinunciare alla libertà in nome appunto della mera sovranità. Io lo temo». Lo teme pure Jan Zielonka docente a Saint Antonys College, a Oxford, alla Cattedra intitolata a Ralph Dahrendorf, per decenni pontefice massimo del liberalismo. Da Varsavia, dove si trova in vacanza, al telefono conferma: «Sta vincendo la controrivoluzione. Certo, l’ondata controrivoluzionaria avanza grazie a elezioni e non con putsch militari o barricate, ma pensare che si possa tornare indietro verso il rassicurante mondo della democrazia liberale è una follia».

A questo punto non resta che fare un po’ di ordine e ripetere la domanda: che fare? La parola va a Emmanuel Todt, personaggio geniale, controverso, poliedrico, storico «della lunga durata» (così si autodefinisce), che prima di esplicare il suo pensiero ci tiene a presentarsi come prosecutore delle tradizioni della «vecchia borghesia israelitica patriottica». Usa questa definizione desueta per sottolineare la sua impermeabilità alle mode identitarie, perché poi difende una certa idea di identità. Otto anni fa Todt pubblicò un libro intitolato “Après la démocratie” (dopo la democrazia). Oggi dice: «La storia dell’Occidente non coincide con la storia della democrazia». E anche: «La democrazia era legata alla diffusione del sapere a alfabetizzazione delle masse», per arrivare ad affermare: «Oggi invece le élite, minacciate da un popolo ormai in grado di leggere e scrivere cercano di stabilire comunque la differenza culturale. E così tradiscono la democrazia, dicendo che chi vota Trump o Brexit è ignorante». Rimarca: «La democrazia comunque non esiste più. È morta assieme alla globalizzazione e all’euro, ai flussi migratori incontrollati. Se io non sono padrone della moneta e del territorio, non posso esercitare i miei diritti democratici». Ripete: «Non sono uno xenofobo, ho in odio il Front national, ma mi preme dire ciò che penso».

E allora, davvero è finita la democrazia? Conclude Ilvo Diamanti. Che dice due cose fondamentali. La prima: la democrazia è una forma di potere, di “cratos”, non può dunque essere parziale e deve anzi corrispondere a un territorio abitato e gestito da una popolazione di cittadini (una constatazione non del tutto ovvia ai tempi del mondo globale). In altre parole: la responsabilità, principio della democrazia contempla la delimitazione, quindi l’esistenza dei confini. La seconda: la forma della democrazia corrisponde alla tecnologia della comunicazione. Ai tempi dei notabili, l’arena era il parlamento e i partiti nascevano nelle Aule delle assemblee, elette per lo più per censo. Poi sono subentrati i partiti di massa e si è passati alla piazza e ai giornali. Lo stadio successivo è stata la personalizzazione e il leaderismo e siamo alla tv. Oggi a queste forme (nessuna del tutto scomparsa) va aggiunta la Rete. E siamo alla “democrazia ibrida”. Aggiunge: «La Rete permette qualcosa che assomiglia alla democrazia immediata, dove la deliberazione e l’esecuzione avvengono contestualmente. Ma la democrazia ha bisogno delle mediazioni, là dove invece è immediata e radicale (come nell’utopica visione giacobina o ad Atene del V secolo avanti Cristo) tende ad abolire se stessa». La abolirà? «Penso», risponde, «che vivremo in un mix tra democrazia mediata e immediata». E non è un futuro rassicurante.

© Riproduzione riservata
29 dicembre 2016

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/12/22/news/viaggio-al-termine-della-democrazia-1.292001?ref=HRBZ-1
5805  Forum Pubblico / AUTORI. Altre firme. / Andrea Romano - Il grillismo e la nobile restaurazione inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:22:50 pm
> Opinioni
Andrea Romano   @andrearomano9
· 4 gennaio 2017   

Il grillismo e la nobile restaurazione

L’alternativa è tra l’impegno del cambiamento e il rifugio nella nostalgia identitaria

Per favore, non scomodiamo il garantismo per commentare il primo comunicato del 2017 della premiata ditta Grillo& Casaleggio. Le parole sono importanti, come diceva il maestro, e “garantismo” è una di quelle da usare con la cura maggiore in un’epoca nella quale l’intreccio tra politica, giustizia e opinione pubblica si è fatto groviglio confuso. In questo caso le parole giuste sarebbero quelle antiche ma sempre attuali di Piero Calamandrei.

