LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Arlecchino - Giugno 08, 2007, 04:36:05 pm



Titolo: Giampaolo PANSA...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 08, 2007, 04:36:05 pm
OPINIONI

BESTIARIO
Impotenti e arroganti così l'Unione va k.o.

di Giampaolo Pansa


Il fisco, i Dico, le pensioni: sì, hanno influito sul voto. Ma più di tutto ha pesato l'immagine di un baraccone parolaio e superbo 
È stato Piero Fassino a darci la spiegazione più schietta della batosta nordista che ha mandato al tappeto l'Unione. A Goffredo De Marchis di 'Repubblica', il leader dei Ds ha detto che la parte più dinamica del paese rifiuta "una politica che appare lenta, distante e sorda. E che soprattutto non sa decidere". Secondo Monica Guerzoni del 'Corriere della Sera', Fassino è stato ancora più secco: "Non si può andare avanti con un sistema che, dai Dico al tesoretto, non decide nulla".

Le parole di Fassino si sono guadagnate la prima pagina. Ma per i lettori de 'L'espresso' quella del leader Ds è una vecchia litania. Non è una novità che il ceto dirigente dell'Unione sia fatto di politici con due vizi mortuari: l'impotenza e l'arroganza. Esistono delle eccezioni, naturalmente. Ma il nocciolo duro delle dieci sinistre italiane più i loro alleati centristi è quella roba lì. E quella 'roba' gli elettori del Nord l'hanno rifiutata.

Chi gira l'Italia ha imparato a conoscerli bene i compagnucci del quartierino unionista. Spesso sono tanto ottusi da suscitare pena, prima ancora che avversione. Con chi non sta ai loro ordini, i compagnucci sono dei formidabili sepolcri imbiancati. Ti sorridono, fanno i complimentosi, giurano che sono d'accordo con te. Poi, appena giri le spalle, cercano di fregarti. Convinti che tu non conti un fico secco rispetto a chi, come loro, può vantare un piccolo potere.

Siamo alla sublimazione suicida del Complesso dei Migliori. Ecco un virus che ha contagiato anche sindaci grandi e piccoli. Ossia i politici che, più di chiunque altro, dovrebbero esserne immuni. Ne ho visti all'opera un paio di quelli che oggi hanno perso la poltrona considerata al sicuro da qualsiasi incursione del centro-destra. Signore e signori con la puzza al naso. Pronti a segare chiunque non avesse tutti i bollini della loro parrocchia. Chiedevi di partecipare a un dibattito? No, tu no. Speravi di poter esporre le tue ragioni nella loro città? No, tu no. Domandavi di essere messo a confronto con chi non la pensa come te? No, no, no.

Vi ricordate la bella canzone di Enzo Jannacci, 'Vengo anch'io, no tu no'? Era diventata il loro inno. Democratici a parole, autoritari di fatto. Un giorno stilerò un elenco con nomi e cognomi di questi pennacchioni arroganti. E anche impotenti. Ricordiamoci del lamento fassiniano: "Qui non si decide più nulla". Da Roma sino all'ultima città governata dall'Unione, l'imperativo di qualsiasi politica (scegliere, decidere) ha ceduto il passo al balbettio, alla rissa, alle giaculatorie lamentose, alla ricerca di qualche nemico esterno al quale addossare la colpa della paralisi che rischia di travolgere anche il povero professor Prodi.

Certo, sul voto di domenica avranno influito l'aumento della pressione fiscale, il contrasto insensato sui Dico, il rebus irrisolto della riforma pensionistica, la debolezza nel confronto con la corazzata dei sindacati. Per non parlare del dibattito surreale sul Partito democratico: farlo in fretta o adagio, eleggere subito il leader o no. Ma più di tutti ha contato l'immagine di un baraccone parolaio e superbo. Qualcuno ha osservato che i roghi della spazzatura a Napoli e dintorni (territorio dell'Unione) hanno influito più sul voto del nord che su quello del sud. Però ha avuto il suo peso anche la guerriglia smargiassa fra partiti che, trovandosi dentro lo stesso governo, dovrebbero almeno rispettarsi.

Ho davanti a me una prima pagina di 'Liberazione', il quotidiano di Rifondazione comunista. Attenti alla data: sabato 26 maggio 2007, vigilia del voto. Il titolone di apertura strillava: 'Fassino ama Bush e Montezemolo. Partito democratico o repubblicano?'. E l'occhiello spiegava: 'Il segretario Ds si fa scavalcare a sinistra da Berlusconi e poi loda Bush e il Vaticano, e boccia il programma del Gay pride'.

Che cosa può aver pensato un elettore del centro-sinistra, magari già incerto se votare o no? Immagino un pensiero corrosivo: se questa è un'alleanza, andate al diavolo tutti, mi rifiuto di votarvi.

Infatti, tra domenica e lunedì, l'astensionismo è cresciuto, stavolta a sinistra. Per le provinciali, su cento elettori soltanto 58 si sono recati alle urne. E il partito dell'astensione ha raggiunto un vertice mai toccato: il 42 per cento. Per le comunali, è andata un po' meglio: l'astensione è del 26 per cento. Ma non sappiamo niente delle schede bianche o nulle.

Ormai non siamo più all'allarme rosso. La sirena è suonata quando già le bombe cadevano. A questo punto, è inutile domandarsi se la lezione del 27-28 maggio servirà a qualcosa. La mia modesta opinione è che la legnata non servirà a nulla. Dentro l'Unione, i fratelli coltelli si stanno già rinfacciando la colpa di aver perso. Poi la sconfitta verrà archiviata in fretta. E il povero Prodi sarà obbligato ad andare avanti sulla zattera di Palazzo Chigi. In attesa che il primo branco di squali si mangi lui e il suo equipaggio da operetta.
 
 
 da espressonline


Titolo: Giampaolo PANSA - Fuoco su Veltroni - Poi toccherà a Prodi?
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2007, 05:15:26 pm
«Entrambi i blocchi sono in sfacelo.

Il centrodestra non è messo meglio»

Lo strappo di Pansa: non sono più di sinistra «Coalizione spappolata.

Il Pd? Il mio Piemonte è rappresentato da Petrini».

Mi iscriverei al partito di Montezemolo 


ROMA — Sinistra, addio. «In Italia la sinistra non c'è più. È finita. Non lo dico io, lo dicono loro. Ci sono dieci sinistre, come riconosce lo stesso Fassino. Sta franando il Palazzo: viene giù tutto quanto, e li seppellirà. La Seconda Repubblica è morta. Comincia la Terza». Giampaolo Pansa non ha mai risparmiato critiche a quella che considerava la sua metà del campo. Ma lo faceva, appunto, da uomo di sinistra. «Ora non ci credo più. Non parlo più di sinistra e di destra perché sono categorie superate. Capisco i giovani, che non si riconoscono in un linguaggio antico. Se dovessi misurarli con le vecchie regole, allora direi che è di sinistra Montezemolo ed è di destra Bertinotti. Destra estrema, destra conservatrice». «In passato ho creduto in Prodi. Ora ho perso anche l'ultima illusione, e non per colpa sua. Prodi guida una coalizione spappolata. La sua presunta alleanza è un baraccone. Conosco le fatiche del Professore per arrivare in fondo a ogni giornata fatta di liti, ribellioni, piccoli ricatti: una lotta che piegherebbe dieci Maciste. Prodi oggi è prigioniero di una banda di folli. Un Gulliver legato da migliaia di lillipuziani. Non scommetterei uno stipendio sul fatto che arrivi al 2011».

IL CUOCO E IL MINISTRO DELL'AGRICOLTURA - Non è delle vicende personali che parla Pansa, gli attacchi e le solidarietà negate dopo essere stato costretto a interrompere le presentazioni dell'ultimo libro, La grande bugia. Di questo scriverà nel prossimo saggio, atteso per l'autunno. È l'attualità politica a indurre Pansa a questo passo. «Ho molta stima del direttore di Repubblica, ma non sono d'accordo con il suo ultimo editoriale. Ezio Mauro pensa che la politica e la sinistra possano ancora autoriformarsi. Io no. Né mi pare che il Partito democratico potrà indurmi a cambiare idea. Vedo che il mio Piemonte, la patria della sinistra italiana, la terra dove sono nati o si sono formati Gobetti, Gramsci, Togliatti, Terracini, Bobbio, è ora rappresentato da Carlin Petrini. Non da Chiamparino, uno dei rari politici seri, forse l'unico che possa presentarsi ai cancelli di Mirafiori senza essere subissato di fischi. Al suo posto ecco Carlin, che già il cuoco rivale Vissani indica come ministro dell'Agricoltura. Mi diranno che sono qualunquista. Mi viene da rispondere: evviva il qualunquismo. Evviva l'antipolitica. La politica italiana si è coperta di discredito con le sue stesse mani. Ha fabbricato la propria rovina».

ENTRAMBI I BLOCCHI SONO ALLO SFACELO - Pansa non crede che la via d'uscita possa essere il ritorno di Berlusconi. «Entrambi i blocchi sono in sfacelo. Il centrodestra non è messo meglio, e i risultati delle amministrative di oggi non cambieranno nulla. Quando sento Berlusconi indicare come capo del centrodestra italiano una ragazza come la Brambilla, l'istinto è di chiamare gli infermieri, che lo portino via. No, la destra no». Ad Antonello Piroso di La7 Pansa aveva detto di non voler più votare. «Ma mi riconoscerei in un governo di centro democratico — aggiunge ora —. Un sistema in cui, se suonano al campanello alle 4 di mattina, penso sia il lattaio molto in anticipo e non la polizia che mi viene a cercare». Allude a Visco? «Ma no. Non ho alcun timore: le tasse le pago tutte. Però ha ragione Cesare Salvi, quando dice al Corriere che il caso Visco è grave. O ha mentito il comandante della guardia di finanza, e allora dev'essere radiato dalle forze armate; o ha mentito Visco. E allora deve dimettersi»

MI ISCRIVEREI AL PARTITO DI MONTEZEMOLO - Sul Bestiario, uscito venerdì scorso sull'Espresso, Pansa ha avuto parole di speranza su Luca di Montezemolo. «Non sono tipo da folgorazioni. Ogni volta che lo vedo mi viene in mente la vecchia battuta di Fortebraccio: "Arriva Agnelli, scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore". Però il suo discorso all'assemblea di Confindustria l'ho seguito per intero e mi è piaciuto. Il Bestiario l'avevo scritto prima; sono stato contento di aver trovato conferme. La crisi del sistema, il costo impazzito della politica, i mille impedimenti burocratici che avviluppano la vita dei cittadini: condivido. E non mi è dispiaciuto neppure il titolo che Sansonetti ha fatto su Liberazione: "Montez", come un conquistador. Magari! Se Montezemolo fondasse un suo partito, mi iscriverei subito. Sarebbe la prima tessera che prendo in vita mia. E penso proprio che "Montez" voglia scendere in politica, anche lui giura il contrario. Ma i vecchi partiti lo ammazzeranno. Tireranno fuori di tutto per usarlo contro di lui. Gli metteranno non i bastoni, ma le spade tra le ruote. Non lo lasceranno campare, né a destra né a sinistra». «Certo, l'ideale sarebbe che uno dei due blocchi, più facilmente il centrodestra, riconoscesse in Montezemolo il leader. E che Berlusconi si facesse da parte, o Prodi cercasse un'alleanza al centro. Ma le prime reazioni non lasciano presagire nulla di buono. Prodi ha commesso un errore clamoroso. Avrebbe dovuto fare propria la critica alla politica e ai suoi costi. Invece se n'è uscito con un sussiegoso "si commenta da solo". Ma come si fa! Da juventino, mi sono chiesto per tutta la stagione perché Deschamps non facesse giocare Bojinov, un fuoriclasse. Allo stesso modo mi chiedo: perché Mario Monti deve occuparsi solo dei convegni alla Bocconi? Non sarebbe un ottimo ministro dell'Economia? E Mario Draghi, deve fare tutta la vita il governatore della Banca d'Italia, o non potrebbe spendersi come premier di un governo? Purtroppo la vecchia politica, e anche le tante vecchie sinistre, sono pronte a tutto, pur di difendere il proprio potere residuo. Per proteggere la loro stessa agonia».

UN ADDIO ALLA SINISTRA NON DOLOROSO - È un addio, quello di Pansa alla sinistra, che si immagina doloroso, sofferto. «Invece sono tranquillissimo. Questi sono gli scabri pensieri di un signore che a ottobre compirà settantadue anni. Faccio il giornalista da quasi mezzo secolo, dall'età di ventun anni sono sempre andato a votare, e ho sempre votato o a sinistra o per il centrosinistra. A volte penso che sono troppo anziano e capita anche a me di cominciare ad avere idee che non condivido. Però, se devo fidarmi delle reazioni di cui mi accorgo quando dico le mie cosacce, siamo davvero in tanti, e anche molto più giovani di me, a pensarla nello stesso modo».

Aldo Cazzullo
27 maggio 2007


Titolo: Ma esiste un nostro Sarkozy?
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2007, 05:16:12 pm
BESTIARIO

Ma esiste un nostro Sarkozy?
di Giampaolo Pansa


Da Draghi a Montezemolo. Da Giavazzi a Illy. Che sia autorevole e anche un po' autoritario  Luca Cordero di Montezemolo presidente della Confindustria Può esistere un Sarkozy anche in Italia? Prima di rispondere a una domanda che si pongono in tanti, bisogna fare un piccolo passo indietro nel tempo. E tornare a domenica 20 maggio, giorno di festa anche perché sul 'Corriere della sera' appare una lunga intervista a Massimo D'Alema, scritta da Maria Teresa Meli. Tra la sorpresa di molti, Baffino d'Acciaio dice che il sistema dei partiti italiani rischia una crisi simile a quella di Tangentopoli. E questa volta non per la corruzione, ma per il vecchiume della politica. Dunque, allarme rosso! I dinosauri (immagine mia) stanno per estinguersi. Chi verrà dopo di loro?

Ma l'allarme dalemiano ha un difetto: quello di suonare in ritardo. La crisi di sistema è già in atto. I dinosauri stanno tirando le cuoia. Alcuni si credono ancora vivi e invece sono morti. Due di loro, i Ds e la Margherita, hanno deciso di scomparire, sperando di reincarnarsi in una bestia nuova, il Partito Democratico. Insomma, roba già scritta, anche nel Bestiario. Ma i politici non leggono i giornali. Di solito, li buttano nel cestino, borbottando le solite litanie: qualunquismo, disfattismo, antipolitica.

Tuttavia le giaculatorie non cancellano la verità.

Osserviamo le condizioni dei due blocchi in cui è diviso il paese. Sono allo stremo, boccheggiano, non respirano più. Il centro-destra perde i pezzi (Casini, forse Bossi). Forza Italia e An stanno incollati con lo sputo. Il Partito delle Libertà resta un'utopia. Il leader di oggi, Berlusconi, è sempre più stanco. E senza erede. Può esserlo Michela Vittoria Brambilla? Forse sì, quando la settimana avrà tre giovedì.

Il centro-sinistra non sta meglio. Prodi governa una nave che non lo riconosce più come il comandante. Gli ammutinati aumentano di giorno in giorno. E tutti passano il tempo a scannarsi. Le sinistre dell'Unione sono diventate dieci. Contando i restanti partitini, si arriva a dodici, tredici coabitanti. Ecco un'alleanza senza avvenire. È possibile immaginare che regga sino al 2011? A me vengono i brividi.
 

Che cosa si può fare perché il sistema non crolli del tutto? Una strada maestra c'è. Il primo passo è varare subito una nuova legge elettorale che, come minimo, garantisca un bipolarismo assai più solido di oggi. E tolga di mezzo lo sfasciume dei piccoli partiti capaci soltanto di ricattare qualunque alleanza. Il secondo passo è di andare a votare appena fatta la legge nuova. Il terzo è di andarci con schieramenti diversi da quelli dell'aprile 2006.

Voglio essere chiaro, senza giri di parole. Il Partito Democratico, se mai nascerà, deve tagliare i ponti con le sinistre radicali, quelle 'inutili per governare' come le ha definite tempo fa D'Alema. E insieme a qualche alleato, penso ai socialisti e ai radicali, deve stringere un patto con una parte del centro-destra. Con Casini, prima di tutto. Ma non soltanto con lui. È possibile farlo? E i numeri per vincere le elezioni ci saranno? Credo di sì, a una condizione: che tutto questo avvenga in una situazione nuova, molto diversa da quella d'oggi.

La situazione nuova è una sola: l'emergere di altri leader politici e di un altro personale di governo, in grado di ridare agli italiani un po' di fiducia nella politica e un po' di voglia di andare a votare. E qui si arriva al rebus del Sarkozy italiano. Oggi non c'è. Ma potrebbe esserci domani. Se un gruppo di eccellenti, ora distanti dalla politica dei partiti, vorrà compiere un atto di coraggio. Lo stesso che fece Berlusconi nell'autunno del 1993, scendendo in campo.

Cercate dei nomi? Eccoli. Mario Draghi, oggi governatore di Bankitalia. Avrebbe le capacità di guidare un governo? Penso di sì, ma deve essere così generoso e altruista da mettersi alla prova. Un altro è Luca Cordero di Montezemolo. Dicono che spasimi di entrare in politica. Se è vero, si decida. Un altro ancora è Padoa-Schioppa: è già ministro e può giocare la partita in prima persona.

Sto parlando di tecnici? Certo, l'Italia di oggi ha un gran bisogno di loro. Ha bisogno di Mario Monti, di economisti come Giavazzi e Boeri, di giuristi come Ichino e Ceccanti, di politici-tecnici che amministrano grandi macchine comunali o regionali: Chiamparino, Cofferati, Illy, Soru, Mercedes Bresso. E metto nel conto pure i direttori dei due maggiori quotidiani, Ezio Mauro e Paolo Mieli. Anche loro potrebbero fare una scelta di vita sorprendente.

Sto immaginando una squadra di centro democratico? Ebbene sì. Se i partiti non uccideranno nella culla questi e altri leader nuovi, il Sarkozy italiano lo vedremo nascere da solo. Autorevole e anche un po' autoritario. Quello francese ha appena stabilito che gli studenti diano del 'voi' ai professori. E si levino in piedi quando l'insegnante entra in classe. La misura non mi è nuova. Nel 1960, alla 'Stampa', se il direttore Giulio De Benedetti appariva nel salone dei redattori, ci alzavamo. E finché lui non ordinava "Signori, seduti!", restavamo sull'attenti davanti al gran capo.

(25 maggio 2007)
da  espressonline


Titolo: Giampaolo Pansa E adesso il Parolaio farà cadere il Prof
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2007, 10:47:14 pm
BESTIARIO

E adesso il Parolaio farà cadere il Prof
di Giampaolo Pansa

A Fausto Bertinotti e a Rifondazione importa nulla della governabilità. Se è il partito a rischiare, il centro-sinistra vada pure in malora 
Un vecchio proverbio recita : se l'asino è spelato, tutte le mosche gli vanno addosso. Quanto sia spelato il centro-sinistra ce lo ricorda uno studioso indipendente: Luca Ricolfi, l'autore del 'Complesso dei migliori'. Intervistato da Giuseppe De Filippi del Tg5, ha stilato una diagnosi secca, in due punti. Primo: in queste elezioni amministrative, due milioni di elettori sono passati dalla sinistra alla destra. Secondo: oggi il centro-destra ha 11 punti di vantaggio sul centro-sinistra, il 55,5 per cento contro il 44,5.

Sull'Unione spelata si stanno gettando un bel po' di mosche. L'ultima è la mosca del ridicolo, emersa dalle intercettazioni sul caso Unipol. Fa ridere il gelido D'Alema che strilla a Consorte: "Facci sognare, vai!". Persino Corradino Mineo, capo di una Rai News tutta rossa, ha chiosato: "D'Alema ha confuso Consorte con Totti". Però ci sono ben altre mosche all'assalto. E sono quelle che annunciano non risate, ma catastrofi.

Al campo dei disastri appartiene la crisi esplosa dentro Rifondazione comunista. C'è innanzitutto una crisi elettorale. Il 27-28 maggio, Rc è uscita dalle urne con le ossa rotte. Voti dimezzati o ridotti al lumicino. Il segretario, Franco Giordano, è stato lapidario: "Ci hanno sradicato dal Nord". Subito dopo, i rifondaroli rimasti comunisti integrali si sono scatenati contro il quotidiano del partito, reo di aver pubblicato un articolo obiettivo sul regime di Castro a Cuba. Poi è arrivato il flop del sit-in pacifista di Rc a Roma: un raduno di pochi amichetti dell'asilo Mariuccia, rispetto all'imponenza aggressiva del corteo antagonista.

Infine ecco l'uscita da Rc del deputato Salvatore Cannavò, leader della corrente di Sinistra critica. Intervistato da Fabrizio Roncone del 'Corriere della Sera', Cannavò rivela con chiarezza che altri del suo gruppo lo seguiranno. E accusa Fausto Bertinotti di essere il responsabile numero uno del fallimento che ha messo alle corde il partito. Cannavò è spietato: i dirigenti di Rc "provano a risolvere il problema della loro debolezza alleandosi con altri deboli: con i Verdi, con il Pdci, con i mussiani. Sa come finirà? Diventeranno la corrente esterna del Partito democratico".

Un comandamento del giornalismo americano spiega che gli articoli non debbono mai puzzare di 'io l'avevo detto'. Ma per una volta il Bestiario infrange la regola. Mesi e mesi fa, mi ero messo a scrivere di 'sinistre regressiste' e non di 'sinistre radicali'. Adesso vedo che lo dicono anche Massimo Cacciari e il D'Alema del facci sognare. Mentre mi beccavo le bastonate verbali di tanti compagnucci duri e puri, mi consolavo pensando: prima o poi, si mazzoleranno tra loro. Ed eccoci arrivati al teatrino dei pupi rossi, che cominciano a darsele di santa ragione.

Il guaio per il paese è che, prestissimo, stanchi di picchiarsi in famiglia, inizieranno a pestare su Prodi e sul suo governo. Non ci vuole molto acume per prevedere quanto accadrà. Al Parolaio Rosso e a Rifondazione non gl'importa nulla della governabilità. Se è il partito a rischiare, che vada pure in malora il centro-sinistra. Metto nero su bianco un pronostico: il Parolaio e i suoi compagni faranno cadere Prodi. È questa la catastrofe in arrivo.

Franco Giordano l'ha già spiegato a Goffredo De Marchis di 'Repubblica': "A Prodi voglio dire una cosa sola: non si può più stare in mezzo al guado. Bisogna difendere il nostro blocco sociale di riferimento e avviare una politica di risarcimento sociale. Altrimenti saremo travolti tutti". E ancora: "La prossima volta, staremo con i movimenti, anche se la piattaforma non dovesse convincerci". Traduzione: bisogna mollare il Professore e ritornare alla lotta in piazza, con Casarini & C.

Se Bertinotti è sotto processo, Prodi rischia la condanna senza neppure passare per un tribunale. Vorrei sbagliarmi, ma la sua fine è gia cominciata. Le eminenze rifondarole lo annunciano in tutte le interviste. E avvertono che ci sono almeno quattro agguati pronti per il Professore: le pensioni, il Documento di programmazione economica e finanziaria, la legge elettorale e le nuove liberalizzazioni.

La sinistra regressista si prepara ad alzare il prezzo di qualsiasi accordo. Le mosche ronzano minacciose. Pretendono "una netta inversione di tendenza, uno scarto, un salto di qualità sulla politica economica e sociale". Qualcuno risuscita gli 'equilibri più avanzati', la formula che portò iella al Psi anni Settanta. In fondo, il più schietto è Giorgio Cremaschi, leader Fiom e rifondarolo minoritario: "Se vuole sopravvivere, Rifondazione deve emanciparsi da Bertinotti e soprattutto porsi il problema di uscire dal governo".

Ma se Rc decide di andarsene, il governo Prodi va a ramengo. È un film che abbiamo già visto nel 1998. Allora al Prof subentrò D'Alema e la baracca resse per un po'. Però, oggi, Max non è il Superman di un tempo. Sta sotto scacco, per una legge diabolica: il ridicolo ne uccide più della spada.

da espressonline.it


Titolo: Giampaolo Pansa Il Prof pianti tutti e se ne torni a casa
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2007, 06:58:03 pm
OPINIONI

BESTIARIO

Il Prof pianti tutti e se ne torni a casa
di Giampaolo Pansa


I partiti dell'Unione si danno da fare per screditare il premier. Romano Prodi vuole davvero lasciarsi distruggere da questo complotto al rallentatore? 
Ho una domanda da fare a Romano Prodi. Ma soltanto dopo aver ricordato l'ultima perlustrazione del campo di battaglia sul quale il Professore sta lottando da un anno. All'inizio con il sostegno, convinto o meno, dei suoi tanti alleati dell'Unione. E poi, via via, alle prese con un numero crescente di defezioni sul fronte interno.

In questi giorni, gli esiti della ricognizione sono allarmanti. Un sondaggio, voluto dall'Ulivo, rivela che il centro-destra è in vantaggio di 18-19 punti rispetto al centro-sinistra. Un altro sondaggio, più limitato, condotto da Ipsos per il 'Sole-24 Ore' su un campione delle imprese italiane, dice che il 73 per cento delle aziende intervistate boccia il governo.

Dall'inchiesta si apprende quanto sia cambiata l'opinione delle imprese rispetto al sondaggio precedente, compiuto nel febbraio 2006, alla vigilia delle elezioni. Allora il 29 per cento degli intervistati aveva dichiarato di voler votare per il centro-sinistra contro il 42 per cento che optava per il centro-destra. Oggi la forbice si è allargata: quel 29 per cento di favorevoli al governo Prodi si è ridotto al 21 per cento. Mentre i tifosi del centro-destra sono saliti al 61 per cento.

Qualcuno dirà che è la scoperta dell'acqua calda: è ovvio che i padroni stiano a destra. Ma il guaio è un altro. Ed è paradossale. Se si trattasse di una guerra vera, il guaio avrebbe un nome solo: tradimento. Infatti anche gli alleati stanno abbandonando Prodi. Ormai l'attacco che il Prof subisce viene da tre fronti: Berlusconi, le sinistre riformiste e le sinistre regressiste o radicali.

I riformisti, a cominciare dai Ds, scaricano su Prodi le difficoltà interne e il crack d'immagine che rischia di travolgere due dei loro leader, Piero Fassino e Massimo D'Alema. Ad Aldo Cazzullo, del 'Corriere della Sera', lo ha spiegato fuori dai denti uno dei consiglieri del premier, Angelo Rovati: "Noi siamo i primi a farci del male. C'è una malcelata insopportazione nei confronti di Prodi. Ma allora io chiedo: perché non glielo dicono in faccia? Siano espliciti: caro Prodi, ci hai rotto le scatole, non vai più bene, c'è bisogno di altro".

Sul versante delle sinistre regressiste, il mugugno si è fatto minaccioso. E le loro richieste hanno ormai il tono dell'ultimatum: niente Tav, niente raddoppio del Dal Molin, niente scalone, niente Dpf se non garantisce il risarcimento sociale. Su 'Liberazione' di domenica 17 giugno, un deputato di Rifondazione, Ciccio Ferrara, è stato arrogante ("Siamo noi la maggioranza dell'Unione, l'Unione materiale") e insieme molto schietto sulle mosse future del suo partito. Ha scritto: "Staremo con i movimenti, oggi e domani. Al governo ci siamo oggi per far incidere i movimenti nelle scelte. Domani, vedremo. Il governo non è il fine della nostra politica. Il fine della nostra politica è la trasformazione della società".

Penso che Prodi si renda conto di essere diventato la preda di un gioco spietato. Quel che si vede supera anche la testimonianza di Rovati. Su entrambi i versanti del centro-sinistra, i partiti maggiori sono a rischio: per il fatturato elettorale che scende e per il discredito che sale. Ma qualsiasi partito, quando fiuta il pericolo, diventa un animale selvaggio. Pur di salvarsi, è pronto a tutto. Anche a demolire l'immagine del premier che ha scelto e al quale ha affidato il governo. È questo che sta avvenendo sulla pelle di Prodi. Dipinto dagli alleati come un premier insufficiente, traccheggiatore, incapace di decidere, un muro di gomma. Siamo al limite della congiura.

A questo punto, ecco la domanda che rivolgo a Prodi: vuole davvero lasciarsi distruggere da questo complotto al rallentatore? È davvero deciso a barricarsi dentro Palazzo Chigi, nella convinzione che, oggi, non esista né un altro premier né un governo diverso al suo? Prodi sa bene che questa certezza non ha fondamento. E che, nel caso di una crisi, lo sbocco c'è: un governo istituzionale o 'del presidente'. Come il ministero formato nell'aprile 1993 da Carlo Azeglio Ciampi, in piena Tangentopoli. Quel 'governo del presidente', voluto da Oscar Luigi Scalfaro, in agosto aveva già approvato la nuova legge elettorale. E restò in carica sino alla metà del gennaio 1994, per poi lasciare il passo a nuove elezioni politiche.

Non conosco i calcoli di Prodi. Ma non riesco a immaginare che abbia deciso di morire da prigioniero delle mura di Palazzo Chigi. Questo palazzo non è la remota fortezza Bastiani del romanzo di Dino Buzzati, dove il tenente Drogo aspettava l'assalto dei tartari che non arrivavano mai. I tartari dell'Unione sono già all'interno del palazzo. È bene che Prodi ne prenda atto. E salvi se stesso con un gesto che spiazzi tutti: andarsene, piantando in asso gli alleati infedeli e spiegando agli italiani le ragioni della sua scelta. Lo faccia, prima di essere stritolato da una partitocrazia imbelle, che non lo merita. A volte la rinuncia è un atto supremo di coraggio.

da espressonline.it


Titolo: Giampaolo Pansa. La favola del Perdente di successo
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2007, 07:31:58 pm
La favola del Perdente di successo
di Giampaolo Pansa


Veltroni ha alle spalle più sconfitte che vittorie. Eppure è sempre stato capace di rialzarsi dalla polvere per risalire sull'altare 
Candidato naturale alla guida del Pidì o scelta obbligata di una Quercia in agonia? Uomo nuovo o 'vecchio arnese' (Berlusconi dixit)? Io vedo Walter Veltroni come un esempio luminoso del Perdente di successo. Un politico con alle spalle più sconfitte che vittorie. Eppure capace di rialzarsi dalla polvere per risalire sull'altare. Restando sempre uguale a se stesso: un piacione che ama piacere, un favolatore che illude la gente, un conciliatore degli inconciliabili. E dunque un leader inadatto a un'Italia in declino che ha bisogno di capi severi, dalla parola aspra e dalle scelte crudeli.

Ho visto giusto? Non lo so. Su Walter ho scritto migliaia di righe e ne ho lette qualche milione. E il troppo inganna. Le mie cronache su di lui iniziano nella primavera del 1994. Achille Occhetto ha perso le elezioni contro il Cavaliere e deve lasciare le Botteghe Oscure. Baffo di Ferro non vuole cedere lo scettro a D'Alema. Così decide di gettargli tra le gambe un candidato a sorpresa: Veltroni.

In quel momento, Walter non ha ancora 39 anni ed è soltanto il direttore dell''Unità'. Tre messi occhettiani (Piero Fassino, Claudio Petruccioli e Fabio Mussi) cominciano a costruire la sua candidatura. Sembrano farlo a dispetto del candidato. Che giura di non aspirare al Bottegone: "Il mio lavoro è, e resterà, quello di dirigere il nostro giornale".

In realtà, Walter si vede già alla guida del partito. Il 22 giugno spiega a Barbara Palombelli di 'Repubblica': "Il mio sogno? Un milione di persone in piazza. E non per salutare qualcuno che se ne va, ma per festeggiare qualcosa che comincia. Sogno una sinistra unita, che ritrova le ragioni della speranza, riaccende un fuoco, riscopre ideali".

I due candidati non potrebbero essere più diversi. D'Alema è superbo, brusco, dentuto con i giornali. Quando un cronista gli chiede se ha stretto un patto di non aggressione con Veltroni, replica gelido: "Sono cazzi nostri". Veltroni è il buonista gaudioso. E fa spallucce quando un amico lo grattugia così: "Walter, se vuoi essere un numero uno, devi smetterla di dar ragione a tutti".

Il sogno si dissolve il 1 luglio 1994, alla Fiera di Roma. Il Consiglio nazionale elegge segretario D'Alema. Walter incassa con il sorriso sulle labbra. Dice ad Alberto Statera della 'Stampa': "Mi vede pallido, ma è colpa della dieta. Ho perso tredici chili in un mese e mezzo". Poi telefona alla figlia Martina: "Allegra, zio Massimo ci ha salvato le ferie!".

Walter rimane a guidare 'l'Unità'. Fa un bel giornale che non ha nulla del foglio di battaglia. Mai ruvido con gli avversari. Niente campagne-carogna. Articoli intelligenti e spesso inutili. Il Museo dei bidoni. Dalla trota pelosa allo yeti. L'artigiano che fabbrica alabarde per il cinema. Professione sub, un sessantottino sotto il mare. E via cazzeggiando, per la rubrica 'Chi se ne frega' del maledetto 'Cuore'.

Ma il Perdente cerca la rivincita. Ne ottiene una nell'estate del 1995. Vittoria d'immagine, con il libro 'La bella politica'. Trionfo di pubblico e di critica. Persino Romano Prodi non si sottrae all'obbligo del santino. Geloso, D'Alema scrive anche lui un libro: sessanta pagine sull'Italia normale. E i due testi diventano la canzone dell'estate in tutte le feste dell'Unità.

A quella nazionale gareggiano le coppie D'Alema-Maurizio Costanzo e Veltroni-Giovanni Minoli. Una kermesse di luci della ribalta, selve di telecamere, recensioni lecchine. Ma è in agguato la destra, nella persona di Vittorio Feltri, direttore del 'Giornale'. Che in agosto attacca su un fronte imprevisto: Affittopoli.

Walter, sia pure non da solo, perde un'altra volta. Anche lui è tra gli inquilini delle case offerte ai vip dagli enti previdenziali. E va fuori dai fogli. Ricordo una telefonata furibonda all''Espresso': "Pure voi ci avete preso a calci in faccia!". Gli dico: perché non replichi sull''Unità'? La risposta mi lascia secco: "Non posso, perché noi siamo un giornale d'informazione".

È una fine estate violenta. Walter ha lo sguardo smarrito del tacchino inseguito dal cuoco. Ma si riprende presto, convinto della sua buona stella. Siamo alla primavera del 1996. Prodi lo fa correre con lui. Walter vorrebbe candidarsi nel collegio sicuro di Suzzara. Poi D'Alema, dal Bottegone, lo strattona. E Walter affronta la battaglia a Roma 1, contro il magistrato Filippo Mancuso.

È un match da film dell'orrore. Il più perfido del Polo contro il più buono dell'Ulivo. A vincere è Walter. Il compagno di banco che ti fa copiare il compito. Il vicino di casa che accorre quando il tuo lavandino perde. Uno dei suoi slogan, dedicato all'ambiente, sembra fabbricato per lui: 'Chi lo ama è riamato'.

Ma dovrà sopportare il ritratto al curaro che Mancuso affida a Francesco Merlo, del 'Corriere': "Veltroni è un elencatore di luoghi comuni, parla di cose che non sa, cita libri che non legge, è un anglista che non conosce l'inglese, un buonista senza bontà, un americano senza America, un professionista senza professione".

Prodi lo porta con sé a Palazzo Chigi. Ci staranno per poco. Il 9 ottobre 1998 il governo cade. Al Professore subentra D'Alema. E Walter, sconfitto come vice-premier, trova una via d'uscita grazie a Max che lo designa a succedergli come segretario dei Ds. Ancora una volta perdente di successo, Walter viene eletto da una maggioranza bulgara: l'89,1 per cento.

Quattro giorni prima, Walter visita in carcere Adriano Sofri, con Pietrostefani e Bompressi. E auspica la revisione del processo per l'assassinio del commissario Calabresi. Poi va a raccogliersi sulla tomba di don Giuseppe Dossetti, l'icona della sinistra dicì. Carcerati, morti ammazzati, sepolcri di sant'uomini. La spalla di Walter, Pietro Folena (oggi rifondarolo) s'affanna a spiegare: la nostra è attenzione alle problematiche della sofferenza e contaminazione di culture. Ma c'è chi si chiede: l'epoca di Walter al Bottegone sarà di sangue versato e di lacrime a gogò?

L'anno successivo il sangue comincia a versarlo il partito. Elezioni europee del 13 giugno 1999: rispetto alle politiche del 1996, i Ds perdono per strada due milioni e mezzo di elettori. Al Nord sono ridotti al 13,1 per cento. Forza Italia svetta. In tivù compare un Veltroni disfatto, i capelli ritti, il famoso neo quasi a ciondoloni.

Come non capirlo? Eccolo descrive- re il suo partito, nel luglio di quell'anno: "Gracile, arrogante, ha sostituito il centralismo democratico con il casino. Siamo pieni di intrighi, di correnti, di lotte. Sono spaventato da una Quercia ricca non di opinioni diverse, ma di guerre intestine". Quindici giorni prima, i Ds hanno perso il Comune di Bologna, la roccaforte rossa.

Passano sei mesi e, il 15 gennaio 2000, Walter è rieletto segretario dei Ds al congresso di Torino. Ma la Quercia è in pieno marasma da clan. Ulivisti puri. Miglioristi superstiti. Veltroniani. Dalemisti. Pontieri. Sinistra tenera. Sinistra dura. Laburisti. Cristianosociali. Sinistra repubblicana. Comunisti unitari. E riformatori per l'Europa.

Morale: il 16 giugno di quell'anno una nuova batosta per Ds e alleati. Sconfitti in otto regioni su quindici. Il giorno dopo D'Alema si dimette da premier, lasciando la poltrona a Giuliano Amato. Walter è sotto accusa, anche se quel disastro non può essere addebitato soltanto a lui. Ma è in quell'estate, forse, che il Perdente di successo medita la sua exit strategy: uscire dall'agone nazionale e rintanarsi a Roma.

L'occasione si presenta all'inizio del gennaio 2001. Il sindaco della capitale, Francesco Rutelli, si dimette per guidare il nuovo scontro con Berlusconi, previsto per maggio. Walter si candida subito a succedergli. Come è possibile? Il leader dei Ds che si rifugia in un municipio? In realtà, Veltroni ha annusato un'altra catastrofe. E non vuole perire sul campo.

La catastrofe arriva alle politiche del 13 maggio. Vittoria schiacciante di Forza Italia. I Ds sono al minimo storico: 16,6 per cento. Lo stesso giorno, Walter si batte contro Antonio Tajani. Ma diventa sindaco di Roma soltanto due settimane dopo, al ballottaggio. Il Perdente di successo l'ha scampata bella. Ha vinto in casa, però ha vinto. E bisserà la vittoria nel 2006, con un margine molto ampio.

Roma capoccia e ladrona è ormai sua. L'astuto Walter ne farà la rampa di lancio per nuove avventure. Al partito ci pensi quel piemontardo faticone di Fassino. Piero verrà eletto segretario a Pesaro, il 16 novembre 2001. E troverà all'opposizione proprio Walter, capo ombra del Correntone di sinistra.

Adesso, come nel gioco dell'oca, si ritorna alla casella di partenza. I due avversari storici di Walter lo candidano alla guida del Pidì. È l'auspicato rinnovamento? Direi di no. Siamo ai soliti tre attori di tanti spettacoli nel Teatro della Quercia. Dunque ci vorrebbero altri competitor nelle primarie. Difficile, ma non impossibile, che emergano. Comunque, smettiamola con i requiem anticipati per Prodi. Non è elegante. E disturba molto anche gli scettici come me.
 
da espressonline


Titolo: Giampaolo PANSA - Fuoco su Veltroni - Poi toccherà a Prodi?
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2007, 11:38:40 am
BESTIARIO

Fuoco su Veltroni Poi toccherà a Prodi?
di Giampaolo Pansa

I piromani della sinistra regressista sparano bordate sul candidato leader del Pd. E non risparmiano il Prof 
Da piccolo abitavo in una casa di ringhiera. Le ringhiere, lo dico per i più giovani, sono lunghi balconi che percorrono il perimetro interno di un palazzo. Da quelle dei piani alti, si poteva osservare la vita del caseggiato e sapere tutto di tutti. Sotto di noi viveva una coppia di coniugi stagionati. Si odiavano, ma per mille motivi non potevano separarsi. Così, ogni giorno, si combattevano e non solo con le parole. Si sputtanavano. Si pestavano. Lui tentò anche d'incendiare lei, versandole addosso dell'alcool con un po' di fiammiferi accesi. Ma si pentì all'istante e soffocò il fuoco. Un piromane a metà, rispetto a quelli che oggi fanno strage dei boschi.

Quella coppia scassata mi ricorda il centro-sinistra in questa fine d'agosto. I due blocchi che lo compongono non possono dividersi. Ci sarebbero subito nuove elezioni e Silvio Berlusconi vincerebbe a mani basse. Così devono limitarsi alle risse da ringhiera e agli sputi in faccia. La loro guerriglia ricomincia ogni mattina sui giornali. E lascia stupefatto anche un vecchio ronzino della cronaca politica come il sottoscritto. Neppure al tempo dei pentapartiti più litigiosi avevo visto un bordello tanto nauseante. Per di più, senza via d'uscita. Un suicidio che non si conclude mai.

