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Autore Discussione: BARBARA SPINELLI -  (Letto 107699 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:24:16 pm »

14/6/2009
 
Se Marx seduce la destra
 
Barbara Spinelli

Anche le destre - forse soprattutto le destre - guardano d’un tratto a Karl Marx in altro modo: l’odierna crisi economica somiglia non poco al «continuo stravolgimento dei rapporti consolidati», alla «continua evaporazione di quel che è solido», descritti dal filosofo nel 1848. Il padre del comunismo fantasticò il riscatto di una sola classe, e fu funesto, ma la descrizione era realista, tutt’altro che fantasiosa. È vero che la borghesia tende a rispondere alle crisi «provocando crisi sempre più generalizzate, più distruttive, e riducendo i mezzi necessari a prevenirle». È vero che «la moderna società borghese è come l’apprendista stregone, incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate». È vero che essa «ha spietatamente strappato tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia piccolo-borghese. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli». È vero infine che il capitalismo sormonta spesso i mali coi veleni che li scatenano: tra essi, «l’epidemia della sovrapproduzione». Il Capitale è di moda da qualche tempo.

A prima vista può apparire stupefacente quel che è accaduto alle elezioni europee. Marx e Keynes tornano in auge, ma per le sinistre socialiste o radicali è catastrofe: sono crollate in 16 paesi su 27, con punte massime in Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Spagna. Al momento sono come istupidite, e non sapendo spiegare a se stesse il disastro si rifugiano nella denegazione. Il capo dei socialdemocratici tedeschi Müntefering fa finta di nulla e giudica assurdo l’esito, «visto che abbiamo spiegato così bene l’Europa sociale». I compagni francesi balbettano. Franceschini, in Italia, emette il verdetto, consolatorio e falso: «Abbiamo perso perché il vento della destra soffia così forte in Europa».

In realtà non ha vinto un vento di destra ma un vento ben contraddittorio: il vento di una destra pragmatica, spregiudicata, non più ideologica, che pur di mantenere il potere agguanta ogni utensile a disposizione. Soprattutto gli utensili della socialdemocrazia: lo Stato che protegge i deboli, e se necessario governa estesamente l’economia. Quel che la destra ha fatto in pochi mesi è impressionante: è stata lei a chiudere l’era Thatcher, sorpassando una sinistra paralizzata dai complessi di colpa, allergica a una conflittualità di cui si vergogna, ammaliata per 13 anni dal Nuovo Labour di Blair e dal suo mimetismo thatcheriano. Senza patemi la destra europea ha smesso l’antistatalismo, la lotta alla spesa pubblica, il dogma delle privatizzazioni. Con sotterfugi linguistici esalta perfino il Welfare: dice «stabilizzatori automatici» per non dire Stato Provvidenza. Uomini come Tremonti scoprono l’anticapitalismo, chiamandolo anti-mercatismo. Qualche tempo fa, in una manifestazione della sinistra estrema a Parigi, ho incontrato un militante che mi ha detto: «Beati voi che avete Tremonti!».

Niente vento di destra dunque, ma un’usurpazione più o meno cinica di idee socialdemocratiche e anche marxiste che devasta le sinistre classiche. Se in Europa si riapre la questione sociale saranno Sarkozy, Tremonti, Angela Merkel a gestirla, nazionalizzando o stampando moneta. Essenziale è traversare il torrente con ogni mezzo, e sperare che si torni allo status quo ante senza mutare il modo di sviluppo produttivistico. Marx e Keynes sono usati non per cambiare modello, ma per perpetuarlo con l’ambulanza del Welfare. È un modello che socialisti e sindacati condividono, quando accusano la destra di ultraliberismo o si limitano a chiedere aumenti salariali e tutela dei posti fissi. Per questo sono oggi ombre di se stessi.

Le elezioni europee non dicono tuttavia solo questo. Le sinistre defraudate sono aggrappate allo status quo ma nuove forze emergono, che pensano la crisi con sguardo più profondo e lungo. Che seguono con estrema attenzione Obama e presentono, in quel che annuncia, la possibilità di una trasformazione, di un ricominciamento. È il caso dei Verdi in Francia, Germania, Inghilterra, Svezia, Belgio, Grecia, Finlandia. È il caso dei liberali-legalitari di Di Pietro, e perfino di forze inedite come i Pirati in Svezia. Quattro consapevolezze accomunano questi gruppi. Primo, la crisi presente è tettonica, e non si esaurisce nella questione sociale. Secondo: il capitalismo di Stato che ovunque risorge accresce i poteri dello Stato censore sulle libertà cittadine. Terzo: la corruzione che ha accompagnato la crisi può perdurare, perché le urgenze governative sono altre. Quarto: il ricominciamento dovrà accadere in Europa, non negli Stati-nazione.