Il quale, intervenendo nel 1947 alla Costituente per discutere (e criticare come insufficiente) la bozza di articolo 49, ebbe a dire che che «l’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile perché si abbia anche fuori di essi vera democrazia», dal momento che «una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici».

Ma lo stesso hanno fatto con argomenti che avevano avuto una qualche diffusa circolazione anche dalle nostre parti: la superiorità morale, la demonizzazione cronica dell’avversario, il giustizialismo, il complottismo, la criminalizzazione dell’impresa e della globalizzazione. Argomenti che nella versione Cinque Stelle assumono una declinazione rozza e brutale, ma che sono stati facilmente pescati dal bacino dei malanni che hanno afflitto la democrazia italiana nell’ultimo ventennio.

La loro capacità di assorbire e cristallizzare questi temi, insieme alla tenacia dimostrata nell’occupare stabilmente spazi consistenti di consenso sociale ed elettorale, ci racconta di un contesto politico che non è destinato a trasformarsi all’improvviso né tanto meno a tornare ad una immaginaria età dell’oro.

Non torneremo indietro, nonostante la frizzante aria di restaurazione che da qualche settimana si respira anche in alcuni ambienti della sinistra italiana. Quasi che il voto del 4 dicembre avesse cancellato la fatica del cambiamento delle cose reali, restituendoci per miracolo a quella che secondo alcuni dovrebbe essere la nostra condizione naturale: il culto della nostalgia per il bel tempo che fu, quando il mondo ci sorrideva perché eravamo nel giusto in virtù della nostra stessa identità e quando l’Italia non era intossicata dal populismo in versione grillina o fascioleghista.

La tentazione di tornare ai bei tempi andati è comprensibile, persino quando è animata dalle motivazioni personali di chi in quei tempi occupava posizioni di potere che nel frattempo sono andate perdute. Ma per un partito politico che conserva l’ambizione alla trasformazione del reale la fuga verso la nostalgia equivale alla scelta dell’irrilevanza e alla concessione di enormi spazi politici all’avversario. Un avversario che, tra l’altro, è ormai molto lontano dalla destra tradizionale e conservatrice di quell’immaginario tempo perfetto.

Abbiamo di fronte a noi un esempio preciso e concreto di questa dinamica, se guardiamo al declino del Labour britannico dopo la sconfitta elettorale del 2015. La leadership di Corbyn, fondata e condivisa sulla scelta di tornare a coltivare il giardino dell’identità tradizionale, ha coinciso con il precipitare dei consensi ad un partito che aveva saputo governare per ben quindici anni la Gran Bretagna (trasformandola in direzione di una maggiore giustizia sociale e civile). Con il risultato, oggi, di rendere del tutto irrealistica qualunque prospettiva di contendere ai Conservatori la guida del paese alle prossime elezioni.

Qualche giorno fa Barack Obama, in una delle riflessioni pubbliche con cui sta provando a delimitare la propria eredità politica, si è soffermato sul rischio di una «corbynizzazione» dei Democratici statunitensi dopo la vittoria di Trump. Un pericolo che potrà essere sventato, secondo il presidente uscente, solo fintanto che la sinistra americana resterà «ben radicata sui fatti e sulla realtà». l'Unità TV

È un tema non solo italiano, dunque, quello dell’alternativa tra l’impegno del cambiamento reale e il rifugio autolesionistico nella nostalgia identitaria. Un tema con cui il Partito democratico sta già facendo i conti, mentre la tentazione della nobile restaurazione si fa sentire rispetto alla fatica di tenere fermo quel cammino delle riforme di libertà, delle cose da fare e della centralità della politica che ha restituito alla sinistra italiana una rilevanza persa da molti anni.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/il-grillismo-e-la-nobile-restaurazione/
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