Entrando nei dettagli, bisogna dire che l'assalto più rabbioso va in un senso solo: dalla sinistra regressista verso la sinistra riformista e il centro dell'Ulivo. La bastonatura verbale ha stili diversi. C'è quello compassato, alla Cesare Salvi: "I duri e puri del centrismo avanzano. Ma dicano con chiarezza che cosa vogliono. Andare a votare? Cambiare alleanze?". C'è il modello gelido, alla Paolo Ferrero: "Il vero obiettivo di Rutelli e Veltroni è abbandonare il programma e realizzare una svolta centrista". C'è l'accusa ideologica, alla Giovanni Russo Spena: "Veltroni prefigura una società degli individui che è un vero abbandono di campo per la sinistra". C'è l'urlaccio sguaiato, alla Marco Rizzo: il Partito Democratico si muove "nel solco della P2, contribuendo a realizzare il programma di Licio Gelli".

Ma a superare tutti è una signora: Manuela Palermi, capogruppo al Senato dei Comunisti Italiani e dei Verdi. Intervistata da Matteo Bartocci del 'manifesto', ha picchiato col pugno di ferro: "Rutelli è un bugiardo e un moderatissimo. Del resto, viene dai radicali, un partito che ha in odio i lavoratori, guerrafondaio e filopadronale. Con lui ci sono tanti opportunisti della vecchia Dc. Il loro obiettivo è l'accordo con Forza Italia. Vogliono far saltare il governo e creare un esecutivo di salute pubblica insieme a Berlusconi". Anche nel Partito Democratico, "in tanti portano avanti questo obiettivo. Con un cinismo e una spregiudicatezza che non mi aspettavo così pesanti". E sempre sul Pidì: "Nessuno potrà governarlo. Non è un partito, ma un'arena dove si è persa ogni solidarietà reciproca".

Le sinistre regressiste sono in tilt. Per colpa del Pidì, ancora da nascere e già da bruciare. Per i piromani di Rifondazione, l'uomo da ridurre in cenere è Superwalter, visto sempre in combutta con il fellone Rutelli. Martedì 28 agosto, il servizio di apertura di 'Liberazione' era dedicato al "mito del buon Pd", ovvero al "volto feroce del Partito Buonista". Su Veltroni veniva stilato un altro capo d'imputazione da tribunale di guerra: apprezza Sarkozy, disprezza i sindacati, vuole un partito intriso di cattiveria, anzi violento, è così impudente da ridurre Bruno Trentin a un concertatore che piaceva alle imprese. "Qualcuno arriverà a rimpiangere Fassino" concludeva 'Liberazione'.

Non penso che Veltroni debba guardarsi da Rosy Bindi e da Enrico Letta, i suoi competitori nelle primarie. Come prevede il sondaggio pubblicato da noi, Superwalter vincerà con più del 70 per cento dei voti. Ma il suo percorso verso il trionfo sarà tormentato dai mille agguati dei neocomunisti. La sinistra regressista, in crisi anche per le difficoltà di mettere insieme la Cosa Rossa, glie la farà pagare cara. Le bordate che già sparano contro di lui (gollista, conservatore, oligarca, neoliberista, in combutta con costruttori, editori di giornali, sanità privata e Vaticano) sono buffetti rispetto alla robaccia che Walter si vedrà arrivare addosso.

Resta da chiedersi se i piromani delle quattro sinistre daranno fuoco pure al governo Prodi. Il Bestiario ritiene di no. O almeno staranno attenti a circoscrivere le fiamme per non farle arrivare a Palazzo Chigi. Siamo di fronte a un paradosso, una volta tanto positivo: più l'Unione si scanna in una parodia grottesca della guerra civile, più il Professore si rafforza. Per un motivo chiaro: è Romano l'unico baluardo contro il ritorno di Silvio. Lo staff prodiano dice: soltanto un incidente al Senato può far cascare il Prof. Certo, gli incidenti si evitano con il buonsenso. Ma è noto che i piromani di buonsenso non ne hanno. A loro piacciono le fiamme. Comprese quelle che possono bruciargli le chiappe.


da espressonline.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Il silenzio della Casta
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2007, 09:15:55 pm
BESTIARIO

Il silenzio della Casta
di Giampaolo Pansa


La classe politica pensa di essere ancora fortissima. Ma gli italiani rimasti fuori dal suo recinto non stanno ad ascoltarla perché non credono più a quel che si sentono dire  Pier Ferdinando CasiniEra un saraceno infuriato, Massimo D'Alema. Ma come al solito, anzi, più del solito, la sua furia era del genere freddo, senza urla né gestacci. Sedeva sul palco del Teatro Parioli con la mano destra schiacciata ad artiglio dentro il divano azzurro. E a ogni parola, scrisse un cronista dell'epoca, le unghie vi affondavano sempre di più. Come se quel cuscino, dove la sera prima stavano i pregevoli glutei di Miss Italia, potesse trasformarsi nel collo morbido di qualcuno. Un collo, aggiungo io, da strozzare.

Quella sera, il martedì 5 settembre 1995, Max era da quattordici mesi segretario del Pds. Aveva 46 anni, e il capello e il baffo intensamente neri. Davanti a lui troneggiava un Maurizio Costanzo di taglia fortissima: il padrone di casa, la casa del Costanzo Show. La balia astuta non aveva bisogno d'incitare il pargolo. Infatti, D'Alema fece tutto da solo. Annunciò che aveva deciso di lasciare l'appartamento ricevuto in affitto da un ente pubblico, l'Inpdap, a equo canone (633 mila lire mensili, 327 euro di oggi, per 185 metri quadrati). E che si sarebbe cercato una casa nuova. Stroncando la polemica che lo riguardava.

Erano i tempi di Affittopoli, lo scandalo messo a nudo da Vittorio Feltri, che allora dirigeva 'il Giornale'. Fu magistrale la mossa di D'Alema. Anche se non tappò la bocca a noi giornalisti che, diceva lui, gli davamo la caccia. Una brutta razza, "barbarica", dedita alla "cultura della violenza e dell'intimidazione". Insomma, "squadrismo a mezzo stampa", come scrisse su 'Repubblica'. Un'accusa, quest'ultima, che il compagno Max aveva copiato da un avversario ormai al tappeto, Bettino Craxi. Che qualche anno prima s'era spinto a bollarci come "squadristi della carta stampata".

D'Alema forse non lo sapeva. Ma noi dello squadrismo cartaceo godevamo nell'ascoltare la sua reprimenda. Anche perché ci veniva dal politico più tosto di quel momento. E nel godere, ci fregavamo le mani, aspettando che qualche altro dei big coinvolti si presentasse da Costanzo per annunciare che pure lui lasciava l'alloggio privilegiato. Però nessuno si presentò. E nessuno abbandonò la casetta sua.


Adesso, dodici anni dopo, la storia si ripete in peggio. Non è più questione di affitti, ma di acquisti sul velluto. Sempre da parte di boss politici o di signori dello stesso giro, che hanno comprato casa da enti pubblici. E a prezzi che il cittadino qualunque immagina soltanto nei sogni. 'Casa nostra' era il titolo beffardo, ma del tutto sacrosanto, de 'L'espresso' che ha scovato la faccenda. Su questo numero leggerete la seconda puntata della storiaccia. Ma non sperate di vedere un'eccellenza del calibro di D'Alema presentarsi a uno show televisivo per annunciare che rinuncia all'acquisto e restituisce l'immobile.

Perché questa fuga dalle telecamere, per rifugiarsi in macchinose rettifiche? A parere del Bestiario, c'è una ragione evidente. In dodici anni, e pur nel succedersi di governi diversi, il ceto partitico italiano ha subito due mutazioni profonde. Ha visto indebolirsi in modo pauroso il suo prestigio tra i milioni di cittadini che ancora seguono la politica. E nello stesso tempo si è rinchiuso nei propri castelli, negando al popolo bue anche la più piccola autocritica.

Insomma, oggi siamo di fronte a un mostro che nel 1995 non era ancora apparso all'orizzonte: la Casta. Che cos'è una casta? È un gruppo sociale chiuso che si considera, per nascita o per condizione, separato dagli altri gruppi e che si attribuisce speciali diritti e privilegi. Ma 'La Casta' è anche il titolo di un libro di due eccellenti giornalisti, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. L'ha pubblicato Rizzoli e oggi viaggia verso il milione di copie vendute.

Il 19 aprile, dopo la prima giornata del congresso Ds a Firenze, nel prendere un caffè insieme, Stella mi aveva parlato del libro che stava per uscire. Da uomo con i piedi per terra, sperava in un buon successo, ma niente di più. Gli dissi che il titolo era formidabile. E avrebbe incontrato un sentimento popolare diffuso: di fastidio, di rifiuto, di astio e spesso di rancore per una classe di feudatari sempre più impuniti e inconcludenti. Per questo, il loro libro era quello giusto e nel momento giusto.

Però la Casta ha continuato a fare spallucce. Compra case a prezzo di favore e se ne sbatte. Ci manda qualche lettera di rettifica, però non lascia il malloppo. Ma di solito se ne sta zitta, obbedendo a un vecchio detto mafioso: chinati giunco finché la piena non passa. Lo stesso fanno gli enti che hanno svenduto tante belle case.

Al punto che oggi, nonostante l'ostinazione de 'L'espresso' e di pochissimi giornali arrivati di rincalzo, sappiamo ancora ben poco di quello che è accaduto. Quanti sono i compratori eccellenti? Quanti sacchi di euro ci hanno rimesso i venditori? Silenzio. Non è vero che viviamo nell'iper-informazione. Siamo nell'epoca del sasso in bocca.

La Casta si muove così per due ragioni. La prima è che pensa di essere ancora forte, fortissima. Per questo se ne sta rintanata nei propri manieri. E sbarra le porte, alza i ponti levatoi, schiera sugli spalti i suoi armigeri. Siamo in presenza dell'unico, vero potere bipartisan. Dove s'incontrano tutte le famiglie della Casta: destra, centro, sinistra.

Nei loro fortini, le famiglie stringono patti di ferro, si dividono i bottini, fanno bisboccia, impartiscono ordini ai giornali e alla televisione. E così facendo degradano la democrazia in autocrazia. I cittadini senza potere strillano? Lasciamoli strillare. Sono soltanto dei qualunquisti, dei drogati di antipolitica, dei poveri fessi che s'illudono di fare breccia dentro muraglie più solide di quella cinese. Dunque, non meritano nessuna risposta, ma soltanto il silenzio.

Ma proprio il silenzio della Casta ci apre uno spiraglio sul secondo motivo che spiega la tenacia cocciuta di tante bocche chiuse. E che rivela la crepa nascosta nell'imponente apparato difensivo dei i partiti. Il motivo è che la Casta ormai sa che qualunque cosa possa dire non viene più creduta da un numero crescente di italiani. I cardinali e i vescovi di questa o quella chiesa politica seguitano a celebrare le loro messe cantate nei loro costosi festival, a Telese come a Bologna. I fedeli chiamati ad applaudirli, applaudiranno. Ma gli italiani rimasti fuori da quei recinti non staranno ad ascoltarli. Certi di aver udito un bla bla bugiardo.

Siamo alla pena del contrappasso per chi ha usato male il potere che gli era stato affidato. Mi hai fregato e io non ti credo più. È una regola spietata che vale anche per 'Casa nostra'. Ammesso che ci sia qualche big in grado di spiegare un acquisto del tutto limpido, pure questa perla rara perderà il proprio tempo in rettifiche inutili, in lettere senza peso, in querele che spariranno nel mare di denunce civili e penali che ormai sommerge tutti i giornali italiani.

E a proposito della carta stampata, c'è un'altra illusione della Casta che sta svanendo. Certo, i giornali possono anche essere 'silenziati', come mi disse un giorno un cinico big della sinistra. È accaduto per 'Casa nostra', come avvenne dodici anni fa per Affittopoli. Ma non si può silenziare tutta la stampa. Ci sarà sempre qualche giornale che rifiuta di tenere la bocca chiusa. E anche una sola voce, o due o tre voci come nel caso di oggi, basterà per mettere in piazza le mutande sporche di tanti baroni della Casta.

Questi baroni hanno un vizio che al Bestiario sembra spregevole. Sono sempre pronti a pontificare contro una campagna giornalistica, un libro, un'opinione che non stanno al loro gioco. Fanno i sapientoni. S'imbarcano in lezioni sussiegose. Colpevolizzano il reprobo. Lo indicano ai loro clienti come un cattivo soggetto, un nemico della buona politica, un falsario della storia. Ma sono proprio i baroni della Casta a cascare malamente dal pero. E a rivelarsi per quello che sono: mediocri, impudenti e suicidi.

Tuttavia, alla fine della fiera si apre un problema che riguarda tutti. Certo, il dramma italiano è che nessuno della Casta politica è più credibile. Il palazzo dei partiti è in mano a una sterminata banda di vu cumprà che spaccia merce falsa. Ma allora da chi è possibile comprare merce buona? In altre parole, a chi dobbiamo credere e affidare la guida di questa repubblica da rifare? Confesso di non saperlo. E mi rendo conto di essere, come tanti, di fronte a un grande vuoto. O meglio, a un abisso dentro il quale non voglio guardare. Perché il suo buio mi fa paura.

(07 settembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Quella nave dei folli
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2007, 10:55:38 pm
BESTIARIO

Quella nave dei folli
di Giampaolo Pansa


Romano Prodi è alla guida di una ciurma di matti da legare. Ma terrà duro. Perché non vuole riconsegnare il paese a Berlusconi 

Qualche secolo fa, c'erano le navi dei folli. Quando in un manicomio i pazzi diventavano troppi, una parte dei malati di mente la si caricava su un'imbarcazione male in arnese, con qualche barile d'acqua e un po' di pane zeppo di vermi. La nave veniva condotta al largo e abbandonata. Il giorno che l'acqua e il pane finivano, i matti cominciavano a colpirsi, si sbranavano, si uccidevano. La nave affondava e di quei pazzi non si parlava più.

È alla nave dei folli che penso quando osservo la tragica babele nella maggioranza di centro-sinistra. D'accordo, qualche savio c'è ancora. Però la maggior parte della truppa ministeriale mi ricorda una di quelle barche in preda al caos e ormai alla deriva. Molti criticano Romano Prodi, l'ho fatto anch'io. Tuttavia spero che, un giorno, qualche storico non al servizio di un partito proverà a raccontare in quali condizioni il Prof ha guidato il paese in questo anno e mezzo. "Sei troppo prodiano!" mi rimproverano degli amici. Ma come faccio a non esserlo, quando lo vedo alle prese con una ciurma di matti da legare.

Volete qualche esempio? L'ultimo sta sui quotidiani di questi giorni. Il capo di una delle dieci sinistre, Oliviero Diliberto, ha invocato l'espulsione dal governo di Tommaso Padoa-Schioppa, il ministro dell'Economia. E il motivo l'ha spiegato così: "Diffido di quelli che hanno due cognomi perché tendenzialmente non stanno con i lavoratori. A Romano Prodi non dico di cacciarlo, ma se lo facesse non mi strapperei le vene". Oliviero il Cubano parlava alla festa nazionale del suo partitino. Qualcuno gli avrà chiesto se diffida anche del capo dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio e del rifondarolo Giovanni Russo Spena? I giornali non l'hanno riferito.

Pochi giorni prima di Diliberto, era stato di scena Antonio Di Pietro, ministro delle Infrastrutture e capo di un altro partituccio, l'Italia dei Valori
. Con qualche intervista sui giornali e una raffica di comparsate in tivù, Di Pietro ha chiesto: 1) le dimissioni di Prodi; 2) quelle di Vincenzo Visco, per l'affare Speciale; 3) la fucilazione di Clemente Mastella; 4) la morte del governo; 5) la nascita di un ministero Di Pietro-Grillo. Attenzione, non stiamo parlando di Luigi Grillo, senatore di Forza Italia. Il Grillo in questione è Beppe, il duce del Vaffanculo. Quello che urla dal balcone: "Italianiii!".

Di Pietro si è nominato zione e tutore di Beppe, nonché suo rappresentante in Parlamento. Spiegando che il barbuto nipote e il movimento dei Vaffa sono "la Fase Due di Mani Pulite". Mi domando se Tonino non tema che Grillo distrugga anche il suo partito. Forse no. Ma immagino la possibile risposta dipietrista: "Non me ne importa nulla, l'Italia dei Valori sta già scomparendo. I miei parlamentari passano da un blocco all'altro". E c'è chi sostiene che, una volta nato il Partito Democratico, Di Pietro chiederà di iscriversi, per rompere le scatole al pallido Veltroni. Del resto, aveva già tentato di entrare nella nuova parrocchia del Pd, ma ne era stato respinto.

Come se non bastasse, la nave dei folli sbanda più di prima, in vista della contesa sulla legge finanziaria. Il Prof cadrà su quel fronte? Nessuno può dirlo. Piero Fassino ha fatto bene ad avvertire: "Se cade Prodi, ci sono soltanto le elezioni anticipate". Sul 'Foglio' del 24 settembre, Giuliano Ferrara ha consigliato al premier di andarsene: "Onorevole Prodi, chiuda in bellezza: si dimetta". Il Bestiario l'aveva suggerito fin da giugno: "Il Prof pianti tutti e se ne torni a casa". Ma entrambi non abbiamo tenuto conto del carattere del Prof. E di quello che intende fare.

Oggi il Bestiario pensa di averlo capito. Prodi non ha nessuna intenzione di dimettersi. E per una ragione precisa: non vuole passare alla storia come il premier che ha riconsegnato il paese a Silvio Berlusconi. Per questo, andrà via soltanto quando sarà evidente a tutti che sono stati i folli del centro-sinistra a distruggere il governo. Prima di allora, terrà duro, cercando di fare il suo dovere. Dunque, delle due l'una: o i folli aiutano Prodi a lavorare con profitto o si arrendono al trionfo del Cavaliere. E dopo la resa, vadano a spiegarsi con i loro elettori.

La mia curiosità di cronista mi fa invidiare chi sta accanto al Prof in quello che sembra il suo finale di partita. Prodi è all'ultimo round? Forse sì. Però esiste Santa Scarabola, la santa dell'impossibile. Nelle situazioni disperate, mia nonna Caterina la invocava sempre. E qualche volta veniva esaudita. Per questo non ci resta che aspettare. Anche se mi scopro spaventato dalle condizioni della nostra disgraziata Italia. Dove non comanda più nessuno. E dove troppi eccellenti meriterebbero un posto sulla nave dei folli. Ma un posto scomodo, lontano dalla poca acqua da bere e dal poco pane con i vermi.

(28 settembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Come si può vincere da soli
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2007, 08:08:48 am
BESTIARIO

Come si può vincere da soli
di Giampaolo Pansa


Una nuova legge elettorale. E una grande purga che assomigli a una rivoluzione. Solo così Veltroni darà un senso al Pd  Walter VeltroniIl Partito Democratico ha cominciato la sua lunga marcia. E fra i tanti propositi espressi da Walter Veltroni, uno spicca sugli altri: la vocazione maggioritaria della nuova creatura. Tradotto dal politichese, significa che il Pd si propone di vincere le future elezioni da solo, senza alleati o con pochissimi compagni di strada. Come tutti capiranno, si tratta di un progetto titanico. E il primo a saperlo è proprio Veltroni, un politico che avrà molti difetti, ma non quello di essere sciocco.

Il leader del Pd rammenta di certo le cifre che adesso ricorderò. Alle ultime elezioni politiche (aprile 2006), alla Camera dei deputati l'Ulivo, ossia Ds più Margherita, ottenne quasi 12 milioni di voti, vale a dire il 31,3 per cento. Quanti voti in più occorrono per realizzare la vocazione maggioritaria? Almeno un altro 16-17 per cento, che consentirebbe di arrivare a un teorico 47-48 per cento. In pratica, questo significa che il Pd dovrebbe conquistare un numero di nuovi suffragi pari a quasi tutti i voti raccolti dagli alleati di oggi, da Rifondazione Comunista all'Udeur. Sono il 16,5 per cento, ben 6 milioni e 300 mila voti.

Ecco la sfida titanica che sta di fronte al Pd. È possibile vincerla? In politica non bisogna mai dire mai. Tutto può avvenire. Ma a patto che esistano le condizioni affinché un certo evento accada. Per quanto riguarda il Pd, la prima è che sia un partito davvero monocratico. Guidato da un uomo solo al quale vengono delegati tutti i poteri. È uno schema berlusconiano? Può darsi. Ma oggi gli elettori sono stanchi di partiti dove non si capisce chi comanda. Partiti con un vertice spappolato, dove il leader deve vedersela ogni giorno con cinque o sei sotto-leader sempre pronti a sgambettarlo. E con una babele di correnti alle quali non importa nulla della forza del partito, ma soltanto del fatturato dei singoli clan.

Veltroni riuscirà a essere un uomo solo al comando? Anche questo è possibile. Del resto, Superwalter sa bene che, se non fosse così, la sua sfida cadrebbe subito. Ma per vincere deve costruire una serie di fatti senza i quali neppure un Superman della politica potrebbe stare in piedi. Proviamo a elencarne qualcuno.

Innanzitutto è indispensabile una nuova legge elettorale che rafforzi i due partiti maggiori di un sistema bipolare. Mettendoli in grado di non affondare nella palude dei nano-partiti, micidiali nelle pretese e nei veti. Questa legge deve restituire al cittadino elettore la possibilità di scegliere gli uomini e le donne da mandare in Parlamento. Veltroni ha garantito le primarie per qualunque carica elettiva. Ma per consentire che questa scelta vada a buon fine, dovrà offrire al voto primario soltanto candidati all'altezza del compito che li attende.

Oggi il partitismo italiano è la negazione quasi totale del criterio base per risultare un sistema sano: la meritocrazia. Sappiamo bene che cosa significa. Vuol dire fare avanzare i migliori e scartare i peggiori. Adesso siamo alla peggiocrazia. Il Parlamento è zeppo di signore e signori che non dovrebbero stare neppure in un'assemblea di condominio. Nei sacri palazzi della politica campano troppi personaggi incapaci, arroganti, faziosi, clientelari, incolti e non di rado disonesti. Il criterio del merito è l'unico che li manderà a casa. Occorre una grande purga, cattiva ma giusta. Qualcosa che assomigli a una rivoluzione.

Il merito deve imporsi in tutti gli incarichi pubblici. Il Pd ha l'obbligo di dire basta alle cordate di amici degli amici, agli enti spartiti fra i soliti noti, ai media lottizzati sino al limite del grottesco. Veltroni è molto attento all'informazione televisiva. Ma sa che cosa accade dentro la Rai? E come si comporta il cavallo bolso di viale Mazzini? La Rai è un maso chiuso, che si apre solo dall'interno. Per lasciar passare soltanto chi è gradito al potere dominante in quel momento. Anche qui comandano i clan di partito o le famiglie ideologiche. Sei dei nostri? Bene, eccoti il video. Non sei dei nostri? Va ad abbaiare alla luna.

La gente è stufa anche di altro. Non vuole più saperne di vedere i soldi della proprie tasse buttati nel mare magno delle consulenze inutili, dei premi immeritati, dei finanziamenti a progetti buoni per il cestino, dei battaglioni di addetti stampa, di un esercito di nullafacenti che occupano poltrone conquistate soltanto perché sono fedeli a qualche mafia di partito.

Veltroni deve spazzare via tutta questa razzumaglia. E aprire l'epoca di una nuova e profonda moralità civile. Soltanto così avrà un senso l'avventura mai vista di un Partito Democratico italiano. Ci riuscirà Superwalter? Il Bestiario glielo augura. Ma, come sempre, starà a vedere. E giudicherà dai fatti, non dalle parole dei discorsi carichi di effetti speciali.

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Per chi suona la campana
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 05:54:52 pm
BESTIARIO

Per chi suona la campana

di Giampaolo Pansa


L'uccisione di Giovanna Reggiani sta mutando la topografia del consenso politico. Ma i partiti di governo non se ne rendono conto  Giuliano AmatoLa morte di Giovanna Reggiani, uccisa da un rumeno, ha prodotto uno tsunami che sarà difficile calmare. Abbiamo visto levarsi una gigantesca ondata che ha messo a nudo, prima di tutto, la fragilità italiana, la debolezza ormai drammatica della nostra struttura politica, istituzionale e civile. Quell'omicidio ci ha obbligati a guardarci allo specchio, come prima non avevamo mai fatto. E il volto del paese che vi abbiamo visto fa tremare.

Per cominciare, si è capito che l'Italia è un paese senza legge, dove si può commettere qualsiasi reato e non pagare quasi mai il conto. A spiegarcelo sono state le autorità rumene: "Da noi la situazione è tranquilla perché i nostri delinquenti sono venuti tutti da voi". Ha ragione Pier Ferdinando Casini quando dice a 'Matrix': "L'Italia è ormai il ricettacolo della criminalità europea". È vero: siamo diventati importatori di delitti. La nostra giustizia è di manica larga. Le leggi punitive sono farraginose. Le scappatoie risultano infinite. Troppi malfattori sfuggono al carcere. Tanti anni fa, Norberto Bobbio spiegava agli studenti dell'ateneo torinese che nessun ordinamento giuridico si regge senza la certezza della sanzione. Ma da noi la punizione è diventata merce rara, una ruota quadrata.

Le forze di polizia sono poche e con mezzi scarsi. Dovrebbero dare la caccia ai clandestini, ma tutto congiura per impedirglielo. A cominciare dal feticcio dell'accoglienza, sempre e comunque. È la specialità mistica che identifica troppe comunità chiesastiche e troppi circoli della sinistra radicale. Ma dove sta scritto che dobbiamo accogliere tutti, compresi quelli che entrano in casa nostra per delinquere? Ecco una forma di suicidio strisciante. Accade quando una società si lascia penetrare da chi vuole distruggerla.

C'è poi l'inerzia del sistema politico. Adesso tutti i big dei partiti scoprono che l'Europa dell'est sta scaricando in Italia un esodo gigantesco. Il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, parla di cinquecentomila arrivi dalla Romania ('Repubblica' del 3 novembre). Ma non si ha il coraggio di prendere decisioni forti. Avremmo già dovuto bloccare gli ingressi. Invece la nostra frontiera resta spalancata. Ogni giorno da Bucarest partono decine e decine di pullman stracarichi. Nessuno li ferma. Nessuno li controlla. Nessuno chiede di vedere se chi entra ha un documento europeo, un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro. Ossia quello che domandano agli emigrati dai nuovi paesi dell'Unione tre stati non illiberali, come Germania, Regno Unito e Irlanda.


Abbiamo lasciato soli i sindaci delle grandi città italiane, il principale traguardo di un'immigrazione senza limiti. E in più di un caso li abbiamo contrastati. È esemplare la vicenda di Bologna e di Sergio Cofferati. Per aver preso delle misure a protezione della propria città, la sinistra radicale lo ha bollato come un sindaco 'sceriffo', 'un perfetto conservatore'. Poi è uscita dalla giunta per fargli con più livore una guerra continua.

Il sindaco di Roma, Walter Veltroni, non ha avuto i problemi di Cofferati. Ma lo tsunami ha minato la sua immagine. Voglio dirlo con la schiettezza di chi guarda con rispetto al doppio lavoro di Superwalter: si è rotto un incantesimo che molti media hanno alimentato. Troppe luci della ribalta. Troppe notti bianche. Troppe mostre del cinema al sole abbagliante di attrici che sfilano sul tappeto rosso. La tivù, il mezzo preferito da Veltroni, oggi ci mostra una Roma devastata dall'immigrazione clandestina. Dove i disperati vanno a fare la cacca dentro l'atrio dei palazzi. E aggrediscono le famiglie persino nei loro alloggi.

È grottesco che la sinistra regressista batta sul tamburo della xenofobia. I loro big strillano ogni giorno contro inesistenti deportazioni di massa. Il giornale di Rifondazione Comunista grida nei titoli 'All'armi siam razzisti'. Ma è roba vecchia che non attacca più. Lo dice persino un sondaggio tra i lettori di 'Repubblica': il novanta per cento sostiene che la criminalità in arrivo dall'estero deve essere contrastata anche con misure straordinarie.

Tutti gli tsunami cambiano i paesaggi. Quello innescato dal delitto di Roma sta mutando in profondità la topografia del consenso politico. Gli elettori non sono dei politologi. Vanno subito al sodo. Se un governo e l'alleanza che lo regge si rivelano incapaci di difendere la sicurezza dei cittadini qualunque, li abbandonano senza rimpianti. Vorrei sbagliarmi, ma credo che tanti voti stiano lasciando il centro-sinistra. Per andare dove? Immagino verso il centro-destra. Se ne rende conto la maggioranza di oggi? Temo di no. Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Neppure quando la campana sta suonando per lui. E manda rintocchi lugubri che segnalano una fine ingloriosa.

(09 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Prodi insidiato più dai veleni interni al centro-sinistra che da quelli esterni
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2007, 06:51:59 pm
Gli scorpioni e il prof

Il governo Prodi è insidiato più dai veleni interni al centro-sinistra che da quelli esterni.

E se cadesse avremmo una riedizione del marzo '94

DI GIAMPAOLO PANSA


 Forse siamo arrivati al dunque nella guerra tribale che strazia la maggioranza di governo. Le fazioni libanesi che devastano il centro-sinistra sembrano decise a darsi l'ultima battaglia. Scrivo 'forse' e 'sembra' perché nulla è certo nei territori dell'Unione. L'immagine del Libano è stata proposta dal ministro Clemente Mastella. Il quale, peraltro, guida una sua fazione, ancorché molto esigua. Per di più impegnata in una guerriglia feroce contro un'altra fazione microscopica, quella del ministro Antonio Di Pietro.

Confesso che non ne posso più di questi due ministri che si sbranano in tivù. Quando li vedo pestarsi nei telegiornali e nei talk show, li cancello all'istante con il telecomando. Ammetto che a irritarmi è soprattutto Di Pietro. Ha un'aria da Capitan Fracassa pronto a sfasciare tutto. E sempre più spesso mi domando se ho fatto bene a difenderlo nel tempo di Mani Pulite.

Ma oggi né Mastella né Di Pietro sono la malattia più perniciosa del centro-sinistra. Oggi l'Unione è afflitta da un morbo pazzo che la spinge a ribaltare le regole delle democrazie parlamentari. In quelle normali, gli alleati sostengono il governo. E soltanto l'opposizione cerca di rovesciarlo. Da noi il governo è insidiato anche dall'interno. Gli scorpioni velenosi stanno più dentro il centro-sinistra che fuori. A loro non importa se Prodi abbia governato bene o male. Come nella favola, è nella natura degli scorpioni pungere e uccidere. Ed è quello che molti alleati del Prof fanno sin dal primo giorno.

Eppure, Prodi ha governato bene, nelle condizioni date. Quelle condizioni erano tre: una micro-maggioranza al Senato, una coalizione eterogenea di dieci partiti, un contratto programmatico monumentale scritto per soddisfare tutti i firmatari. In più, la Spectre dei Dieci gli ha negato le due armi che rendono forti i governi: la coesione e la stabilità. In questo modo, il premier è diventato un prigioniero obbligato ai lavori forzati e con le catene ai piedi. È questa la raggelante sensazione che mi ha assalito sette giorni fa, nell'entrare a Palazzo Chigi per un'intervista a Prodi. Sì, un prigioniero che ha fatto l'impossibile. Nessun altro, al suo posto, ci sarebbe riuscito.


Nell'autunno degli scorpioni, ogni previsione è vana. Prodi può già essere caduto quando questo numero de 'L'espresso' sarà in edicola. Oppure può essersi salvato. Per cadere un'altra volta o per salvarsi ancora. Chi non si salva più, anzi è già perduta, è l'Unione. La marcia delle sinistre radicali per ottenere dal governo equilibri più avanzati (toccate ferro, la formula porta iella) ha condotto in piazza un milione di militanti. Ma in piazza potrebbero scendere ben più di un milione di elettori del centro-sinistra che la pensano in modo diverso. Quelli che vogliono un governo stabile, riforme vere, meno spese inutili, niente doppi giochi delle tante fazioni libanesi e le necessarie medicine amare per un paese in declino.

Bene, questa seconda marcia non ci sarà mai. Nessun partito si sente di promuoverla e organizzarla. Potrebbe farlo il Partito democratico, ma non esiste ancora. Tuttavia, il Pidì è già provvisto di un leader, molto votato: Walter Veltroni. Ci ha promesso meraviglie e siamo disposti a credergli. A un patto: che Superwalter parli chiaro contro gli scorpioni che vogliono uccidere il Prof. Fino a oggi non mi pare che l'abbia fatto con la dovuta schiettezza e l'indispensabile solennità.

Il leader del Pidì è il più forte sostegno del governo Prodi o no? Immagino sia questo che i suoi elettori delle primarie vogliono sapere da lui. Il mandato che ha ricevuto è chiaro: non gettare il paese in un'avventura elettorale senza altro sbocco che il trionfo di un centro-destra anch'esso allo sbando e incapace di riformarsi. Veltroni può onorare quel mandato cominciando con il dire quale legge elettorale voglia. E soprattutto iniziando a costruirla in Parlamento.

Se Superwalter non lo fa, può chiudere subito la sua nuova bottega. A quel punto, sarà quasi fatale che si abbia un bis del governo Ciampi, messo in sella dal presidente della Repubblica del tempo, Oscar Luigi Scalfaro. Carlo Azeglio Ciampi, allora alla guida della Banca d'Italia, cominciò a governare il 12 maggio 1993, dopo la caduta del ministero Amato. All'inizio di agosto, era già stata varata dalle due Camere la nuova legge elettorale. Nel gennaio 1994, Ciampi si dimise. E in marzo si tennero le elezioni, vinte da Silvio Berlusconi.

Vogliamo obbligare Giorgio Napolitano a ripetere l'esperimento con un altro governo del Presidente? Dipende dai partiti del centro-sinistra. Possono anche strozzare il governo Prodi. Ma poi non si lamentino di quanto accadrà dopo. Amici e compagni, ricordatevi delle idi di marzo del 1994 dopo Cristo. E meditate, gente, meditate.

(29 ottobre 2007)

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Titolo: Giampaolo PANSA - Io e il Cavaliere a carte scoperte
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2007, 07:00:30 pm
Io e il Cavaliere a carte scoperte

di Giampaolo Pansa

Sì al dialogo ma su tutte le riforme. E senza fissare date di scadenza a Prodi. Il leader democratico detta le condizioni. E sul nuovo partito di Berlusconi: 'Per ora lui ha solo cambiato nome a Forza Italia'. Colloquio con Walter Veltroni.

Il cavalier Berlusconi fonda partiti in piazza, arringa le folle dal tetto di una Mercedes, sbrana gli alleati, spacca le parrocchie di Fini e di Casini. C'è in giro un'aria di bufera isterica. La politica italiana sembra trovarsi a una svolta epocale. Qualcuno giura che sta cominciando la Terza Repubblica. Ma in Campidoglio, Walter Veltroni è sempre se stesso. Cordiale e fermo. Soprattutto nel difendere il governo di Romano Prodi: "Nel 2008 non si andrà a votare. E per il governo non c'è nessuna data di scadenza". Sentiamo che cosa ci dice il leader del Partito democratico.

I boatos, le voci, sostengono che fra lei e Silvio Berlusconi c'è già un accordo sulla legge elettorale e sul voto nel 2008. È nato Berlusvalter o Walteroni?
"Senta, Pansa, dopo Dalemoni non ne inventi un'altra. Non c'è nessun accordo. E nel 2008 non si voterà. Il 2008 sarà l'anno delle riforme: quella elettorale, ma anche quella costituzionale già alla Camera e dei regolamenti parlamentari, pure questa importante".

Eppure si dice che il suo Goffredo Bettini e Gianni Letta si siano già visti e abbiano già trattato.
"Con Letta si vedono in tanti. E con lui ci si parla. Però non abbiamo mai affrontato la questione della legge elettorale e della data del voto".

Adesso Silvio dice di essere pronto al dialogo.
"Bene, è un fatto positivo. Sino a domenica scorsa, nessuno del centrodestra voleva parlare con noi. Erano bloccati, guardavano le nuvole. Persino Fini credeva che le divisioni nell'Unione avrebbero fatto cadere Prodi!".

Lei ha detto che la nascita del Partito del Popolo o delle Libertà è il riconoscimento di una sconfitta. Ma adesso il Cavaliere, con uno strumento nuovo in mano, è più temibile o no?
"Io non sottovaluto Berlusconi. Ha una sua missione e molti soldi. Però un partito può nascere una sola volta per impulso personale. Ma farne nascere un altro tredici anni dopo. Non riesco per ora a vedere una grande capacità espansiva di questo nuovo partito".


Eppure il suo disegno è lucido anche se cinico: distruggere An e l'Udc e mangiarsene una parte.
"Ha fatto anche di peggio. Per esempio, l'operazione Storace ha l'obiettivo di mettere paura a Fini, di obbligarlo ad arrendersi".

In fondo, il Cavaliere e lei vi assomigliate su un punto: la vocazione maggioritaria.
"No. Noi abbiamo unito due partiti, abbiamo portato un mare di gente alle primarie. La sua operazione è tutta diversa. Lui, per ora, ha cambiato il nome a Forza Italia e basta. Ed è anche molto meno moderato, perché insegue la parte più infuriata del paese".

Però è previdente. Si prepara a una campagna elettorale giocata tutta sull'antipolitica e sui parrucconi dei partiti.
"Era più forte nel 1994, quando è sceso in campo. Adesso sta sulla breccia da tredici anni e si candida a premier per la quinta volta!".

Anche Veltroni è un parruccone della sinistra? Lei è in politica da almeno trent'anni.
"Se me lo dicesse Beppe Grillo, lo capirei. Ma lui non può dirlo. Ha fatto il premier per sette anni. E ha avuto molto più potere di me".

A proposito di parrucconi, non pensa che occorra un profondo rinnovamento nel ceto parlamentare?
"Sì, ci vuole. Ma bisogna puntare sulla qualità. Portare in Parlamento una generazione di pubblicitari è stato un rinnovamento? Mi sembra di no. Mi piacerebbe vedere entrare alla Camera e al Senato delle competenze vere. E non della presunta gente nuova che non sa neppure quando è finita la seconda guerra mondiale, come abbiamo visto in tivù. O pensa che John Kennedy sia morto per un'influenza. Ma anche nel Parlamento di oggi ci sono tante qualità. Ci sono dei Gattuso e dei Totti che lavorano a testa bassa e neanche li conosciamo".

La Casa delle Libertà è morta. Ma Berlusconi è ben vivo. Perché le tante sinistre continuano a prenderlo sottogamba?
"Per la verità, la sinistra parla solo di lui. È ossessionata da lui. È da tredici anni che parliamo soltanto di Berlusconi e dei comunisti. Invece dovremmo parlare di quello che la gente dice nelle case: precarietà, sicurezza, tasse. Dobbiamo avere l'umiltà di capire che la nostra funzione è questa. Bisogna sì andare 'Porta a porta', ma a quelle delle famiglie. Comunque, da Torino in poi, il Cavaliere non l'ho mai citato nei miei discorsi".

Veniamo alla legge elettorale. Berlusconi si è pronunciato per il sistema tedesco: proporzionale pura con sbarramento al cinque per cento. Sta bene anche a lei?
"Non del tutto. Dobbiamo costruire un nuovo bipolarismo, guai a farne a meno. Il sistema tedesco va bene, ma nella sua ispirazione di fondo. Bisogna introdurre dei correttivi, che rafforzino in Parlamento i partiti più rappresentativi. In Germania quel sistema funziona perché i due partiti maggiori hanno già il 35 per cento di voti ciascuno".

Ma si farà mai un nuova legge elettorale? O il sistema è talmente ossificato, ingessato, che non produrrà nulla?
"È difficile rispondere alla sua domanda. Oggi il terremoto è così forte da impedire ogni previsione. Ma se non precipitiamo nelle elezioni anticipate nella prima metà del 2008, e farò di tutto per evitare che accada, siamo nella felice condizione di varare insieme le tre riforme che ci siamo già detti. Se Berlusconi non ci vuole stare, deve spiegarlo al Parlamento e al paese".

È vero che a lei e al Cavaliere conviene arrivare al referendum sulla legge elettorale?
"No. A me conviene lo scenario delle tre riforme. Serve per avere un vincitore certo e dopo per governare. Oggi il sistema scricchiola in modo spaventoso. Cercare soluzioni semplificate aumenta la crisi e avvicina il collasso".

Lei insiste sulla vocazione maggioritaria del Partito democratico. Ma nel 2006 l'Ulivo ha ottenuto soltanto il 31,3 per cento dei voti. Per avvicinarsi al 50 per cento, occorrono almeno sei milioni di elettori in più. È un'impresa titanica.
"Ma no! Quando dico vocazione maggioritaria non penso al 51 per cento dei voti. Penso a un programma che punti a conquistare il governo. E poi stia attento: i flussi elettorali sono molto più veloci e forti di quel che pensiamo. L'opinione pubblica ha una grande mobilità. Giudica l'offerta. Valuta il leader. L'elettorato di appartenenza va diminuendo. Quindi avere un grosso risultato elettorale è possibile. A condizione di essere quello che si è deciso di essere. Me lo dicono i voti che ho ricevuto nelle primarie".

Lei pensa di poter vincere, ma in Italia soffia un vento di centrodestra. Lo segnalano dei sintomi: le elezioni dei magistrati e quelle degli studenti universitari.
"Lo vedo anch'io. E le dirò di più: quel vento soffia in tutta Europa. In Francia, Belgio, Danimarca, Grecia. In Germania e in Austria si sono dovute fare grandi coalizioni. Il vento tira a destra per un grande problema irrisolto: la sicurezza. Che vuol dire anche sicurezza sociale, per esempio contro la precarietà. Perché da noi dovrebbe essere diverso?".

Ma allora non c'è il rischio che molti elettori del centrosinistra si spostino sul centrodestra?
"Certo che c'è. È già accaduto nella campagna elettorale del 2006. Ricorda la discussione sulla tassa di successione? Le sinistre sparavano cifre sempre diverse, come Nanni Moretti in 'Ecce bombo'. Abbiamo perso una montagna di voti. E siamo riusciti a vincere per un pelo".