Daniel Cohn-Bendit è precursore in questo campo, e il suo successo è significativo. La questione sociale non è negata, ma egli la vede in connessione stretta con il clima: dunque con una crescita alternativa, e come ha detto Obama al vertice dei G-20, con un «mercato dei consumi meno vorace». A suo avviso sia la destra che la sinistra difendono lo status quo: la crescita dei consumi e di vecchie produzioni, la lotta sul clima rinviata al dopo-crisi, come nei desideri di governanti e imprenditori italiani. «È come se le sinistre avessero nel computer un software inadatto», dice: un «software produttivistico» sorpassato e nocivo. Il carisma del leader verde non è senza legami con quello di Di Pietro, De Magistris, Arlacchi. Anche i francesi di Europa-Ecologia hanno schierato giudici: Eva Joly, numero due nella lista, ha indagato sulla corruzione dei potenti (incriminando il faccendiere Tapie o - nell’affare Elf - l’ex ministro degli Esteri Roland Dumas) ed è esperta in delinquenza finanziaria internazionale. Anche lei è cittadina d’Europa: come Cohn-Bendit è franco-tedesco, lei è franco-norvegese.

Infine c’è il Partito dei Pirati: una formazione che ha raccolto il 7 per cento ed è il terzo partito svedese per numero di iscritti. La sua battaglia per il libero e completo accesso a internet è emblematico segno dei tempi: con il dissesto dei giornali e l’estendersi del capitalismo di Stato, si è visto negli ultimi giorni quanto sia prezioso lo spazio internet e dei blog. È prezioso in Francia, dove la Corte costituzionale ha appena invalidato una legge che vieta lo scaricamento di programmi, affermando che solo il giudice può emettere sanzioni e non l’autorità amministrativa. È prezioso in Italia, dove la libertà internet è minacciata dalla nuova legge sulle intercettazioni: lo spiega molto bene Giuseppe Giulietti sul quotidiano online per la libertà d’espressione (Articolo21.info).

L’impotenza dello Stato-nazione accelera le cose. Sono cresciuti i partiti concentrati sull’Europa, per respingerla o approvarla. I Verdi sono i soli, nel voto di giugno, ad aver appreso la dimensione sovranazionale delle politiche europee. Cohn-Bendit è l’unico ad aver parlato in nome d’un partito non nazionale: il che vuol dire che non siamo giunti, con la crisi delle sinistre tradizionali e del modello produttivistico, alla fine del progetto europeo pensato dai fondatori. Sono sfibrate le forze dimentiche dell’Europa, non quelle che investono su essa e reinventano. L’analisi di Cohn-Bendit è giusta: «Una forza politica moderna deve avere oggi dimensioni europee. E la crisi della socialdemocrazia la si risolverà solo formulando, contro le alternative nazionali, alternative europee. È qui che il socialismo ha fallito: aveva davanti a sé un boulevard in Europa, e ha dato risposte solo sul piano nazionale».

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« Risposta #61 inserito:: Giugno 23, 2009, 02:32:24 pm »

23/6/2009
 
La politica dell'intimità
 

BARBARA SPINELLI
 
Non son pochi, in Italia, gli esasperati di quel che sta avvenendo nel Paese: fuori casa l’attenzione delle democrazie si concentra sulla crisi economica, sui meno protetti che ne patiranno, su governi che per decenni hanno omesso di vigilare, sui rapporti di forza che mutano nel mondo, mentre da noi i giornali si riempiono di storie laide che hanno il premier come protagonista e i suoi patemi, i suoi impulsi, le sue libertine sregolatezze come trama. Si vorrebbe parlare d’altro, ma quest’altro è introvabile.

