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Titolo: Sgrena: «Dal velo islamico non c’è ritorno»
Inserito da: Admin - Febbraio 29, 2008, 02:43:35 pm
Sgrena: «Dal velo islamico non c’è ritorno»

Elena Doni


Ho conosciuto Giuliana Sgrena quindici anni fa.
Quello che fu inizialmente un incontro di lavoro diventò presto un’amicizia cementata dalla solidarietà e dalla simpatia per le donne algerine che negli anni novanta, con stupefacente coraggio, si opponevano al disegno fondamentalista di «reislamizzare» la società e di prendere il potere.

Giuliana ha sempre ascoltato e capito le voci di chi nei paesi musulmani non ha ascolto, spesso voci di donne. Lo ha fatto con coraggio e pazienza, spesso avventurandosi in luoghi dove gli altri inviati non osavano andare: e lo ha fatto non solo da inviata del Manifesto ma anche quando trascorreva le sue vacanze in luoghi che definire inospitali è dire poco. Di questo coraggio e di questa pazienza dobbiamo esserle grati perché il mosaico di opinioni che ci ha offerto - e ci offre nel suo libro Il prezzo del velo (Feltrinelli, pagine 156, euro 13,00) - è una chiave determinante per capire un mondo, quello islamico, così lontano nella geografia e nelle tradizioni e così vicino per l’immigrazione e il terrorismo. Ma dove esistono oggi sintomi che possono far pensare a future evoluzioni.

Quando ti ho conosciuta stavi preparando un libro che si intitolò «La schiavitù del velo» (Manifestolibri, 1995) e che raccoglieva voci di donne algerine contro l’integralismo islamico. Da allora molte cose sono cambiate, anche tra le donne che vivono in paesi musulmani. In Turchia, per esempio, sono state le ragazze a voler portare il velo all’interno delle università e Orhan Pamuk ha assicurato «il turban non è fondamentalista». In questo nuovo libro sembra invece che tu non abbia cambiato parere rispetto ad allora per quello che riguarda il velo: una posizione in controtendenza rispetto a cose che si leggono oggi. È così?
«Sì. Questo libro è quasi la continuazione di quello. Sono state le donne algerine ad illuminarmi allora sulla valenza che il velo poteva avere. Si parte dal velo per poi introdurre un codice della famiglia e quindi incidere sui diritti delle donne. Quello di oggi in Turchia può essere il primo passo verso l’islamizzazione del potere politico. Si utilizza la tradizione per giustificare una decisione che va in questa direzione. Se il governo turco voleva fare qualcosa a favore delle donne perché non aiutare le ragazze povere a studiare?»

In alcuni paesi musulmani, come l’Egitto, il velo tra le giovani è anche un forte simbolo antigovernativo e antioccidentale. Tu stessa citi la direttrice di una rivista femminile egiziana, Iqbal Baraka, che dice «Questo del velo è un fenomeno sociale, politico e psicologico, più che religioso».
«Molte volte il velo viene imposto da movimenti per la reislamizzazione della società che sono movimenti antigovernativi. In Iran, negli anni 70, la sinistra e molte donne si schierarono con Khomeini per combattere lo Scià. Ed è finita come è finita. Spesso si è sottovalutata la pericolosità del velo. La difficoltà di tornare sui propri passi e di rinnegare questa scelta, che non è la scelta di un capo di abbigliamento ma una scelta di vita e di comportamento, è enorme. Tornare indietro è quasi impossibile».

Il tuo libro ha per sottotitolo «La guerra dell’islam contro le donne». Si potrebbe discutere parecchio su questa frase perché il Corano contiene molti passi pieni di attenzione benevola per la condizione femminile. Ti sembra forse che certe posizioni cattoliche siano amiche delle donne? E dell’induismo cosa mi dici?
«Già, l’induismo, che faceva bruciare le donne sul rogo dei mariti. Le religioni hanno sempre strumentalizzato la tradizione per condizionare le donne, controllarne il comportamento e limitarne l’indipendenza. Nelle religioni non c’è mai stata vera apertura verso le donne: solo i protestanti si sono comportati in modo diverso. Quello che sta accadendo in Italia a proposito della 194 dovrebbe ricordarci che, per quanto riguarda le donne, nessuna conquista è per sempre».

«Il prezzo del velo» offre una preziosa testimonianza sui pensieri e i comportamenti delle donne del mondo islamico: tra l’altro dell’Arabia Saudita, luogo proibito ai turisti e sul quale è difficile formarsi un’opinione documentata. Tu racconti, tra l’altro, di aver incontrato in Arabia Saudita donne che si ribellano all’ordine saudita, cioè dei wahabiti, corrente religiosa massimalista. E citi, tra gli altri, una giornalista del quotidiano «al Riyadh» che dice: «I nostri canali televisivi sono invasi da vecchi e nuovi predicatori che, rispondendo alle domande dei telespettatori, prorompono in accuse contro il sesso femminile. E lo fanno distorcendo vergognosamente gli hadith del Profeta».
«Penso che in Arabia Saudita ci sia un grande fermento. È una società soffocante, piena di divieti e con una rigorosissima separazione dei sessi. I giovani smaniano, naturalmente. Tanto più perché le tv satellitari e i blog accendono la fantasia. I ragazzi non possono incontrare ragazze, ma per i maschi c’è la comoda scappatoia dei matrimoni temporanei: un’istituzione sciita che è stata volentieri adottata dai sunniti. Le donne sono più insofferenti, ma non solo per la mancanza di conoscenza con l’altro sesso. Per le donne la vita in Arabia Saudita, condizionate come sono da divieti antistorici, è davvero difficilissima: non possono guidare la macchina ma neppure andare in automobile con un uomo se non è un parente stretto, possono studiare ma in pratica non possono lavorare, non possono viaggiare senza il permesso del marito o del padre, non possono ottenere la custodia dei figli in caso di divorzio. Questo a mio giudizio, determina una situazione esplosiva: ma chissà quando avverrà l’esplosione».

Shirin Ebadi ha detto recentemente a Roma, in occasione della presentazione di un libro, che «il vero islam può convivere con la democrazia e questo avverrà, prima o poi. L’origine delle leggi che in Iran fanno delle donne cittadine di secondo classe non è nella sharia ma nella tradizione». Condividi?
«C’è una corrente emancipazionista delle donne musulmane che sostiene che il cambiamento può avvenire attraverso una rilettura del Corano. Ne è convinta, per esempio, Fatima Mernissi, autorevole intellettuale marocchina, autrice tra l’altro di un libro di successo internazionale, La terrazza proibita (Giunti, pag. 232, euro 11,90). Ma le donne algerine sono invece convinte che la liberazione delle donne può nascere solo dalla separazione tra stato e religione. Se devo esprimere un parere dirò che aderisco a quest’ultima posizione: ma dico anche che molte donne non possono esprimere liberamente la loro opinione. Se Shirin Ebadi dicesse questo non potrebbe tornare nel suo paese. Altre donne del mondo islamico pensano che è più utile la politica dei piccoli passi: perciò nel Magreb donne con approcci diverse lavorano insieme per l’emancipazione femminile».

A distanza di tre anni che conseguenze ti sono rimaste della terribile avventura vissuta in Iraq?
«Ho cambiato il mio modo di vivere. Oggi vivo alla giornata: non faccio progetti a lungo termine e ogni momento vissuto lo sento come una conquista».


Pubblicato il: 28.02.08
Modificato il: 28.02.08 alle ore 8.23   
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