Oggi rischiate la sconfitta sulle tasse.
"Succede perché non affermiamo il principio giusto: pagare di meno e pagare tutti. Si continua a dire il contrario: pagare tutti per pagare di meno. Ci sono troppe tasse. Non è di destra dirlo. Lo stesso vale per la sicurezza. Quando ho spiegato che la sicurezza non è di destra né di sinistra, Piero Sansonetti su 'Liberazione' mi ha dato del fascista! Invece la sicurezza deve diventare il tema centrale della sinistra".

Forse anche i politici di sinistra dovrebbero ridurre le loro scorte. E consentire che gli agenti e i carabinieri vadano sul territorio.
"Sono assolutamente d'accordo. Bisogna limitare al massimo soprattutto le scorte sotto casa".

Molti pensano che il Partito democratico cercherà un'alleanza diversa da quella che oggi regge, malamente, il governo Prodi.
"Sì. Siamo stati il primo partito che avuto il coraggio di dire che il re è nudo. Ossia che è sbagliato fare un'alleanza contro qualcuno. E farla prima del programma. Noi seguiremo la strada opposta. Quella di indicare al paese le cose fondamentali da fare, per garantire cinque anni di serenità. E soltanto dopo cercare chi è disposto a realizzarle con noi".
Oliviero Diliberto, il leader dei Comunisti Italiani, l'ha già avvisata: "Senza di noi, non governerete". È una minaccia a vuoto?
"Sono parole. Dobbiamo arrivare alla fine della legislatura con questa alleanza. Poi vedremo se Diliberto, e altri come lui, ci staranno o no al nostro programma".

Come alleato è meglio Bertinotti o Casini?
"Ma parliamo sempre e soltanto di schieramenti! Allora le rispondo così: il miglior alleato sarà quello che lavora per la crescita economica e per la coesione sociale del paese".

Per avere più sicurezza, meno tasse, maggior crescita economica e coesione sociale, l'Italia ha bisogno di un decisionismo rinnovatore. E di leader capaci di attuarlo. Ho scritto in un Bestiario che Veltroni dovrà cercare di essere un leader monocratico, un uomo solo al comando. Senza gli intralci che oggi vengono dai gruppi dirigenti di tanti partiti.
"La democrazia deve avere una grande capacità di decisione. La paura del decisionismo è un tabù che va rimosso, altrimenti qualunque sistema salta per aria. È vero: l'Italia ha bisogno di più decisione democratica. Il Partito democratico sarà capace di decidere. Poi sono una persona ragionevole. E so che l'esercizio della leadership non è mai un esercizio solitario. È giusto ascoltare gli altri. E io avrò il mio ruolo nella decisione finale. È il mandato che ho ricevuto".

Qualcuno ritiene che lei sarà non soltanto decisionista, ma autoritario. Anna Serafini, parlamentare e moglie di Piero Fassino, ha detto che nel Partito Democratico chi la pensa in modo difforme dal vertice rischia di subire "una pulizia etnica".
"È esattamente il contrario. Io lavoro in squadra e non chiedo a nessuno da dove viene, ma solo dove vuole andare. Il Partito democratico non farà mai pulizie etniche".

Lei ha il favore dei media più importanti, a cominciare dai due quotidiani più forti, il 'Corriere della sera' e 'la Repubblica'. Per un partito e un leader sono decisivi i media, a cominciare da quelli televisivi?
"No. Sono assolutamente convinto della limitata capacità di influenza dei media sull'opinione pubblica. Oggi c'è la Rete, c'è Internet. Su cento giovani, novantotto stanno sul computer e solo due, se va bene, leggono i giornali. Sta crescendo una generazione che non dipende dai media. La politica ha sbagliato nel credere che la società fosse quella raccontata dai giornali e non quella reale. La gente vera dice: mia cognata mi ha detto che. Non dice mai: Pansa mi ha detto che.".

Quale sarà la struttura mediatica del Partito democratico?
"Ci sarà un grande portale web. Poi un canale tivù sul satellite. Infine un quotidiano stampato. Ma non sappiamo ancora come sarà e quale sarà. Mi dispiace per un giornalista con i capelli bianchi come lei, però siamo sempre in meno a leggere la carta stampata. Il tempo per farlo non c'è".

Tornando da dove siamo partiti, la mossa di Berlusconi accorcia la vita del governo Prodi o l'allunga?
"Ad allungare la vita a Prodi è stata l'azione del suo governo e il voto positivo sulla legge finanziaria. E a questo proposito voglio dire con estrema chiarezza una cosa: non tratterò con Berlusconi nessuna legge elettorale che preveda una data di scadenza per il governo Prodi. Non lo farò mai. Il governo deve poter lavorare sino al 2011".

Ma il governo potrebbe cadere per un incidente al Senato. Per esempio sul protocollo del welfare e sulle pensioni.
"Bisogna lavorare perché non succeda".

E se invece accadesse?
"Non voglio nemmeno prendere in considerazione questa eventualità. Sarebbe una vittoria differita di Berlusconi. E un disastro per l'Italia andare a votare con la legge elettorale in vigore. È un'ipotesi che rifiuto".

Un'ultima domanda. Per quanto tempo ancora farà il sindaco di Roma?
"Fino a quando non sarà incompatibile con un altro incarico istituzionale. Invece posso fare il sindaco pur avendo una responsabilità politica, come quella di segretario del Partito democratico".

Significa che se dovrà candidarsi a premier del governo si dimetterà subito?
"Sì. Me ne andrei dal Campidoglio prima del voto".

Bene, caro Veltroni. L'ho vista tranquillo e di ottimo umore.
"Sono uno di buon carattere. Se non avessi questa fortuna, con la vita che faccio sarei già andato in tilt".


22/11/2007

da espresso.repubblica.it




Titolo: Giampaolo PANSA - Grande puffo grande tuffo
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2007, 05:08:37 pm

Grande puffo grande tuffo

Dopo 10 anni la storia si ripete: Fausto Bertinotti torna a minacciare il governo Prodi.

Ma questa volta lui e la Cosa Rossa rischiano di rompersi la schiena

Per Fausto Bertinotti, la presidenza della Camera è un elisir di giovinezza.


Visto in tivù alla convention della Cosa Rossa, ha un volto disteso e paffuto. Un viso da puffo. Anzi, dato il peso politico, da Grande Puffo. Con quel facciotto ci ha offerto una frase storica: "Oggi è il giorno del Grande Tuffo. Per imparare a nuotare, bisogna gettarsi in acqua". Già, il Grande Tuffo del Grande Puffo. Ma la faccenda del puffo e del tuffo mi ricorda qualcosa di lontano e, insieme, di vicino. Vediamo un po'.

Siamo a dieci anni fa, al 1 ottobre 1997. Il primo governo Prodi sta per morire. Chi ha deciso di ucciderlo è Rifondazione Comunista: lo appoggia dall'esterno, ma ha i voti decisivi. Quel giorno, Rc boccia la legge finanziaria del Professore. Il 7 ottobre il premier ulivista si appella a Bertinotti, il segretario di Rc, perché eviti la crisi. Non viene ascoltato. E il 9 ottobre Rc vota contro il governo che si dimette.

A Montecitorio, qualche rifondarolo piange. Lucio Manisco, per esempio, o Nerio Nesi. Ma c'è pure chi ride. Stravaccato in Transatlantico, un sogghignante Oliviero Diliberto dice al pidiessino Antonio Soda: "Anto', ho paura che la prossima volta il collegio di Reggio Emilia bassa non me lo date più!".

A pugnalare Prodi è stato Bertinotti, su mandato di Armando Cossutta, presidente del partito. Il pomeriggio del 7 ottobre, prima del colpo di grazia al governo, Fausto ha letto all'Armando la parte più delicata del discorso. Lo si è visto grazie alla diretta tivù: il Parolaio recita sotto voce il compito scritto sui foglietti e l'Armando annuisce in silenzio, tamburellando con le dita sulla tavoletta dello scranno.

Tutto finito? Per niente. Il primo segnale viene da Diliberto, costretto a disdire il pranzo di seconde nozze nel castello di Sorci, in quel di Anghiari. Glie l'ha ordinato Cossutta, il vero padrone del partito, quello che nel gennaio 1994 ha assunto Fausto per farne il segretario di Rc. D'improvviso, l'Armando ha cambiato programma. E va diffondendo il nuovo verbo: "Trattare si può e si deve!".


È accaduto che sul vertice di Rifondazione sta piovendo la reazione furiosa di tanti elettori e iscritti neo-comunisti. Tra giovedì 9 e venerdì 10, Cossutta viene sommerso da un'imprevista ondata di fax. E si spaventa. Persino 'il Manifesto' gli si rivolta contro, roba da non credere. Si può deludere i compagni faxisti? Giammai.

E così, il pomeriggio del 10, Cossutta riceve nel suo quartiere presidenziale un giornalista del 'Corriere della sera', Massimo Gaggi. L'Armando lo accoglie con sussiegosa cortesia. Alle sue spalle campeggiano un ritratto di Marx con didascalie in cirillico e la vetusta bandiera rossa della sezione Pci di Sesto San Giovanni.

Dapprima, Cossutta mitraglia con parole in apparenza d'acciaio il governo caduto e "la presenza sempre più soffocante di un sindacato collateralista". Poi, di colpo, si mette a concionare come un qualunque Vittorio Emanuele II. Gli mancano i baffoni a manubrio e il pizzone, ma la sostanza è la stessa. Dice: "Non sono insensibile all'allarme che c'è nel paese. E non sono di quelli che alzano le spalle davanti ai fax!".

L'Armando si è pentito d'aver fatto la crisi, però Fausto no. Va di tivù in tivù, sempre più farraginato, attaccando la Cgil di Sergio Cofferati. Mostra i denti al 'Costanzo Show', poi al 'Porta a porta' di Vespa e infine al 'Moby Dick' di Santoro. Ma Cossutta riesce a rammollirlo. Fausto comincia a cedere. Dice a Felice Saulino del 'Corriere: "La nostra è soltanto legittima difesa".

La sera di venerdì 10 ottobre, appena ventiquattro ore dopo la pugnalata, ecco un Bertinotti impassibile offrirsi alle telecamere del Tg1. Sta nel suo ufficio, protetto da un incolpevole Antonio Gramsci in fotografia. E al governo ucciso il giorno prima, offre un accordo di programma addirittura per un anno.

Sembra un trucco da Prima Repubblica. Ma la verità è che Rifondazione teme l'azzardo di una nuova campagna elettorale. Tutti quei fax sono un grande uccello padulo che vola all'altezza ben nota. Domenica 12 ottobre, Fausto, in casual elegante, va alla Marcia della pace Perugia-Assisi. E si fa un bagno di fischi e di insulti. Comunque, i cossuttisti sono già al lavoro, con la tenacia delle vecchie talpe. Sempre strillando: "Trattare si può e si deve!".

L'accordo matura sotto il sole malato di una legge per le 35 ore di lavoro, che Prodi promette a Rifondazione. La sera di lunedì 13 ottobre, il Professore lo annuncia uscendo dal Quirinale, dopo un colloquio con Oscar Luigi Scalfaro. Prodi non sembra per niente felice. Ha il viso pesto, le guancione cascanti da bulldog sfibrato. Accanto a lui, il sottosegretario Enrico Micheli mostra il pallore del mutuato in fila dal dentista.

La stessa sera, a 'Porta a Porta', Massimo D'Alema ha una faccia tutta l'opposto. È sereno, quasi felice, mentre cucina il risotto in casa del segretario del sottosegretario Antonio Bargone. Poi nello studio esplode la telefonata di Fausto. Parla come se la crisi non ci fosse mai stata. Il birignao è compiaciuto. Il tono da narcisista astuto. Lui è già pronto a celebrare il proprio trionfo: la rinascita del governo. Cossutta lo bacerà in pubblico. E Diliberto proclamerà la "straordinaria abilità politica" del compagno segretario.

Un anno esatto dopo, nell'ottobre 1998, la storia di ripete. Con qualche variante. Il governo Prodi cade e non risorge. L'Armando e Fausto si lasciano. Dal loro partito ne nascono due. A non cambiare sono gli slogan bertinottiani: il governo era centrista e il Prof un servo della Confindustria. Guarda caso, sono gli stessi di oggi, sempre contro Prodi.

L'unica vera differenza è che adesso Rifondazione sta al palo: perde militanti e voti. Per questo il Grande Puffo esorta al Grande Tuffo. A gettarsi dal trampolino dovrebbero essere i quattro della Cosa Rossa. Ma non sembrano d'accordo su niente. Neppure se cantare o no 'Bella ciao'. Si romperanno la schiena, i nostri eroi? Speriamo di sì.

(14 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it



Titolo: Giampaolo PANSA - Un Natale del diavolo
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2007, 06:50:33 pm
Gianpaolo Pansa

Un Natale del diavolo

Troppo di troppo. Tutti che vogliono tutto. Case strapiene di inutile merce costosa. Se ci sarà una vera crisi, cosa accadrà? Mangeremo cellulari?


Un telefonino, a volte due o anche tre. Un videotelefonino. Un navigatore satellitare. Un I-Pod. Una play station. Un televisore al plasma. Un computer per mandare in rete le foto del telefonino. E tanti aggeggi come questi, sempre capaci di svuotarti le tasche. Tutta merce che si sarà venduta molto per Natale. E anche prima. Basta entrare in una famiglia qualsiasi, anche di persone senza stipendi grassi, per rendersi conto che tante case assomigliano a supermarket di elettronica superflua.

Nello stesso tempo, i giornali scrivono che il potere d'acquisto delle famiglie non è per niente aumentato, come sostengono il governo e la Confindustria. Anzi, sul finire del 2007 i bilanci famigliari risultano infelici per l'aumento del costo del denaro e per la stangata fiscale della prima finanziaria by Prodi. Tanto che quest'anno il numero delle famiglie in difficoltà ha toccato il massimo storico dal 1999, ossia da quando esiste questa statistica.

Come la mettiamo, allora? Io la metto come mi suggerisce la piccola storia seguente. Un giorno chiamo un muratore per un lavoro in casa. Per tutto il tempo lui si lamenta di trovarsi al verde. Ma ogni poco cava di tasca un cellulare ultimo tipo, parecchio costoso. Fa una telefonata, poi due, poi tre, poi quattro. Gli chiedo: chi sta chiamando? Lui spiega: mia moglie e i tre ragazzi. Hanno tutti dei cellulari come il suo? In famiglia ne abbiamo cinque. Non sono troppi cinque? E lui: sì, forse sono troppi, ma come si fa a negare a un ragazzo il suo telefonino?

Da anziani, si è inclini a riandare al passato. Quando ero ragazzo, mi sentivo sempre dire di no, mai di sì. I miei genitori erano dei super-specialisti del Super-No. Il loro slogan preferito era: questo costa troppo e non possiamo permettercelo. Ce lo ripetevano senza nessun rammarico. Per un motivo ben piantato nella memoria: anche loro avevano sempre ricevuto dei no. Erano bambini poveri. Mio padre, poi, aveva trascorso l'infanzia nella miseria: penultimo di sei ragazzini orfani, figli di un bracciante a giornata. Morto di colpo mentre zappava il campo di un altro: Giovanni Pansa, classe 1863, di Pezzana, provincia di Vercelli.


Mia nonna, Caterina Zaffiro, classe 1869, anche lei vercellese di Caresana, non aveva voluto affidare i bambini alla carità pubblica. E li aveva tirati su da sola, con la ferocia di una leonessa. Per farli mangiare, andava a rubare. Il suo motto diceva: la roba dei campi è di Dio e dei santi, dunque pure di una disgraziata come me. Ha patito la fame, come tutti i suoi figli. Ma è vissuta molto e ha allevato anche mia sorella e me. Era analfabeta, però amava i fotoromanzi di 'Bolero Film': lì capiva tutto senza leggere. Nello stesso momento, recitava il rosario e squartava le rane per il pranzo.

Tutto accadeva nella cucina di casa. Era l'unica stanza riscaldata dell'alloggio. È in cucina che ho scritto la tesi di laurea. Sorvegliando il minestrone messo sulla stufa economica da mia madre, prima di andare al lavoro. D'inverno, nelle altre stanze si gelava. La sera toccava a me di mettere il prete nel letto, con la brace e un filo di cenere. Quando nevicava duro, non avevamo i problemi di chi possedeva l'automobile o la motocicletta: noi si andava sempre a piedi.

La stanza da bagno non esisteva. C'era soltanto il cesso, in un casottino sulla ringhiera, costruito da papà. Si faceva la doccia di domenica: nel mastello, con la mamma che ti rovesciava addosso l'acqua scaldata sul fuoco del camino. Non c'era telefono. E neppure la radio. Non si andava mai in vacanza. L'unica volta che sono riuscito a fare un po' di montagna, nella colonia dei postelegrafonici, è stato nel luglio 1943. Ma è caduto Mussolini, accidenti! E la vacanza è finita in anticipo.

Tuttavia, a Natale i regali non mancavano. Le matite colorate. Due quaderni speciali. Il teatrino dei burattini. Una bambola per mia sorella. E dei libri, tanti libri. Papà e mamma erano arrivati soltanto alla quarta elementare lui e alla quinta lei. Per poi andare subito al lavoro: come guardiano delle mucche e come piccinina in una pellicceria. Ma volevano che i figli studiassero. Dovevamo conquistare un'esistenza migliore della loro. Dunque, per prima cosa niente dialetto, si parla soltanto italiano. E poi leggere, leggere, leggere. Infine, un altro verbo implacabile: arrangiarsi. Sì, arrangiatevi da voi, perché nessuno vi regalerà mai niente!

Ecco perché i Natali di oggi mi sembrano una festa del Diavolo. Troppo di troppo. Tutti che vogliono tutto. Case strapiene di inutile merce costosa. Se ci sarà una vera crisi, che cosa accadrà? Mangeremo cellulari e ci scalderemo con le play station? Per quel che mi riguarda, sto tranquillo. Ad avere pochi soldi in tasca ci ho già provato. E siccome lo eravamo in molti, non ci ho fatto caso.

(20 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Uomo forte cercasi
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 04:32:31 pm
Uomo forte cercasi

La litigiosità dei partiti non fa che aumentare il disprezzo degli elettori e li spinge a immaginare vie d'uscita pericolose

DI GIAMPAOLO PANSA


Può un ministro dirci qualcosa che colpisce?

E che non riguarda soltanto una questione del giorno dopo? Certamente sì.

Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, lo ha fatto in un'intervista al 'Corriere della sera', scritta da Sergio Rizzo.
Verso la fine di quel lungo colloquio, il ministro (d'ora in poi lo chiamerò con la sua sigla: Tps) ci ha messo in guardia contro un rischio 'pericolosissimo' che l'Italia sta correndo e senza rendersene conto.

Il rischio è di ripetere la tragica esperienza di Weimar.

È il nome di una città tedesca della Turingia dove venne varata la nuova Costituzione della Germania, dopo la fine della prima guerra mondiale. Nacque allora la cosiddetta repubblica di Weimar che, passando da un governo debole all'altro e da un caos a un caos successivo, spalancò la porta al regime nazista di Hitler.

Perché Tps ci rammenta Weimar? Perché, nel 1945, dopo la conclusione di una nuova guerra perduta, la Germania rifiutò l'esperienza dei governi deboli e scelse la strada dei governi forti. L'altro paese sconfitto, l'Italia, ha scelto invece la strada dei governi deboli, come stiamo constatando ancora oggi. Per di più, dice Tps, il nostro è un paese in preda a "impulsi autodistruttivi". La somma "governi deboli più impulsi suicidi" potrebbe condurci "verso il caos e la svolta autoritaria". Dunque, conclude Tps, "ora si potrebbe dire che siamo noi a correre il rischio di Weimar".

Le cose stanno davvero a questo punto? Pur essendo un ottimista istintivo, sono propenso a pensare di sì. Non ci troviamo ancora dentro il caos, ma siamo sulla strada per arrivarci. E poiché le situazioni di disordine nascono quasi sempre dalle disfunzioni della politica, se osservo quanto accade in Italia non mi sento per nulla rassicurato. Il sistema dei partiti è imballato e spappolato. E ogni giorno mette in mostra quell'ammasso di macerie che è diventato: un tritume di parrocchie politiche, ormai ingestibile da chiunque.

Voglio dirlo anche a me stesso, all'inizio del 2008: d'ora in poi bisogna rifiutare lo schema Prodi sì o Prodi no. Il Professore cerca di durare, come farebbe qualunque altro premier al suo posto. Ma neppure un Superman installato a Palazzo Chigi riuscirebbe a governare la crisi odierna. Tanto meno Silvio Berlusconi, una figura anche più logorata del Prof. Il Cavaliere sta sulla scena dalla fine del 1993 e in autunno saranno quindici anni: un tempo immenso per i ritmi della società odierna e della democrazie moderne.

Se poi andiamo a scoprire quel che c'è sotto questi due leader, lo spettacolo induce alla disperazione. Prodi è sostenuto da ben undici gruppi parlamentari, in maggioranza microscopici. Le aggregazioni stanno diventando impossibili, per l'egoismo e la faziosità di troppi capi e capetti. Lo prova il cammino difficile del Partito Democratico e della Cosa Rossa. Il centro-destra non sta meglio. Pure qui la frantumazione trionfa. Anche per questo, forse, Berlusconi ha deciso di correre da solo. Ma per vincere dovrà mangiarsi gli alleati, novello conte Ugolino. E neppure lui può sapere quale sarà l'esito del pasto in famiglia.

Entrambi i blocchi sono poi devastati da guerriglie interne ogni giorno più cattive. Mi lascia sempre stupefatto che i politici non si accorgano di quanto discredito gli procurino i litigi, le risse, gli sputi in faccia al vicino di banco. Se non sono capaci di essere generosi, tentino almeno di essere furbi. Ma questa è la stagione dei fessi. Basta sfogliare qualche giornale per avere sotto gli occhi un'assurda gabbia di matti. Veltroni ha più nemici dentro il PD che fuori. Appena Dini parla, gli sparano dalla stanza accanto. Berlusconi assalta Fini e viceversa. I forzisti odiano Casini che li ricambia.

Ma ogni scontro dentro una stessa parrocchia non fa che aumentare il disprezzo degli elettori. Li allontana. Li obbliga a disperare di questa democrazia capace soltanto di ferirsi, in preda agli impulsi suicidi che Tps ci rammenta. E infine li costringe a immaginare vie d'uscita altrettanto pericolose. Ecco, questo è il problema di oggi. Un rebus da affrontare con attenzione preoccupata.

Lo dico perché mi sta accadendo quel che non mi era mai accaduto. Ho cominciato a ricevere telefonate di amici che dicono tutti la stessa cosa: con questi partiti non possiamo più andare avanti, deve intervenire qualcuno diverso dai soliti politicanti, un uomo deciso, forte, capace di prendere in mano lo sfacelo della repubblica e di provare a metterci una pezza. Ho sentito di un sondaggio che quantifica il desiderio di un uomo forte: lo vorrebbe il sessanta per cento degli intervistati. È credibile? Non lo so. Comunque, il mio augurio ai politici italiani per l'anno che inizia recita così: meditate, gente, meditate!

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Ecoballe di sinistra
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2008, 07:18:12 pm
Ecoballe di sinistra

A Napoli anche la camorra diventa un alibi per l'impotenza della politica, un male peggiore della delinquenza 

DI GIAMPAOLO PANSA


Catastrofe e panico. Sono le sensazioni che provo quando vedo alla tivù il gigantesco immondezzaio di Napoli. Non le provo per il problema in sé. Questo verrà risolto in qualche modo. Prima o poi, la monnezza sarà raccolta e portata agli impianti dell'Italia del nord, dove la bruceranno con un buon guadagno. La catastrofe che sembra impossibile evitare è quella dei partiti di sinistra. A soffocarci sono le ecoballe rosse di una casta impotente e incapace. Per di più, ecoballe malmesse, dalla copertura lacera, che lasciano intravedere una spazzatura politica ripugnante. Qualcosa già si sapeva. Ma oggi lo spettacolo è completo. Ed è questo a destare il panico.

Qui devo fare un inciso personale. Ho sempre votato per la sinistra o per una delle tante sinistre. Ne ho scritto molto: qualche libro e migliaia di articoli. Posso dire di conoscere bene i miei polli. Come accade in tutte le parrocchie di partito, anche a sinistra ci sono politici da stimare. Ma è l'insieme a essere terrificante. Per anni e anni, la sinistra e il centro-sinistra ci hanno spiegato di essere il mago Zurlì. Nessuno meglio di loro sapeva amministrare i comuni, le province, le regioni, lo Stato. Nessuno poteva emulare le qualità che sfoggiavano: saggezza, efficienza, onestà e trasparenza. Ce lo ripetevano i dirigenti, i propagandisti e i giornali della congrega. Con una sicumera arrogante che non dovevi mai contraddire.

Poi, di crisi in crisi, nella Chiesa Rossa è comparsa qualche crepa. I custodi del tempio si sono divisi. E hanno cominciato a combattersi, pur restando insieme negli stessi governi, nelle regioni, nelle grandi città. I loro errori si sono moltiplicati. La lentezza esasperante nel decidere. L'eterno rinvio di problemi da risolvere subito. La faziosità imposta come razionalità. La superbia di ritenersi il meglio del meglio nel guidare il paese. Ma l'arroganza e la sicumera sono rimaste intatte.

Adesso tutto sta crollando nella Chiesa Rossa. Napoli è soltanto un avviso di quello che accadrà in Italia, se le sinistre non cambieranno pelle. Dava i brividi la faccia di Antonio Bassolino al 'Porta a porta' di lunedì 7 gennaio. Una maschera di pietra, stravolta, segnata dalla sconfitta. Anche il capo dei verdi, il ministro Alfonso Pecoraro Scanio, era tramortito, sotto il cerone di una vanità sprezzante. Due imputati davanti a una corte di giustizia. Poi la voce querula della Jervolino che strillava di aver avvertito il governo Prodi del terremoto in arrivo, senza ricevere risposta. E infine Enrico Letta che, da Palazzo Chigi, si diffondeva in impegni, subito smentiti da Bassolino, con cupezza sfiancata.

Sono gli stessi dirigenti della sinistra campana a metterci sotto gli occhi il loro fallimento. Vincenzo De Luca, il sindaco ulivista di Salerno ("una città pulita come la Svezia"), spiega che i Ds della regione, puntando su Bassolino, "hanno svenduto il futuro di due generazioni per le logiche di corrente". E sempre Bassolino ha finalmente sputato la verità sull'impotenza delle sinistre a fronteggiare la rabbia popolare da loro eccitata, difesa, esaltata.

Che sfilate e che cortei! Comitati civici, ultras dell'ambientalismo, sindaci schiavi dei loro elettori, vescovi che predicano contro i rifiuti, preti che dicono messa per chi presidia le discariche, disoccupati organizzati, capetti del centro-sinistra e del centro-destra uniti nella lotta. Mentre un tecnico di valore come Guido Bertolaso veniva cacciato, i soliti noti restavano al potere in Campania. E Pecoraro Scanio trovava il fegato per far eleggere senatore il fratello Marco.

In questo caos di ecoballe rosse, anche la camorra diventa un alibi per l'impotenza della politica, un male ben più pernicioso della delinquenza. In proposito ho un vecchio ricordo professionale. Fra il 1970 e il 1971, quando lavoravo per la 'Stampa' di Alberto Ronchey, rimasi sei mesi a Reggio Calabria per raccontare la rivolta della città che chiedeva di diventare la capitale della regione, al posto di Catanzaro. Anche allora si disse che la regia di quella lunga guerriglia era della 'ndrangheta. Ma non era vero. Tutto dipendeva dalla tracotanza di qualche boss politico e dall'inerzia del governo centrale che avevano aizzato migliaia di reggini.

A quel tempo, il governo era guidato dal democristiano Emilio Colombo. Oggi in prima linea c'è il governo di Romano Prodi. Il suo centro-sinistra già non sta bene di salute. Il Professore può cadere sepolto dai rifiuti di Napoli? Il centro-destra lo spera. Sbagliando, perché non ci guadagnerà niente. Tranne che il vuoto politico. Se andrà così, meglio emigrare in Svizzera. Nella Lugano bella saranno un po' razzisti, ma pazienza. E dell'uomo forte non hanno alcun bisogno. Perché forti lo sono tutti, quando è il momento di esserlo.

(11 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA... È arrivata la bufera
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2008, 04:53:53 pm
Gianpaolo Pansa

È arrivata la bufera


Sono incline ad assolvere Romano Prodi.

Chiunque al suo posto avrebbe fatto perggio di lui. Ma ora tocca a Veltroni tentare l'azzardo per uscire dal pantano dell'Unione  È stato sarcastico Clemente Mastella: "Veltroni vincerà le elezioni nel Duemilacinquecento dopo Cristo". Con tutti i guai che lo affliggono, il capo dell'Udeur ha trovato il tempo per farsi beffe del leader del Partito Democratico che ha deciso di andare da solo al prossimo confronto elettorale. Ma non è stato l'unico a bacchettare Superwalter. Un burbanzoso Massimo D'Alema gli ha dato dell'intempestivo. Rosy Bindi è risalita sul cavallo da sceriffa e si è messa in caccia di Walter il fuorilegge. Persino quel verdone di Paolo Cento non si è trattenuto: "Veltroni sta correndo verso una sconfitta solitaria".

Ma è davvero così sciocco e avventurista il segretario del PD? Con la decisione di puntare soltanto sul proprio partito, senza alleanze preventive, sta realizzando un'inconscia vocazione al suicidio? Penso proprio di no. Superwalter si è limitato a prendere atto di quello che è accaduto a Romano Prodi, prima e dopo le elezioni del 2006. E ha avuto la schiettezza di dire che il centro-sinistra non esiste più. Non soltanto quello di oggi, la sciagurata Unione, ma anche quello di domani, se costruito con le stesse regole pazze.

Su quali dati di fatto ha ragionato Veltroni? Immagino su quelli che i cronisti non cortigiani hanno visto nell'inferno vissuto da Prodi e dal suo sfiancato governo ormai alla fine. L'Unione, esempio tragico di iper-coalizione fra incompatibili, già prima del voto ha cominciato a sparare una raffica di no contro il proprio candidato premier. Il Prof voleva presentare una sua lista, distinta dagli altri partiti unionisti. Ma gliel'hanno impedito, nel timore di renderlo troppo forte.

Allora, Prodi ha chiesto di poter contare su un numero consistente di parlamentari suoi e glie ne hanno concessi soltanto cinque. Prodi ha domandato di presentare la lista dell'Ulivo non soltanto alla Camera, ma anche al Senato. E la risposta è stata sempre no. Il motivo? Nessuno l'ha mai capito. Poi si è constatato che la presenza dell'Ulivo a Palazzo Madama avrebbe reso meno anoressica la maggioranza in quel ramo del Parlamento.

Nel frattempo i dieci partiti del centro-sinistra si stavano dilaniando sul programma della coalizione. Nessuno ha voluto rinunciare a nulla. Con un risultato alla Fantozzi: un messale di quasi trecento pagine, un monumento cartaceo all'impotenza vorace della casta unionista. Subito riflessa nella composizione del governo: un mostro di centodue o centotre fra ministri, viceministri e sottosegretari. Con una serie di dicasteri spacchettati, una minutaglia senza compiti reali e priva di portafoglio. Inventati al momento, per soddisfare le voglie di qualche pennacchione o pennacchiona.

Infine, questa catena di errori è stata resa ferrea dall'errore più grande: la certezza arrogante di stravincere. Ce la ricordiamo la convinzione superba che l'epoca del cavalier Berlusconi fosse chiusa per sempre? Per l'intera campagna elettorale venne recitata la stessa litania: il Caimano è morto e sepolto, dopo il voto il Genio del Male dovrà fuggire da Arcore, per rifugiarsi all'estero. Un truppa giuliva di scrittori, polemisti, cineasti, comici, vignettisti si precipitò a dare l'assalto al cadavere del Berlusca.

Tutta la campagna per il voto di aprile ebbe lo stesso segno presuntuoso e incauto. Sotto le tende dell'Unione si vide troppo di tutto. La fretta di considerare l'Unipol un incidente passeggero. Le candidature dei parenti, piazzati in posizioni blindate e scaraventati in Parlamento. Gli sprechi dei tanti ras nelle regioni e nelle città rosse. L'alterigia nel dichiarare (lo fece D'Alema) che Berlusconi, mandato al tappeto per sempre, non avrebbe potuto guidare neppure l'opposizione.

La storia del dopo-voto, ossia la vita perigliosa del governo Prodi, è troppo nota per essere ripercorsa. Proprio mentre si apriva la crisi finale del sistema partitico, l'Unione ha consegnato al Prof un'automobile sfasciata in partenza, con pochissimo carburante (una maggioranza parlamentare troppo esigua) e un clima avvelenato dai contrasti feroci fra i passeggeri, i partiti unionisti. Sono stati loro i primi a tradire il patto con gli elettori. È ridicolo accusare di questo Mastella. Lui un fellone? Può darsi. Ma in coda a tutti gli altri.

E le colpe di Prodi? Confesso che sono incline ad assolverlo. Nelle condizioni che ho descritto, chiunque al suo posto avrebbe fatto assai peggio di lui. Possiamo imputargli di essere stato troppo cocciuto, una testa quadra reggiana. Ma per un premier queste sono qualità, non difetti. Nessuno può chiedergli di gettare la spugna prima del tempo, prima dei due voti di fiducia. Nel pretenderli è stato corretto. Tuttavia, suggerisco al Professore di non voler sopravvivere a se stesso. E gli rammento che, dall'aprile 2006 in poi, il famoso Fattore C, il suo portafortuna, troppe volte ha fatto cilecca.

Veltroni ha ricavato molte lezioni da quello che è accaduto a Prodi. E ha fatto una scelta saggia nel decidere che il PD andrà da solo al voto, qualunque sia la legge elettorale. Pochi hanno riflettuto su un dato importante: Veltroni aveva preso questa decisione ben prima di annunciarla. In proposito, ho un ricordo che risale al 19 novembre 2007. Ero andato a intervistarlo per 'L'espresso' e gli avevo chiesto se la 'vocazione maggioritaria' del PD non fosse un'utopia. Come mi suggeriva il bottino elettorale dell'Ulivo nel 2006: il 31,3 per cento dei voti, un dato buono, ma per niente maggioritario.

Sono andato a rileggermi la risposta di Veltroni alla mia obiezione: "Stia attento: i flussi elettorali sono molto più veloci e forti di quel che pensiamo. L'opinione pubblica ha una grande mobilità. Giudica l'offerta. Valuta il leader. L'elettorato di appartenenza va diminuendo. Quindi avere un grosso risultato elettorale è possibile. A condizione di essere quello che si è deciso di essere".

Come direbbe un politologo patentato? Gli elettori reagiscono all'offerta politica modificando le proprie convinzioni e, dunque, il proprio voto. È possibile che l'offerta di Superwalter (un partito nuovo che si muove da solo) abbia successo. Qualche segnale si sta avvertendo. Certo, è una scelta rischiosa. Ma inevitabile per un leader che voglia uscire dal pantano dell'Unione.

Davanti a Veltroni c'erano due strade. L'andare con lo schieramento di oggi, quello dei Dieci Partiti Rissosi, garantirebbe soltanto la sconfitta. L'andare da solo gli offre una speranza di vincere. Tra la certezza di perdere e la possibilità di farcela, per remota che sia, non esistono dubbi: meglio l'azzardo che la morte sicura. Non c'è leadership senza rischio. Del resto, ripetere lo sfascio dell'Unione sarebbe assurdo: meglio chiudere subito la bottega del PD.

Di qui alle prossime elezioni, vicine o lontane che siano, Veltroni dovrà scalare l'Everest con le scarpe da tennis. Avrà contro anche più di un'eccellenza democratica, come stiamo vedendo. In più, la crisi del sistema dei partiti è al culmine. Siamo nella giungla. Vicini a una guerra civile parolaia e smargiassa. Il discredito montante rende la casta sempre più aggressiva e spietata, come succede sempre quando un regime sta morendo.

La campagna elettorale sarà un salto nel caos. Chi ha visto alla tivù l'ultimo 'Ballarò' è rimasto atterrito dalla ferocia dello scontro fra Pecoraro Scanio, la Bindi e Casini. È arrivata la bufera, è arrivato il temporale: così cantava Renato Rascel, un famoso attore comico di tanti anni fa. Oggi accadrà di peggio. L'intolleranza armata, per ora soltanto di insulti, è diventata la condizione normale del dibattito politico.

Chi può fermare questa discesa nel caos ha un obbligo al quale non può sottrarsi. Un vecchio motto di Giulio Andreotti recitava: meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma oggi quel detto non vale più. Oggi non sono in gioco le cuoia di un premier. Oggi è in gioco la pelle di un'Italia sfortunata, che rischia di assomigliare ai suoi politici peggiori.

(24 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Ma Silvio non è Benito
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 10:00:31 am
Gianpaolo Pansa

Ma Silvio non è Benito


Spero che la sinistra non ripeta l'errore di gridare al ritorno dei fascisti. Ho fiducia nell'intelligenza politica di Walter Veltroni 

Negli ultimi mesi tribolati del governo Prodi, mi è capitato di ascoltare in ambienti diversi un grido d'allarme angosciato: "Il centro-sinistra non deve cadere, altrimenti ritornano i fascisti!". Chiedevo: "Quali fascisti?". Risposta: "I fascisti del centro-destra. Tutti, non soltanto quelli di Fini.
Il primo fascista è Berlusconi. Si prenderanno il potere e addio libertà in Italia!". Dopo la caduta di Romano Prodi, l'allarme si è fatto disperato: il fascismo no!, non può essere, non possiamo accettarlo, non è giusto, bisogna fermarli.

Devo mettere in tavola le mie carte?
Pazienza, lo faccio per l'ennesima volta. Non ho mai votato per Silvio Berlusconi. E non lo farò neppure domani. Quasi vent'anni fa, ho scritto uno dei primi libri su di lui e sulla sua politica di conquista. Era 'L'Intrigo', dedicato alla guerra di Segrate per la Mondadori e il Gruppo Espresso-Repubblica. In quell'epoca, qualcuno degli odierni nemici viscerali del Cavaliere lavorava per lui e lo spalleggiava, anche dentro 'Repubblica'.

Dunque penso di avere il curriculum in ordine per definire una fesseria il parallelo 'Silvio uguale a Benito'. Sostenerlo non conduce da nessuna parte.
E alla fine risulta di danno alle sinistre che hanno già ricominciato a urlarlo. È bene non scordarlo alla vigilia di una campagna elettorale che si rivelerà un corpo a corpo feroce. Nel 1994 la campagna contro il Cavaliere Nero ci portò alla sconfitta. Nel 1996 si vinse grazie al pragmatismo cattolico di Prodi. Nel 2001 una nuova batosta per il centro-sinistra, sempre al grido: 'All'armi, son fascisti!'. Idem per la mezza vittoria, o per la mezza sconfitta, dell'aprile 2006, tutta all'insegna della lotta al Caimano in camicia nera.

Non credo che il Partito Democratico voglia ripercorrere la stessa strada, foriera soltanto di disgrazie.
Ho fiducia nell'intelligenza politica e nel buonsenso di Walter Veltroni. E mi auguro che sappia guidare il suo elettorato in una battaglia molto difficile da vincere. Ma che va combattuta avendo ben chiari la forza e i limiti del Cavaliere.

Della sua forza dirò soltanto che Berlusconi è il leader che sembra fatto per l'Italia di oggi: un paese scoraggiato, disfatto, che ha in odio i partiti, ma pur sempre moderato, lontano dalle molte sinistre, e non soltanto nei ceti abbienti. In più, il Cavaliere non è un avventuriero, ma un politico di razza, come dimostra il fatto che sta sulla scena da quindici anni. Se fosse meno inchiodato agli interessi della sua azienda, avrebbe anche un successo più grande. Infine non è uno sciocco e conosce alla perfezione i limiti che s'intravvedono dietro le luci della ribalta.

Silvio sa di avere lo stesso problema che ha afflitto Prodi. Dovrà trascinare una coalizione immane: dieci partiti, con un carnevale di posizioni che vanno da Storace a Tabacci, passando per Dini. E anche nel caso di una vittoria netta al Senato, il suo governo avrà di fronte una montagna orrenda di problemi da aggredire subito. Non sarà l'abolizione dell'Ici a liberare la Campania dai rifiuti o a risolvere il problema di un fisco inefficiente e di un sistema scolastico ormai al collasso.

Il disastro italiano può franare addosso anche al nuovo governo di centro-destra, come è accaduto al governo di centro-sinistra.
L'Italia è un paese in assoluta emergenza. Siamo un malato sempre più grave che, ogni mattina, scopre di avere un guaio nuovo e non trova un medico in grado di curarlo. Questo medico non può essere Silvio da solo, ma neppure Walter da solo. E prima o poi la crisi galoppante imporrà un governo di salvezza nazionale. Un governo di guerra, si diceva un tempo. L'unico a poterci imporre una cura drastica, ammesso che ne esista una.

Con questi chiari di luna, risulta grottesco che la sinistra si rifugi nello slogan 'Berlusconi uguale Mussolini'. Se lo farà, verrà del tutto alla luce il suo vizio peggiore: la pigrizia mentale, come l'ha chiamata Luca Ricolfi sulla 'Stampa'. Vale a dire, aggiunge il Bestiario, l'avversione a cambiare il modo di vedere le cose, il rifiuto a buttare alle ortiche il consunto schema ideologico che imprigiona da anni il radicalismo sedicente progressista. La pigrizia mentale è diventata una droga maligna che isola e indebolisce i tanti partiti e partitini rossi o rosso-verdi. E li rende impotenti o capaci soltanto di gridare che chiunque sia diverso da loro è un nemico da annientare.