L’altro è il bene pubblico, è lo spazio dove il cittadino scopre il mondo esterno e vi si adatta, ma precisamente questo spazio si è liquefatto. Il casalingo soverchia ogni cosa, il privato inghiotte il pubblico, perfino il tempo è deformato. Si vorrebbe avere un’idea del nostro oggi, si vorrebbe pensare il domani, ma un solo presente e un solo futuro occupano la scena: il presente e il futuro del leader, il destino della sua personalità, della sua dimora privata, delle sue donne, del suo corpo, delle sue emozioni. È come se vivessimo in pantofole, senza mai infilare le scarpe per uscire all’aperto. Il leader politico è il primo a vivere nel chiuso, dando l’esempio: quel che conta è la sua vestaglia, la sua toilette, la sua camera da letto. È da quasi un ventennio che l’Italia è ammaliata da questo modello casalingo, edificato sulla negazione dello spazio pubblico e delle sue istituzioni. Chi ha forgiato tale modello è irritato, perché il golem che ha fabbricato si scaglia ora contro di lui: rivelando com’è avvenuta la messa a morte della cultura pubblica, denunciando un regime che ha strappato la tenda divisoria tra privato e pubblico.

Questa tenda, non sono i giornali che l’hanno strappata ma il presidente del Consiglio. Il mondo che per decenni ha voluto, trasformato in show, è un mondo dove scompare il corpo durevole della regalità - il corpo mistico che secondo Kantorowicz incarna le istituzioni che non muoiono - e non resta che il corpo del re deperibile, sublimato in un presente eterno. Nasce il tal modo la politica del corpo, il fotoromanzo che eroicizza il capo: Marco Belpoliti ha scritto su questo un libro importante, Il corpo del Capo (Guanda 2009). I giornali non possono ignorare la forma che il potere ha assunto in Italia, perché la forma s’è fatta sostanza. Se l’attore premia sull’azione, se la personalità è tutto, la sostanza della politica cambia. Berlusconi agisce, ma le emozioni messe in scena occultano l’agire oppure lo simulano se non c’è. Il consenso stesso non si forma attorno alle politiche, ma alla personalità. Tanto più essenziale è indagare la forma di simile dominio, svelandone le non più segrete pornografie.

È un potere che, mettendo il privato in cima a tutto, punta a saccheggiare e abolire la cultura pubblica. La strategia è moderna, se non rivoluzionaria. Più volte, negli ultimi due secoli, le avanguardie si sono ribellate alla separazione tra privato e pubblico, tra personalità e azione, in nome dell’anticonformismo e dell’originalità. Il romanticismo esaltò la soggettività radicale, in polemica con il primato che la cultura classica dava all’opera. Nella seconda metà del ’900 il modernismo architettonico progetta quartieri residenziali senza più piazze dove s’incontra il diverso, e uffici open space dove le pareti divisorie diventano trasparenti. La tirannide dell’intimità descritta da Richard Sennett nel 1974 comincia così: con la politica personalizzata, con la comunità casalinga o clanica opposta alla società, alla res publica. L’intimità è tirannica perché i muri trasparenti separano anziché unire: per sfuggire allo sguardo che ti spia, non resta che il silenzio. Nell’open space «siamo tutti visibili e isolati» (Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori 2006). Di questa cultura Berlusconi è artefice, utilizzatore finale, e infine vittima.

Si potrebbe anche parlare d’altro: di cose serie. Ma è difficile, quando il governo che oggi invoca la sacralità del bene pubblico è guidato da chi ha fatto saltare ogni barriera tra pubblico e privato. Berlusconi vorrebbe ora riagguantare il corpo mistico del re, ma non può farlo senza ricorrere al vocabolario con cui l’ha distrutto. Non può parlare di crisi economica, visto che s’ostina a annegarla nell’esaltazione ottimistica del carattere e a rifiutare ogni cifra veritiera. Nelle Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia, Mario Draghi aveva parlato di 1,6 milioni di lavoratori che perdendo il lavoro resterebbero senza sostegno. Berlusconi ha replicato: «I dati sono falsi». Difficile parlare della sostanza, quando essa è nulla e l’illusionista tutto.