Ma quanto può durare la sinistra o il centro-sinistra dei pigri, dei dinosauri addormentati, dei tetri ripetitori di slogan inefficaci, dei fondamentalisti dell'antifascismo rituale? Penso poco, molto poco. Veltroni se n'è accorto e si è incamminato per la strada opposta.

Speriamo che gli isterici della sua parrocchia non gli rompano le gambe, come tentano già di fare.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA Votare il Pd oppure no?
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:32:17 pm

Gianpaolo Pansa



Per un governo di tregua nazionale, dopo il voto, è necessario che il Cavaliere non vinca a mani basse. Quindi...  Massimo D'AlemaDopo il discorso di Walter Veltroni a Spello, 'Repubblica' ha titolato: 'Buono il primo ciak'. Poi ha consultato degli esperti di comunicazione. E uno di loro, Alessandro Amadori, ha detto: "Veltroni agisce in un contesto mediterraneo, come in un film di Salvatores o di Muccino". Ma purtroppo non siamo su un set cinematografico. Non lo è Veltroni. Non lo è Silvio Berlusconi, che secondo l'esperto si muoverebbe "come Terminator". E soprattutto non lo siamo noi elettori: cittadini e non comparse davanti alla macchina da presa.

A Spello, e a Milano per il Cavaliere, è cominciata una guerra spietata che verrà combattuta senza riguardo per le buone maniere. Chi parla di fair play, di disarmo verbale e di confronto sui programmi, s'illude. Le campagne elettorali possono cominciare sul velluto, ma virano subito sul ring dove tutti i colpi sono ammessi, compresi quelli proibiti. Immagino che Veltroni speri di muoversi in un contesto soft, alla maniera di Spello. Però anche lui dovrà indossare l'armatura e impugnare lo spadone, se non altro per difendersi dagli assalti brutali del Cavaliere.

Ma il peggio verrà dopo, a voto concluso. Chiunque avrà vinto, si troverà di fronte a un compito immane. È da sciocchi fingere di non vedere che l'Italia del 2008 è agli stracci. Siamo un paese alle corde. La casta dei politici è disprezzata e molti invocano un uomo forte che la spazzi via. Ci sta addosso un mostro come la stagflazione, l'incrocio fra la stagnazione economica e l'inflazione. I risparmiatori temono di veder saltare qualche banca anche da noi. Le istituzioni sono sfiancate da un bicameralismo inerte che premia la lentocrazia parlamentare. Sta di nuovo trionfando la corruzione. Per non parlare di disastri come quello dei rifiuti in Campania.

Gli italiani senza potere si domandano quale governo sarà in grado di rianimare un paese tanto malato. Lo slogan di Berlusconi, 'Rialzati, Italia!', sa di illusionismo. Lo stesso vale per il motto di Veltroni: 'È la politica che deve rialzarsi'. Ha ragione Giulio Tremonti, quando dice: "Sta arrivando un tempo di ferro, che non si sfida con l'estetica politica". Ma in un'epoca che si annuncia ferrigna non possono bastare governi convinti di farcela da soli. Ha vinto Berlusconi? Ci penserà Silvio a fermare la catastrofe. Ha vinto Veltroni? Sarà Walter il medico che salverà il nostro paese in coma. Sì, raccontala a tua nonna!

L'ho già scritto altre volte, però voglio ripeterlo. Il 15 aprile, chi avrà un voto in più, o anche un milione di voti in più, tenterà di governare. Ma in poco tempo si renderà conto di non farcela da solo. A quel punto, si porrà il problema di un governo di salvezza nazionale, l'unico in grado di non lasciarci cadere nel baratro di un declino irreversibile.

Nei due blocchi qualcuno lo sta già chiedendo. Per esempio, il saggio sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, intervistato da Marco Damilano per 'L'espresso'. E non è l'unico a pensarla così dentro il Partito Democratico. Chi non parla, lo fa soltanto per convenienza elettorale. Persino chi rifiuta con asprezza qualsiasi ipotesi di grande coalizione, come Massimo D'Alema sull''Unità', dovrà arrendersi a un necessità via via più drammatica.

Ma i governi di tregua, di salvezza o di ricostruzione nazionale, funzionano soltanto se i due provvisori alleati non hanno un peso elettorale troppo squilibrato. Oggi tutti i sondaggi dicono che sarà il centro-destra a vincere. E qualcuno sostiene che sarà un successo a mani basse, un trionfo del Cavaliere. Ecco un'eventualità da scongiurare. Lo si può fare in un solo modo: votando il Partito Democratico, per renderlo meno debole o più forte.

Non avrei voluto scriverlo, perché il Bestiario non è, e non deve essere, il consigliori elettorale di nessuno. Per di più, come cittadino, ho parecchi dubbi sul PD. E ne vedo i tanti difetti. La presenza di un'oligarchia di vecchi capi ex-Ds ed ex-Margherita che si stanno facendo la forca, e soprattutto la fanno a Veltroni. La rinascita della correnti. La cucina segreta che sfornerà i candidati. Il permanere di un'intolleranza ringhiosa verso chi non accetta i miti e i tabù di una sinistra incapace di fare i conti con la propria storia.

Il PD di oggi è anche questa robetta o robaccia. E tuttavia guai se il governo di salvezza nazionale fosse come il Pasticcio alla Viennese. Era un piatto che Bettino Craxi evocava per spiegare il suo tentativo di non sottomettere il Psi a due colossi come la Dc e il Pci. Il pasticcio descritto da lui era fatto per quattro quinti di allodola socialista e per un quinto di cavallo democristiano o comunista. Dunque avrebbe sempre avuto un pessimo sapore equino. Dopo il 13 aprile chi sarà l'allodola e chi il cavallo? Ecco una domanda che è bene porsi.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA - Dove vai voto del nord?
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2008, 02:39:33 pm
Gianpaolo Pansa

Dove vai voto del nord?


Il Pd deve guardarsi dai facili entusiasmi. Per vincere le elezioni Veltroni deve sfondare in Veneto e Lombardia  Walter VeltroniHo un debito verso Pier Ferdinando Casini. Quando venni aggredito per un mio libro sulla guerra civile, fu il primo dei big politici (ben pochi, per la verità) che si spese in mia difesa. In quel caso mi resi conto un'altra volta che Casini era un tipo schietto: diceva come la pensava e faceva come la diceva. Oggi lo conferma la scelta di andare al voto da solo, con la sua Udc. Un gesto che rivela coraggio e orgoglio, anche se non so dove lo condurrà. Penso che vivrà giorni difficili. Gli altri piccoli gruppi cattolici (la Rosa Bianca e l'Udeur) stentano a trovare un accordo. A riprova che il virus della divisione corrode tutta la politica italiana.

Per questo mi domando che cosa accadrà se il listone di Silvio Berlusconi farà propri i cardini elettorali enunciati da Casini nel discorso di Mestre. Gli ho sentito dire quello che milioni di italiani si dicono in privato. Il principio di autorità da ripristinare, a cominciare dalla famiglia, dove oggi i genitori fanno 'i sindacalisti dei figli'. La sicurezza da riconquistare. Il ritorno del merito. La selezione nella scuola, con il numero chiuso in tutte le università. La necessità di ricette dure per l'Italia. La scomparsa delle province con la loro inutile burocrazia. La difesa della legge Biagi. La scelta per l'energia nucleare. I servizi pubblici locali da liberalizzare, e altro ancora.

Se il Cavaliere parlerà agli elettori come parla Casini, si troverà in sintonia con gran parte del paese. E il Popolo della Libertà potrebbe diventare una macchina schiacciasassi. Ecco perché l'esito del voto di aprile non è per niente scontato, in tutti i sensi. Anche Berlusconi dovrebbe essere più cauto nel dichiarare il proprio trionfo con tanto anticipo. Ma il Partito Democratico ha l'obbligo di guardarsi dall'euforia pericolosa che sta affiorando nel suo campo.

Ho visto troppe volte la sinistra giurare sulla vittoria e poi tornare a casa con le pive nel sacco. Volete due esempi? Nel giugno del 1976, il Pci di Enrico Berlinguer era convinto di fare il sorpasso sulla Dc di Benigno Zaccagnini. Allora lavoravo per il 'Corriere della sera' e scrissi una lunga inchiesta sui comunisti. Tutti erano sicuri di farcela. Deciso a dare il colpo di grazia alla Balena Bianca, re Enrico mi rilasciò un'intervista per dire che si sentiva più sicuro sotto l'ombrello della Nato che sotto il Patto di Varsavia, guidato dell'Urss. A urne aperte, Bettino Craxi mi rimproverò di aver fatto guadagnare mezzo milione di voti alle Botteghe Oscure. Ma il sorpasso non ci fu. Alla Camera, la Dc conquistò il 38,7 per cento dei voti contro il 34,4 del Pci. E al Senato il distacco fu ancora più forte, di cinque punti.

Nel marzo del 1994 accadde lo stesso con la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Il popolo di sinistra era certissimo di sconfiggere quel tizio delle televisioni, un certo Berlusconi. Dappertutto sentivo ripetere: vinciamo, vinciamo! Se osavo dissentire, mi replicavano: ma che cavolo dici, Pansa!, non vedi come siamo forti? Finì come sappiamo: con l'ingresso del Cavaliere a Palazzo Chigi e le dimissioni del povero Baffo di Ferro.

Mi auguro che Walter Veltroni sia più avveduto dei suoi antenati. Quando, nel primo comizio a Pescara, ha detto che il Partito Democratico "sta risalendo a una velocità impressionante" sono rimasto dubbioso. Poi ho capito come stanno le cose leggendo il giorno dopo, sull''Unità', l'intervista a Roberto Weber, sondaggista affidabile della Swg. La risalita, o rimonta che sia, per ora ha riportato il PD soltanto al livello dell'Ulivo alla Camera nel 2006: fra il 30 e il 31 per cento.

Weber ha aggiunto quello che tutti sanno: per vincere le elezioni, il Pd deve sfondare al centro dell'elettorato. E che la battaglia si deciderà nell'Italia del nord, "la zona più difficile da aggredire". A cominciare dalla Lombardia e dal Veneto. Dove finora, dice sempre il capo della Swg, "non si sono registrati spostamenti a favore di Veltroni". Ma è proprio su questo fronte che lasciano perplessi certe candidature decise o annunciate. Molti si chiedono se un Colaninno junior non sia soltanto una rondine incapace di fare primavera. O se Martina Mondadori convinca battaglioni di incerti a correre ai seggi.

Per di più, resta il dilemma se il Pd debba fare una campagna elettorale soffice o dura. Eppure in democrazia le campagne diventano subito durissime. Del resto, Antonio Di Pietro ha già sparato il primo siluro al Cavaliere: la sua Mediaset deve avere una sola rete tivù. Max D'Alema è partito sul ringhioso. Pierluigi Bersani ci spiega che le campagne sono anche 'contro' e non solo 'per'. Tuttavia lo stesso Bersani avverte: "Qualcosa si muove, ma il centro-destra ha un insediamento mostruoso". Attenti al pesce d'aprile, gente del PD.

(22 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Il miracolo dei balocchi
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 04:56:29 pm
Gianpaolo Pansa.

Il miracolo dei balocchi


Voglio essere brutale: a molti ragazzi di oggi lavorare non piace. La precarietà è diventata l'alibi per fare flanella  Un discorso di Walter VeltroniDa qualche giorno, Walter Veltroni si è convinto di farcela. Domenica 2 marzo ha detto a Pisa: "C'è un'aria nuova, vincere non è più una missione impossibile'. E lo stesso giorno a Prato: "Stiamo per realizzare la rimonta più incredibile della storia elettorale italiana". Vede giusto il leader del Partito Democratico? Non lo so. Ma è inevitabile che nei comizi parli così. Se non lo facesse, potrebbe andarsene subito a casa.

Il discorso di Veltroni diventa discutibile quando va oltre la convinzione della vittoria. E dice: "Se il Partito Democratico andrà al governo, l'Italia ritroverà la sua stagione d'oro, le speranze e l'euforia del miracolo economico degli anni Sessanta". Confesso d'essere rimasto colpito da questa profezia. E mi sono domandato quanti dei giovani che Walter cerca di portare dalla sua parte, sappiano com'è nato davvero quel boom e a che prezzo gli italiani di allora l'abbiano conquistato.

Sono abbastanza anziano per aver vissuto, da giovane, i miracolosi anni Sessanta. E so che fra i tanti motori del boom il più importante, quello decisivo, è stato il lavoro. Nel senso di voglia di faticare, di darci dentro, di rimboccarsi le maniche, di agguantare un mestiere e poi di passare a un altro, sempre sperando di guadagnare di più e di migliorare la propria condizione. E insieme di non essere schizzinosi, di prendere quel che c'era, sperando di poter scovare il lavoro fatto giusto per te.

Eravamo pronti a tutto, tranne che a fare le ligere, i malviventi. A questo ci spingeva anche l'etica famigliare. Molti dei nostri genitori, nati tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, erano cresciuti nella povertà e talvolta nella miseria. Mio padre aveva cominciato a lavorare a nove anni, dopo la terza elementare, come guardiano delle vacche. E mia madre, alla stessa età, faceva la piccinina da una sarta, imparando a cucire. M
i avevano aiutato a studiare, nella speranza che la mia vita fosse meno sacrificata. Il loro incitamento era riassunto in due parole: "Impara ad arrangiarti!". Ossia, datti da fare, non credere di poter campare sulle nostre spalle e appena puoi vattene da casa.

Le paghe erano basse. Nel 1960, da super-laureato, centodieci e lode, più la dignità di stampa, lavoravo a Milano alla biblioteca dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli. Il contratto era quello dei dipendenti del commercio e lo stipendio quasi uguale al salario delle commesse della Rinascente. Alla fine dell'anno, quando venni assunto come giornalista praticante alla 'Stampa', mi sembrò d'essere diventato ricco. Ma anche lì non si doveva aver paura di darci dentro. I giovani facevano 'la lunghetta': undici ore filate, a volte dodici, dalle due del pomeriggio all'una o due di notte.

Nel boom, la fatica non aveva protezioni. Nelle banche, se un'impiegata annunciava che si sarebbe sposata, veniva subito licenziata. All'inizio di una professione eravamo tutti precari e molto flessibili. I doveri venivano sempre prima dei diritti. E gli immigrati dal Mezzogiorno di diritti non ne avevano. A Torino erano accolti da cartelli che ho visto anch'io: 'Non si affitta ai meridionali'. In confronto a loro, mi sentivo un nababbo. Anche se non ero mai andato in vacanza, non possedevo una motoretta e meno che mai un'automobile. Per di più tremavo al cospetto del mio primo direttore, Giulio De Benedetti. Quando entrava nella sala della redazione, ci alzavamo tutti. E stavamo in piedi fino a quando lui ordinava: "Signori, seduti!".

Nel frattempo, l'economia tirava. E il boom esplodeva. Malgrado l'opposizione astiosa degli antenati di Veltroni, i comunisti di Togliatti, e dei socialisti di Nenni. La mamma del miracolo economico è stata la Dc. E il primo governo di centro-sinistra, quello Moro-Nenni, nacque soltanto nel dicembre 1963, quando il boom si era già incagliato in una congiuntura sfavorevole.Ma gli italiani seguitavano a faticare, a comprare frigoriferi, lavatrici e televisori, a scoprire le ferie e i viaggi in auto, a cercare alloggi decenti, con il bagno dove fare la doccia. Ah, la doccia! Da ragazzo non avevo mai potuto farla perché avevamo soltanto il cesso sulla ringhiera.

Veltroni può raccontare queste cose ai giovani che dovrebbero votare il PD? Temo di no. Voglio essere brutale: a molti ragazzi di oggi lavorare non piace. Intasano le università, abbandonando agli immigrati tanti mestieri indispensabili: infermiere, muratore, fabbro, idraulico, piastrellista, badante, elettricista e via elencando. La precarietà è diventata l'alibi per fare flanella. Strilliamo che tanti artigiani sono diventati ricchi, eppure ben pochi s'incamminano lungo questa strada faticosa. Tuttavia, nessun miracolo è gratis. Lo è soltanto quello del Paese dei Balocchi. Ma a che cosa serve un miracolo dei balocchi?

(07 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Quei sinistri così ingrati
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2008, 12:26:16 pm
Giampaolo Pansa

Quei sinistri così ingrati


Per due volte ha battuto Berlusconi e portato la sinistra al governo. Ma nel momento dell'addio Prodi è rimasto solo.

È crudele, ma vera, la vignetta di Emilio Giannelli sul 'Corriere della sera'. Il titolo dice: 'Prodi lascia: cerimonia d'addio'. Si vede il Professore che si affaccia da un sipario chiuso e saluta il pubblico di un teatro, dopo la decisione di abbandonare la politica italiana. Però il pubblico non c'è. La platea è vuota. E vuoti sono tutti i palchi. Il braccio di Prodi si leva al cospetto di un deserto.

Nessuno si è presentato a ricambiare il saluto e a dirgli grazie.

Non ci vuole una gran fantasia per immaginare chi avrebbe dovuto riempire il teatro. Le illustri chiappe che latitano sono quelle delle tante sinistre italiane: le riformiste, le democratiche, le cattoliche, le post-comuniste, le neo-comuniste, le socialiste, le ambientaliste, le radicali. Tutte si sono dimenticate di quanto devono al Prof. Senza di lui, non sarebbero mai arrivate al governo. E nessuno dei generali rossi, rosa, verdi, biancastri e tricolore, oggi potrebbe vantarsi di essere stato ministro, viceministro, sottosegretario, capo o sottocapo di un qualche staff governativo. Medaglie, non sempre al valore, da esibire nella baraonda elettorale.

I tipi sinistri non hanno memoria. E tanto meno sono capaci di gratitudine. Eppure il Prof li ha portati a Palazzo Chigi ben due volte. La prima fu nell'aprile 1996, dopo un antefatto del marzo 1995. Il 10 di quel mese, alla Sala Umberto di Roma, s'iniziò il contatto ravvicinato fra Prodi e i progressisti. Io c'ero e ricordo un teatro zeppo di reduci della Gioiosa Macchina da Guerra, sconfitta l'anno precedente da un tale di nome Berlusconi Silvio. Una platea lottizzata con cura. Una tetraggine quasi sovietica. Un cartello annunciante che lì si sarebbero sfornati temi e idee per 'il Polo democratico'.

Rammento un'arietta stizzosa, da apparati convinti di saper suonare il violino con i piedi. Per dirne una, il capo dei Verdi, Gianni Mattioli, sibilò a Prodi: "Caro professore, non dia per scontato il consenso ambientalista alla sua candidatura.". Volavano freccette al curaro, dove era facile leggere ammonimenti burbanzosi: stai attento, Prodi, non credere di far di testa tua, noi ne sappiamo più di te, noi c'eravamo quando tu ancora non c'eri! E i lanciatori di frecce si confidavano l'un l'altro: questo Prof è un male necessario, un alieno, un marziano, l'ultimo arrivato che ha la pretesa di spiegare a noi come si vincono le elezioni.


L'anno dopo, il 21 aprile 1996, grazie a Prodi il centro-sinistra le vinse. Maggioranza assoluta al Senato. Margine risicato alla Camera, un filo appeso agli umori di Rifondazione Comunista. Andò come s'era già capito alla Sala Umberto. Una prima crisi di governo nell'ottobre 1997. Una seconda, fatale, nell'ottobre 1998. Messo fuori gioco il Prof, la sinistra combinò soltanto disastri. Due governi D'Alema. Un governo Amato. E infine, nel 2001, un nuovo trionfo del Berlusca.

Passarono cinque anni e il Prof venne richiamato in servizio. Per la seconda volta, le sinistre lo pregarono di essere riportate al potere. E nell'aprile 2006 fece un altro miracolo. Ci riuscì per Santa Scarabola e malgrado il masochismo dei supplicanti. L'Unione, esempio fantozziano di coalizione fra incompatibili, cominciò a sgambettarlo subito, quando la campagna elettorale doveva ancora cominciare. Niente lista del Prof, per timore di renderlo troppo forte. Appena cinque parlamentari prodiani. L'Ulivo soltanto alla Camera, ma niente di simile al Senato. Un programma di 290 pagine, il maxi-progetto del nulla. Infine un'alleanza fra dieci partiti rissosi, capaci soltanto di dilaniarsi. E di far svanire i dieci punti di vantaggio sul Berlusca.

Il Prof provò a tenere in strada l'automobile dell'Unione: una vettura sfasciata, con pochissimo carburante (la maggioranza troppo esigua) e sempre al limite del collasso per i contrasti feroci fra i passeggeri. Anche questa volta andò come doveva andare. Adesso diciamo che è stato Clemente Mastella, il fellone, a far cadere il governo. Ma prima di lui, a tradire il patto con gli elettori sono stati gli altri partiti unionisti. Ecco i felloni al cubo, quelli che oggi lasciano vuoto il teatro dell'addio.

Certo, anche il Prof ha commesso qualche errore. Proprio lui, uomo di centro, ha pensato di poter tenere insieme le due sinistre, quella ragionevole e quella ultrà, divise dalla storia e dai rancori. E si è fidato troppo della propria capacità di mediare. Ma chiunque altro, al suo posto, sarebbe durato venti giorni e non venti mesi. Poi se n'è andato come gli suggeriva il Fattore D e non C: la dignità. Per questo nel teatro disegnato da Giannelli io c'ero, in ultima fila. Mi sono spellato le mani ad applaudire il Prof. E gli ho gridato: grazie!, manda tutti a quel paese e, prima dei nipoti, goditi la vita.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Paura di governare
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2008, 07:45:11 pm
Giampaolo Pansa

Paura di governare


La crisi fa 'tremare i polsi' a Berlusconi. E per il dopo voto l'unica strada è la Grande Coalizione. Altro che inciucio  Silvio BerlusconiNon l'avevo mai vista la pizza con lo sconto del 50 per cento. Mi è capitato di scoprirla nei manifesti di un ristorante in Toscana. Un avviso identico a quello dei saldi nei negozi. Solo che stavolta t'invitava a mangiare la pizza a prezzo dimezzato. Se non avessi già aperto gli occhi sull'Italia d'oggi, quel manifesto me li avrebbe spalancati. La crisi economica sta cominciando a mordere la vita di molti italiani. Lo vedo dalle trattorie vuote. Dai negozi poveri di clienti. Dai mercati rionali più affollati. E dalle rinunce sempre più pesanti di chi ha stipendi o pensioni ridotti all'osso.

Siamo un paese più povero di due o tre anni fa. Ecco la verità che finalmente entra con forza nella campagna elettorale. Stiamo discutendo all'infinito sul caso Ciarrapico o sulle figlie messe in lista al posto del padre. Ma nel frattempo si rovescia anche sull'Italia il disastro americano, con tante pessime sorprese in arrivo. Per la prima volta dal 1945, chi vincerà le elezioni si troverà alle prese con la paura di governare. Proprio così: i politici vittoriosi si sentiranno dei condannati a cinque anni di lavori forzati. E la poltronissima di Palazzo Chigi si rivelerà foderata di chiodi roventi.

Silvio Berlusconi mostra di averlo già capito. E l'ha confessato in pubblico, al forum di Cernobbio della Confcommercio. Ho visto su Sky la diretta tivù del suo intervento: il Cavaliere mi è sembrato molto diverso dal ganassa ridanciano di tante vignette. I satirici di sinistra possono pure continuare a sfotterlo. Ma intanto lui sorprende tutti dicendosi "angosciato" per gli obblighi che lo attendono, se vincerà. Bastano i rifiuti di Napoli per fargli ammettere che gli "tremano le vene dei polsi", nel pensare che se li vedrà scaricare sulla scrivania, come roba sua.

Lo stesso accadrà a Walter Veltroni, se toccherà a lui il peso del governo
. Il leader del Partito Democratico non dichiara la stessa angoscia di Berlusconi. Ma forse dipende dal fatto che lui crede di perdere. E sta affrontando una fatica immane per lanciare il PD più che per vincere la corsa alle urne. Il Cavaliere, invece, considera la possibile vittoria un mezzo disastro. In quel momento avrà finito le vacanze da oppositore. Certo, sarà riuscito a soddisfare la voglia di rivincita. Ma poi, a settantun anni suonati, si ritroverà alle prese con un mestiere che ha già fatto due volte, nel 1994 e nel 2001. Pesante, noioso, gonfio di stress e di grane irrisolvibili. Con l'eterna difficoltà di decidere, in un palazzo dove non esiste nessuna stanza dei bottoni.

C'è una pena del contrappasso per i potenti della politica italiana. I cittadini qualunque sono in allarme per quel che potrà accadere. Temono per il proprio lavoro, per i risparmi, per il treno di vita ancorché modesto. Ma il loro timore è una goccia che cade da tempo sull'ottimismo sfoggiato dalle classi dirigente e lo incrina ogni giorno di più. Tanto che i big dei partiti cominciano ad avere un terrore mai provato: quello di non saper fronteggiare la paura del paese e di non riuscire a tenerlo in piedi.

Per questo, la sera del 14 aprile non ci porterà nessuna sorpresa. Una volta accertato chi sia il vincitore, molti si diranno: Silvio o Walter non fa differenza. Il bello, o il brutto, verrà dopo. Quando entrambi i contendenti dovranno guardarsi in faccia e domandarsi: riusciremo a farcela da soli, uno al governo e l'altro all'opposizione? I lettori del Bestiario conoscono come la penso: dopo il voto, qualunque sia il risultato, sarà indispensabile e urgente un governo di salvezza nazionale, quello che siamo soliti chiamare una Grande Coalizione.

Ma oggi voglio dire una cosa in più.Se uno dei due blocchi rifiuterà di fare un accordo con l'altro, si renderà colpevole di tradire l'interesse dell'Italia. Non so se esista ancora il reato di alto tradimento, ma sarà questa l'accusa da rivolgere a chi pretenderà di non accordarsi con nessuno. Che cosa potrà fare un governo del Popolo della Libertà o del Partito Democratico quando la bufera della recessione americana calerà prepotente su Roma? Non voglio immaginare la sorte di Berlusconi e di Veltroni se anche in Italia salterà qualche banca. E migliaia di persone scopriranno di non poter riavere il denaro depositato.

In quel frangente terribile, risulterà grottesco il politico capace soltanto di gridare all'inciucio fra Silvio e Walter. Se è vero che i programmi dei due blocchi si assomigliano, tanto meglio. Sarà più facile trovare un'intesa. Dopo quel primo passo, si risolverà in fretta l'enigma di chi dovrà guidare il governo di salute pubblica. Sono convinto che il nome giusto uscirà. C'è solo da sperare che questo premier mai visto non venga azzoppato prima di metter piede dentro il cortile di Palazzo Chigi.

(21 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. - Contrordine compagni
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 07:15:37 pm
Giampaolo Pansa

Contrordine compagni


Torte in faccia. Accuse maligne. Comizi interrotti. Lanci di uova. Attacchi alle sedi. È la sinistra nevrotica  Francesco CarusoUna torta di panna no-global tirata in faccia a un capo no-global? Impossibile, dirà qualcuno. Invece è accaduto sabato 22 marzo a Venezia. Il colpito è Francesco Caruso, già deputato di Rifondazione e oggi ricandidato dalla Cosa Rossa in Veneto 2, ossia a Treviso, Belluno e Venezia. Il Caruso stava tenendo una conferenza stampa in un ristorante veneziano e spiegava perché i capi della Sinistra Arcobaleno l'avessero deportato tanto lontano dal suo Mezzogiorno. Aveva accanto il chiarissimo professor Nicola Tranfaglia, storico, comunista del partitino di Diliberto, anche lui rimesso in lista.

All'improvviso, è comparso un ragazzo in cappuccio nero che ha fatto partire il missile di panna montata. Un razzo di un chilo, forse uscito dall'arsenale di Luca Casarini, il capo-no global del Veneto che apprezza poco quel compagno del Sud. Risultato: colpito Caruso. E con lui la sacra barba di Tranfaglia.

Messo così, l'assalto pannoso sarebbe cosa da nulla, roba da tardo film comico. Ma vista nel famoso contesto che tanto piace ai pensatori della sinistra regressista, la faccenda acquista un valore ben più pregnante. E svela la paura di perdere che serpeggia nelle file dell'Arcobaleno Rosso, in braghe di tela per la polemica sul voto utile. La paura ha generato una nevrosi isterica. Rivolta non al blocco del famigerato Caimano Berlusca, bensì al Pidì del pacifico Veltroni.

Lo si è visto fin dall'inizio della campagna elettorale. E il primo a farne le spese è stato il giuslavorista Pietro Ichino: candidato di Walter e bestia nera dei regressisti per le sue opinioni sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e sulla legge Biagi, uno che vive da sei anni sotto scorta. Già alla fine di febbraio, i capi della Cosa rossa tiravano su di lui. Marco Rizzo è stato lapidario: "È un servo dei padroni". E Diliberto: "È uguale a Berlusconi". E madama Manuela Palermi: "È un vero talebano, un pazzo". E Franco Giordano, un tantino meno rozzo: "La candidatura di Ichino mostra la volontà di favorire una politica economica liberista".

Qualche giorno dopo, il ringhio dei Cosarossi & Affini è diventato bipartisan. Il 29 febbraio, a Torino, una squadraccia di antagonisti ha devastato la sede di Forza Italia, inondandola di liquame. Il 1 marzo a Livorno sono andati distrutti due gazebo della Lega, più le botte a un leghista. E prima ancora, sempre a Livorno, erano state devastate le sedi dei comitati elettorali di Altero Matteoli e di Guido Guastalla. Il 7 marzo a Genova i centri sociali hanno interrotto un comizio del leghista Mario Borghezio. Lo stesso giorno a Roma ha fatto la medesima fine un convegno di An sulla festa dell'Otto marzo all'Università della Sapienza. Qui è stato aggredito il direttore del 'Secolo d'Italia', Luciano Lanna. Il 12 marzo, sempre a Roma, i Centri sociali hanno invaso la sede nazionale del Pidì, il famoso loft di Veltroni, pretendendo la verità sui pestaggi della polizia durante il G8 del 2001 a Genova. Hanno lanciato fumogeni ed esposto uno striscione di scherno per Walter: 'Tortura al G8? Yes, we can!'.

Ve lo immaginate che cosa sarebbe successo se una squadra di anarchici o di trotzkisti avesse occupato le mitiche Botteghe Oscure del Pci, ai tempi di Berlinguer, ma anche a quelli di Occhetto? Io sì che me lo immagino. Ma oggi siamo diventati tutti dei fighetti pacifisti in guanti bianchi ed è fuori moda reagire. E così, sotto la pelle di una campagna in apparenza soft, si lasciano correre umori maligni, come se fossero innocue barzellette della vecchia 'Domenica del Corriere'. Dappertutto sprizzano rancori vecchi e nuovi, a inquinare un'aria già fetida.

Diliberto cede il proprio posto in lista a un operaio della Thyssen e il suo vecchio compagno Cossutta lo accusa: "Demagogia e plebeismo. O plebeismo demagogico, il che fa lo stesso". Sul 'manifesto', Vauro pubblica una vignetta infame contro Fiamma Nirenstein, candidata con Berlusconi. Fiamma è dipinta come un Frankenstein che inalbera la stella di Davide e il fascio littorio, ma pochi protestano.

Idem per le aggressioni a Giuliano Ferrara, in tour elettorale per la sua lista 'Pro Life', inseguito da torme di donne su di giri. E lo stesso accade per i lanci di uova contro gli uffici romani di 'Famiglia Cristiana' e di 'Avvenire', accusati nientemeno che di 'clericofascismo'.

Mi domando che cosa verrà lanciato, al posto delle uova, dai nevrotici del regressismo nel caso di una vittoria del Caimano. Ci vorrebbe, a sinistra, qualcuno capace di fermarli con il grido famoso di Giovannino Guareschi: 'Contrordine compagni!'. Ma, ahimè, oggi non vedo nessuno che ne abbia l'autorità. Se esiste, vorrei proprio conoscerlo. Per stringergli la mano. E dirgli: coraggio, pensaci tu, prima che sia troppo tardi.

(28 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. E se a Vincere fosse Walter?
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2008, 11:12:46 am
Gianpaolo Pansa

E se a Vincere fosse Walter?


Il leader del Pd ci crede. Ecco allora cosa lo attende dopo lo sbarco a Palazzo Chigi. Con un però...  Ne avevo sentito parlare, ma pensavo a una bufala. Poi ho dovuto ricredermi quando ho visto che era una promessa elettorale con tanto di certificato d'origine. Stava stampata sulla prima pagina dell''Unità'. E accanto a un Walter Veltroni sorridente, versione allegra del buon Garrone di 'Cuore', c'era scritto: "Costruiremo 700.000 case da affittare da 300 a 500 euro al mese. Con noi vince la famiglia".

Lì per lì sono rimasto perplesso. E subito dopo ho scoperto di essere un elettore infastidito dalla grancassa di questa campagna elettorale. So bene che, per vincere, si arriva a promettere di tutto. Ma adesso, a pochi giorni dal voto, il troppo sta stroppiando. I due primari candidati si rincorrono sul terreno delle sparate sensazionali. Il più fantasmagorico, un vero mago degli effetti speciali, rimane Silvio Berlusconi. La sua ultima trovata è di promettere una drastica riduzione dell'aliquota fiscale massima che verrà portata (dice S. B.) al 33 per cento. E come riuscirà in questo miracolo? Nel modo più banale: facendo pagare le tasse agli evasori.

Come tanti elettori, anch'io mi sento preso per i fondelli. E ogni giorno mi cresce la voglia di non andare a votare. Che cosa farò il 13 aprile non lo so, ho ancora qualche giorno per rifletterci. La verità è che sono incuriosito dal finale della gara. Una gara sempre più aperta. Tanto che Veltroni comincia a dire che a vincere può essere lui con il suo PD. Dieci giorni fa non lo diceva, oggi sì. Per di più, chi l'ha incontrato di recente racconta di averlo visto convintissimo di battere il Cavaliere.

Ma allora proviamo a immaginare Superwalter a Palazzo Chigi. Che cosa può succedere? Prima di tutto dovrà vincere subito un'altra guerra, persino più difficile di quella contro il Cavaliere. Parlo del braccio di ferro interno al Pd sulla composizione del governo. Veltroni ha promesso una squadra snella: appena dodici ministri e un numero ridotto di sottosegretari. Per un totale di eccellenze che non superi quota sessanta, vale a dire quasi la metà dello squadrone di Romano Prodi. Per di più, alcuni dei dodici ministri verranno dalla società civile (seconda promessa di Walter). Con una conseguenza fatale: una notte dei lunghi coltelli dentro il partito, dal momento che molte eminenze democratiche non si faranno tagliar fuori senza combattere sino all'ultima goccia di sangue.

Comunque, a vincere questo round sarà di sicuro Veltroni, perché il trionfo sull'odiato Caimano lo avrà reso più forte di Superman. Il bello, o il brutto, verrà dopo. Quando il nuovo premier dovrà aprire la pila di dossier che troverà sul tavolo, per decidere le prime mosse del governo. Come si usa dire, avrà soltanto l'imbarazzo della scelta. Proviamo a elencare, un po' a caso, ricordando gli impegni presi da lui in campagna elettorale.

Prima di tutto, la sconfitta della precarietà. Poi l'adeguamento all'inflazione di stipendi, salari e pensioni. Una lotta sempre più decisa all'evasione fiscale e alla corruzione ritornata dilagante. I rifiuti di Napoli. Il rebus di Alitalia e di Malpensa. Quello delle grandi infrastrutture, a cominciare dalla rogna suprema della Tav in val di Susa. Il rilancio dell'economia e dei consumi. Lo snellimento di Camera e Senato. La riduzione dei privilegi ai parlamentari. La riforma elettorale. La riforma della Rai. Le cinquemila leggi da abrogare. La guerra alla criminalità, per garantire un minimo di sicurezza ai cittadini. E a proposito di sicurezza, metterei nel conto anche un decisivo contenimento della violenza dentro e attorno i campi di calcio. Da attuare non con la sociologia, ma con le manette e il pugno duro sulle bande di ultrà e sui loro siti Internet, dove si incita alla guerriglia permanente.

Ecco una lista molto incompleta delle cose da fare. Che di proposito non cita quisquilie come le settecento mila case da costruire e poi affittare a poco prezzo. Se fossi Veltroni, ne sarei terrorizzato. Ma sono soltanto un giornalista e non un aspirante premier. Superwalter potrebbe rispondermi che la vittoria secca gli consentirà di governare per cinque anni. Un tempo sufficiente per realizzare la Grande Svolta che ha promesso all'Italia. Gli auguro di avere ragione. Però.

Già, c'è un però. Di che cosa si tratti lo vado spiegando da tempo nel Bestiario. Continuo a pensare che nessuno dei due blocchi oggi in gara sia in grado di farcela da solo. Perché la crisi italiana è ormai troppo grave per essere risolta senza un governo di salvezza nazionale, da far nascere con un accordo fra gli eserciti che per ora si combattono. Vedo che adesso lo stanno dicendo anche i giornali americani. Devo commentare? Non ci penso neppure. Fate il vostro gioco, Veltroni e Berlusconi. Ne riparleremo la sera del 14 aprile, giorno di santa Luidina Vergine.

(04 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Attenti alle pistole
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2008, 12:19:57 am
Gianpaolo Pansa

Attenti alle pistole


La caccia a Ferrara dei teppisti che vogliono tappargli la bocca è un brutto segnale. Anche per il dopo voto  Giuliano FerraraÈ diventata una maniacale caccia all'uomo la contestazione a Giuliano Ferrara. L'assalto di Bologna è stato appena una tappa nel percorso di guerra imposto al direttore del 'Foglio' e alla sua lista Aborto? No grazie. A Crema, fra rulli di tamburi e salve di fischietti, hanno bruciato in piazza un fantoccio che lo raffigurava. Le foto del rogo danno i brividi. Per l'odio che trasmettono. E per la ripugnanza che ispira il tizio con la torcia in mano, intento ad appiccare il fuoco. Un giovane aspirante boia che, se diventerà adulto, nel rivedersi in quelle immagini forse proverà vergogna di se stesso.

La caccia a Ferrara resterà il simbolo di questa campagna elettorale. E attesta che l'Italia è una democrazia dimezzata. Quando un cittadino che guida una lista non può parlare in piazza, o può farlo soltanto rischiando il pestaggio e se è protetto dalla polizia, non ci possono essere dubbi. La Repubblica nata nel 1946 non esiste più. Al suo posto si è insediata una repubblica falsa, senza più legge, senza autorità, senza dignità, che si regge su una Costituzione ridotta a carta straccia. Un mostro istituzionale dove chiunque può essere vittima di bande violente che decidano di tappargli la bocca. Per confiscargli il diritto numero uno: la libertà di opinione e di parola.

La posizione di Ferrara non mi piace. E non voterò la sua lista. Ma mi piacciono ancora meno i teppisti che lo aggrediscono. Anche perché sono tanti e per di più si muovono in un'area politica, la sinistra, che ci ha già regalato la stagione terribile del terrorismo. Ve lo ricordate il motto delle Brigate Rosse? Diceva: colpirne uno per educarne cento. Oggi si dà la caccia a Ferrara, ma domani si darà la caccia a qualcun altro. È già avvenuto e avverrà, stiamone certi.

Mi ha molto colpito un articolo di Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dal 'Corriere della sera' e intitolato 'L'invenzione dei mostri'. Galli della Loggia spiega che, demonizzando Ferrara, si è seguito "il copione abituale che in Italia caratterizza la discussione pubblica, sia che si parli di aborto o della Costituzione, di immigrazione o di storia del fascismo". Rendere mostruose la figura e le idee dell'avversario, mistificarle, proibirle, punirle con la violenza. È l'esperienza che ho fatto anch'io, per i miei libri sulla guerra civile. E non mi rallegra l'essere in buona compagnia. In questa campagna elettorale è toccato pure al giurista Pietro Ichino. Non appena il Partito Democratico lo ha candidato, ecco la replica folle della sinistra regressista: 'Servo dei padroni', 'Talebano pazzo'. E insieme agli insulti scagliati da membri del Parlamento, sono arrivate puntuali le minacce delle nuove Brigate Rosse.

Qualcuno dice: quando la competizione elettorale finirà, le acque si calmeranno. Ma io temo che non andrà così. La campana dei violenti continuerà a suonare, sempre più cupa e più forte. Se a vincere sarà Walter Veltroni, la sinistra regressista, messa nell'angolo, dovrà lasciare spazio all'antagonismo più ottuso, già oggi capace di vere e proprie campagne d'intimidazione, come s'è visto con Ferrara. Se vincerà Silvio Berlusconi, entrando per la terza volta a Palazzo Chigi, le stesse bande avranno un motivo in più per occupare le piazze contro il governo fascista del Caimano.

E se i risultati elettorali renderanno inevitabile una Grande Coalizione, preferisco non immaginare come le frange lunatiche delle tante sinistre reagiranno al Grande Inciucio dei Poteri Forti: versione moderna dello Stato Imperialista delle Multinazionali, il nemico numero uno per il brigatismo rosso. Le condizioni per innescare un incendio ci sono tutte. A cominciare dall'indifferenza che tanti media importanti mostrano di fronte ai segnali di pericolo che oggi si avvertono.

Per questo, non mi sembra azzardato lanciare un grido di allarme: attenti alle pistole! Che vuol dire: non chiudiamo gli occhi dinanzi al rischio di veder emergere un nuovo terrorismo. Se accadrà, non sarà un terrorismo nero, di destra, bensì rosso, di sinistra. Quest'ultimo ha una sua struttura ombra molto resistente, che si nasconde nelle anse buie dell'antagonismo. Non penso affatto che tutti i contestatori dei tanti e diversi centri sociali siano pronti a impugnare le armi. Ma è da quell'area che può arrivare il pericolo.