Quando scoppiano le crisi la tirannide dell’intimità vacilla, è inevitabile. È a questo punto che il leader torna al carisma che lo portò inizialmente al potere. Fu una sua forza, negli Anni 90, sedurre con lo spettacolo della personalità e lo svuotamento dello spazio pubblico: il suo carisma è sempre quello e non smette di apparire anticonformista, a molti. È il carisma del politico deciso a mimetizzarsi con il piccolo uomo che si fa da solo una carriera, che fatica a esser cittadino; che si sente minacciato da poteri forti, impersonali. Sennett dice che il leader carismatico di questo tipo, modernamente svincolato dalla religione, diventa un «impresario del risentimento» e dell’invidia sociale. La lettera che Deborah Bergamini - ex segretaria di Berlusconi, ex dirigente Rai, oggi deputata Pdl - ha scritto il 18 giugno sul Corriere della Sera è significativa. Il leader del Pdl è eguagliato a Catilina: un aureo parvenu, un piccolo uomo che sogna di esser grande ed è umiliato da magistrati e establishment: «Gli optimates che armarono le azioni di Cicerone erano i rappresentanti di una classe senatoriale gelosa custode di privilegi politici ed economici; gli optimates che violentano le regole di oggi sono potentati senza patria, politici mediocri e polverosi intellettuali. Il potere non accetta gli imprevisti e spesso i grandi riformatori si presentano all’appuntamento senza bussare. Questo li rende inaccettabili».

La politica del corpo è essenziale per i moderni Catilina, perché consente di rovesciare la favola di Andersen. Non è l’imperatore a trovarsi nudo, ma il cittadino che a forza di imitarlo perde il senso della società ed è gettato nella solitudine. Scrive Belpoliti: «Siamo noi ad apparire nudi, non l’imperatore \, il re è nudo, ma ci convince che siamo noi a non avere i vestiti. Un capolavoro di rovesciamento dello sguardo. Questo è il glamour».

In realtà Berlusconi è stato sempre l’imperatore nudo. Sulla nudità ha costruito la propria ascesa. È in continuo strip-tease psicologico, come scrive Sennett dell’uomo pubblico in declino. Il problema non è più lui, né il suo show: anche se imbalsamato nel presente, lo spettacolo per sua natura finisce. Il problema siamo noi, cittadini spogliati di cittadinanza. È la destra, che dovrà uscire un giorno dall’ubriacatura di molti anni. Le soubrette, le escort che ottengono seggi parlamentari o dicasteri. Un ministro, Michela Brambilla, che fa il saluto romano e resta ministro. La corruzione impunita. Tutto questo è forma che imprigiona l’Italia e che incide sulla sostanza. Il consenso basato sul risentimento e sulla preminenza del privato è uno dei più formidabili ostacoli alle riforme. Lo spazio pubblico cancellato rinvia l’ora delle responsabilità nell’animo dei cittadini. Un ricominciamento è necessario, a sinistra ma soprattutto a destra visto che è quest’ultima ad avere la maggioranza. Fini dice: «È a rischio la fiducia dei cittadini nelle istituzioni». In realtà non è a rischio. La sfiducia c’è già, il capo della destra non ha mai cessato di nutrirla e ancora se ne nutre.

 
da lastampa.it
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« Risposta #62 inserito:: Giugno 28, 2009, 05:17:20 pm »

28/6/2009
 
L'Apocalisse maschera del potere
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Ci sono abitudini simili a bende sugli occhi, che impediscono di vedere. O simili a guinzagli, che accorciano il pensiero annodandolo al conformismo. Il nostro sguardo sull’Iran è prigioniero di queste bende e questi guinzagli, fin dai tempi dello Scià e poi anche dopo la rivoluzione di Khomeini. L’Iran lo identifichiamo ormai da trent’anni con il turbante, con il Corano, con la violenza in nome di Dio, con la religione che s’intreccia alla politica e l’inghiotte. Quando i suoi dirigenti si ergono contro il mondo esterno o contro il proprio popolo, subito tendiamo a scorgere la mano e la mente d’un clero retrogrado. Il suo establishment usiamo chiamarlo religioso, nell’élite sacerdotale ci ostiniamo a non vedere altro che integralismo.

È dagli Anni 50 che le amministrazioni americane sbagliano politica in Persia, suscitando sistematicamente le soluzioni peggiori e trascinando negli errori anche l’Europa. Tanto più urgente è congedarsi da bende e guinzagli, e cominciare a guardare quel che veramente sta succedendo in Iran.

Da quando si sono svolte le elezioni, il 12 giugno, sui tetti delle case si aggirano giovani assetati di libertà che gridano nella notte «Allah Akbar», Dio è grande, aggiungendo immediatamente dopo: «A morte il dittatore», proprio come nel 1979. Sono cittadini che di giorno hanno sfilato per strada contro i brogli elettorali: che hanno smesso la paura, e rischiano la vita parlando con frequenza di sacrificio di sé. Anche Mir Hossein Mousavi, il loro leader, annuncia che resisterà «fino al martirio».

A Qom, che è una delle città sacre dell’Islam sciita ­ di qui partì la rivoluzione khomeinista ­ vive una classe sacerdotale che nella stragrande maggioranza avversa il presidente. Non più di tre, quattro ayatollah lo sostengono, anche se i loro uomini occupano i principali centri di potere (Pasdaran, servizi, giustizia). I massimi teologi del Seminario di Qom hanno scritto una lettera aperta, dopo il voto, in cui dichiarano i risultati «nulli e non avvenuti». Viene da Qom ed è figlio di un ayatollah il presidente del Parlamento Larjiani, ostile a Ahmadinejad. Si è rinchiuso a Qom il numero due dello Stato, l’ayatollah Rafsanjani, per verificare se sia possibile mettere in piedi una maggioranza di religiosi, nel Consiglio degli esperti che presiede, capace di destabilizzare e forse spodestare la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei che ancora difende la legittimità di Ahmadinejad.

Il Consiglio degli esperti nomina la Guida suprema a vita, ma può destituirla se essa non mostra saggezza. Sembra che Rafsanjani abbia già convinto 40 capi religiosi, sugli 86 che compongono il Consiglio. Nella città religiosa di Mashhad, molti sacerdoti musulmani hanno partecipato alle manifestazioni contro il regime. Non trascurabile è infine il simbolo della resistenza: verde è il colore dell’Islam. Questo significa che non siamo di fronte a una sollevazione contro lo Stato religioso. Per il momento, siamo di fronte a un’insurrezione fatta in nome dell’Islam contro un gruppo dirigente considerato blasfemo e nemico del clero.

Ahmadinejad ha questo vizio blasfemo, agli occhi della maggioranza dei sacerdoti tradizionali e di grandissima parte della popolazione. In lui non si percepisce un leader integralista, ma un dittatore che ha motivazioni tutt’altro che religiose. Il suo potere è innanzitutto militare, e nel frattempo è anche divenuto economico. Le sue parole d’ordine sono improntate a un nazionalismo radicale, estraneo alla spiritualità. Il corrispondente della Frankfurter Allgemeine, Rainer Hermann, è un fine conoscitore del paese e parla di «svolta pakistana»: sotto la presidenza Ahmadinejad, negli ultimi quattro anni, avrebbe preso il potere un’élite che nella sostanza è laica, e che usa la religione non solo per abbattere ogni forma di democrazia ma per distruggere il clero tradizionale. L’uso della religione è sin da principio politico, in Ahmadinejad.

Fedele alle dottrine apocalittiche dell’ayatollah Mesbah Yazdi, il presidente si dice convinto che l’era dell’ultimo Imam ­ il dodicesimo Imam messianico, il Mahdi occultato da Dio per oltre 1100 anni ­ stia per riaprirsi, con il ritorno del Mahdi. Tutte le apocalissi, anche quelle ebraiche e cristiane, sono rivelazioni che presuppongono tempi torbidi, in cui il male s’intensifica. Anche per la scuola Hakkani, che Yazdi dirige e cui appartengono gli Hezbollah iraniani, il male va massimizzato per produrre il Bene finale. L’ayatollah ha insegnato a Ahmadinejad l’uso del messianesimo a fini politici, non teologici. I politici messianici in genere parlano di Apocalisse non perché credono nella Rivelazione, ma perché nell’Apocalisse il dialogo con Dio è diretto (nell’Apocalisse di Giovanni scompaiono i templi) e il capopopolo non ha più bisogno del clero come intermediario. L’apocalisse serve a escludere il clero dalla politica e forse anche la religione.