Del resto, è una storia che conosciamo. E che io ho visto e raccontato negli anni Settanta e Ottanta. Allora, dal grembo dei movimenti e dei partitini ultrà, uscirono delle minoranze che dapprima cominciarono a fabbricare mostri e poi passarono a ucciderli. E anche allora molti politici, molti opinionisti e molti giornali decisero di non vedere e di non capire. Vogliamo ripetere quell'esperienza? E regalarci una nuova stagione di paura e di sangue?

(11 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Il complesso dei peggiori
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 10:00:50 am
Giampaolo Pansa

Il complesso dei peggiori


L'Italia sta diventando la terra promessa di molti criminali stranieri che arrivano qui perché non pagano dazio  Roma può diventare la Caporetto del Pidì. Se Francesco Rutelli perde e Gianni Alemanno vince, la faccenda si farà spessa per tutto lo stato maggiore del Partito Democratico, e in primis per Walter Veltroni. Una sconfitta anche nella capitale provocherà un disagio sempre più profondo nella base elettorale del Pidì. E spingerà il vertice del partito a una brutale resa dei conti interna.

Se accadrà, bisogna augurarsi che l'eventuale seconda batosta costringa tutto il Pidì a riflettere su come è fatta l'Italia di oggi. Dopo la prima legnata del 13 aprile questa riflessione ha stentato ad avviarsi. Me ne sono reso conto da un piccolo fatto. La sera di martedì 15 aprile, a scrutinio dei voti già completo, mi sono trovato a 'Porta a Porta', seduto accanto a due eccellenze democratiche, Rosy Bindi e Livia Turco. Avevano di fronte due dei vincitori, Franco Frattini e Ignazio La Russa. Si parlava di sicurezza, uno dei terreni della sconfitta per il Pidì. Eppure Bindi e Turco si ostinavano a cadere nell'errore di sempre. Accusando il centro-destra di speculare sulla paura della gente, quasi che l'insicurezza di molti elettori fosse un'invenzione della propaganda avversaria. Ho cercato di spiegare alle due signore che stavano perdendo le elezioni per la seconda volta. Ma ho avuto l'impressione che fossero parole al vento.

A quel punto mi è tornato alla mente un bel libro di Luca Ricolfi, uscito qualche anno fa e dedicato alla sinistra italiana. Ricolfi spiegava l'antipatia che suscitano le tante sinistre con il 'complesso dei migliori' che le affligge. Ossia con la loro convinzione di essere il meglio fico del bigoncio. E di aver sempre ragione, anche a costo di cantonate fenomenali. A 'Porta a Porta', invece, ho visto in azione il complesso dei peggiori. Ovvero la maledetta abitudine di non far tesoro di nessuna lezione e di cadere di continuo negli stessi errori.


Nella battaglia per il Campidoglio il complesso dei peggiori si è manifestato di nuovo. In tutti i dibattiti, il centro-sinistra ha dato mostra di non aver compreso una verità: il problema della sicurezza è soltanto uno degli aspetti di una questione assai più vasta. È quella del ripristino di un'autorità democratica, fondata sul rispetto della legge e sulla punizione certa di chi la infrange.

Se questa autorità non viene affermata con forza, nessun provvedimento per la sicurezza avrà effetto. L'Italia resterà un paese dove chiunque, italiano o straniero che sia, può farla franca. Continuando a delinquere con la certezza quasi assoluta di non essere punito. Vengono arrestati clandestini già espulsi quattro o cinque volte, ma che sono rimasti qui a far danni. Quei pochi che finiscono in manette spesso sono rimessi in libertà, senza che nessuno ci spieghi il perché.

Nella mia città d'origine, Casale Monferrato, la polizia ha catturato una banda di quattro zingare slave, fornite di arnesi per scassinare. Ebbene, l'esame delle impronte digitali ha rivelato che erano già state fermate in diverse parti dell'Italia del nord. Una per ben ottantotto volte, un'altra per settantasette, una terza per quarantotto, mentre la quarta, una principiante, era incappata nella polizia già in sette casi.

Abbiamo bisogno di diventare un paese severo con tutti, e per primi con noi stessi. Ecco una verità che la politica deve imporre. E che i magistrati debbono affermare con un rigore che oggi si vede poco. In caso contrario, il complesso dei peggiori ci contagerà sino al midollo. Già oggi siamo su questa china pericolosa. L'Italia sta diventando la terra promessa di molti criminali stranieri, sia comunitari che extra. Arrivano da noi perché siamo una società di pastafrolla, dove tutto è lecito e il dazio non si paga.
E visto che i romeni sono di moda, ormai anche le pietre sanno come mai sono diventati i protagonisti della cronaca nera. In Romania, il governo ha stretto i freni con una durezza prima sconosciuta. E così i delinquenti di quel paese si stanno trasferendo in Italia, sicuri di potersi muovere con tranquillità, visto che le manette vengono sempre promesse, ma scattano poche volte e per poco tempo.

Adesso abbiamo eletto un governo di centro-destra che garantisce rigore, severità, leggi dure, forze dell'ordine più numerose e sempre in campo. Se il cavalier Berlusconi farà per davvero quello che va promettendo, come si muoverà l'opposizione di centro-sinistra? Insisterà nel dire che i berluscones speculano sulla paura della gente? Voglio proprio vederli all'opera, Veltroni & C. Nella speranza che non siano tanto sciocchi da scavarsi la fossa da soli, come ha già fatto la sinistra regressista. Una compagnia di suicidi, quella guidata dal Parolaio Rosso, che i riformisti dovrebbero smettere di rimpiangere.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Suicidio numero 2
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 03:59:43 pm
Giampaolo Pansa.

Suicidio numero 2


Troppa arroganza, troppa disinvoltura, troppa fiducia nella faccia da bel ragazzo stagionato. E il tutto al limite della trombonaggine  La marea nera. La marcia su Roma. Il marcio su Roma. La notte su Roma. All'armi, son fascisti! Tornano quelli di Salò. La democrazia è a rischio. Ci vogliono togliere la libertà. Hanno inventato lo stupro della ragazza del Lesotho. Alemanno? No, Lupomanno. Il genero di Pino Rauti, il capo di Ordine Nuovo. Il nero con la croce celtica. L'ex picchiatore. Salviamo la capitale antifascista. Salviamo il 25 aprile. E avanti così, fino al contorto grido di dolore dell''Unità', la domenica del ballottaggio: "Se vince Alemanno, passa con lui un vento furioso di destra che abbatte limiti e moderazioni e qualunque incentivo a trattenere impeti, eccessi, smottamenti pericolosi del pezzo di terreno democratico su cui siamo accampati tutti".

Così il centro-sinistra urlava e scriveva, nell'illusione di sottrarre il Campidoglio a Gianni Alemanno. Il guaio è che, proprio su quel pezzo di terreno democratico, gli accampati del Pidì hanno reso più fosco il dramma elettorale sparandosi un secondo colpo alla nuca. È possibile suicidarsi due volte, per di più nel giro di quindici giorni? Per il Pidì sembra di sì. Il suicidio numero 1 ha la data della sconfitta nelle elezioni per il Parlamento, subita da Silvio il Caimano che a sinistra davano per morto e sepolto. Il suicidio numero 2 sta nei titoli dei giornali sulla battaglia di Roma. E ci vorrà qualche anno prima che questo colpo di pistola sia assorbito e dimenticato.

Nel frattempo, il caso romano verrà sezionato e studiato nei primari laboratori di politologia. Ma l'italiano medio ha già capito tutto. La prima cosa che ha compreso è l'antefatto del dramma: Francesco Rutelli non aveva nessuna voglia di fare il candidato sindaco. Era già stato in Campidoglio per due mandati e, visto il rango di vice premier, sperava in un avvenire radioso. Ma i capi del Pidì, a cominciare da Walter Veltroni e da Massimo D'Alema, hanno deciso di fargli portare di nuovo la croce. E Rutelli non è riuscito a scansarla.


Ecco la causa principale della sconfitta romana. Ricordiamo la successione dei sindaci dal 1993: Rutelli, poi Rutelli, poi Veltroni, poi Veltroni, poi ancora Rutelli da candidato. Come non pensare: ecco i soliti noti al potere? Se qualche anima malvagia, annidata nel loft veltroniano, avesse deciso di ottenere un tragico Effetto Casta, non avrebbe potuto fare di meglio. Chi è stato il Maligno, il Corvo, la Quinta Colonna della Marea Nera? Ai posteri l'ardua sentenza.

Dopo la legnata romana, Rutelli ha strillato: "I compagni del Pidì mi hanno lasciato solo!". È possibile, ma anche lui ci ha messo del suo. Troppa arroganza, troppa disinvoltura, troppa fiducia nella faccia da bel ragazzo stagionato. E il tutto al limite della trombonaggine. Nel dibattito tivù a 'Ballarò', ha commesso una smarronata fatale: quella di rivolgersi ad Alemanno appellandolo "Tesoro, tesoro mio!". Per di più con il tono del capufficio che striglia una segretaria restia a capire che cosa pretenda il principale.

In quel momento ho pensato: "Cicciobello è destinato a perdere". Come succede quasi sempre a quelli arcisicuri di sé e che cercano di trafiggere gli avversari con il ridicolo. Ma oggi, insieme a Rutelli, affoga sotto le risate tanta altra gente. Ad annaspare tra i marosi del grottesco vedo per prima la sinistra regressista, quella dell'ex-Parolaio Rosso. Era convinta di trovare in Campidoglio una rivincita immediata. Invece si è scoperta di nuovo al tappeto. Adesso cercherà di aggrapparsi alla vittoria di Vicenza o di Massa Carrara. Già, proprio a Roma dicono: "Consolati con l'aglietto!".

Sconfitti insieme a Rutelli sono anche i media troppo schierati con la Casta rossa. Pure loro hanno preso un abbaglio fenomenale. Avevano già mostrato di non conoscere l'Italia del 2008. E hanno subito toppato di nuovo su Roma. Oggi piangono, strillando al fascismo che ritorna. Ma farebbero meglio a rivedere certe trasmissioni della Rai e a rileggersi il diluvio di titoli e di articoli sullo scontro per il Campidoglio: una vana barriera cartacea che, prima di tutto, è stata un pessimo servizio ai loro lettori. Come succede sempre quando l'informazione si degrada a propaganda.

Adesso non resta che aspettare il possibile contraccolpo dentro il vertice del Pidì. Il Bestiario si augura che non ci sia. Sarebbe il suicidio numero 3. Ma anche un inizio di disordine metterebbe nei guai grossi un partito appena nato. Mi viene in mente l'urlo rabbioso di mia nonna Caterina Zaffiro, classe 1869, quando scopriva che noi ragazzi stavamo mettendo a soqquadro l'alloggio: "Basta con questa Balcania!". La Balcania erano i Balcani, sempre nel caos prima dell'arrivo del maresciallo Tito. Sì, attenti alla Balcania, amici del Pidì. Anche perché nessun maresciallo provvederà a salvarvi.

(02 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Quando Togliatti disse basta
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2008, 03:03:06 pm
Quando Togliatti disse basta

di Giampaolo Pansa


Esce 'I tre inverni della paura', il nuovo romanzo storico di Giampaolo Pansa. Ambientato nel 'triangolo della morte'. Una storia d'amore e centinaia di delitti. Ne pubblichiamo un capitolo  Palmiro TogliattiTogliatti si preparò con cura alla missione reggiana. Mise nella cartella due documenti pericolosi per i compagni di Reggio. Il primo era un rapporto del 20 agosto 1946, inviato dal prefetto Potito Chieffo al ministero dell'Interno. Il secondo, del 7 settembre, era la relazione stesa da un ispettore dello stesso ministero, inviato a Reggio Emilia da De Gasperi, subito dopo l'uccisione del sindaco di Casalgrande.

Quest'ultima informativa rivelava una serie di circostanze che si riscontravano in quasi tutti i delitti del dopoguerra nel Reggiano. Erano stati sempre compiuti di sera, quando il buio copriva agguati, sparatorie, sequestri e omicidi. Gli assassini agivano in gruppi di tre o quattro persone. Le armi usate erano rivoltelle e mitra, mai fucili. La vittima veniva raggiunta e colpita in casa o nelle immediate vicinanze dell'abitazione. Ogni volta, gli assassini si presentavano mascherati, con fazzoletti rossi o neri. Era una descrizione perfetta degli Squadroni della morte. Infine, a proposito del delitto Farri, il fascicolo puntava il dito contro una banda di partigiani rossi, ormai identificata.

A rendere più inquieto il Migliore c'erano infine le conseguenze dell'omicidio di don Pessina. La ronda comunista a San Martino in Piccolo aveva ucciso il prete alle ore 22 del 18 giugno 1946. E l'amnistia varata da Togliatti quattro giorni dopo comprendeva tutti i delitti politici compiuti sino alle ore 24 del 18 giugno. A Reggio qualcuno aveva subito osservato che i termini di quel provvedimento di clemenza erano stati studiati apposta per mettere al sicuro gli assassini del parroco.

Tutto questo avrebbe già dovuto bastare. Ma agli occhi di Togliatti, l'effetto più pernicioso di quel delitto era un altro. La morte di don Pessina aveva scatenato l'ira del nuovo vescovo di Reggio. E il partito si era accorto subito di avere in monsignor Socche l'avversario più deciso. L'avevano capito per primi i compagni di Cesena, la diocesi di provenienza del prelato. (...)


Togliatti arrivò a Reggio Emilia nella tarda mattinata di lunedì 23 settembre 1946. E si recò a casa del sindaco Campioli che si era offerto di ospitarlo. Qui gli portarono i giornali emiliani e lui cominciò subito a sfogliarli.

Il leader del Pci considerava molto importante la carta stampata, l'unico media efficace allora esistente. Si occupava dell''Unità', il quotidiano del partito, con una cura costante, quasi maniacale. Però leggeva con altrettanta attenzione i fogli avversari. La propaganda comunista li considerava cartaccia. Ma non era questa l'opinione del Migliore.

Tra i giornali che gli portarono a casa di Campioli, trovò di certo gli ultimi numeri della 'Nuova Penna'. Quello di luglio e i due di agosto. Togliatti si rese conto che non era per niente 'un libello sedicente indipendente'. A bollarlo così era stato il prefetto Chieffo, spesso attaccato dal giornale di Eugenio e di Giorgio che lo ritenevano troppo tenero verso i comunisti.

Togliatti considerò accigliato le prime notizie sulle fosse clandestine scoperte in provincia. E gli ci volle poco per fare due più due. L'omicidio di don Pessina, il delitto Farri, l'emergere delle sepolture segrete, la guerra scatenata dal vescovo Socche, le velleità rivoluzionarie del vertice comunista reggiano e l'esistenza di incontrollabili nuclei di killer rossi: ecco un ginepraio di quelli rognosi. Zeppo di faccende molto pericolose. E foriere di guai anche più pesanti. Dunque s'imponeva un repulisti duro, molto duro.

La purga venne annunciata nell'incontro più importante delle tre giornate reggiane di Togliatti. Si tenne la sera dello stesso lunedì, sempre nell'abitazione di Campioli. Il peso di quel vertice era testimoniato dall'elenco dei dirigenti che il leader del Pci aveva deciso di convocare e di strigliare.

Venivano dalle tre province dove la seconda guerra civile era la più sanguinosa. Oltre a Campioli, c'era il sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza. E quello di Modena, Alfeo Corassori. Insieme a loro tre dirigenti della federazione reggiana. Il primo era Nizzoli, il segretario fuori di testa. Insieme a lui, il Migliore aveva voluto incontrare Osvaldo Salvarani e Riccardo Cocconi. Quest'ultimo era un comandante partigiano garibaldino che aveva inutilmente tentato di far accettare da Nizzoli un documento di condanna del delitto Mirotti.

Qualcuno si aspettava di veder arrivare anche l'altro padrone di Reggio: il compagno Didimo Ferrari. Ma per il leader comunista, Eros era soltanto il presidente dell'Anpi, dunque un signor Nessuno o quasi. E non si curò di convocarlo.

Togliatti aveva sotto gli occhi il bilancio sanguinoso del dopoguerra in quelle tre province. Si trattava di un conto ancora parziale, per due motivi. Il primo era che l'epoca dei killer trionfanti non poteva dirsi conclusa. Il secondo era che nemmeno il vertice del Pci conosceva con esattezza le dimensioni delle mattanze compiute dopo la liberazione.

Tuttavia, anche i rendiconti incompleti apparivano terrificanti. A Bologna e nella sua provincia risultavano uccise almeno 770 persone. A Modena e nel suo territorio gli assassinati erano 890. A Reggio, infine, le vittime della seconda guerra civile erano 560, e forse di più. In totale i cristiani accoppati risultavano 2.220, secondo un calcolo prudente e parziale.

Nel settembre 1946 Togliatti aveva cinquantatré anni, sempre vissuti perigliosamente, soprattutto nella fase dei grandi processi staliniani. In quell'epoca di terrore, Togliatti viveva a Mosca, all'Hotel Lux. E non aveva battuto ciglio neppure quando la polizia segreta sovietica si era portata via suo cognato, Paolo Robotti, e tanti altri comunisti italiani. Tutti compagni poi fatti uccidere da Stalin o mandati a morire nei gulag. Robotti era uno dei pochi a essersi salvato.

Sotto la sferza staliniana, il Migliore aveva apprezzato l'importanza del cinismo e della durezza d'animo. Due doti che non gli facevano difetto. E che lo avevano aiutato a superare prove assai più aspre di quella riunione in provincia. Un incontro che lui risolse alla sua maniera: con rapidità e freddezza.

Del vertice a casa Campioli non si seppe quasi nulla. Nessun verbale venne steso. O se ci fu, è sempre stato tenuto segreto. Come segrete rimasero le testimonianze dei presenti nell'alloggio del sindaco di Reggio. Ma è facile immaginare che cosa disse Togliatti, con la sua voce chioccia e il tono gelido del professore che annuncia agli allievi una bocciatura in blocco.

Il primo ordine che impartì fu di smetterla di uccidere. Nessuno dei delitti commessi nelle tre province emiliane era utile al partito. E meno che mai alla rivoluzione, per chi ci credeva. Poi censurò in modo pesante l'operato della federazione di Reggio e della sua struttura periferica. Nell'ipotesi meno grave, non avevano saputo impedire i delitti. In quella più grave, li avevano ordinati e coperti.

Dunque, il Pci reggiano si era macchiato di due colpe pesanti: un'insufficienza assoluta nella vigilanza e una stupidità politica che non ammetteva scuse. Le conseguenze erano inevitabili. Il vertice del partito reggiano doveva essere rimosso. A cominciare dal segretario della federazione. Il repulisti avrebbe avuto una cadenza lenta, per non offrire pretesti alla polemica degli avversari. Ma ci sarebbe stato, entro la fine di quell'anno o al più tardi all'inizio del 1947.

Nizzoli capì che la sua sedia aveva iniziato a scricchiolare. Però accettò le critiche di Togliatti senza reagire. Mantenne la stessa espressione impassibile, quando il segretario del Pci lo censurò in modo aspro, sia pure senza nominarlo. Accadde due giorni dopo, alla Conferenza di organizzazione del partito reggiano.

Il Migliore accusò Nizzoli e compagni di aver creato una condizione di disordine insostenibile. I risultati elettorali e del tesseramento attenuavano soltanto di poco il danno politico e d'immagine per il partito. Poi concluse, gelido: "È più facile dirigere un'unità partigiana in combattimento che non una grande federazione di quaranta o cinquantamila iscritti".

Gli effetti della visita reggiana di Togliatti si fecero subito vedere. Gli Squadroni della morte smisero di sparare. E di delitti eccellenti non ne vennero più commessi. Eppure anche questa tregua improvvisa andò a discredito del partito. Infatti apparve a molti un'ammissione di colpa.

(16 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Napoli non c'è più
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 04:47:44 pm
Napoli non c'è più

Giampaolo Pansa


Una landa dove mancano il senso della comunità, istituzioni efficienti e stimate, una classe politica capace, un'autorità in grado di mettere ordine  Cassonetti dati alle fiamme a NapoliMi è rimasto nella memoria il volto di Silvio Berlusconi il giorno del giuramento al Quirinale. Di solito il Cavaliere sorride pimpante e sicuro di sé. In quel caso, invece, mostrava una faccia accigliata, coperta da un velo grigio. Ho pensato che, dopo il trionfo elettorale, si trovasse alle prese con una realtà più forte del suo carattere: la terribile difficoltà del compito che lo aspettava. E la mole di impegni che avrebbe scoperto sulla scrivania di Palazzo Chigi. Una quantità di problemi da affrontare subito e in grado di spaventare chiunque.

Nella primavera del 2006, quando nacque sul filo del rasoio il governo di Romano Prodi, si scrisse che il Professore avrebbe dovuto confidare soprattutto nella sua buona stella. Era il famoso Fattore C, un dono fortunato della natura, che lo aveva sempre assistito. E così è stato per un anno e mezzo. Ma dopo la caduta del centro-sinistra, il Fattore C non è più tornato in servizio. Né a vantaggio di Walter Veltroni, che infatti ha perso le elezioni. Né tanto meno a favore del Cavaliere, che si trova a governare nelle condizioni peggiori. Subito sopraffatto da due difficoltà colossali: l'immigrazione clandestina e la catastrofe dei rifiuti a Napoli.

Mentre scrivo non so come si concluderà la riunione del Consiglio dei ministri nella capitale della Campania, circondato da cortei di protesta, in un clima da guerra civile. Tuttavia azzardo una previsione: prima o poi (più poi che prima) Napoli verrà liberata dalla spazzatura che la soffoca. Ma una volta spariti i rifiuti, si scoprirà che Napoli non c'è più, si è perduta, è scomparsa dentro un abisso buio dove sarà impossibile rintracciarla.

Al suo posto oggi c'è una landa dove manca tutto ciò che distingue una metropoli moderna: il senso della comunità solidale, la presenza di istituzioni efficienti e stimate, una classe politica capace di far fronte ai propri doveri e, infine, un'autorità in grado di mettere ordine in un caos di spinte contrapposte divenuto via via sempre più orrendo. Nel buco nero che ha preso il posto di Napoli vediamo s
oltanto un inferno civile, ben più pericoloso del potere criminale della camorra. Tanto da far dire al capo della polizia Antonio Manganelli: "Sono terrorizzato". E al prefetto Alessando Pansa: "Abbiamo di fronte un fenomeno imprevedibile che atterrisce".

Tra i milioni di parole stampate su Napoli, quelle più vere le ha scritte un politico partenopeo della Prima Repubblica, molto discusso, ma sempre acuto: Paolo Cirino Pomicino. Lunedì 19 maggio, sul 'Giornale', ha dipinto con schiettezza il male profondo della città, la ragione prima del suo disastro: l'assenza di guida politica. Di quell'analisi farò una sola citazione: "A Napoli è fuggita da tempo l'intera politica e la città non ha più una classe dirigente in grado di farsi riconoscere dall'intera popolazione come un interlocutore affidabile. Nelle ultime elezioni Napoli ha mandato in Parlamento trentadue deputati e sedici senatori, ma il loro complessivo silenzio è assordante. La città è smarrita, non vede più un solo volto al quale affidare le proprie speranze, vive alla giornata, violentata dai rifiuti e dai soprusi di ogni genere, dall'insicurezza e dalla paura".

Le stesse cose dice Antonio Bassolino, antagonista di Pomicino. L'inamovibile governatore della Campania si è incontrato con Berlusconi a Palazzo Chigi e gli ha garantito sostegno. Secondo Fabio Martini della 'Stampa', ha spiegato al Cavaliere: "Destabilizzare Napoli sarebbe una bomba incontrollabile per l'Italia". Per la verità Napoli è ormai al di là della stabilità e forse la bomba è già scoppiata. Tuttavia il senso di quell'incontro è positivo.

L'ho già scritto e lo ripeto: l'assoluta gravità dei problemi italiani esclude le contrapposizioni violente fra maggioranza e opposizione. Sputacchiare ogni giorno Berlusconi il Caimano non serve a niente. Anzi, rende più profonda la cancrena che minaccia di divorarci tutti.Bisogna trovare subito un'intesa nazionale, come avvenne quando si dovette far fronte al terrorismo delle Brigate Rosse. E occorre ripristinare un'autorità comune, prima che il ribellismo si estenda ad altre metropoli italiane. Penso a una città lontanissima da Napoli, in tutti i sensi. È Torino, dove il sabato sera, in pieno centro, centinaia di giovani sfidano i vigili urbani e i carabinieri a colpi di bottiglia.

Nel frattempo, l'intellighenzia di sinistra si esibisce su giornali e tivù a urlacchiare contro il Caimano. Vengono spremute le meningi per inventare qualche sberleffo nuovo. L'ultimo è il Caimaleonte, "sempre con i denti aguzzi ma con la pelle cangiante, per adattarsi a ogni situazione". Coraggio, amici e compagni: chissà che la satira di Raitre non vi ingaggi per una marchetta. Gratuita, naturalmente.

(23 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Bertolaso deve vincere
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 04:54:59 pm
Gianpaolo Pansa

Bertolaso deve vincere


Una sconfitta a Napoli sarebbe la fine del governo Berlusconi e segnerebbe la vittoria del potere criminale  Guido Bertolaso, il sottosegretario ai rifiuti, può vincere o perdere la guerra in Campania. Il Bestiario gli augura di vincere, però non può escludere che l'esito della battaglia sia la sconfitta. Ma se Bertolaso perde, che cosa accadrà? Non è difficile immaginarlo. Per cominciare, a uscire con le ossa rotte sarà il governo di centro-destra. L'immagine di un Silvio Berlusconi decisionista andrà in pezzi. Benché dotato di una larga maggioranza, il Cavaliere avrà vita dura in Parlamento e sui media. Sembrerà un cane che affoga e le opposizioni lo bastoneranno.

È augurabile che questo avvenga? Io penso di no. L'Italia resterà senza guida. Nessuna scelta (pensiamo al nucleare) potrà essere fatta. E forse il governo cadrà proprio mentre il paese è afflitto da mille guai che hanno bisogno di cure immediate. A quel punto, si terranno nuove elezioni e il centro-destra tornerà a vincere con un margine ancora più ampio. Il perché è chiaro: gli elettori del Centro-nord, disgustati per quel che è accaduto a Napoli, voteranno in modo massiccio per un altro governo di centro-destra. Guidato da un leader ritenuto più duro del Cavaliere e con un programma ben più ferreo. Allora sì che vedremo il trionfo dell'Uomo Forte, con tutte le conseguenze del caso.

Il secondo sconfitto sarà il Partito Democratico. Agli occhi dei suoi elettori, risulterà insopportabile il contrasto fra un D'Alema che per Napoli predica la mano dolce e un Veltroni che, sia pure in modo volpino, si dice d'accordo con la mano dura. La sinistra riformista si ritroverà con meno parlamentari di oggi. E forse si spaccherà. Senza nessun vantaggio per la sinistra antagonista che seguiterà a restare fuori dalle Camere.

Passiamo ai vincitori. Il primo risulterà la camorra. La sconfitta di Bertolaso sarà l'apoteosi del potere criminale in Campania. I camorristi decideranno quali discariche aprire e dove. E in che modo lucrare sempre di più sul traffico dei rifiuti. Per far rispettare la loro legge, i camorristi non avranno bisogno della polizia o dell'esercito. Faranno tutto da soli, rafforzando un dominio illegale con le armi. E ammazzando chi osa ribellarsi.


La camorra si imporrà anche alle bande antagoniste che sono già arrivate a Napoli nell'illusione di vincere. Alla protesta delle popolazioni si sta sovrapponendo un magma confuso di centri sociali, di no-global, di No Tav, di No Dal Molin, insieme agli irregolari delle frange più lunatiche e violente. A Napoli si è stabilito persino un anziano reduce di Autonomia Operaia: Oreste Scalzone, un nonnetto in marcia con cappellaccio e zaino sulle spalle.

Sono le avanguardie di un ribellismo sempre più diffuso dappertutto nel paese. Mandare al tappeto Bertolaso, ossia Berlusconi, rappresenterà il loro D-Day, il loro sbarco in Normandia. E l'inizio di una guerriglia più vasta. Potranno gridare alla vittoria della sovversione, anche se diventeranno succubi della camorra.

Tra vincitori e vinti emergerà il dramma di Napoli e di altri centri campani, sempre più soffocati da montagne di spazzatura che nessuno riuscirà a smaltire. L'estate aprirà le porte di un inferno che oggi non sappiamo immaginare. Anche se è una storia che, in parte, abbiamo già visto. Sul finire dell'agosto 1973, all'epoca del quarto governo Rumor, il colera si diffuse a Napoli, quindi a Bari e in altri centri del Mezzogiorno, per poi sbarcare in Sardegna. I morti furono una trentina. Pochi, in fondo, se si tiene conto del degrado igienico-sanitario di molte città del Sud.

Il 7 settembre arrivò a Napoli il presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Lo portarono in ospedale a visitare i colerosi. Ricordo che Leone procedeva rapido per le corsie, intabarrato in un camicione da chirurgo. E nascondendo dietro la schiena la mano destra che faceva le corna. A chi toccherà fare gli scongiuri se a Napoli, nel 2008, accadrà qualcosa di simile o di più grave? Al presidente Giorgio Napolitano?

Auguriamoci di no. Tuttavia a Napoli e dintorni va in scenauna farsa tragica

che, nei movimenti scomposti dei suoi attori, riassume l'intero disastro italiano. Ormai è chiaro: siamo una nazione dove l'autorità democratica è scomparsa. E dove intere regioni, per colpa del loro ceto politico, non hanno saputo prepararsi a un futuro che è già qui. Ce lo dice un dato spesso ignorato: la distribuzione geografica dei termovalorizzatori, indispensabili per non morire di spazzatura.

In Italia sono 52. Di questi, 12 stanno in Lombardia, 9 in Emilia-Romagna, 8 in Toscana, 6 in Veneto, 5 fra il Trentino e il Friuli Venezia Giulia. Nel Lazio sono 2, in Calabria, in Puglia e in Sicilia 1 per regione. In Campania nessuno, come in Liguria. Per questo bisogna gridare: vai avanti, Bertolaso! E che Iddio ti assista.

(30 maggio 2008)


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C'è un illuso al Quirinale?


Il monito di Napolitano sul rischio di regressione civile è sacrosanto. Ma al tempo stesso ha il suono di una chimera  Mi trova del tutto d'accordo il monito di Giorgio Napolitano: "L'Italia rischia la regressione civile". Come tanti, anch'io vivo con gli stessi timori del nostro Presidente. Ho invece qualche dubbio sullo sfondo storico dal quale è partito il Quirinale nel ricordare la nascita della Repubblica e gli eventi successivi al primo dopoguerra. E qui proverò a spiegarne il perché.

Per cominciare, il referendum del 2 giugno si svolse mentre in Italia, soprattutto nelle regioni del centro-nord, tirava un'aria pessima. La guerra civile era finita da più di un anno, ma si continuava a uccidere. Molti partigiani comunisti non avevano deposto le armi e si erano gettati in una seconda guerra per la conquista violenta del potere. Il gruppo dirigente del Pci era diviso. Palmiro Togliatti non aveva ancora scelto tra la via militare e quella parlamentare. E l'ala insurrezionale, guidata da Pietro Secchia, era molto forte nel partito.

La vittoria della Repubblica e l'elezione dell'Assemblea Costituente non spensero i bollori. Anzi, la scoperta che il Pci era soltanto il terzo partito dopo la Dc e i socialisti spinse le squadre rosse a commettere altri omicidi. A rimetterci la pelle furono anche cittadini che non erano mai stati fascisti, ma venivano considerati avversari di classe: agrari, sacerdoti, imprenditori, militari e persino socialisti contrari ad allearsi con il Pci. Togliatti sudò sette camicie per ridurre alla ragione i suoi squadroni della morte. E ci riuscì soltanto alla fine del 1947, quando Stalin spiegò a Secchia che in Italia non si poteva fare nessuna rivoluzione.

Anche dopo il varo della Costituzione, le acque non si calmarono. Prima del voto del 18 aprile 1948, l'Italia continuò a essere un paese sospeso fra pace e guerra. E si salvò soltanto per la dura tenacia di Alcide De Gasperi e di Mario Scelba. Pari soltanto al realismo di Togliatti che nel luglio 1948, quando subì un attentato, fermò i propri militanti già in piazza. Pure i decenni successivi non furono di latte e miele.
L'insurrezione di Budapest del 1956 vide il Pci schierato con l'Urss. E il muro che separava i due grandi partiti popolari restò intatto, a dimostrare che la regressione civile e politica del paese rimaneva un rischio incombente.

All'inizio del 1970 il pericolo si ripresentò con la nascita delle Brigate Rosse, la più forte delle bande clandestine. Mentre nelle piazze si scontravano giovani rossi e neri, le Br divennero sempre più potenti, al punto di poter sequestrare e uccidere Aldo Moro. In quell'epoca, la regressione civile bussò con forza alla porta degli italiani. Arrivò il tempo delle stragi, iniziato con l'attentato di piazza Fontana. E il terrorismo selettivo delle Br fece decine e decine di morti, l'ultimo nel 1988: il senatore democristiano Roberto Ruffilli.

Le acque si chetarono per qualche anno, ma nel 1992 iniziò il terremoto di Tangentopoli. Quello che non era riuscito al terrorismo riuscì alla corruzione politica. La Prima Repubblica ne fu distrutta e l'Italia si divise un'altra volta, precipitando in un abisso di rancori, di arresti, di suicidi che ancora oggi nessuno ha dimenticato. In quell'abisso sparirono interi partiti, come la Dc e il Psi. Emersero avversioni destinate a dividerci per anni. E sulle ceneri di un mondo scomparso, nacque una Seconda Repubblica.

Accadde nel 1994, quando le elezioni furono vinte da un personaggio estraneo alla partitocrazia superstite: Silvio Berlusconi. Ecco arrivare sulla scena il Cavaliere che due mesi fa è ritornato al governo per la terza volta, dopo due vittorie del centro-sinistra. In un'altra nazione, l'avvicendarsi al potere di blocchi diversi sarebbe stato normale, il segno di una democrazia compiuta. Ma da noi è andata in tutt'altro modo. Il dilemma 'Berlusconi sì, Berlusconi no' ha riacceso e riaccende sempre l'incendio della guerra politica. L'Italia non riesce a trovare riposo. E si vede costretta a una continua prova di forza che rende possibile qualunque regressione.

Gli italiani vorrebbero vivere in pace, anche per provare a risolvere i problemi drammatici di quest'epoca. Ma la pace appare una chimera. La criminalità organizzata, il ribellismo antagonista sempre più diffuso e la mediocrità della classe politica ci trascinano verso un nuovo abisso. Per questo il monito di Napolitano è sacrosanto. Ma al tempo stesso ha il suono di una illusione.

C'è un illuso al Quirinale? Forse sì. Però siamo in tanti a illuderci. A rifiutare le faziosità contrapposte, la politica aggressiva, le urla, le invettive, i cortei militanti, l'informazione troppo schierata. Che cosa ci succederà? Neppure Napolitano può saperlo. Sento che ha paura, come molti italiani qualunque. Esiste un santo al quale rivolgerci? Provate a dirmi chi è.

(06 giugno 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Intercettato anch'io?
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 05:02:53 pm
Giampaolo Pansa

Intercettato anch'io?


L'abnorme utilizzo a rete delle telefonate nelle inchieste rischia di far precipitare la già scarsa fiducia nella Giustizia  Sono intercettato anch'io? Ho sempre pensato di no. Non commetto atti illegali. Pago le tasse sino all'ultimo centesimo di euro. Non ho amici che delinquono. Non ricevo mai chiamate di politici. Dunque non c'è ragione che qualche magistrato disponga l'ascolto delle mie telefonate. Tuttavia, visto la gigantesca ondata intercettativa italiana, mi sono chiesto se non fossi finito nei brogliacci di qualche procura della Repubblica. In fondo sono un cattivo soggetto. M'è capitato di fare l'imputato in tribunale. E ogni tanto qualcuno mi denuncia, sostenendo d'essere stato diffamato in un Bestiario.

Allora ho chiesto lumi a un amico magistrato: sono controllato o no? Ma lui mi ha risposto sconsolato di non essere in grado di saperlo. E ha aggiunto: nessuno può darti la certezza che qualche operatore di polizia ti stia o no ascoltando per ordine di un pubblico ministero. E me ne ha spiegato il perché. In Italia domina il sistema chiamato delle intercettazioni a rete, che funziona come segue. Per un motivo fra i più innocenti ti capita di parlare con qualcuno che è sotto controllo. A quel punto, chi ti ascolta ritiene che tu dica qualcosa di sospetto e allora l'autorità inquirente decide l'ascolto anche delle tue telefonate. Siamo all'effetto domino: una intercettazione ne provoca un'altra e così via, all'infinito.

In Italia l'infinito ha un numero finito, ma impressionante: 124 mila. Tante sono state le intercettazioni nel 2007, fra telefoniche e ambientali. I confronti con altri paesi dell'Occidente sono stupefacenti. In Francia 20.000 intercettati. In Gran Bretagna 5.500. Negli Stati Uniti appena 1.705, su una popolazione di trecento milioni di abitanti. Per tornare al 2007, i decreti emessi dalla magistratura italiana per le intercettazioni sono stati 79.966, con un aumento del dieci per cento rispetto all'anno precedente.

Tutto questo lavoro d'orecchio si mangia gran parte delle spese per l'amministrazione giudiziaria. È un'abbuffata gigantesca, ma con risultati dubbi. A sentire il ministero della Giustizia, il 60 per cento dei processi dove l'accusa si basa soprattutto sull'ascolto telefonico si concludono con proscioglimenti e assoluzioni. Eppure la casta dei magistrati è insorta come un sol uomo nel sentire che il governo Berlusconi vuole mettere un freno a un sistema ormai devastante e dagli esiti incerti. È una rivolta sacrosanta? Non ne sono così sicuro. Da qualche intervista di giudici in trincea contro il crimine mi è parso di capire che anche loro condividano il vecchio detto che il troppo stroppia. Per dirla in soldoni, le intercettazioni sono diventate una droga. Se fumi qualche spinello, non succede niente. Ma se ne abusi e poi passi a roba più pesante, vai fuori di testa e non ti fermi più.

Mi ha colpito un'intervista di Massimo Martinelli del 'Messaggero' a Giuliano Vassalli, un signore di 93 anni al quale il paese deve molto: padre del codice di procedura penale, ministro della Giustizia, presidente emerito della Corte Costituzionale, vecchio antifascista e grande socialista. Vassalli ha spiegato che ritiene doveroso un giro di vite perché il sistema è degenerato da tempo. Poi ha aggiunto: "Non è vero che i magistrati non possano più indagare senza intercettazioni. La verità è che hanno perso fiducia nei sistemi di investigazione tradizionali. È molto comodo intercettare tutti, ascoltando anche cose private che non riguardano le indagini".

Esiste poi un lato della questione che chiama in causa noi giornalisti. I più bravi vanno sempre alla ricerca di scoop, ossia di notizie e di storie che le altre testate non conoscono. Quasi cinquant'anni di mestiere mi hanno insegnato che afferrare uno scoop è molto faticoso. Richiede impegno professionale, dedizione al compito, esperienza, acume, cultura e un bel po' di fortuna. Sono tutte doti che non servono più se un magistrato o un intercettatore ti passa di nascosto il brogliaccio di un controllo telefonico, spesso mal trascritto dal maresciallo di turno.

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Povero Pidì così iellato
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2008, 11:37:33 am
Giampaolo Pansa

Povero Pidì così iellato

La cattiva sorte lo perseguita. Urge trovare un esorcista che scacci il demonio che si accanisce su Veltroni  Walter Veltroni, leader dell'opposizioneÈ davvero sfortunato il povero Partito Democratico. Lo perseguita una iella maledetta, anche se tutto sembra congiurare a suo favore. Immaginiamo un italiano qualsiasi, un signor Rossi, che rientra in patria da un paese lontano nel quale non si sa nulla di quanto avviene da noi. Al suo arrivo, il signor Rossi, affamato di notizie, si butta a leggere i giornali, ad ascoltare le radio e a guardare telegiornali e talk-show. E si accorge che il centro-destra di Silvio Berlusconi è un asino spelato, divorato da milioni di mosche cattive.

Il Cavaliere è di nuovo finito nel tritatutto della magistratura. A Milano vogliono azzopparlo con una condanna. Lui replica con qualche mossa sbagliata che accentua la rabbia della casta togata. L'associazione dei giudici lo pesta duro. I giornali, anche quelli che avrebbero il dovere dell'imparzialità, lo trattano come se fosse l'erede del gangster Al Capone. Pur possedendo tre emittenti televisive, si vede messo alla gogna dalle altre tivù. Persino la costosa Sky, proprietà di un magnate come Rupert Murdoch, un tycoon di destra, lo maltratta di continuo. Arrivando a discutere sul Berlusca con la formula del cinque più uno: i cinque, compreso il conduttore, lo menano, mentre uno soltanto è stato convocato per difenderlo.

A quel punto, la conclusione del signor Rossi è obbligata. Il Berlusca deve aver perso le elezioni politiche di aprile. O le ha vinte per un pelo di gatto, tanto da spingere gli avversari a sottrargli il governo appena nato. Sul fronte opposto (pensa sempre il signor Rossi) il Partito Democratico starà diventando la forza egemone del paese. Il suo leader, Walter Veltroni, sarà sugli scudi, obbedito da tutte le eccellenze della parrocchia e venerato da una base che si espande, sempre più fedele e militante. In Italia, dunque, si prepara un cambio di quelli storici
(dice a se stesso il signor Rossi). Presto il centro-destra di Berlusconi dovrà fare fagotto, cedendo il passo a un avversario strapotente.

Poi l'ingenuo signor Rossi, parlando con qualche amico e leggendo con più attenzione le cronache politiche, si accorge che le cose non stanno come gli avevano fatto credere. Il Pidì non è per niente forte. La sconfitta elettorale del centro-sinistra è stata molto pesante. Gli iscritti scappano. E lo choc che ha folgorato gli elettori è di quelli drammatici. Nonostante l'affettuosa vicinanza di molti media, dove abbondano i buoni samaritani sempre pronti ad assisterlo, il Pidì non festeggia per niente. Anzi ha cominciato a dilaniarsi al proprio interno: un clan contro l'altro, una corrente addosso all'altra. Stupito, il signor Rossi chiede agli amici quante siano queste correnti del Pidì. Risposta: pare sette, ma nessuno può giurarci.

L'unica certezza è che oggi esiste una supercorrente che si chiamerà 'Red', sigla astuta che significa Riformisti e Democratici. La sta allestendo il pezzo più da novanta del Pidì: Massimo D'Alema. Il signor Rossi pensa che sia un super-clan nato per difendere il segretario Veltroni. Ma gli amici gli replicano: dove sei vissuto fino a oggi? Max è il nemico numero uno di Walter. E quando sarà pronto gli dichiarerà una guerra all'ultimo sangue.

Allibito, il signor Rossi chiede se non sia un proposito suicida, quello dei dalemisti. E aggiunge: mandare al tappeto Veltroni mette a rischio tutto il Pidì, una creatura in fasce, che deve riaversi da una sconfitta elettorale e ha bisogno di affermarsi in molte aree del paese. Ma ancora una volta l'ingenuo Rossi si accorge di sbagliare. A molti big democratici non frega nulla del loro partito. Come è sempre accaduto a sinistra, il virus dell'autodistruzione agisce senza pietà. Uno degli eminenti, l'Arturo Parisi, è arrivato a chiedere le dimissioni di Walter, accusandolo di un misterioso golpe. Per difendersi, e tenere insieme le truppe, Veltroni ha scelto una strada senza sbocchi: portare il Pidì in piazza, nell'autunno, quando il caldo sarà meno feroce. E non per protestare contro i pugnalatori di casa, bensì contro Silvio il Caimano, il fascista, il reazionario, l'autocrate che vuole affossare la democrazia repubblicana.

A quel punto, il signor Rossi arriva a due conclusioni. La prima riguarda se stesso: ha sbagliato a ritornare in questo paese di pazzi, meglio ripartire subito. La seconda riguarda il Pidì: è evidente che è un partito iellato. La cattiva sorte lo perseguita. Tutti i mali dell'universo gli cascano addosso. Urge trovare un esorcista capace di scacciare il demonio che si accanisce su Veltroni & Compagni. O almeno un frate che benedica il loft veltroniano e i suoi sfigati inquilini. Era il rimedio che suggeriva mia nonna Caterina alle sue amiche disgraziate: vai alla chiesa di San Francesco e fatti innaffiare con l'acqua santa!


(27 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Scherzare col fuoco
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:40:15 am
Giampaolo Pansa

Scherzare col fuoco


Nel Paese è in atto una guerra civile strisciante tra poteri e istituzioni che cercano di distruggersi  Giorgio NapolitanoC'è troppa gente che scherza col fuoco, sulla pelle dell'Italia. Il primo è Silvio Berlusconi, lo cito subito perché milioni di elettori gli hanno affidato la responsabilità più grande: quella di guidare il paese. E come si diceva un tempo: a grandi onori corrispondono grandi oneri.

Se fossi al posto suo, mi lascerei processare dalla signora Gandus e accetterei qualunque sentenza. Dico di più: anche di fronte a una condanna pesante, lascerei il da fare ai miei avvocati e mi dedicherei anima e corpo al lavoro di premier. Un lavoro ogni giorno più gravoso perché l'Italia è nei guai sino al collo per quel che accade nel mondo. Non serve aprire altri conflitti con il potere giudiziario mentre l'inflazione sale, i prezzi si arroventano e il petrolio rischia di arrivare ai 150 dollari al barile. Il Cavaliere dia retta alla saggezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quando chiede alla politica e alle istituzioni un clima più sereno e costruttivo.

Ma a scherzare col fuoco sono anche molti magistrati. Non parlo della totalità dei giudici. Anche tra loro accade quel che avviene, per esempio, tra i giornalisti: non siamo tutti uguali, all'interno della stessa corporazione le differenze sono molte. Ho citato questi due poteri perché sono quelli di cui la gente, oggi, si fida di meno. Tuttavia, la sfiducia verso i giornalisti non conta molto. Al più, può spingere i lettori ad abbandonare i giornali, come inizia ad accadere. Per i magistrati la faccenda è assai più grave dal momento che sono loro a decidere la libertà o meno di quanti gli capitano sotto le mani.

C'è molta inquietudine per quel che accade in una parte importante della magistratura. Non è il Cavaliere o il Caimano a dirlo. Sono gli stessi giudici, come dimostrano le secche parole di un magistrato, Felice Casson, oggi senatore del Partito Democratico. Il suo rimprovero più duro agli ex colleghi è di essere
"un mondo ormai autoreferenziale", ossia che parla soltanto con se stesso. Ma l'uomo della strada è ben più aspro di Casson. Vede molte toghe diventare un attore politico e la loro associazione muoversi come un partito.

Troppi si esprimono su tutto, persino sui loro possibili imputati, correndo il rischio della ricusazione. Vede giudici onnipresenti nei talk-show televisivi, travolti dalla smania di apparire neanche fossero veline in cerca di contratto. Ne vede altri che parlano a congressi di partito, per poi difendersi con la formula infantile del 'Mi hanno invitato'. Altri ancora partecipano da protagonisti al Vaffa Day di Beppe Grillo. Tanti firmano appelli contro leggi dello Stato che poi saranno chiamati ad applicare. E non sto a fare nomi perché compaiono ogni giorno nella cronache dell'attivismo politico.

Conosco parecchi dei giudici che si muovono così. E alcuni di loro, i più anziani, li incontrai tanti anni fa, quando erano all'inizio della loro magistratura e si comportavano in modo assai diverso. Apparivano restii persino a dirti il loro nome, mentre oggi dilagano sui media. Quando mi capita di ritrovarli nella trincea della battaglia politica mi domando perché lo facciano. Senza rendersi conto di scavare la fossa anche a se stessi. E senza avvertire la sfiducia che li circonda. Non dovuta soltanto al cattivo funzionamento dell'apparato giudiziario, alla sua lentezza, ai rinvii continui anche delle cause più elementari, ma soprattutto al sospetto che inquieta ogni cittadino si trovi a fare l'imputato. Un sospetto racchiuso nella domanda: il magistrato che ho di fronte sarà imparziale o si lascerà guidare dalla propria faziosità politica?

Non so che cosa accada in altri paesi europei. Ma vivo in Italia e per me conta quel che avviene qui. Sempre più spesso mi capita di essere spaventato del futuro che ci aspetta. E di interrogarmi sulla sorte del nostro paese,alle prese con una guerra civile strisciante tra poteri e istituzioni che si avversano e cercano di distruggersi. Per anni la lettura dei quotidiani, ogni mattina, è stato il rito professionale che dava inizio alla mia giornata e mi spalancava una finestra sul mondo. Oggi la mazzetta di carta stampata mi dà ansia, non vorrei aprirla per non provare nuovi terrori. Poi mi decido e vado alla scoperta di chi altri stia scherzando col fuoco. In questi giorni è di turno Antonio Di Pietro, capo partito e capo popolo. Per come si muove e per come parla, lo trovo nauseante. Sono tra quelli che l'hanno sostenuto, anche dopo Mani Pulite. Ma adesso mi dico che ho sbagliato a farlo.

(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Così Parlò Dalemoni
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2008, 10:37:52 pm
Giampaolo Pansa

Così Parlò Dalemoni


Se il giudizio di Massimo D'Alema sulle intercettazioni non è cambiato dal '96 ed è simile a quello di Silvio Berlusconi un motivo ci sarà.

 È una faccenda vecchia, quella delle intercettazioni. Torniamo indietro di dodici anni, al settembre del 1996, quando il governo Prodi è in sella dal mese di maggio. La prima scena ha per ambiente la Procura della Repubblica di La Spezia dove è in corso da tempo un'indagine delicata, svolta in silenzio e nel segreto. Il martedì 17 settembre (cito 'l'Unità') un Pm dice ai cronisti: "Nell'inchiesta sono coinvolti anche dei politici". Domanda: "Politici attualmente in carica?". "Sì". Nuova domanda: "In carica anche nel governo?". A quel punto, il magistrato si tappa la bocca e se ne va.

Il primo a reagire è Massimo D'Alema, segretario del Pds. La stessa sera, alla festa dei popolari di Scandiano (Reggio Emilia), reagisce con nervosismo: "Non si possono destabilizzare le istituzioni politiche andando alla tivù a dire: ci sono dei politici coinvolti in un'inchiesta, poi vi faremo sapere chi sono!". Poche ore dopo, è il primo pomeriggio del 18 settembre, i tre consiglieri del Pds nel Consiglio superiore della magistratura chiedono al ministro della Giustizia, Gianmaria Flick, di intervenire sulla procura di La Spezia, sottoponendo il Pm che ha parlato a un'attenta valutazione disciplinare. Certe esternazioni, giurano i tre, "talvolta incidono persino sul sereno svolgimento delle funzioni politiche di governo e sull'andamento dell'economia".

Sull''Unità' del 20 settembre, a sparare è Pietro Folena. Scrive: "Non abbiamo nessun imbarazzo rispetto all'inchiesta di La Spezia. Ma il paese non sopporta più quel che si vide fra il 1992 e il 1994-95: il circuito autonomo tra Pubblico ministero, sistema massmediatico politico e opinione pubblica, che era una forma di comunicazione diretta fra Pm e popolo". Quando escono le intercettazioni spezzine, Folena s'incavola di più: "Basta con questa cultura del buco della serratura. Sta determinando una destabilizzazione che nessun Paese democratico può reggere a lungo!".


Ma è soltanto l'inizio della tempesta. Il 20 settembre, sul 'Messaggero', Cesare Salvi bolla a fuoco il giustizialismo: "È inaccettabile che le decisioni del Parlamento possano essere condizionate dalle opinioni dei giudici". Persino Massimo Cacciari, di solito simpatico e trasgressivo, si scaglia contro i giornali che pubblicano i verbali: "Abbiamo superato ogni limite. Siamo usciti dallo Stato di diritto. Non ci sono più garanzie per gli imputati e la difesa". (Ansa, 19 settembre). Sempre all'Ansa, il senatore ulivista Luigi Manconi dice di vedere "magistrati e giornalisti" solidali "in un unico progetto criminale".

La sera del 20 settembre vado alla Festa Nazionale dell'Unità a Modena per intervistare in pubblico Luciano Violante, presidente della Camera. Tangentopoli è lontana, adesso la sinistra sta al governo. Quando difendo giudici e giornalisti, molti spettatori mi fischiano. Applausi trionfali, invece, per Violante quando dipinge la vita privata degli italiani alla mercé di una Spectre di intercettatori e di cronisti senza vergogna, pronti a gettare fango su tutti.

Il martedì 24 settembre, D'Alema va al 'Costanzo Show', programma di Mediaset. E rade al suolo intercettatori e cronache giudiziarie. Dice: quelle pagine di telefonate sono micidiali per la dignità degli imputati e di tutte le persone nominate. Non bisogna pubblicare né i verbali degli interrogatori né le trascrizioni degli intercettatori. E bisogna, assolutamente!, tutelare meglio il segreto istruttorio. Questo sistema di pubblicare tutto ha prodotto danni enormi. Il metodo di stampare ogni cosa è sbagliato. Avvelena il tessuto civile del Paese. Causa una fibrillazione che è sfiancante anche per l'opinione pubblica e destabilizza tutto. I magistrati debbono mostrare riserbo e una maggiore compostezza, perché non si crei un rigetto nell'opinione pubblica. Dobbiamo chiedere ai giudici maggiore sobrietà e minore spettacolo.

Ascoltando D'Alema a quel 'Costanzo Show' mi dissi: Max parla come Berlusconi. E inventai per 'L'espresso' il personaggio di Dalemoni. Ero eccessivo anch'io? Forse sì. Ma allora le intercettazioni non erano alluvionali come lo sono oggi. Rispetto a dodici anni fa, viviamo nel tempo dei controlli telefonici a gogò. Ed è interessante che D'Alema la pensi sempre come nel settembre 1996. L'ha spiegato il 3 luglio alla festa dell'Unità di Roma, con la solita facondia tagliente. Ma se D'Alema e Berlusconi ragionano nello stesso modo, un motivo ci sarà. Siamo andati davvero al di là di ogni limite? Proviamo a rifletterci.

(11 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. La sfortuna del perdente
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2008, 07:28:45 pm
Giampaolo Pansa


La sfortuna del perdente


Ogni giorno il Pd e il suo leader si vedono piovere sulla testa qualche tegola maledetta. L'ultimo colpo è l'arresto di Del Turco  Il leader del Pd Walter VeltroniQualche settimana fa avevo scritto nel Bestiario che il Partito Democratico sembrava preso di mira dalla iella. E mi ero permesso di suggerire a Walter Veltroni di correre dai frati più vicini per farsi inondare di acqua benedetta. Non so se abbia seguito il mio consiglio, ma ogni giorno il povero Pidì e il suo leader si vedono piovere sulla testa qualche tegola maledetta. L'ultima, per ora, è di quelle micidiali, capaci di tramortire un partito e di mandare al tappeto qualsiasi segretario.

Sto parlando della manette che hanno distrutto in Abruzzo il governo regionale di centro-sinistra e spedito in carcere il presidente, Ottaviano Del Turco. Anch'io sono rimasto a bocca aperta. Conosco Del Turco da quando stava nel vertice della Cgil ed era il vice di Luciano Lama. L'avevo incontrato nei congressi sindacali e in quelli del Psi. E l'avevo intervistato più di una volta. Non lo immaginavo nei panni di un mazzettaro. Capace, secondo la Procura di Pescara, di mangiarsi tangenti per sei milioni di euro. Con lo scopo di finanziare, come recita sempre l'accusa, il progetto politico di sfasciare lo Sdi di Enrico Boselli e di strappargli un pugno di parlamentari da trasferire nel Pidì.

Tuttavia questa storiaccia mi obbliga a una domanda che va ben al di là della sorte penale di Del Turco. Se la memoria non m'inganna, quello abruzzese è il primo governo regionale di centro-sinistra a morire sul campo del disonore tangentaro. Ma con la giunta Del Turco muore anche il complesso dei migliori che aveva sempre difeso la sinistra italiana dal sospetto di essere uguale alla destra. Che cosa fosse questo complesso l'ha spiegato con chiarezza Luca Ricolfi, un sociologo indipendente, in un libro rimasto famoso. Era, anzi è, la convinzione di essere il Gallo della Checca: una bestia destinata a primeggiare perché diversa, e migliore, da tutte le altre del pollaio politico.


Ed ecco la domanda. Il caso dell'Abruzzo può ripetersi in altre regioni governate dal centro-sinistra? Per essere più chiari: che cosa è accaduto o sta accadendo in Umbria, in Toscana, in Emilia-Romagna e nelle Marche? La mia speranza è che lì non sia avvenuto nulla e che l'infezione tangentista, se verrà provata, risulti una malattia soltanto abruzzese. Ma nessuno può dirlo con certezza. Ed è di qui che prendono forma non pochi fantasmi che forse rendono inquiete le notti di Veltroni.

In ogni caso, il leader del Pidì dovrebbe muoversi con uno stile diverso da quello messo in mostra in queste settimane di conflitto fra il governo Berlusconi e l'Associazione nazionale dei magistrati. Sono rimasto senza parole nel sentirgli dire in tivù: "La nostra linea è quella dell'Anm". Caso mai avrebbe dovuto affermare il contrario. Ossia che la linea dell'Anm è quella del Pidì. Ma se anche si fosse espresso così, non sarebbe cambiato nulla. Agli occhi di molti suoi elettori, il Pidì di Superwalter sta commettendo l'errore di non riconoscere che la riforma della giustizia è la prima delle tante da affrontare con coraggio. Veltroni sa bene che da noi la giustizia non funziona. Il cittadino che si rivolge alla magistratura anche per questioni elementari non riceve quasi mai un servizio decente. A cominciare dall'esasperante lentezza dei giudizi: una piaga ormai in cancrena, che semina sfiducia, rabbia, voglia di ribellione.

Non avere la forza di denunciare questo scandalo, rende inaffidabile il Pidì come partito riformista. E lo trascina di errore in errore. A cominciare da quello di aver scelto Antonio Di Pietro come unico alleato nel voto del 2008. Un alleato che si è già mutato in un avversario pericoloso, come dimostra l'attivismo spregiudicato dell'Italia dei Valori, tutto rivolto contro il Pidì. Se non si sottrae a questa morsa, Veltroni non ha futuro. Ma non ha futuro neppure il suo partito, destinato ad andare al rimorchio di due soggetti che non hanno a cuore l'interesse del paese: i magistrati che fanno politica e Di Pietro che li spalleggia e li sostiene.

Nel luglio del 2007, quando Veltroni si candidò alla guida di un Pidì che allora non esisteva, il sottoscritto fu uno dei pochissimi che lo descrissero con parole non cortigiane. Il titolo del Bestiario diceva: 'La favola del Perdente di successo'. Dopo la nascita del Pidì, Veltroni non è mai riuscito a vincere. Non era l'uomo giusto per quell'incarico, non essendo un capo severo, dalla parola aspra e capace di scelte crudeli? O è stato soltanto sfortunato? Poiché ho rispetto per Veltroni, preferisco pensare alla sfortuna.

(18 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Brancaleone bipartisan
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 12:29:46 am
Giampaolo Pansa

Brancaleone bipartisan

Bossi di là e Di Pietro di qua: con il risultato che escono indebolite entrambe le coalizioni  Il ministro Roberto Maroni e Umberto BossiVe lo ricordate il film 'L'Armata Brancaleone' girato da Mario Monicelli nel 1966 con un formidabile Vittorio Gassman? Era pieno di secondi e terzi personaggi che sbroccavano come lui, ossia parlavano a vanvera, sparando le cavolate più folli. L'Umberto Bossi del dito alzato contro l'Inno di Mameli starebbe bene in un remake di quel film. Come le spara lui non le spara nessuno. Lo farà di certo per tattica politica. Ossia per tenere al laccio l'intero centro-destra e avere presto il federalismo. Ma le sue super-castronerie, come quella di cacciare dal Nord tutti gli insegnanti meridionali, sono brancaleonismo puro.

C'è però un guaio per chi ha votato il centro-destra e anche per chi vorrebbe vivere in un paese ben governato da chiunque abbia vinto le elezioni. E il guaio è che l'effetto Brancaleone finisce per intaccare un po' tutta la coalizione guidata da Silvio Berlusconi. Avremmo bisogno di un blocco coeso, con le idee chiare sul da farsi, capace di decisioni e fatti conseguenti. Ma non mi pare che vada così. Ci sono ministri all'altezza del compito. E cito per tutti il responsabile dell'Economia, Giulio Tremonti. Però l'insieme fa pensare a una compagine slabbrata, poco salda, refrattaria a rendersi conto delle grandi responsabilità che la vittoria elettorale le ha affidato.

Anche il Cavaliere mi sembra traballante. Gli sciocchi del centro-sinistra, che sono tanti, hanno ripreso a strillare al Caimano. Magari fosse così! Non avremmo un premier sempre nervoso, impaurito dalle proprie vicende giudiziarie, incline anche lui a sbroccare. Se a Palazzo Chigi sedesse un vero Caimano, la riforma della giustizia (per fare un esempio solo) sarebbe già stata avviata con le armi dell'astuzia. Prima fra tutte quella di portare dalla propria parte i magistrati che hanno compreso una verità: i cittadini non sopportano più le drammatiche inefficienze della macchina giudiziaria
, capace soltanto di rendere infernale la vita ai molti italiani qualunque che non hanno alle spalle né un padrino né un patrono. Per non parlare dei processi-spettacolo, con la pubblica accusa che organizza conferenze stampa e parla di continuo fuori dalle aule dei tribunali. Una piaga che ha fatto insorgere, con mille ragioni, il presidente della Repubblica.

Il risultato è che il Bossi in formato Brancaleone fa scuola. E con quel dito, un gesto scurrile alla Beppe Grillo dei Vaffa Day, eccita i suoi gemelli nel centro-sinistra. Primo fra tutti, Tonino Di Pietro, un brancaleonide d'acciaio che sta diventando il vero padrone dell'opposizione di centro-sinistra. Chi ha votato per questo blocco assiste allibito a una malvagia inversione dei ruoli. Walter Veltroni conta sempre di meno. Sta più di là che di qua, per la guerra che gli hanno dichiarato tante eccellenze del Partito Democratico. E sembra intimorito da quel che gli va accadendo. Al punto di non trovare il coraggio, e mi limito a un caso, di dire una parola in difesa di un onesto libro di storia. Parlo degli 'Orfani di Salò', sulla nascita del Msi, scritto da un bravo giornalista del 'Corriere della sera', Antonio Carioti. Costretto a subire le contestazioni aggressive di una sinistra che accetta soltanto autori pronti a inchinarsi davanti alla falce e al martello.

Siamo al Brancaleone bipartisan. Con Di Pietro nella parte del cavaliere di Norcia, ma assai più spietato nella strategia e nel lessico. La strategia di Tonino è quella del cuculo: insinuarsi nel nido di Veltroni, sperando di scacciarne il legittimo inquilino. Mi domando che cosa aspetti il fragile Walter a respingerlo con asprezza e a trattarlo per quel che è: un nemico, quasi una quinta colonna del Caimano. Quanto al lessico, Tonino non parla ancora nel misto di latino medioevale e di italiano prevolgare inventato da Age & Scarpelli per Gassman. Ma prima o poi ci arriverà. Già adesso dà del magnaccia a Berlusconi. Pronostica l'avvento del fascismo fondato sulle veline, avanguardie dell'olio di ricino. Sproloquia della P2 che ritorna. Si propone come santo protettore della casta giudiziaria. Porta in piazza girotondi ringhianti contro Veltroni. E ora rimbecca Napolitano che condanna i processi- show, intimandogli di parlare d'altro.

Come andrà a finire? Non lo so. Ma il Brancaleone bipartisan renderà deboli entrambe le coalizioni. Con un esito indecifrabile. Qualche tempo fa avevo immaginato la nascita di un governo di salvezza nazionale, l'unico rimedio per un paese malato come il nostro. Però oggi non sono più certo di niente

(25 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Forse Max vedeva giusto
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2008, 12:01:45 am
Giampaolo Pansa



Forse Max vedeva giusto


D'Alema lo ha sempre detto: criminalizzare Berlusconi serve solo a rafforzarlo. Eppure buona parte della sinistra insiste a farlo.

E' sufficiente mettere il naso fuori di casa per rendersi conto di quanto sia cresciuto il numero degli immigrati clandestini. Ormai li vediamo dappertutto, anche nei piccoli paesi, dove non ci sono molte occasioni di lavoro. Di solito si comportano bene. E benissimo quelli che ottengono di uscire dal buio per essere assunti in modo regolare da un'azienda o da un privato. Lo so per esperienza diretta. Così come esperienze fatte da altri mi dicono che non tutti gli immigrati si adattano a una convivenza pacifica. E che cosa facciano per campare lo impariamo dalla cronaca nera.

Un indice di quanto stiano aumentando gli arrivi in Italia ce lo danno gli sbarchi di clandestini sulle nostre coste. Nei primi sei mesi del 2008 sono arrivati 11.949 irregolari, ossia più del doppio rispetto al primo semestre del 2007 che aveva visto 5.387 ingressi per mare. Da gennaio alla fine di giugno, soltanto a Lampedusa sono sbarcati 10.402 clandestini: un numero che alla fine di luglio è cresciuto. Anche per questo, il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, ha stabilito di estendere a tutto il territorio nazionale la dichiarazione di stato d'emergenza che, nell'ultimo rinnovo, era limitato soltanto alle tre regioni vicine agli sbarchi: Sicilia, Calabria e Puglia.

Perché dichiarare l'emergenza? Per poter organizzare il ricovero e l'accoglienza di tutti i nuovi clandestini, saltando le pastoie burocratiche e finanziarie. E' lo stesso motivo che aveva spinto a proclamare l'emergenza per ben sei volte: quattro, a partire dal dicembre 2002, sotto il governo Berlusconi e due (marzo 2007 e febbraio 2008) sotto il governo Prodi. Quello deciso da Maroni è dunque il settimo rinnovo di una procedura ben conosciuta anche dai big del centro-sinistra che erano stati ministri nel governo del Professore o suoi sostenitori di riguardo.

Parlo di questi big perché si sono affrettati ad urlare contro il provvedimento di Maroni. Decisa da loro l'emergenza era sacrosanta. Decisa dal centro-destra diventa nefanda. Qualche citazione? "Il governo continua ad alimentare la paura con un clima da Stato di polizia", strilla l'ex ministro Rosy Bindi. "Una decisione gravissima", ringhia Paolo Ferrero, anche lui ex-ministro con Prodi. "A quando le nuove leggi razziali?", grida l'ex sottosegretario Paolo Cento. "Sono davvero dei mascalzoni: è una decisione abominevole", sostiene Gianclaudio Bressa, vicepresidente dei deputati del Pidì. Sino ad arrivare al rifondarolo Nichi Vendola, grintoso anche se al tappeto: "Il provvedimento del governo è un pezzo di fascismo".

Ecco uno dei virus che sta uccidendo le sinistre italiche: la faziosità portata all'eccesso. Quella che spinge a dire: qualunque cosa decida Silvio Berlusconi è sbagliata, pericolosa, parafascista o fascista. Tuttavia, così facendo, le tante sinistre possono al più convincere i loro militanti cocciuti e non l'insieme degli elettori. Il risultato è che il Caimano se la ride e diventa sempre più forte.

Ci aveva avvisato di questo rischio uno dei leader del Pidì, Massimo D'Alema. Era accaduto anni fa, proprio con Claudio Rinaldi che allora dirigeva 'L'espresso'. A rammentarmelo è stato un vecchio libro di Antonio Padellaro, un nostro bravo collega che oggi dirige 'l'Unità': 'Senza cuore. Diario cinico di una generazione al potere', pubblicato nel 2000 da Baldini & Castoldi.

Verso la fine del 1995 o all'inizio del 1996, quando il Cavaliere stava a Palazzo Chigi, D'Alema, allora segretario del Pds, spiegò a Rinaldi che Berlusconi non era un professionista della politica, bensì un dilettante. Aveva tante qualità, ma in altri campi. Bisognava dunque portarlo sul terreno della politica dove avrebbe di certo perso. Poi Max aggiunse: "Se invece si contribuisce a farne un mito popolare, anche in negativo, se lo si esalta o denigra come qualcosa di speciale, Berlusconi crescerà di statura e trarrà giovamento da questa linea". "Voi dell'Espresso non capite niente" fu la sentenza di D'Alema. "Se si continua a criminalizzare Berlusconi, si finirà unicamente per rafforzarlo".

Riletto oggi, lo trovo un consiglio saggio. Però in quel tempo, tanto Rinaldi che Padellaro e io ci guardammo bene dal seguirlo. Certo, ci siamo divertiti a sbranare ogni settimana il Caimano. Padellaro lo fa ancora tutti i giorni sull'Unità. Con quale risultato? Berlusconi è più forte che mai ed è ritornato per la terza volta a Palazzo Chigi. Quanto a me resto abbarbicato al 'Bestiario' e predico contro la faziosità. Ma con ben poca fortuna.

(31 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. La Sinistra manesca
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2008, 06:31:53 pm
Giampaolo Pansa


La Sinistra manesca


Da Bologna a Torino, da Vicenza a Roma: il neo-comunismo antagonista, sfrattato dal Parlamento, vuole imporre la sua legge nelle piazze  1980: la stazione di Bologna dopo l'esplosioneNella Bologna del 2 agosto, giorno della memoria per la strage alla stazione nel 1980, l'unico politico in condizioni normali mi è sembrato il ministro Gianfranco Rotondi. Da democristiano collaudato e dotato di humour, ha detto dal palco: "I fischiatori non mi disturbano, sono i soli che mi considerano ministro".
Rotondi alludeva alla gaffe dell'assessore Libero Mancuso, un ex magistrato sempre troppo sicuro di sé e ormai incline a sbroccare come accade a noi che abbiamo i capelli bianchi: "Rotondi è una persona sconosciuta e del tutto incolore. Non credo proprio che qualcuno si accollerà la fatica di fischiarlo". Il ministro per l'Attuazione del programma era stato spedito a Bologna al posto del collega alla Giustizia, Angelino Alfano. Per il quale la sinistra manesca aveva promesso sfracelli, in virtù del lodo che porta il suo nome.

Mi è apparso preoccupato il sindaco della città, Sergio Cofferati, fischiato anche lui. E capisco il suo umore. Tutti i santi giorni, si trova alle prese con un paio di problemi: la voglia di silurarlo di una parte della sinistra riformista e i guai che derivano dalla guerriglia permanente fra due fazioni rosse e violente, padrone di un pezzo del centro cittadino, l'area universitaria. La Bologna che Cofferati amministra è ormai irriconoscibile.

Come se il destino malvagio che perseguita dovunque i luoghi storici del vecchio comunismo, compreso quello all'emiliana, avesse deciso di infierire anche su questa città, amata da tanti per la sua gioia di vivere. Adesso Bologna riempe Piazza Maggiore soltanto per osannare il Vaffa Day di Beppe Grillo. E quando arriva Giuliano Ferrara, per tenervi un comizio elettorale com'è suo diritto, pretende di cacciarlo via a colpi di uova marce.

Ma la sinistra manesca non prende di mira soltanto Bologna. Ripensiamo a quel che è successo negli ultimi due mesi. A Torino impedisce a una ragazza di An l'ingresso all'università per dare un esame. A San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, si scatena contro un libro sgradito, arrivando a occupare il consiglio comunale. A Roma assalta una mostra sulle foibe e poi sequestra il preside di Lettere della Sapienza.

 
A Vicenza blocca la stazione per l'eterna protesta contro l'ampliamento della base Usa. Sono soltanto pochi esempi di un nuovo modo di stravolgere la Costituzione, per affermare il principio autoritario che piccole minoranze intolleranti possono sottoporre alla loro volontà la maggioranza dei cittadini.

L'aspetto più assurdo di questo clima è che i maneschi impongono la loro legge in nome dell'antifascismo, ossia di un principio non violento. Chiunque non si pieghi ai loro diktat è di per sé un fascista. Chiunque voglia rileggere un fatto storico diventa di per sé uno sporco revisionista che non deve pensare, parlare, scrivere, pubblicare. Sta succedendo anche a Bologna, a proposito della strage alla stazione.
 
Accade che, a destra come a sinistra, molti si stiano convincendo che la sentenza definitiva su quel massacro sia il frutto di un errore giudiziario. E che i colpevoli non siano i tre terroristi neri dei Nar, condannati ad anni di galera. Personalmente non so come pensarla. Ma mi sembra folle evocare anche in questo caso il Demonio Revisionista. Se una sentenza è sbagliata, sarà giusto correggerla. Altrimenti sarà altrettanto giusto che resti com'è.

Immagino che, contro il revisionismo giudiziario, la sinistra manesca produrrà cortei, sit in, blocchi stradali e sventagliate di insulti. Del resto, il neo-comunismo antagonista, sfrattato dal Parlamento, ha già annunciato che farà politica nelle piazze. Non riesco invece a immaginare che cosa deciderà il povero Partito Democratico, né su questo fronte né su altri. Ho scritto povero con fraterna condivisione dei guai che si sta creando da solo. L'istinto suicida delle tante sinistre italiane sembra dilagare anche dentro il quartier generale di Walter Veltroni. E qualcuno pensa che quell'istinto sia già arrivato al suo approdo fatale.

Lunedì 4 agosto, 'Emme', l'inserto satirico dell''Unità', chiudeva le pagine con un vignettone colorato che ti obbligava a toccare ferro. Si vedevano Goffredo Bettini ed Ermete Realacci, in panni vacanzieri, intenti a sorreggere un Veltroni agonizzante, con l'aspetto di chi è più di là che di qua. Il titolo strillava: 'Weekend con il morto'. Se siamo a questi punti, verrà persa non soltanto Bologna. La sinistra manesca non troverà più argine. E a godere rimarrà, da solo, il sempiterno Cavaliere, detto il Caimano.

(08 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Il sex appeal di Tonino
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2008, 05:27:38 pm
Giampaolo Pansa


Il sex appeal di Tonino


Veltroni stia attento al fascino di Di Pietro: è irresistibile. Parola di Mara, Stefania, Lorenza...  Non possono esserci dubbi: il Grande Match Politico dell'autunno si svolgerà tutto dentro il centro-sinistra. E vedrà sul ring Walter Veltroni e Tonino Di Pietro. In apparenza, la posta in palio è la supremazia nella resistenza antifascista al nuovo Mussolini (Asor Rosa dixit). Ma in realtà Tonino persegue un disegno perfido: sfiancare Walter, scardinare il Pidì e mangiarsi una buona fetta dei suoi voti. Qualcuno dirà: è un disegno suicida che gioverà soltanto al Berlusca, basta un po' di buon senso per capirlo. Ma che c'azzecca il buon senso con Tonino?

Come andrà il duello nessuno lo sa. Però la vedo magra per Walter. Nella battaglia politica conta molto l'immagine. E l'estate non si è rivelata generosa con il leader del Pidì. Che tristezza quelle foto sulla spiaggia di Sabaudia, con un Veltroni dalla pancetta espansa! Tutto il contrario delle foto di Tonino apparse su 'Chi': un Di Pietro muscoloso che in una strada di Roma bacia alla brava, con la foga del ventenne, una brunona tosta.

Gli spin doctor che curano il personaggio di Walter dovranno meditare su quel bacio stradale. Per scoprirne le possibili contromisure. Tonino non ha soltanto un ego formidabile e un'eccezionale autostima. Possiede anche un forte sex appeal che gli viene dai tempi di Mani Pulite. Quando nei panni di Torquemada faceva delirare un bel po' di signore che vedevano in lui il maschio ripulitore della spazzatura tangentizia.

Non ci credete? Ecco qualche testimonianza che ricavo da un periodico insospettabile di piaggeria verso Di Pietro: un numero di fine 1993 del settimanale 'Epoca', rotocalco della Mondadori ormai berlusconiana, diretto da Roberto Briglia, ancora oggi uno dei big manager di Segrate. In quei giorni, una brava giornalista, Valeria Numerico, chiese a sei donne, "belle, famose e sentimentalmente appagate" di dire "parole d'amore, di stima e di affetto" al dottor Di Pietro, "omaggi espliciti o insinuanti, diretti finalmente all'uomo e non al magistrato". Leggete che cosa ne venne fuori.


All'attrice Stefania Sandrelli, Tonino appariva "maschio, ma non macho. C'è in lui l'unica mascolinità che apprezzo e che si esprime in decisione, chiarezza, senso della realtà". Domanda: con quali armi femminili lo sedurrebbe? E Stefania: "Quando incontro qualcuno che mi piace, voglio subito accarezzarlo, toccarlo, abbracciarlo. Farei così anche con lui". Pensando a un film su Mani Pulite "vedrei Tonino interpretato da Robert De Niro. Quanto a me, vorrei essere un giudice donna del suo pool: anche lei potrebbe fargli, di tanto in tanto, una carezza".

E Mara Venier, star di 'Domenica in', scrisse a Di Pietro: "Caro Antonio, indimenticabile quella foto di lei in canottiera mentre si affaccia al balcone di casa, durante le smilze vacanze molisane. Sotto la canottiera, c'è il Sean Connery della gente normale che si fa amare per quella sua aria ruspante. Lei conquista le donne, lei dà sicurezza. Lei, col fuoco di fila delle sue domande chiare, ha cambiato il modo di essere (e di fare) il giudice. Lei è il nostro solido Perry Mason", concluse Mara, trascurando che Mason era un avvocato.

E Lorenza Foschini, allora conduttrice del Tg-2: "È così facile amarla, dottor Di Pietro! Lei potrebbe rappresentare il prototipo del marito ideale". Marito ideale? Ma no, Dipì è di più. "Lei è una forza della natura", spiega Carmen Llera Moravia. "Lei non sarebbe il mio tipo, non è abbastanza magro, tormentato, misterioso o sofisticato. Non è neanche ebreo. Eppure, qualche mese fa l'ho sognata. Ma anche questo", aggiunse subito l'astuta Carmen, "significa poco, visto che stanotte ho sognato l'onorevole Occhetto".

Dipì come Baffo di Ferro? Non scherziamo, giurava Alessandra Casella, l'esperta di libri della rete Italia 1: "Caro Antonio, non le ci è voluto molto per conquistarmi. Con quei suoi tratti molisani. Con quel suo corpo massiccio, per cui le donne si sentono finalmente autorizzate a esclamare: è tanto! Con il suo aspetto da Orso Yoghi che nasconde un animo d'acciaio. Lei seduce l'Italia che le si affida. Seduce le italiane (e non pochi italiani) invadendo di 'sì, vostro onore' i loro sogni erotici. E seduce me".

E la sesta donna? La scrittrice Barbara Alberti fu l'unica a trattare Dipì 'da uomo a uomo'. E lo scolpì così: "Trovo deliziosa la sua civetteria di modesto: lei è vanitoso come lo sarebbe San Francesco se lo mettessero davanti alle telecamere". Già, un san Francesco pronto a trasformarsi in lupo. Attento, Walter, all'autunno rovente del molisano scalzo.

(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Il regime di Ecce Bombo
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:46:40 pm
Giampaolo Pansa


Il regime di Ecce Bombo


L'allarme di Nanni Moretti sull'assenza di opinione pubblica?
È il vizio della sinistra che bolla di fascismo chi non la pensa come lei  Dal Festival del cinema di Locarno, Nanni Moretti ha lanciato un allarme: in Italia l'opinione pubblica non esiste più. A sentir lui, lo dimostrano una serie di fatti: primo fra tutti il ritorno di Silvio Berlusconi al governo fra l'indifferenza degli italiani, che non s'indignano per i conflitti d'interesse del Caimano e per il suo strapotere nei media televisivi. L'allarme di Moretti mi fa sorridere. E mi obbliga a domandarmi dove viva il nostro celebre regista. Forse a Roma, ma rinchiuso in uno studio cinematografico con quattro amici che la pensano come lui. Oppure ha scelto di stare in qualche paese lontano, da dove l'Italia non si scorge più.

Se Moretti andasse in giro per il nostro paese, si renderebbe conto subito di una verità: l'opinione pubblica non soltanto non è scomparsa, ma si è moltiplicata e parla i linguaggi più diversi. Esiste sempre quella della sinistra radicale, rimasta fuori dal Parlamento, però assai attiva e incavolata nelle sedi di almeno tre partiti e nelle piazze. C'è sempre l'opinione di centro-sinistra, anche se oggi appare la più disorientata per la sconfitta elettorale e per il caos che logora il partito di riferimento, il povero Pidì di Walter Veltroni.

C'è l'opinione pubblica di centro-destra, molto forte perché i suoi leader politici sono ritornati al governo con l'eterno Berlusconi. Ma anch'essa tormentata dai messaggi contraddittori che riceve. L'ultimo riguarda l'abolizione dell'Ici. Questa tassa deve tornare, strilla la Lega. No, l'Ici l'abbiamo salutata e non ritornerà più, giurano il Pdl e An.

E infine c'è l'opinione pubblica di destra. È sempre esistita, ma sino a qualche anno fa se ne restava in silenzio. Adesso parla, legge, discute, si difende e attacca, come fanno tutte le opinioni pubbliche nelle grandi democrazie. Per rendersene conto, è sufficiente partecipare a incontri pubblici che non siano le vecchie Feste dell'Unità o del Pd, come si chiamano oggi: recinti chiusi, dominati da un razzismo intellettuale sempre più stantio e sterile. Questa opinione di destra tutela anche la propria memoria storica, che non si sta affatto dissolvendo, checchè ne pensi e ne scriva
SuperWalter.

Tornando all'argomento di Moretti, il suo difetto sta nel manico. Ossia nella convinzione che l'unica opinione pubblica a contare sia quella contraria al Caimano. Anche più di un giornale e parecchi opinionisti la pensano così. Ma proprio questo è l'errore più grande. E nasce dal riflesso condizionato di una concezione autoritaria della democrazia.
 
In nessun paese libero sarebbe possibile sostenere il principio che ha diritto di cittadinanza un solo modo di pensare. Succede così soltanto negli Stati illiberali. Ed è successo così nell'Europa del Novecento, prima nella Russia comunista, poi nell'Italia fascista e nella Germania nazista.

Mi guardo bene dal dare a Moretti del cripto-fascista, ossia del fascista nascosto e in abito simulato. Innanzitutto perché non lo è e non lo è mai stato. Poi perché l'accusa di fascismo non ha più forza, visto l'abuso che se ne sta facendo. Identico all'abuso della parola regime. Per molte famose teste d'uovo delle tante sinistre, tutto ciò che non coincide con la loro visione del mondo è fascismo.

Persino la presenza di un po' di soldati nelle città dove il crimine è più diffuso diventa la prova che le Brigate Nere sono tornate, pronte a torturarci. E la gente che applaude ai militari è soltanto popolo bue, che ha portato il cervello all'ammasso per ordine delle tivù di Berlusconi.

Potrà sembrare una forma di contrappasso, però tanti intellettuali antifascisti si stanno impiccando da soli all'albero fantasma del fascismo. Anche perché dimenticano la regola numero uno di chi usa l'intelletto: chiamare le cose con il nome giusto, come ha ricordato Luca Ricolfi in un importante articolo sulla 'Stampa' del 15 agosto. Non intendono farlo per pigrizia culturale, per vanità faziosa, per ottusità politica? Peggio per loro. Saranno sempre meno credibili. E soprattutto rischieranno di fare la fine del personaggio di un celebre film di Moretti.

Ve lo rammentate 'Ecce Bombo', del 1978, l'esordio di Moretti nel cinema professionale? C'era una figura indimenticabile: la sessantottina smonata che ripeteva "Giro, vedo gente, faccio cose". Ecco, cari amici che paventate un nuovo Mussolini: girate e vedete un po' di gente, ma di quella che non vi somiglia. Vi renderete conto che il regime di Ecce Bombo è la più sgangherata fra le trappole per i vostri sacri lombi.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Dopo la festa guai in vista
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 11:25:29 pm
Giampaolo Pansa


Dopo la festa guai in vista


Da quella del Partitone rosso del '92 a Reggio Emilia i rompiballe doc esclusi dalle messe cantate del PD  Achille Occhetto al congresso del Pci (1990)Un tempo l'essere invitato alla Festa nazionale dell'Unità era un grande onore per un giornalista. Più ti consideravano uno spaccapalle, più ti invitavano. Il vecchio Pci non temeva il confronto con la stampa borghese. Anche il Pds uscito dal dramma del 1989 aveva ereditato la stessa voglia di mostrarsi liberal. E così accadde quello che vi racconterò.

Era il settembre 1992 e pure gli eredi del Partitone Rosso si trovavano sotto il torchio di Mani Pulite. All'inizio di luglio, Achille Occhetto, segretario del partito, era corso a Milano per due roventi assemblee di iscritti. Gli rinfacciavano le tangenti incassate da alcuni dirigenti ambrosiani. In entrambi i casi, il povero Baffo di Ferro si difese, sgomento: "Vi giuro che non sapevo nulla di quello che accadeva qui!".

Trascorsero due mesi e andai a Reggio Emilia dove si svolgeva la Festa nazionale. Ero stato precettato per un dibattito dal tema gommoso: 'Questione morale e partiti'. Avevo al mio fianco Antonio Bassolino, mentre il moderatore era Gad Lerner. Mi sentivo in libera uscita dal lavoro all''Espresso'. E volevo godermi un giorno di vacanza. Non avevo premeditato nulla, tanto meno contro Occhetto. Mi stava simpatico. E durante la svolta della Bolognina, quando cambiò il nome al Pci, m'ero sentito dalla sua parte.

La sera dell'8 settembre 1992 ci ascoltava la solita grandissima folla. Ispirandosi al calendario, Lerner mi chiese di parlare dell'8 settembre dei partiti nel terremoto di Mani Pulite. Visto che eravamo ospiti del Pds, parlai del padrone di casa. Occhetto sosteneva di non sapere delle tangenti milanesi intascate dai suoi. Se diceva la verità, Baffo di Ferro s'era dimostrato un ingenuo al cubo. Se mentiva e sapeva tutto, era un gran bugiardo. Ma in entrambi i casi doveva dimettersi da segretario. Perché un partito come il Pds non poteva essere guidato da uno sciocco o da un mentitore.


Mi aspettavo una tempesta di fischi, di urla, di insulti. E invece, con mia grande meraviglia, venni avvolto da una tempesta di applausi. Insomma, tutto il pubblico della Festa era d'accordo con quel provocatore di Pansa. La bolgia durò un bel po'. Gli altri partecipanti al dibattito erano rimasti spiazzati. Bassolino tentò una difesa del partito, urlando: "Ci sono anche nostre responsabilità, però non possiamo essere messi sullo stesso piano della Dc e del Psi!".

Ma la frittata era fatta. A dibattito concluso, andammo in un ristorante della Festa a mangiare l'erbazzone reggiano: sfoglia salata ripiena di spinaci. Quando ci salutammo, Bassolino mi ringhiò in un orecchio: "Così Achille impara a dar retta ai consigli di Scalfari e tuoi. Io me li ricordo gli articoli che scrivevi su 'Repubblica' nel novembre del 1989: vai avanti, Occhetto, avanti nel tuo azzardo!".

La mattina seguente, prima dell'alba, Piero Fassino venne svegliato da una telefonata furente di Achille: "Hai sentito che cosa ha fatto il tuo amico Pansa alla Festa dell'Unità?". Ma Piero non sapeva nulla. Allora, con voce strozzata, Baffo di Ferro gridò: "Ha chiesto le mie dimissioni! E il pubblico si è alzato in piedi ad applaudirlo! Basta: non andrò più a Reggio Emilia a concludere la festa".

Sempre quella mattina, Walter Veltroni, direttore dell''Unità', si era preso un giorno di vacanza con la moglie, a Venezia: voleva godersi un pezzettino del Festival del cinema. Aveva appena posato la valigia in albergo che lo chiamarono dal giornale. E gli chiesero di rientrare subito a Roma perché Occhetto minacciava sfracelli. Achille sospettava una manovra per distruggere la sua immagine. Un complotto ordito dal maledetto Massimo D'Alema, con la complicità di quel manigoldo di Pansa, finto tifoso di Baffo di Ferro. Con lentezza, le acque si calmarono. E Occhetto venne convinto a tenere il discorso di chiusura della Festa.

Ve lo immaginate un giornalista che, alla Festa nazionale del PD, in corso a Firenze, chieda le dimissioni di SuperWalter perché non sa tenere insieme il nuovo partito? Io no. I Rompiballe Doc sono stati esclusi da tutte le messe cantate alla Fortezza da Basso. E se c'è da fare il viso feroce, bisogna puntare soltanto sul Caimano di governo e i suoi ministri, invitati alla Festa perché facciano i pupazzi da piattonare con lo spadone.

Ma questo mi pare il riflesso di una grande insicurezza del Pidì. E del timore che, una volta finita la Festa, cominci una stagione di guai per Veltroni e C. Tempi duri all'orizzonte. Speriamo di essere sempre qui a raccontarli, con la solita schiettezza.

(29 agosto 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Quel meeting ci batterà
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2008, 11:02:23 pm
Giampaolo Pansa

Quel meeting ci batterà

La ruota della storia ha cominciato a girare nel senso opposto.

Solo i califfi del Pd non se ne sono accorti.


Al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini c'ero andato molti anni fa. Era l'agosto del 1986 e dovevo discutere di informazione con Enzo Biagi, il moderatore era Robi Ronza. In seguito mi avevano invitato altre volte, ma per qualche motivo non ero riuscito a tornarci. Quest'anno ho accettato e il 27 agosto ho risposto alle domande di Alberto Savorana, il portavoce di Cl. Il tema dell'incontro recitava 'La passione per la storia' e lo scopo era discutere dei miei libri sulla guerra civile italiana. Il primo choc è stato di trovarmi di fronte a una platea di mille persone, venute per capire che tipo sono. E molte altre mi aspettavano fuori da quel salone strapieno, per ringraziarmi, per stringermi la mano, per incitarmi ad andare avanti.

Che scoperte ho fatto quella sera e il giorno successivo, nel vagare per il Meeting? Soprattutto tre. La prima che lì c'era un popolo, ossia una folla sterminata di gente comune, però non qualunque. Spesso di condizioni modeste e a famiglie intere. E tutti avevano nel cuore il desiderio di stare insieme, ma anche di incontrare persone diverse da loro. La seconda scoperta è stata che questa gente non ti chiedeva da dove venivi, ma voleva soltanto comprendere dove stavi andando.

Nessuno mi ha fatto l'analisi del mio sangue politico. Nessuno mi ha chiesto per chi avevo votato. Nessuno mi ha domandato se preferivo Berlusconi o Veltroni. Erano soltanto interessati a sapere perché avevo scritto quei libri, che cosa mi aveva mosso a fare quel passo e se intendevo proseguire lungo quella strada. Era il mio percorso umano che volevano scrutare, con lo sguardo attento dell'amicizia: il mio viaggio alla ricerca della verità e di me stesso. E ogni volta mi sono sentito ascoltato e mai giudicato. Non mi era mai successo.

La terza scoperta sono stati i giovani che lavoravano al Meeting, dalla mattina sino a tarda sera. Confesso che non voglio mai occuparmi dei giovani.
La mia distanza da loro è ormai troppo grande, e non solo a causa dell'età. A Rimini ne ho incontrati un esercito. Erano più di 3 mila per far girare al meglio la macchina. Tutti volontari, tutti venuti a loro spese. Luigi Amicone, il direttore del settimanale 'Tempi', mi ha raccontato che ne erano arrivati 14 dal lontanissimo Kazakistan, stretto fra Russia e Cina. Pagandosi il viaggio e soltanto per pulire i bagni.

Nell'osservare il mondo del Meeting mi sono ricordato del vecchio motto di un presidente francese: François Mitterrand. Aveva vinto le elezioni con lo slogan: 'Una calma forza tranquilla'. Anche i ciellini sono così. E anche per questo vinceranno. Diventando sempre più forti in un'Italia nevrotica che non crede in niente, strozzata dal relativismo, senza più passioni o aggrappata a brandelli di passioni consunte che non sono più una bandiera.

Uno che l'ha capito subito è un'astuta eccellenza del Partito Democratico: Ugo Sposetti, già tesoriere dei Ds e grande esperto delle vecchie Feste dell'Unità. Quando è arrivato al Meeting, ha iniziato a girare, a guardare, ad ascoltare. E ha concluso: "Devo ammetterlo, siete più bravi di noi. Per vedere la nuova Festa dell'Unità bisogna venire da voi a Rimini".

A qualche ciellino si sarà accapponata la pelle nel sentir paragonare il Meeting alle defunte feste comuniste. Ma Sposetti ha visto giusto. Proviamo a pensare alla Festa nazionale del Pidì a Firenze. Quasi tutte le sere, per capire che roba sia, mi guardo Nessuno tv che fa le dirette dei dibattiti alla Fortezza da Basso. Se fossi Veltroni oscurerei quell'emittente. E rinuncerei a metter su la tivù del partito. Che strazio il cabaret dei sopravvissuti! Vecchie facce che danno aria ai denti per dimostrare di essere in vita. Litanie logore, spesso urlate di fronte a molte sedie vuote o ai volti annoiati di militanti più anziani di me.

Mi godo lo spettacolo con un sentimento doppio. La maligna goduria di aver fatto bene ad avere cattivi pensieri sulla sorte delle sinistre italiane.
E l'angoscia di vedere sparire un mondo nel quale anch'io ho creduto. Poi mi dico: forse la ruota della storia ha già cominciato a girare nel senso opposto. E i superbi califfi del Pidì e delle altre parrocchie rosse non se ne sono accorti.

Ripenso al meeting di Rimini e concludo: maledetti ciellini, ci sconfiggerete. Anzi ci avete già battuti. Come diceva la favola del cavaliere che combatteva senza accorgersi di essere già morto? È il caso della sinistra di oggi. Speriamo che i vincitori ci offrano almeno l'onore delle armi.

(05 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. I furbissimi e il barbaro
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:39:00 am
Giampaolo Pansa


I furbissimi e il barbaro


Il tifone Di Pietro si sta avvicinando alle coste democratiche e i capi del Pidì non muovono un dito per fermarlo  Chi l'avrebbe mai detto che due furbissimi come Walter Veltroni e Max D'Alema sarebbero stati messi nel sacco da quel barbaro molisano di Antonio Di Pietro? Un buzzurro che non è mai stato a Mosca, non ha conosciuto Togliatti fin da piccolo, non ha frequentato Berlinguer, non si è mai laureato alla scuola di guerra del vecchio Pci. Invece sta accadendo proprio questo. Secondo gli ultimi sondaggi, l'Italia dei Valori mangia la terra sotto i piedi al Partito Democratico. Ha quasi raddoppiato i voti di aprile: dal 4,4 all'8,5 per cento. E cresce a vista d'occhio, mentre il Pidì scende sotto il 30 per cento.

Il dramma di Walter e Max è l'esito di una resa dei conti con il Fato. Sedici anni fa, nel terremoto di Tangentopoli, gli eredi del Pci furono gli unici a salvare se stessi e il partito. Allora si disse che a concedergli la grazia era stato soprattutto Di Pietro, il ferro di lancia del pool di Milano. Vero o falso che fosse, qualche anno dopo Tonino venne premiato dal Partitone Rosso. Che lo mandò in Parlamento con una trionfale elezione nel Mugello.

C'ero anch'io, per conto dell''Espresso', a vedere l'esordio politico di Tonino. Settembre 1997, Firenze, Festa dell'Unità nell'ex area Fiat di Novoli. Quindicimila compagni in tilt per l'apparizione di Di Pietro sul palco, accanto a D'Alema, segretario del partito. Indicando Tonino al popolo della Quercia, Max pronunciò una formula che oggi suona iettatoria: "L'incontro tra un funzionario onesto dello Stato, figlio di contadini democristiani del Mezzogiorno, e il popolo rosso di Firenze è un segno che l'Italia è cambiata. E a Enrico Berlinguer sarebbe piaciuto molto!". Poi concluse con uno slogan fantozziano: "Di Pietro ha detto: sono un moderato e scelgo l'Ulivo. Dunque Tonino lo dobbiamo ringraziare, non convertire!".


Le tante compagne presenti a Novoli urlavano di gioia. Tutte le storiacce sul conto di Tonino, i soldi ricevuti nelle scatole di cartone, le auto, gli appartamenti, le cattive compagnie, erano svanite nel cielo stellato della festa. Se osavi qualche domanda maliziosa, le compagne ti ringhiavano: "Vuoi mettere la rogna tra le preghiere?". E godevano nell'ammirare sul palco, accanto a Max, l'uomo più visto alla tivù negli ultimi cinque anni. Un gigione dal sorriso malandrino, con le mosse del gattone che la sa lunga. Che importanza aveva se nel parlare s'impappinava, storpiava le parole e straziava i congiuntivi?

Il giorno successivo chiesi a Guido Sacconi, il segretario provinciale del Pds, che tipo di allievo fosse Di Pietro. Lui mi rispose, profetico: "Uno che impara tutto con una velocità impressionante". Ritrovo lo stesso aggettivo nel giudizio di un grande sondaggista, Nando Pagnoncelli ('La Stampa', 7 settembre): "Il consenso per Di Pietro si sta impennando anche nelle regioni rosse e poi in Molise e in Abruzzo, in forme impressionanti".

Dopo la sconfitta elettorale di aprile, il Pidì pensava di dover combattere soltanto contro Silvio il Caimano. Ma adesso scopre di avere in casa il peggior nemico. Di Pietro si è dato una missione: distruggere il Pidì. La prova generale dell'invasione barbarica la farà nell'autunno in Abruzzo. Poi cercherà l'assalto finale nelle elezioni europee del 2009, forse con l'aiuto dei girotondini sempre più assatanati.

Nulla è più imprevedibile della politica. Ma il meteo annuncia che il tifone Di Pietro si sta avvicinando alle coste democratiche. E i capi del Pidì non muovono un dito per fermarlo. Walter e Max non hanno neppure spiegato perché, in aprile, si siano alleati proprio con Tonino. L'hanno fatto per non inimicarsi la magistratura? Per il timore di un ricatto su chissà quali carte giudiziarie? Per l'arroganza di chi ritiene d'essere il più forte? O per semplice stupidità?

Comunque sia, il Pidì sta vivendo il suo settembre nero. Poi verrà un ottobre nerissimo. Quindi un novembre color dell'inferno. Tonino il Barbaro sarà spietato. E i capi democratici si troveranno sempre più nel pallone. Lo si è visto nell'ultima polemica sulla Resistenza e la Repubblica sociale. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha detto una verità: i giovani che si arruolarono con Salò erano convinti di difendere la patria dagli anglo-americani. Lo erano anche quelli che poi passarono a sinistra. Però Veltroni sa rispondere soltanto attaccandosi all'osso dell'antifascismo. E l'anticomunismo, caro Walter? Già, ma Veltroni ci ha già spiegato di non essere mai stato comunista. E di non sapere neppure che cosa fosse il vecchio Pci.

(12 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. L'antifascismo obbligatorio
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:31:01 am
Giampaolo Pansa


L'antifascismo obbligatorio


Fini rischia il consenso dei suoi per la voglia di entrare nel Partito Popolare europeo  Gianfranco FiniAnche a me piacerebbe vivere in un paese liberale. Dove tutti sono antifascisti e dunque anticomunisti e quindi, semplicemente, democratici. Ma l'Italia non è così. E non lo diventerebbe neppure se Gianfranco Fini, il leader di An e oggi presidente della Camera, ripetesse tutti i giorni la litania che ha fatto scandalo. Quella dove Fini dice che la destra deve diventare antifascista. E fare suoi i valori-guida dell'antifascismo: libertà, uguaglianza, solidarietà sociale.

L'Italia è una nazione diversa da altri paesi europei. E risente ancora oggi di una storia cominciata all'inizio del Novecento. Dopo la fine della prima guerra mondiale, le sinistre di allora (socialisti massimalisti e comunisti) pensano sia arrivato il momento di 'fare come in Russia' e di dare inizio alla rivoluzione proletaria. È la fase che verrà chiamata del Biennio Rosso (1919-1920). In quel tempo l'Italia era un paese agricolo e devastato dalla miseria. Gli scioperi agrari, sempre più violenti, sembrarono mandare al tappeto i capitalisti del tempo. Tanto che i giornali socialisti ripetevano: "L'Italia della rivoluzione è nata!".

Fu un errore tragico. Invece della rivoluzione, emerse la reazione al Biennio Rosso: lo squadrismo di Mussolini, che nell'ottobre 1922 conquistò il potere. Nacque il regime fascista, il secondo sistema autoritario in Europa, dopo quello leninista in Russia, e con undici anni di anticipo sul nazismo di Hitler. Il regime mussoliniano finì con l'ingresso dell'Italia in guerra, al fianco della Germania. Dopo una serie terrificante di sconfitte militari, e centinaia di migliaia di morti, nel luglio 1943 i Savoia si liberarono del Duce e in settembre cambiarono campo, alleandosi con gli inglesi e gli americani.

La faccenda sembrava conclusa, ma non fu così. Liberato da Hitler, Mussolini fondò la Repubblica Sociale Italiana.
Era uno stato debole e vassallo dei tedeschi. Ma cercò di dotarsi di una forza militare. Ci riuscì perché migliaia e migliaia di ragazzi e ragazze italiani si arruolarono volontari, per cancellare la vergogna dell'armistizio e difendere la patria dall'invasore anglo-americano. Cominciò una guerra civile: fascisti contro antifascisti. Durò appena venti mesi, ma germinò tanto odio da bastare sino a oggi.

Gli Alleati vinsero. Insieme a loro vinse la Resistenza, ossia i partigiani. Dopo il 25 aprile, ebbero inizio le vendette sui fascisti sconfitti, con tantissimi assassinati, chi dice ventimila e chi trentamila. A quel punto fu chiaro che il Pci e molti partigiani delle Garibaldi non intendevano conclusa la lotta. Furono loro a ingaggiare una seconda guerra civile per la conquista violenta del potere. Lo scopo era di fare dell'Italia un paese satellite dell'Unione Sovietica. Ma era un proposito folle, che lo stesso Stalin condannava. E anche questa nuova guerra interna finì con le elezioni del 18 aprile 1948, vinte dalla Dc di Alcide De Gasperi.

Nacque la Prima Repubblica, poi sepolta da Mani Pulite. Per anni gli italiani rimasti fascisti non ebbero vita facile. Erano dei vinti, obbligati a comportarsi come tali. Avevano di fronte un antifascismo autoritario che li considerava cittadini di serie B. Un antifascismo arrogante ancora oggi. Che pretende di essere l'unico sacerdote della verità storica. Che mette all'indice i libri che non gli piacciono. Che domina l'insegnamento della storia nelle scuole. Tuttavia la Destra ha cominciato a farsi sentire. È andata al governo per la terza volta. E quel che più conta ha espresso un'opinione pubblica che comincia a dire la sua nei giornali, nell'editoria libraria e nel dibattito pubblico. Insomma, il popolo della destra esiste e non si nasconde più come era costretto a fare sino a pochi anni fa.

Adesso, a questo popolo, Fini, voglioso di entrare nel Partito Popolare Europeo, ordina di fare suoi i valori dell'antifascismo. E lo dice ricordando soltanto tra parentesi che c'è anche un antifascismo comunista. Dunque è fatale che una parte di quel popolo respinga l'ordine di Fini. Anche perché comincia a essere sbeffeggiato dalle tante sinistre che gli gridano: avete visto?, anche il vostro leader ammette che avevamo ragione noi. La questione non mi riguarda perché sono antifascista da sempre. Ma riguarda centinaia di migliaia di italiani onesti che respingono l'antifascismo obbligatorio che Fini vuole imporgli. Penso che il Presidente della Camera avrà dei grossi problemi con i propri elettori. Ma, come dice il poeta, chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

(19 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. I casalesi a Cuneo
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 06:25:43 pm
Giampaolo Pansa,


I casalesi a Cuneo


Trentotto anni fa Sciascia mi spiegò "la teroria della palma" per indicare l'espansione della mafia al Nord  Immigrati dopo la strage
di Castel VolturnoI casalesi del titolo non siamo noi di Casale Monferrato. Sono i gangster camorristi di Casal di Principe. Mentre Cuneo è Cuneo, la città piemontese all'estremo nord-ovest italiano, sul confine con la Francia. Vi stupireste se i casalesi armati di mitragliatori fossero arrivati sin lassù? Io no. Per ora la conquista non è avvenuta, ma prima o poi avverrà. L'ultima inchiesta de 'L'espresso' ci ha spiegato che Gomorra è già partita alla conquista dell'Emilia e del Veneto. Dunque non si vede perché non dovrebbe mettere le mani su Torino, per poi arrivare ancora più a ovest.

Tanti anni fa si pensava che la mafia sarebbe rimasta confinata in Sicilia. E che la camorra e la 'ndrangheta non sarebbero uscite dalla Campania e dalla Calabria. Poi ci siamo accorti che non era così. Un italiano che aveva visto tutto per tempo è stato Leonardo Sciascia: grande scrittore e lucido pessimista, capace di guardare lontano. La prima volta che mi capitò d'intervistarlo fu per 'La Stampa' di Alberto Ronchey. Il direttore voleva pubblicare un colloquio con lo scrittore a proposito della mafia. E mi mandò in Sicilia. Era l'ottobre del 1970, trentotto anni fa. Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica.

Lo scrittore mi domandò: "Conosce la teoria della palma?". Ammisi di no. Lui proseguì: "Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all'anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono".

Gli chiesi: "Che cosa c'entrano le palme con la mafia?". Sciascia sorrise: "Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l'Italia del nord. Tra un po' di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha in Sicilia. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c'erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l'altro. Un sistema dentro il sistema. Ha vinto il sistema di Cosa Nostra: più rozzo, più spregiudicato, più violento. E vincerà anche al nord".

Confesso che, rilette oggi, le parole di Sciascia mi mettono più paura di quando le ascoltai. Cerco un perché e mi rispondo che nel 1970 ero un giornalista giovane, con la metà degli anni di adesso. Ma poi mi dico che l'anzianità degli essere umani non c'entra e non è mai pericolosa. Il pericolo viene dalla vecchiaia delle società e degli Stati che dovrebbero governare la senescenza di un paese.

Ogni mattina, i giornali mi portano in casa il ritratto di una repubblica coperta di rughe, impacciata nei movimenti, lenta a reagire di fronte ai rischi che la minacciano. Tra questi rischi c'è la giovinezza sanguinaria del grande crimine organizzato. Noi discutiamo, come a Bisanzio, spaccando il capello in quattro, litigando, dividendoci in fazioni contrapposte, incapaci di trovare una tregua. Loro, invece, sparano e uccidono. Con le pallottole o con la droga.

La strage di Castel Volturno rappresenta un passo in avanti dentro questa strategia. Un passo senza precedenti e molto pericoloso. Sono stati uccisi dei neri, forse innocenti o forse coinvolti nello spaccio di droga. E la strage ha prodotto un evento anch'esso senza precedenti: una furiosa marcia di protesta di altri neri, che ha preso di mira i simboli della società bianca che incontravano per strada. La stessa cosa è accaduta a Milano, dopo il corteo di protesta per il ragazzo nero ucciso da due bianchi violenti.

La domanda inevitabile riguarda quel che accadrà domani. Tutti ci auguriamo che il governo e le forze dell'ordine riescano a sgominare i killer di Castel Volturno. Ma anche dopo questo possibile successo, non sarà risolto il problema che le due marce dei neri hanno fatto emergere. Un problema assai più pesante dei clandestini stranieri presenti in Italia. Siamo di fronte a italiani nati qui, ma che hanno una pelle diversa dalla nostra. Dobbiamo convivere con loro o combatterli perché stiano al loro posto?

La mia risposta è persino banale: dobbiamo convivere, ma nel rispetto della legge che è uguale per tutti. Non sarà facile. La paura di tanti italiani non è un'invenzione, come sostengono in molti a sinistra. È una paura reale. E purtroppo, come ci insegna la storia, la paura può essere una cattiva consigliera.

(26 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Quei parolai pericolosi
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2008, 03:44:40 pm
Giampaolo Pansa.


Quei parolai pericolosi


Messa all'angolo dal Caimano l'opposizione risfodera lo spauracchio delle velleità golpiste del centrodestra.
Non porta bene alla sinistra suonare l'allarme democratico e gridare contro la deriva autoritaria in arrivo. In proposito, ho qualche vecchio ricordo da cronista politico. Nel marzo 1972 si teneva a Milano il XIII Congresso del Pci, quello che avrebbe eletto Enrico Berlinguer segretario del partito. Mentre i lavori erano in corso, l'editore Giangiacomo Feltrinelli si uccise, maneggiando in malo modo una carica esplosiva che doveva far saltare un traliccio a Segrate. Era chiaro che si trattava dell'errore di un guerrigliero incapace. Ma il Pci, pur sapendo tutto, preferì parlare di complotto contro la democrazia.

A farlo fu Berlinguer, nel discorso conclusivo del congresso. Era un leader politico ritenuto saggio, eppure si abbandonò a dietrologie senza senso. Spiegò che il cadavere di Feltrinelli sotto il traliccio gli sembrava "una spaventosa messa in scena". Chiamò il partito a vigilare "contro le centrali di provocazione italiane e straniere". E invitò l'opinione pubblica "a una grande sollevazione per spezzare ogni tentativo di svolta autoritaria".

I suoi avversari del momento erano Arnaldo Forlani, segretario della Dc, e Giacomo Mancini, leader del Psi. Potevano essere considerati dei golpisti in potenza? Penso di no. Infatti il golpe non ci fu. Al posto dei carri armati, nel maggio 1972 arrivarono le elezioni parlamentari. Il Pci non ricavò nulla dai tanti allarmi: appena uno 0,2 per cento in più. Il Psi scese sotto il 10 per cento, ma perché ormai stava alla canna del gas. E la Dc trionfò, portando a casa quasi 13 milioni di voti, il 38,7 per cento, undici punti in più dei comunisti.

Ma le sinistre, cocciutamente, continuarono a parlare di derive autoritarie. Gli Anni Settanta furono l'epoca del Golpe Ininterrotto, figlio di quella buonadonna della Trama Nera. Mentre il terrorismo brigatista cominciava a uccidere, il Pci seguitò a strillare contro l'imminente colpo di Stato della destra, dei militari, della Cia americana. Ricordo che venne anche predisposta una rete clandestina di appartamenti, nei quali rifugiarsi se fosse scattata la maledetta Ora X. E a metà degli anni Settanta il gruppo dirigente del Bottegone visse qualche notte di terrore.

Adesso la storia si ripete, però in forme grottesche. Messe nell'angolo dal governo del Caimano, le opposizioni estraggono dagli armadi la vecchia mercanzia del pericolo autoritario: biancheria ingrigita, tarlata, che sa di muffa. Mentre il mondo trema per il gigantesco crack di Wall Street, il Partito Democratico e l'Italia dei Valori agitano lo spauracchio delle velleità golpiste del centro-destra. Si evoca la democrazia svuotata e il pericolo che l'Italia diventi come la Russia di Putin. E qualcuno si spinge ancora più in là.

Leoluca Orlando, portavoce di Tonino Di Pietro, ci spiega che rischiamo assai di peggio. Ossia di diventare come l'Argentina del generale Jorge Videla, con tutti gli orrori che ne conseguiranno. Il suo leader azzarda un altro passo e si dà alla fantapolitica. Avendo studiato la storia d'Europa sui Bignami in uso presso i liceali frettolosi, Di Pietro c'informa che siamo alla Repubblica di Weimar, quella che in Germania partorì il mostro hitleriano. Infine Tonino, l'uomo più intervistato d'Italia, se la prende con i 'grandi giornali'. E ci spiega che da noi "il pluralismo non esiste. Al suo posto c'è un oligopolio fatto di conflitti d'interesse".

Bisogna spingersi a tanto per galvanizzare una base infiacchita e mandarla in piazza nelle manifestazioni previste in ottobre? Il Bestiario ritiene che il moltiplicarsi dei parolai pericolosi sia la spia di un disagio più profondo: la sfiducia nelle proprie capacità politiche e la convinzione di non saper reggere al cospetto di un governo del Caimano che duri cinque anni.

Ma se è l'impotenza a suggerire tante assurdità, dobbiamo prepararci al peggio. Non ci sarà limite per i parolai pericolosi. E anche per quelli che, invece di dare aria ai denti, disegnano vignette. Sull'ultimo inserto comico dell''Unità', si vede un tizio che impugna una rivoltella e spara al ministro Renato Brunetta.

Posso dire che cosa mi ha ricordato quel disegno, presentato come satirico? Le vignette di 'Lotta Continua' contro il commissario Luigi Calabresi. Lui perché gettava gli anarchici dalle finestre della questura. Brunetta perché prepara i forni crematori per i fannulloni d'Italia. Coraggio, avanti così, in questo paese di santi, di navigatori e di parolai mandati in Parlamento e strapagati con le nostre tasse.

(03 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Un bel 5 in condotta? Meglio un 4
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2009, 11:39:20 pm
IL BESTIARIO

Un bel 5 in condotta? Meglio un 4 (di Giampaolo Pansa)

Volete sapere come mio nonno ha imparato a leggere e scrivere?


Giovanni Eusebio Pansa era nato nel 1863 a Pezzana, un paese della pianura vercellese. Il suo mondo stava immerso nella povertà. Risaie nebbiose, cascine come fortezze solitarie, pochi padroni, tanti braccianti. I maschi cominciavano a faticare da piccoli. Due volte l’anno, a Vercelli c’era la fiera dei servitori. I ragazzini venivano messi in mostra dai genitori. I possidenti affittavano i più robusti, i “fioroni”. E li portavano nei loro poderi.

I “fioroni” erano analfabeti. Lo era anche Giovanni Eusebio. Fino a quando nel 1882, a diciannove anni, non venne chiamato sotto le armi. La vita del soldato era meno dura di quella sui campi. In più, le reclute avevano il vantaggio di andare a scuola dai maestri militari. Al termine dei due anni di servizio, dovevano dimostrare di aver imparato a leggere e a scrivere. All’esame finale, chi risultava a metà strada si ciucciava altri sei mesi di ferma. E rischiava di farne altri sei nel caso che i maestri l’avessero bocciato di nuovo.

Anche per questo, alla fine dell’Ottocento tra gli analfabeti c’erano più femmine che maschi. Mia nonna Caterina Zaffiro, moglie di Giovanni Eusebio, non sapeva né leggere né scrivere. La ricordo china sulle pagine di “Grand Hotel”. Stupito, le chiedevo: «Come fai a capire, visto che sei analfabeta?». Lei ringhiava: «Guardo le figure e non mi scappa niente. Lasciami perdere e pensa a studiare, se non vuoi rimanere ignorante come me».

Anche negli anni Quaranta della mia infanzia la severità pagava. Era il pilastro dell’istruzione pubblica. Gli insegnanti avevano un potere assoluto. Se non mostravi di imparare o eri indisciplinato, il maestro ti picchiava sulle dita con il righello di legno. I prof delle medie ti scrivevano sul diario delle note durissime. Dovevi farle firmare dal papà o dalla mamma, perché sapessero che cattivo soggetto era il loro figliolo.
Allora le famiglie non erano per niente felici di avere in casa uno scolaro turbolento, che non studiava e in classe non stava “composto”. Che parola magica! Riassumeva in tre sillabe il rispetto che ogni ragazzo doveva mostrare per la scuola. Nessun genitore si sognava di prendersela con il maestro o il professore. E se il voto in condotta era basso, finivi in castigo anche a casa.

Oggi il mondo si è capovolto. Un insegnante delle medie mi ha detto: «I genitori sono diventati i sindacalisti dei loro figli». Ecco descritto, con un’immagine terribile, lo sfascio della scuola italiana. Il disastro rimbalza ogni giorno sulle pagine dei quotidiani. Ci sono notizie che valgono più di un’inchiesta. L’ultima, del 22 gennaio, racconta che a Milano una madre e una nonna hanno inseguito e picchiato una prof che aveva osato punire la loro bambinaccia irriverente.

Qualche giorno fa la Banca Centrale Europea ci ha spiegato che i piani anti-crisi adottati dai governi dell’area euro rischiano di generare un impatto negativo sulle future generazioni. Immagino anche a causa dei risparmi obbligati nel settore dell’istruzione. Ma la verità è che i guai sono cominciati ben prima della crisi. Con la depressione morale degli insegnanti, sempre più smotivati. Con il bullismo in classe che dilaga impunito. Con l’assenteismo dalle lezioni che si fa sempre più vasto.

Leggo che il ministro francese dell’Educazione, Xavier Darcos, da marzo manderà nelle scuole cinquemila funzionari per individuare chi fa assenze ingiustificate. Non so che cosa deciderà di fare il nostro ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. Ma so che è una donna che vale tre uomini. E la incoraggio a proseguire sulla strada della severità. Senza badare alle proteste degli studenti, delle famiglie, dei sindacati e delle tante sinistre parolaie.

Del resto, è sufficiente dare un’occhiata a quel che succede in questa sfigatissima Italia per rendersi conto che l’istruzione conta quanto il due di picche. I giornali sono scritti con sciatteria: articoli interminabili senza un capoverso e gremiti di parole banali, assenza del congiuntivo, concetti esposti in modo opaco. Leo Longanesi raccomandava di “grattare” ogni pezzo, e poi di grattarlo ancora, per ripulirlo di tutte le impurità. Ma in molte redazioni non vedo più grattugie all’opera.

Nelle università si stanno aprendo corsi per insegnare ai laureandi come si scrive una tesi. I docenti si sono accorti che molti studenti non sanno mettere insieme un testo più lungo di qualche sms. L’abitudine ai messaggini inviati con i cellulari genera conseguenze grottesche. A un esame di storia del Risorgimento, una studentessa si ostina a parlare della spedizione dei Mille e di Nino Biperio. «Chi è questo Biperio?» domanda, stupito, il docente. Poi si scopre che si tratta di Nino Bixio: la ragazza era convinta che la “x” significasse “per”. E in un concorso per diventare magistrati, è emerso che molti dei futuri giudici commettono errori di sintassi e persino di ortografia. Scrivendo in modo sbagliato anche le parole più semplici.

Fra tanto disastro, in questi giorni si è aperta una polemica sui molti cinque in condotta che compaiono sulle pagelle del primo trimestre. E di nuovo si è gettata la croce addosso al ministro Gelmini. Da antico studente con nonni analfabeti, dico che sarebbe necessario scendere dal cinque al quattro. Coraggio, professori. Bocciate, bocciate, forse qualcosa cambierà.

Lunedì, 26 gennaio 2009
da ilriformista.it 

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Il Bestiario. A che serve sparare su Silvio?


Dell'intervista che Fedele Confalonieri ha dato a Stefano Feltri per il Riformista, mi ha colpito il passaggio sulla satira anti-Cavaliere. Fidèl ha rivelato che «Silvio soffre l'accanimento sarcastico».
 E come esempio ha ricordato che «sul Corriere della sera, Giannelli gli dedicava nove disegni su dieci, anche quando stava all'opposizione». Emilio Giannelli è un vignettista politico tra i più bravi in Italia. Lo conosco da anni e ho scritto la prefazione alla sua prima raccolta di disegni. Ma oggi non lo capisco più. Ha ceduto il suo humour alla battaglia contro il Caimano. Anzi contro il Maghetto, come raffigura Berlusconi. Per questo, oggi Giannelli non sorprende. Non fa ridere. Annoia. Vuole colpire il Berlusca, però distrugge la propria fantasia. Insomma, per lui la sindrome anti-Cav. si è rivelata un fantozziano boomerang. È una sindrome che conosco perché ne ho sofferto anch’io. Nel 1989 stavo a Repubblica quando il Cavaliere andò alla conquista della Mondadori e del Gruppo Espresso. Nel 1990 pubblicai “L’Intrigo”, un libro patriottico nei confronti di Scalfari e C., ma feroce contro Berlusconi. All’inizio di quell’anno, avevo chiuso il Bestiario su Panorama, insieme a Claudio Rinaldi che dirigeva il settimanale. Nel luglio 1991 andai all’Espresso affidato a Claudio. Cominciammo ad azzannare Sua Emittenza nell’estate 1993, quando scoprimmo che stava per scendere in politica. Da quel momento, la nostra guerra contro il Berlusca divenne totale, una settimana dopo l’altra. Molte delle requisitorie contro di lui le scrissi io, con una spietatezza di cui oggi non sarei capace. Però le copertine erano affare di Claudio. Rinaldi odiava Berlusconi. Lo considerava un pericolo per la democrazia. Inoltre il Cavaliere gli aveva sottratto la creatura più cara: Panorama. Le copertine erano la sua vendetta. Tutte sferzanti, accanite, crudeli. Ne cito una: un perfido montaggio fotografico mostrava Silvio vestito da gerarca fascista, il fez con la nappa, i fascetti rossi sulla camicia nera. La battaglia senza respiro contro Berlusconi non ci portò fortuna.
L’Espresso cominciò a perdere lettori che non apprezzavano il nostro furore. Ma anche il centro-sinistra iniziò a perdere voti. E nelle elezioni del 27 marzo 1994, la sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto sancì il primo ingresso del Cavaliere a Palazzo Chigi. Alla vigilia del voto, le critiche contro l’Espresso s’infittirono. Rinaldi andò a trovare Umberto Eco nella sua casa di Milano. Semisepolto fra i trentamila volumi che coprivano le pareti, il guru Umberto elencò i nostri errori. Avevamo cominciato ad assalire Berlusconi troppo presto, riconoscendogli in anticipo la qualifica di capo della destra italiana. Gli avevamo dato troppo spazio: «Non avrei propinato ai lettori dieci-venti pagine a numero. Il lettore si annoia se tutte le settimane deve leggere le storie dei suoi debiti e delle sue bugie, del Caf, della Loggia P2». Terzo rimprovero di Eco: «Se l’Espresso intendeva davvero mettere in difficoltà Berlusconi, doveva essere meno prevedibile». Anche Indro Montanelli, che voleva bene a Claudio, disse: «Non posso credere che il mio amico Rinaldi abbia voluto portare delle fascine al fuoco di Forza Italia.
Ma la demonizzazione approda sempre al risultato contrario quando si esagera. Sono riusciti a fare di Berlusconi il protagonista della politica italiana». Rinaldi replicò da par suo sul numero dell’8 aprile, a elezioni avvenute. Scrisse: «Diciamoci la verità, amici: Berlusconi era forte, fortissimo, i suoi voti li avrebbe presi in ogni caso. Si poteva fermarlo solo denunciando sin dall’inizio, davanti al Paese, l’assurdità di un magnate della tv che dà la scalata al governo impugnando come clave quelle reti tv che lo Stato gli ha concesso. Peccato che per mesi l’Espresso sia stato l’unico giornale a svolgere quest’opera. E che gli avversari politici di Berlusconi non abbiano aperto gli occhi in tempo». Quattordici anni dopo siamo allo stesso punto, prigionieri del medesimo dilemma. Esistono giornali d’ informazione costruiti per intero contro Berlusconi. Tutti i satirici della tivù sbeffeggiano il Cav. Le librerie rischiano di crollare sotto il peso dei volumi che descrivono le nefandezze del Caimano. I cortei portano a spasso il suo pupazzo. E i vignettisti disegnano ogni giorno il loro sberleffo contro Silvio. Nel frattempo, Berlusconi ha vinto tre elezioni su cinque: nel 1994, nel 2001 e nel 2008.
Anche oggi le opposizioni sono alla canna del gas. Malgrado il gran strillare sul regime, sul nuovo Mussolini. E nonostante le urla dello sciagurato Di Pietro che, a Montecitorio, si rivolge al premier chiamandolo «presidente Videla». Ma il Caimano non cadrà mai sotto questi colpi esagerati e ingenui. Di qui la mia domanda: è utile sparare ad alzo zero contro il Berlusca? Non ho l’autorità per dare una risposta. Però un’opinione posso esternarla: no, non è utile, tirare a palle incatenate non servirà a nulla. Il Cavaliere può cadere soltanto sotto le mazzate della crisi economica. Ma in quel momento saranno cavoli acidi per tutti. Anche per l’opposizione. Obbligata a succedere al Caimano, per di più in uno scenario disastroso. Oggi il Partito democratico non è pronto a fronteggiare quell’emergenza. E non ha la fiducia di molti elettori. Per conquistarla, non può essere soltanto contestativo. Deve dimostrarsi ideativo, propositivo. Ma mi accorgo che sto usando troppi “ivo”. E mi fermo qui.

Di Giampaolo Pansa su il Riformista


Titolo: Giampaolo Pansa lascia L'Espresso "Voglio restare bastiancontrario"
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2009, 11:40:26 pm
Giampaolo Pansa lascia L'Espresso "Voglio restare bastiancontrario"


Giampaolo Pansa lascia l'Espresso e passa al Riformista. Lo ha annunciato lo stesso giornalista nel giorno del suo 73esimo compleanno. "Mi sono dimesso - ha detto Pansa - dopo aver firmato un contratto importante per numero di articoli per il Riformista. Credo che mi divertirò". Pansa, nato a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, il primo ottobre 1935, lascia il gruppo Espresso, dove era entrato nel 1977, dopo dopo 31 anni.

In una intervista a Il Giornale, il giornalista che ha lavorato a La Stampa, Il Giorno, Il Messaggero e il Corriere della Sera, a 73 anni decide di accettare il corteggiamento de Il Riformista, il quotidiano diretto da Antonio Polito che sta così continuando la sua campagna acquisti per dare vita a un interessante prodotto editoriale (quando sarà aumentata anche la foliazione e ampliato il numero delle pagine).

Pansa assicura che “niente oro e oro” è stato versato nelle sue casse per il passaggio al quotidiano di Polito, e che lui invece è “un giornalista che gira ancora con la Panda”. Non è mai stato un giornalista scontato e il suo ruolo di “bastiancontrario” se lo è cucito addosso con gli anni. “E adesso cambio proprio perché voglio restarlo”. Di ognuno dei quotidiani che ha attraversato, Pansa conserva un sublime ricordo. A La Stampa dove gli fu cestinato il primo pezzo, la recensione di ‘Quell’ultimo ponte’ di Cornelius Ryan. A Il Messaggero dove fu nominato caporedattore, “ma non sapevo disegnare un menabò e meno male che c’era il vecchio Terracina che senza dir nulla mi ridisegnava le pagine”. Poi l’approdo a La Repubblica di Scalfari e quel ricordo, nitido e difficile. “La decisione più drammatica fu proprio con Scalfari – racconta Pansa -. Quando dicemmo no alla moglie di un sequestrato dalle Br che ci implorava di pubblicare i comunicati brigatisti. Solo dopo trent’anni capisci che è giusto. Se avessimo pubblicato i testi dei brigatisti, lo Stato chiudeva”.

In mezzo anche tanti reportage (storico quello del Vajont grazie a un paio di calosce, mentre “tutti gli altri erano all’Hotel Cappello di Belluno”) e un giudizio di D’Alema a Claudio Rinaldi: “Pansa si fa leggere dalla prima all’ultima riga. Ma non capisce un cazzo di politica. Peggio di lui solo Prodi”. Una dichiarazione che Giampaolo Pansa considera una medaglia, non una frecciata.

E adesso, a 73 anni suonati, è pronto per una nuova avventura. O meglio, come dice lui, “a tirare qualche sassata nelle vetrine dell’informazione”.


da www.tgcom.mediaset.it


Titolo: Giampaolo PANSA. "Anch'io temo di morire d'amianto"
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 10:49:07 am
7/3/2009 (8:2) - INTERVISTA

Pansa: "Anch'io temo di morire d'amianto"

Lo scrittore nato a Casale, capitale dell’Eternit: «Una Spoon River collettiva, peggio della guerra»


GIUSEPPE SALVAGGIULO

«A Casale Monferrato c’è una psicosi. Io ogni volta che vedo qualcuno che muore di amianto tocco ferro e mi chiedo: chissà se adesso tocca anche a me...». Giampaolo Pansa, giornalista e scrittore, vive nella provincia di Siena ma resta un «casalese doc: sono vissuto lì fino alla laurea». E da lontano segue la vicenda dei morti di amianto e «la lotta dei pigmei contro il gigante industriale».

Torna spesso a Casale?
«Manco da anni. Ci torno col magone. Non riconosco più le persone. In via Roma, dove mia madre aveva il negozio di moda, vedo passare ragazze bellissime che non conosco, mentre non oso cercare quelle che ho ammirato da giovane. Mia sorella e mio cognato vivono ancora lì, in campagna». Teme per loro? «Certo. A Casale ne muoiono di continuo. È una sofferenza devastante, una Spoon River collettiva».

E per sé?
«Anche. Ho letto che la malattia ha un’incubazione di 40 anni. Io ne ho compiuti 73 lo scorso ottobre...».

Che cos’era l’Eternit per Casale?
«Nei primi decenni del ‘900 era la nostra Fiat. Per un ragazzo che avesse come orizzonte quello di lavorare giovane c’erano tre possibilità: le cave di marna, la soluzione più orrenda; i cementifici - a Casale erano addirittura un centinaio alla fine dell’800 - e infine l’Eternit, che allora sembrava il lavoro più pulito».

Com’era il rapporto con l’industria?
«La grande fabbrica che oggi è nel cuore della città, vicino al Po, era un centro non solo economico ma anche sociale, con il dopolavoro e il circolo sportivo».

Conosceva qualcuno che ci lavorava?
«Mio zio Francesco Pansa, nato nel 1901, ultimo fratello di mio padre. Famiglia poverissima: erano sei figli orfani di un bracciante e cresciuti dalla nonna. A 15 anni era già operaio all’Eternit, poi esperto montatore dei grandi tubi in giro per l’Italia, soprattutto al Sud. A 25 anni emigrò in Argentina per cambiare vita, ma tornò in Italia più povero di prima e allora lo ripresero all’Eternit».

Lavorò per tutta la vita lì?
«No, perché l’alternativa la trovò sposando la tredicesima figlia di un pescatore del Po, Giuseppa, che noi chiamavamo la zia Pinota. Allora il Po non era inquinato, ci pescavano splendidi salmoni e i pescatori erano personaggi strani, che parlavano una lingua tutta loro...».

E così zio Francesco mollò la fabbrica?
«La zia Pinota portava in dote solo una licenza per aprire un negozio di alimentari. Ma si poteva trasformare in licenza di ristorazione e così lo zio aprì una trattoria sul ponte del Po. Forse per questo si è salvato. Quando poi è morto ancora non si parlava di decessi per eternit».

Che immagini evoca l’amianto, nei suoi ricordi?
«Casale è piena di amianto: veniva usato nelle campagne per tante ciuende, le delimitazioni degli orti, o per coprire i depositi degli attrezzi e delle biciclette».

In quegli anni si parlava di pericoli per l’esposizione alle fibre di amianto? «Assolutamente no. La cosa drammatica è che per tantissimi anni non c’era alcun timore».

Nemmeno nei partiti, nei sindacati, nella sinistra, sui giornali?
«Alla fine degli Anni ‘50, quando studiavo all’università, facevo il pendolare con Torino. La sera tornavo a Casale - il bar, gli amici, le ragazze - e insomma noi eravamo impegnati, di sinistra ma polemici e senza tessere di partito, un po’ di cani sciolti, leggevamo “Il Mondo”, “Il Ponte” di Calamandrei, facevamo i dibattiti al circolo Gobetti, io cominciavo a scrivere... no, nessuno si era mai preoccupato dell’Eternit».

Quando ha cominciato a interessarsi di questa storia?
«Nelle ultime settimane. Ho fatto una cartellina. Sono preciso. Ritaglio articoli, interviste agli oncologi, tutto».

Come mai dopo tanti anni?
«Qui mi arriva via posta il bisettimanale “Il Monferrato” che da un po’ di tempo pubblica tutti i nomi dei morti. Migliaia e migliaia, con età, professione, data del decesso. Impressionante. Ecco l’ultimo, il 27 gennaio: Alberto Sartor, geometra, aveva lavorato da tecnico all’Eternit. Quindici mesi fa non stava bene, gli hanno fatto le analisi: mesotelioma».

Qual è oggi il rapporto tra la sua città e l’amianto?
«Qui l’eternit ha fatto più disastri della guerra».

da lastampa.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Un mostro chiamato Eternit
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 05:10:41 pm
IL BESTIARIO di Giampaolo Pansa

Un mostro chiamato Eternit


Mi sento in colpa per non aver mai scritto una riga sul pericolo dell’amianto e sull’Eternit, l’azienda che lo lavorava. Il cuore dell’Eternit, con lo stabilimento più grande e il vertice della società, stava nella mia città, Casale Monferrato.

 Chiamarla fabbrica della morte è poco. A Casale l’Eternit ha già ucciso 1.649 persone. E altre ne ucciderà, perché la gente continua a morire. Ad andarsene c’è pure chi non aveva mai lavorato all’Eternit. La malattia che li ammazza è il mesotelioma pleurico. Dicono che abbia un’incubazione lunga, può durare quarant’anni. Forse io l’ho scampata. Ma a stabilirlo sarà soltanto il Padreterno.

Adesso i giornali si occuperanno di questa strage. Il 6 aprile comincerà a Torino il processo all’Eternit e sarà uno scontro duro. Il pubblico ministero che ha condotto l’inchiesta è un magistrato famoso per l’abilità e il coraggio: Raffaele Guariniello. Bisognerà seguirlo con attenzione. Anche perché riporterà sulla scena una città che è stata importante nella vicenda industriale italiana.

Nel passaggio fra l’Ottocento e il Novecento, nel Monferrato casalese, i ragazzi poveri avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali. Consumavano la vita sottoterra, senza protezioni, rischiando di morire bruciati dal grisou. Le paghe erano misere. I cavatori rientravano a casa di notte, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che ridiscendere nel buio il giorno dopo. “I sepolti vivi” li avrebbe chiamati nel 1913 “La Fiaccola”, il settimanale socialista di Casale.
L’abbondanza di ottime marne calcaree, la materia prima della calce e del cemento, regalò alla città il boom dei cementifici. Ecco la seconda occasione di lavoro. All’inizio del 1900 quelle fabbriche erano più di cento. Vista dall’alto della salita di Sant’Anna, Casale offriva un profilo infernale. Una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili, sparava un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case erano bianchi. Nella calura estiva l’aria diventava irrespirabile. Non oso immaginare quale fosse l’ambiente interno ai cementifici.

Nel 1906 spuntò una terza possibilità. Dei genovesi impiantarono a Casale una fabbrica d’avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, secondo il brevetto di un austriaco. L’invenzione venne chiamata Eternit perché garantiva una durata eterna del prodotto. Dalle tegole si passò alle lastre, poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell’azienda fu trionfale.

L’Eternit arrivò a occupare 2.400 uomini, ma quelli che ci sono passati pare siano quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorare all’Eternit era un privilegio. Il posto risultava garantito. Ci lavorò anche il fratello più giovane di mio padre, Francesco Pansa, classe 1901. Operaio a quindici anni. Poi montatore dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Stufo dell’Eternit, emigrò in Argentina, ma dopo due anni ritornò a Casale, sempre all’Eternit. La sua fortuna fu di sposare la tredicesima figlia di un pescatore del Po. Che portò in dote la licenza per aprire un’osteria. Quando lo zio Francesco morì, nessuno si pose il problema se l’avesse ucciso o no l’amianto.

Il mostro dell’Eternit chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto maledetto. Una bomba nucleare sul fianco destro del Po. Si è poi scoperto che la lavorazione dell’amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore bianco brillante. Un grande velo di sposa che nascondeva un numero spaventoso di morti.

Le cifre conosciute dicono che l’Eternit ha ammazzato a Casale 1.649 persone. Suddivise così: 1.020 sono operai e impiegati che avevano lavorato in quella fabbrica, 375 sono le vittime di patologie legate all’amianto e 254 sono donne e uomini che non hanno mai messo piede all’Eternit. È la terza cifra che rende la strage ancora più terribile. Il mesotelioma pleurico ha ucciso a caso gente che si riteneva al sicuro, mai vissuta vicino alla fabbrica e impegnata in altri lavori. Tra i morti c’è pure chi aveva lasciato Casale da giovane, senza più tornarci.

Se la strage è emersa lo si deve soprattutto a un sindacalista e a un giornale. Il primo è Bruno Pesce, dirigente della Cgil e già segretario della Camera del lavoro cittadina, che oggi guida il comitato dei superstiti. Il giornale è “Il Monferrato”, storico bisettimanale di Casale. Diretto da Marco Giorcelli, alla fine del gennaio 2009 ha cominciato a pubblicare gli elenchi di tutte le vittime dell’Eternit. Sono rimasto sconvolto nel leggere, numero dopo numero, quella spaventosa Spoon River. L’anagrafe del cimitero dell’amianto: cognome, nome, data di nascita, data di morte.

È un elenco che andrà aggiornato. A Casale l’Eternit continua a uccidere, al ritmo di venti, venticinque persone all’anno. L’ultima vittima è di qualche settimana fa. Si chiamava Alberto Sartor, 70 anni, un imprenditore che da geometra aveva lavorato all’Eternit. La malattia gli era stata diagnosticata quindici mesi prima. Immagino che anche lui sia morto fra molte sofferenze. Per dirla in soldoni, il mesotelioma ti soffoca. È il cappio di un boia che si stringe attorno al collo, giorno dopo giorno.

Al processo ci saranno più di cinquemila parti civili. Non vorrei essere nei panni dei due signori sul banco degli imputati. Un barone belga e un riccone svizzero. Il mostro dell’Eternit non gli costerà come il ponte di Messina, ma siamo lì.

da ilriformista.it


Titolo: Giampaolo PANSA. È meglio che il Pd muoia
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2009, 06:34:47 pm
È meglio che il Pd muoia

di Giampaolo Pansa

Diciamoci la verità: il Partito Democratico è un giovin signore che sta morendo. Vale la pena di tenerlo in vita? Per poi vederlo di nuovo in agonia poco tempo dopo? So di dare un dolore a molti che hanno creduto in questo esperimento. Ma l’esperimento è fallito. Meglio prenderne atto e finirla qui. Cercando di immaginare un’altra strada per i riformisti italiani.

Tra quelli che hanno creduto nel Pd c’è anche il sottoscritto. Avevo poca fiducia nel suo leader, Walter Veltroni. Mi sembrava un peso piuma a confronto di un Berlusconi peso massimo. Per di più, aveva alle spalle una serie di sconfitte. Tanto che scrissi un Bestiario intitolato: “La favola del Perdente di successo”. Confesso che, lì per lì, mi sembrò un pezzo carogna. Poi mi dissi: per chi scrive sui giornali la cattiveria non è mai troppa.

Alle elezioni politiche dell’aprile 2008 ho votato Pd, pur intuendo che sarebbe stato battuto dall’armata del Cavaliere. A sconfitta avvenuta, ho pensato: pazienza, il Pd andrà avanti lo stesso, il ragazzo si farà le ossa e resterà in campo. Diamogli fiducia. Un partito nuovo non s’improvvisa in qualche mese.

Invece è accaduto il disastro. Nuove sconfitte elettorali in Abruzzo e in Sardegna. Le dimissioni di Walter. L’ingresso in scena del vice, Dario Franceschini. Una scelta presentata come obbligatoria, ma disastrosa. Il suo primo discorso mi è bastato. E senza essere un mago, ho compreso che la baracca non avrebbe retto. Non è una colpa essere sciocchi. Ma se uno sciocco prende la guida di un partito, soltanto il Padreterno può salvare lui, i suoi iscritti, i suoi elettori.

La campagna elettorale per le europee e le amministrative ha ribadito le previsioni più cupe. Una catastrofe politica e d’immagine. Inutile rievocarla, perché è robaccia dell’altro ieri. Al momento del voto, ho deciso di astenermi. Come altri elettori del Pd, non mi sono presentato al seggio. Era la prima volta che lo facevo in tanti anni. Ma non ho esitato a farlo.

Tuttavia, all’orizzonte intravedevo uno spiraglio di luce. Franceschini aveva giurato che in autunno avrebbe lasciato la sedia di segretario, cedendo il posto ad altri. Me lo vedo davanti ancora adesso, quando dichiara alla tivù: «Il mio compito si conclude in ottobre!». Aveva un tono ispirato e, al tempo stesso, tagliente. E l’ho quasi ammirato. Mi sono detto: finalmente uno della casta riconosce i propri limiti e se ne ritorna a casa.

Erano tutte balle. Il tragico Dario ci ha preso per i fondelli. Infatti eccolo di nuovo qua, a dirci: ci ho ripensato, voglio restare segretario del partito, dunque si aprano le danze! Danze di guerra, naturalmente. Contro un altro candidato, Pier Luigi Bersani. E subito dopo, ecco apparire gli schieramenti dei ras democratici. A cominciare dall’eterno Max D’Alema a fianco di Bersani. E dal redivivo Uolter Veltroni a dar man forte allo spergiuro Franceschini.

A quel punto ho immaginato che poteva esserci una terza via. Vale a dire un candidato nuovo: Sergio Chiamparino, il sindaco di Torino. Ho pensato a lui per una serie di motivi. Il Chiampa è un politico serio. Non urla. Non aggredisce l’avversario. Non sbrocca, ossia non parla a vanvera. Ha buon senso. È radicato sul territorio, come si usa dire. Se occorre, sa essere duro, ma conosce il valore della trattativa. Insomma, ecco uno in grado di far uscire il Pd dalle secche in cui si è arenato. E di riportarlo in mare aperto.

Sino a qualche giorno fa, volevo dedicare il Bestiario tutto a lui. E fare una dichiarazione di voto a suo favore. Poi ci ho riflettuto. Quel che leggo sul Riformista e sugli altri giornali, mi dice che nel Pd lo scontro sul leader si sta mutando in una guerra civile. Clan contro clan. Tutti contro tutti. Pioggia di pallottole al veleno. Vale la pena di gettare in un conflitto all’ultimo sangue un uomo come Chiamparino? O anche un altro politico per bene come lui?

La mia risposta è no. E il mio no mi suggerisce un’ipotesi diversa. Anche il Pd è un amalgama non riuscito. Ex comunisti ed ex democristiani non ce la fanno a convivere nello stesso partito. Chiunque sia il nuovo segretario, la loro guerra continuerà. Sempre più maligna e distruttiva.

Ma allora è meglio dichiarare che l’esperimento è fallito. E scrivere la parola fine. Il Pd è praticamente morto. Cercare di mantenerlo in vita sarebbe un’impresa non soltanto vana, ma dannosa. Anzi, tragicamente grottesca. Il risultato potrebbe essere uno soltanto: un cadavere che cammina. Del tutto incapace di contrastare il centrodestra. E meno che mai in grado di batterlo alle prossime elezioni.

Dunque ai democratici non resta che una scelta: dividersi e andare ciascuno per la propria strada. Quelli che vengono dai Ds possono dar vita a un partito socialdemocratico e riformista. Cercando un accordo con i reduci del Psi rimasti nel centrosinistra. E con le aree della sinistra radicale che non vogliono essere le frange lunatiche dell’anticapitalismo.

Lo stesso vale per i post democristiani della Margherita. Anche per loro c’è una via di uscita: trovare un accordo con l’Udc di Cesa e Casini. E dar vita a un nuovo partito centrista, sordo a tutte le sirene del berlusconismo. Un vecchio motto dice: marciare divisi per colpire uniti. È bene che la truppa dei democratici, a cominciare dai capi, se ne ricordino.

Comunque, come sostiene il saggio, per prima cosa bisogna vivere e poi filosofare. Il Pd sta morendo. Salvate il salvabile. In caso contrario, rassegnatevi alla dittatura del Cavaliere. Escort comprese.

lunedì, 29 giugno 2009

da Il Riformista


Titolo: Giampaolo PANSA. Dove stanno i nuovi terroristi.
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2009, 06:07:04 pm
Dove stanno i nuovi terroristi

di Giampaolo Pansa


Nel tragico caso di Piero Marrazzo ci sono due aspetti che impongono qualche domanda. Il primo riguarda le somme spese dal presidente della Regione Lazio nei suoi rapporti con i transessuali di via Gradoli. La questione non può essere cancellata con l’ovvia risposta che Marrazzo poteva fare dei propri redditi quel che voleva.
 
©LaPresse 26-10-2009 Cronaca: Berlusconi avverti' Marrazzo, attento c'e' un video su di te Nella foto: Piero Marrazzo foto di repertorio Sarebbe così se il protagonista della vicenda fosse un privato cittadino, un commerciante, un avvocato, un uomo d’affari. Ma non è il caso di Marrazzo. Lui era un uomo politico. Per di più elevato al rango di governatore della regione dove si trova la capitale d’Italia.

Qualche giornale, a cominciare dal Riformista, ha confrontato le somme consegnate ai trans e gli assegni firmati ai quattro carabinieri ricattatori con l’indennità percepita per l’incarico pubblico. L’indennità, così è stato scritto, ammontava a 13.600 euro al mese, al netto delle tasse. Una cifra molto alta per gli italiani che hanno stipendi normali. Ma molto bassa quando si pensa che ogni rapporto con i trans comportava una spesa consistente. In più c’erano gli aiuti in denaro concessi con regolarità al signore-signora preferito.

Può darsi che l’inchiesta della Procura di Roma scopra che Marrazzo aveva un altro reddito lecito, derivante da beni personali. Ma finora questa scoperta non è stata fatta. Anzi si è saputo che l’ex-presidente non godeva di una situazione finanziaria facile. Era gravato da mutui edilizi. E non si trovava sempre in regola con i pagamenti.

Ma allora è inevitabile chiedersi dove Marrazzo trovasse i soldi per soddisfare il lato debole del suo privato. Anche qui finora non c’è una risposta chiara. Nell’incertezza è dunque fatale che emerga il sospetto di introiti illegali, connessi all’incarico di governatore. Per dirla chiara, pur se in tono sommesso e aperto a ogni smentita, il numero uno del Lazio incassava tangenti? Questo interrogativo conduce a un altro: se così fosse, nella giunta regionale s’era insinuato il virus della corruzione?

La seconda domanda riguarda il comportamento di Marrazzo con i trans. Certo, non li frequentava allo scoperto. Ma andava spesso in via Gradoli con l’auto presidenziale, immagino con l’autista. E si faceva lasciare a poca distanza dal posto, con il pretesto di fare una passeggiata. Allora mi chiedo: è possibile che nessuno dei suoi collaboratori più stretti fosse all’oscuro di quelle frequentazioni? Se non erano occasionali, ma abituali, come facevano a non sapere? E come è possibile che i vertici politici della regione ignorassero il passatempo del presidente?

Chi ha vissuto in un collettivo professionale, la redazione di un giornale, uno studio legale importante, una giunta regionale, sa bene che tutti conoscono tutto del capo: vita, morte e miracoli, come dicevano le nostre nonne. Al nucleo di comando della Regione Lazio poteva sfuggire un aspetto così importante del privato di Marrazzo? Ma se qualcuno sapeva, perché non l’ha messo sull’avviso? Non tanto a proposito del rischio di essere scoperto. Bensì del pericolo di vivere in un modo inaccettabile per chi ha doveri pubblici molto stringenti, anche d’immagine. E della necessità di preservare il proprio onore.

Se la prima domanda ci porta a ipotizzare un sistema di corruzione fondato sulle tangenti, la seconda conduce a una certezza: nei piani alti della politica oggi domina un cinismo brutale. Lo stile di vita non conta più nulla. Puoi tenere di continuo comportamenti che non si addicono al tuo rango, ma nessuno ti richiama, né ti invita a correggerti. L’espressione “dare scandalo” è stata abolita. Sei ricattabile perché frequenti gente abituata a ricattare? E chi se ne importa.

Si sta affermando nella casta politica una nuova immoralità. Esistono molte eccezioni. Ma i due virus della corruzione tangentara e dell’indifferenza per gli stili di vita pericolosi dilagano. Non credo di esagerare. I cittadini considerano i politici dei ras incontrollabili. In più sanno bene che non ottieni nulla dal sistema pubblico se non paghi. E masticano amaro quando sentono parlare di lotta all’evasione fiscale. Chi dovrebbe imporla e condurla? Proprio i partiti, tutti, che poi chiudono gli occhi davanti ai loro errori e ai loro orrori. E ingrassano grazie ai milioni incassati in nero con le mazzette.

In queste settimane si è parlato più volte del clima di violenza che sta emergendo in Italia. Sono stato uno dei primi ad avvertire questo rischio nei miei Bestiari sul Riformista. Ogni giorno, purtroppo, la cronaca mi dà ragione. Ma oggi mi chiedo dove stiano i nuovi terroristi che possono aggredire la nostra repubblica. E ho paura della risposta che mi sento obbligato a dare. Non stanno in qualche rete clandestina, bensì alla luce del sole. Hanno prebende, onori e auto blu. È il partitismo cialtrone e mazzettaro il vero nemico della fragile democrazia italiana.

Vi ricordate che cosa avvenne a partire dal 1992? La Prima Repubblica cadde nel fango di Tangentopoli. E sotto i colpi dei magistrati di Mani Pulite. Ci furono degli eccessi, questo è vero. Ma il palazzo della politica era già minato nelle fondamenta dagli errori compiuti dai partiti.

Vogliamo rifare quell’esperienza? Mi auguro di no. Oggi le conseguenze potrebbero essere ben più drammatiche. Non c’è alle viste nessun nuovo Berlusconi, né a destra né a sinistra. Avremmo soltanto un grande vuoto. Che chiunque potrebbe riempire. Usando sistemi brutali. Imponendo un ordine di ferro. Un ordine, come si diceva un tempo, sorretto dalle baionette.

lunedì, 2 novembre 2009
da ilriformista.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Troppi fans per chi può sparare
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2009, 05:20:26 pm
Troppi fans per chi può sparare

di Giampaolo Pansa


A volte sui giornali compaiono notizie che ti riportano all’indietro nel tempo. Rivelando un mondo sotterraneo che i media ignorano o indagano molto poco.
Uno di questi casi riguarda un gruppo che si definisce “Comitato Anna Maria Mantini del nuovo Partito comunista italiano”.
 

Il gruppo si è fatto vivo a Firenze domenica 18 ottobre. E ne abbiamo saputo qualcosa grazie a una cronaca di Laura Montanari, pubblicata martedì 20 ottobre sull’edizione fiorentina di Repubblica. Chi era Anna Maria Mantini? Una militante delle Brigate Rosse uccisa a metà degli anni Settanta durante un’irruzione dell’antiterrorismo nel suo appartamento a Roma. Poi celebrata nei volantini brigatisti insieme a Mara Cagol e alla tedesca Ulrike Meinhof.

La Mantini, fiorentina, aveva scelto di diventare clandestina quando il fratello Luca era stato ucciso nel corso di una rapina in banca.
Luca apparteneva ai Nap, i Nuclei armati proletari. Nel conflitto con i carabinieri aveva perso la vita anche un altro terrorista della banda.

Questa è la vecchia storia.
Quella di oggi emerge da una e-mail spedita a vari indirizzi il 18 ottobre. Il messaggio annunciava tre cose. La prima era la costituzione del gruppo intitolato alla Mantini. La seconda che il nucleo avrebbe operato nella clandestinità. La terza era la solidarietà al leader toscano dei Carc, arrestato a Pistoia.

La sigla Carc significa Comitato di appoggio alla resistenza per il comunismo. Ecco un altro gruppo, esistente in più di una città. Il leader di quello toscano era finito in cella l’11 ottobre. Dopo un assalto alla sede di un circolo di destra a Pistoia, Casa Pound.

Non conosco il testo integrale del messaggio inviato a Repubblica. Ma il quotidiano ne pubblica qualche stralcio.
Sono le solite accuse rivolte al governo Berlusconi di «proteggere i fascisti». Con un ritratto allucinato della realtà italiana: «La borghesia imperialista non può permettere ai comunisti di discutere, di agire e di organizzarsi liberamente. Perciò il nuovo Pci ha deciso di operare nella clandestinità. Siamo a fianco delle masse popolari che si stanno sollevando, che si organizzano, che costituiscono il nuovo potere».

Venerdì, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha fatto bene a rammentarci il rischio di attentati che il terrorismo islamico potrebbe attuare in Italia.
Ma immagino che il Viminale segua con attenzione anche il proliferare di gruppi e gruppetti nostrani, ormai ben al di là dell’antagonismo.

Alcune settimane fa, m’era capitato di dire che sentivo puzza di anni Settanta.
La mia era una sensazione istintiva, da vecchio cane da caccia che aveva visto nascere il terrorismo brigatista. Qualcuno mi diede ragione e qualcuno torto.

Una mattina, guardando “Omnibus” sulla 7, ho scoperto che a darmi torto c’era una signora molto sicura di sé, la segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso.
Sosteneva che sbagliavo perché il rischio vero da temere era il disagio sociale, dilagante in Italia per la crisi economica. 

Se avessi partecipato a quel dibattito, le avrei consigliato di non mostrarsi incauta. Era già accaduto a molti sindacalisti negli anni Settanta, tanto della Cgil che della Cisl. Stavano aggrappati allo slogan dei “compagni che sbagliano”. E non si resero conto di quanto avveniva sotto i loro occhi.

So bene che la crisi economica può essere uno degli incubatoi del nuovo terrorismo. Proprio per questo bisogna evitare passi falsi.
Ad esempio, è sbagliato dipingere come un’eroina la brigatista Diana Blefari che si è impiccata in carcere. Ed è rischioso definire quel suicidio «un omicidio di Stato». È quel che abbiamo sentito dire da politici di sinistra e da qualche giornale.

Adesso sta nascendo il caso di un film in procinto di uscire: “La prima linea”. È tratto da un libro di memorie scritto da Sergio Segio, uno dei capi di quella banda e pure lui un killer senza scrupoli. Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, si sta domandando se la pellicola meriti il contributo dello Stato: un milione e mezzo di euro.
La decisione verrà presa entro la metà di novembre.

Non azzardo nessun giudizio perché quel film non l’ho visto. Non voglio comportarmi come fa di solito il culturame di sinistra. Sì, avete letto bene.
C’è la cultura di sinistra e c’è il culturame di sinistra, la versione dozzinale e trinariciuta della cultura vera. Sono quelli che mettono all’indice film, libri e autori senza averli mai visti né letti. È gente che oggi non conta più nulla nell’opinione pubblica. Ma spesso occupa posti che le consentono di salire in cattedra e di pronunciare sentenze: questo sì, quello no.

Il libro di Segio, all’origine del film, mi suggerisce una constatazione che non ho mai fatto. Gli sconfitti del terrorismo rosso, responsabili di una vera guerra civile con moltissimi assassinati, una volta ritornati in libertà hanno scritto a ruota libera. Pubblicando quasi sempre con editori importanti. Agli sconfitti della prima guerra civile, quella del 1943-1945, non venne mai concesso niente di simile. Erano fascisti, dovevano tacere. E se stampavano qualcosa, potevano farlo soltanto a loro spese e presso editori di nicchia.

Ecco un esempio di trucido doppiopesismo. Ma adesso una parte della sinistra sembra propensa a cambiare musica.
Qualche giorno fa, Walter Veltroni ha sentenziato: «C’è troppo odio, siamo a un passo dalla violenza». Penso che l’ex leader del Pd dovesse svegliarsi prima. E riconoscere una verità: quando i fans di chi spara sono troppi, va a finire che ci scappa il morto.

da ilriformista.it


Titolo: Giampaolo PANSA. Da lunedì smetteremo di odiarci?
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2010, 06:34:34 pm
Da lunedì smetteremo di odiarci?

di Giampaolo Pansa

Non parlo degli altri. Parlo soltanto di me. Ho seguito molte campagne elettorali della Prima e della Seconda Repubblica. Ma non ne ho mai vista una tanto perversa e, insieme, grottesca come quella che si è conclusa ieri. Per questo mi dichiaro stufo, nauseato, schifato della lotta politica italiana. Dalle facce dei suoi leader. Dalle loro sparate su giornali e tivù. Dalla banalità velenosa che schizzava da ogni comizio o intervista. Dalla loro voglia di distruggersi. E infine dall’odio che seminavano in un paese già troppo nemico di se stesso.

La memoria mi suggerisce una sola pronuncia corretta e sensata. L’ha fatta non so dove il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini. Attenzione, non sto suggerendo ai lettori del “Riformista” di votare per lui. Né tanto meno lo farò io. Dal momento che, come ho già detto in uno dei Bestiari, non andrò al seggio. Schierandomi con il partito più numeroso: quello dell’astensione.

Ma qualche giorno fa, ho letto sul Televideo della Rai una dichiarazione di Casini che mi ha trovato d’accordo. Nella sostanza diceva: attenzione, l’Italia è ormai un paese dove tutti sono contro tutti.

Gli italiani contro gli extracomunitari. I laici contro i cattolici. Gli antagonisti contro i moderati. Gli eterosessuali contro gli omosessuali. I governativi contro gli oppositori del governo. I fanatici del rosso contro quelli dell’azzurro. Insomma, aggiungo io, abbiamo adottato lo schema del peggior tifo calcistico: un blocco di ultrà contro l’altro. Per il momento a parole, ma in futuro con armi assai più pesanti.

Casini ha ragione. E come lui hanno ragione tutti gli analisti che affermano: la prima riforma da attuare dopo le elezioni è la riconciliazione nazionale. Lo penso anch’io, sia pure con molto scetticismo. Sono scettico perché conosco l’Italia e non soltanto, come ha sentenziato un lettore del “Riformista”, perché leggo molti giornali e guardo i telegiornali di Sky. La conosco perché ci vivo da settant’anni e ne ho studiato la storia, quella vecchia e quella nuova. Siamo sempre stati un paese di fazioni, di scontri fra una città e l’altra, di bande rivali, di guerre civili combattute con il gusto sadico di straziare l’avversario.

Può cambiare un paese fatto così? Per poter nutrire qualche speranza, sarebbe indispensabile che i leader politici cambiassero spartito e iniziassero a suonare una musica diversa. Ma non riesco neppure a immaginare che ne siano capaci. Il primo buon esempio dovrebbe darlo il capo partito più forte, Silvio Berlusconi. In questa campagna elettorale ha di certo invaso tutti i media, però non so quanto gli sia giovato. Troppo collerico, iroso, ringhiante, indemoniato, con l’urlo di rabbia continuo. Insomma tutto il contrario della calma forza tranquilla che dovrebbe esprimere un leader liberale, come il Cavaliere dichiara di essere.

Di Berlusconi mi ha colpito un dettaglio per niente irrilevante: la sua ossessione per la forma fisica, che poi nasconde il terrore di morire. Ha iniziato la campagna spiegando che si sentiva tanto forte da poter sfidare a braccio di ferro il mitico Carnera e batterlo.
E dopo aver rivelato che si ritirerà tra cinquant’anni, ha concluso una delle ultime interviste, quella a Ugo Magri della “Stampa”, dicendo: «Stanco io? No, sono in piena forma. Mi sfidi sui cento metri e se ne accorgerà».

Qualcuno dei suoi dovrebbe ricordare al Cavaliere che una buona salute è certo augurabile a un premier. Ma da sola non basta.
Il grande Roosevelt guidò gli Stati Uniti alla vittoria in guerra da una sedia a rotelle. In più, sempre i suoi generali avrebbero potuto suggerirgli di non chiedere il voto insultando i nemici. Non è il sistema più adatto per vincere le elezioni: i nemici gongolano e si moltiplicano. Questo iracondo Cavaliere darà il buon esempio? Ne dubito molto.

L’altro che dovrebbe dare il buon esempio è il leader del Partito democratico, Pierluigi Bersani. In questa campagna lui ha mostrato il difetto opposto al Cavaliere. Mi è sembrato spento, grigio, esausto, incapace di offrire una scossa al proprio elettorato. E soprattutto ha trasmesso la sensazione di aver abdicato a favore di poteri esterni, ben più forti di lui. Penso a Tonino Di Pietro, a un giornale-partito del peso di “Repubblica”, a una star della tivù come Michele Santoro e il suo “Annozero”.

Per rimanere nel campo dove è cresciuto Bersani, ve lo immaginate un Togliatti, un Longo, un Berlinguer cedere spazio e potere a un direttore di giornale, a un televisionista, a un magistrato che si è messo in politica? Il segretario del Pd ha lasciato la guida della campagna elettorale a gruppi di pressione estranei al partito. Dopo il voto gli presenteranno il conto. Se il centro-sinistra vincerà, si prenderanno il merito. Se perderà, la colpa sarà del debole Bersani. Accusato di non aver aggredito come doveva il Caimano. Lo stanno già dicendo.

Ho descritto anomalie micidiali per qualunque democrazia. I due partiti maggiori dovrebbero rimettere le cose a posto. E chiudere l’epoca infernale delle urla e dell’odio. Da lunedì dobbiamo finirla di odiarci. È questo l’imperativo esistenziale per tutti. Quanto può durare un paese obbligato a restare di continuo sull’orlo di un abisso? L’abisso è la guerra civile, oggi a parole, domani con altri mezzi.
L’Italia ha bisogno di concordia, tranquillità, riforme condivise, solidarietà fra i diversi e di un rapporto corretto tra maggioranza e opposizione. Riuscirà ad ottenerli? Se volete una risposta schietta, eccola: temo proprio di no.

Lunedì, 29 marzo 2010

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Titolo: Giampaolo PANSA. Un'aula sorda e grigia
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 05:51:57 pm
Un'aula sorda e grigia

di Giampaolo Pansa


Vi ricordate che cosa disse Benito Mussolini, una ottantina di anni fa? Scrutando con occhi a biglia l’emiciclo di Montecitorio, ruggì: “Di quest’aula sorda e grigia farò il bivacco dei miei manipoli!”. Andò così. La Camera dei deputati smise di essere sorda e grigia per diventare un’assemblea in camicia nera. E con le orecchie ben aperte agli ordini dell’Uomo di Predappio.

Tremonti parlava con la solita fredda perizia. Ma di fronte al deserto. Dei 630 deputati ne erano presenti meno del dieci per cento, ossia 60. Il gruppo più numeroso era quello democratico, una quarantina di parlamentari. Poi c’erano dieci dell’Udc. Due dell’Italia dei valori. Uno della Svp. La maggioranza era tutta assente, tranne cinque del Pdl e due della Lega.

Devo commentare? Assolutamente no. Se un ramo del Parlamento si sputtana da solo, che cosa può aggiungere il Bestiario? Può soltanto assistere, con grande melanconia, alla morte definitiva di una figura. Che per la mia generazione cresciuta nel primo dopoguerra era intoccabile e santa: l’Onorevole Deputato, il simbolo della democrazia repubblicana. Un’icona distrutta dagli stessi che oggi la incarnano. Gente che non ha vergogna di passare per fannullona e fancazzista.

Sono nato in una famiglia che ammirava il Deputato. Mio padre, operaio del telegrafo, desiderava che dopo la laurea diventassi funzionario della Camera, per vedermi lavorare al fianco di tante eccellenze. Quando riuscii a fare il giornalista, mi disse: va bene lo stesso, scriverai di loro e li vedrai da vicino. Infatti li conobbi bene e ne scrissi molto. All’inizio con rispetto. Perché nei primi trent’anni repubblicani, i parlamentari ne meritavano davvero tanto.

Per cominciare, erano vestiti modestamente. Gli elegantoni non mancavano nei palazzi della politica. Come i liberali di sinistra, dei quali si cantava: “Se non ci conoscete – guardateci i calzini – noi siamo i liberali del conte Carandini”. Il conte Niccolò Carandini, poi tra i fondatori del Partito radicale, era un signore splendido nel suo doppiopetto di sartoria. Lui portava il calzino lungo. Tutto l’opposto della massa parlamentare.

Per la massa valeva una regola: calzino corto, cravatta larga. Quasi tutti vestivano malissimo. Persino il doppiopetto di Palmiro Togliatti, reso celebre da Vittorio Gorresio, paragonato all’eleganza sfacciata dei peones 2010 era un abito sformato, che cadeva male da tutte le parti. E conferiva al leader del Pci l’aspetto strafugnato di un console sovietico, appena sbarcato da un viaggio in treno Mosca-Roma.
Qualche personaggio davvero elegante esisteva anche nella Dc. Per esempio Alcide De Gasperi, di una distinzione austera. O il giovane Emilio Colombo, che sembrava appena uscito dal sarto, dal barbiere e dalla manicure. Ma di solito i dicì non si curavano dell’estetica. Pantaloni abbondanti e corti. Calzette nere o grigiastre. Giacche che tiravano sulla pancia. Cravatte color topo che fugge. Però la cravatta i parlamentari maschi ce l’avevano tutti. Mica come succede oggi. E così Camera e Senato mostravano una bell’aria di mediocrità dignitosa, segno di rispetto per la funzione e per il luogo.

E le signore parlamentari? Alcune erano di una bellezza irraggiungibile. Ma di solito ricordavano le nostre madri nell’età adulta. Sempre affannate, inciccionite, in un perenne bagno di sudore, la permanente ormai svanita. Tuttavia nel loro povero look si leggeva lo scontro con il bigottismo maschilista delle rispettive parrocchie. La lotta per emergere in una politica dove gli uomini imperavano. Il puntiglio nel lavoro alla Camera o al Senato che le costringeva a trascurare la cura del corpo e l’eleganza. Alle signore del Parlamento non importava di sembrare la serva di Pilato: erano lì per rendersi utili al paese e agli elettori, non per farsi riprendere dai fotoreporter.

Anche le case dei politici di rango non differivano molto da quelle degli italiani di reddito medio. Al Nord odoravano spesso di minestrone, al Sud di spaghetti aglio, olio e peperoncino. M’imbattevo quasi sempre in alloggi vecchio stile. Dove non erano passati architetti, arredatori, antiquari. In più si trattava di case comprate con soldi onesti o con il mutuo. Allora non esistevano i grandi costruttori pronti a regalare nove o dieci vani al ministro birbone o al politico influente.

Pure le vacanze erano all’insegna della sobrietà. De Gasperi ritornava nel suo Trentino. Amintore Fanfani era aspettato nel borgo natio, a Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. Carlo Donat Cattin villeggiava a Finale Ligure dov’era venuto al mondo: la casa era di una semplicità austera, non si vedeva neanche il mare. Francesco De Martino affittava una villetta a Capo Miseno, davanti a Procida, e andava a far la spesa in bicicletta. Lo stesso faceva Pietro Nenni a Formia, senza scorta, in canottiera e su una bici da donna, con la moglie Carmen.

Ma allora è vero quanto pensano in molti: che andava meglio quando si stava peggio? Credo di sì. E m’incavolo.

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