Il segno più evidente della svolta laico-pakistana di Ahmadinejad è la militarizzazione del regime. I guardiani della rivoluzione, i Pasdaran, dipendono da lui oltre che da Khamenei. E i picchiatori delle milizie Basiji non sono nati nel fervore religioso ma nel fervore della guerra di otto anni tra Iran e Iraq. I Basiji erano i bambini o i giovanissimi che in quella terribile guerra, tra il 1980 e il 1988, venivano gettati, inermi, nei campi minati dal nemico: perirono in migliaia. Secondo alcuni storici (tra cui lo specialista Hussein Hassan) Ahmadinejad fu il giovane istruttore di quei martiri forzati. Il suo disegno: rompere il singolare equilibrio di poteri tra sovranità popolare-democratica, sovranità religiosa e sovranità militarizzata che caratterizza l’Iran. Un equilibrio ripetutamente violato ma che rispecchia la storia del paese, sempre oscillante fra il costituzionalismo democratico affermatosi nel 1906 e la brama mai spenta di Stato assoluto. Il potere di Ahmadinejad e dei Guardiani è ormai più forte ­ anche presso i più poveri del paese ­ di quello dei Mullah, i sacerdoti che fecero la rivoluzione.

Quel che è avvenuto sotto Ahmadinejad è una sorta di colpo di Stato modernista, che ha intronizzato l’élite formatasi nella guerra contro l’Iraq. È il potere di quest’élite che Ahmadinejad protegge, e esso non coincide con il potere religioso. Tra molti esempi si può citare la decisione di togliere al clero la gestione dei pellegrinaggi e di affidarla al ministero del Turismo: una misura che ha profondamente umiliato i religiosi. L’apocalisse è strumento di lotta molto terreno: nella conferenza stampa dopo le elezioni, Ahmadinejad ha ripetuto la formula d’obbligo che impone di parlare «in nome di Allah il Misericordioso», ma subito dopo ha rotto la tradizione invocando il dodicesimo Imam. Le milizie Basiji da qualche tempo si son tagliate la barba: è un altro segno di ribellione ai Mullah. Nella campagna elettorale, Mousavi si è presentato con il verde dell’Islam e del movimento riformatore. Ahmadinejad con la bandiera nazionale.

È dunque il nazionalismo militarizzato, il regime che oggi vacilla e sta riducendo al silenzio i riformatori. È il nazionalismo che si è abbarbicato all’atomica, e fatica a negoziare su di essa. Ma l’atomica è al tempo stesso la risposta dell’Iran intero ai tanti errori di valutazione dell’Occidente e alla cecità delle amministrazioni Usa, che mai hanno capito le riforme di cui questo paese aveva bisogno (non lo capirono con il Premier Mossadeq, che spodestarono nel 1953 per tutelare lo Scià e le vie del petrolio; non lo capirono quando minacciarono Teheran nonostante al governo ci fossero riformatori come Rafsanjani o Khatami). La sfida atomica iraniana non verrà meno, il giorno in cui vincessero i riformatori. Ma almeno non sarà al servizio del più tremendo dei nazionalismi: quello che sceglie come maschera l’Apocalisse.

da lastampa.it
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« Risposta #63 inserito:: Luglio 05, 2009, 05:58:53 pm »

5/7/2009
 
E ancora fuggiamo dalla Grande Madre
 
BARBARA SPINELLI
 

La fuga dall’Africa ha inizio centomila anni fa, quando un primo drappello di uomini varca l’istmo di Suez e si spande nel mondo. Lo storico John Reader sostiene che non erano più di cinquanta, su un milione di uomini. L’homo sapiens aveva mosso i primi passi nel continente nero, e per evolvere aveva avuto bisogno di quel clima impervio, scottante, dove insetti, parassiti, batteri minacciavano l’uomo dopo averlo addestrato al peggio. Per i primi fuggitivi il nomadismo non era la soluzione. Quel che il filosofo Deleuze dirà nel Novecento - «Nulla è più immobile di un nomade» - era per loro tragica evidenza. Il clima di umidità e batteri era stato fonte ieri di vita, oggi di morte. Per questo il drappello preferì l’esodo al nomadismo. L’aumento straordinario della demografia comincia allora, ma fuori dall’Africa: i fuggitivi si riproducono, gli antenati dell’uomo stagnano.

In realtà fuggiamo tuttora dall’Africa: per istinto ci rifiutiamo di vederla, conoscerla. La grande madre dell’umanità attira e respinge, il matricidio è incessante. Il continente ha una sua storia, sue tradizioni, ma chi lo fugge continua a trattarlo come uno specchio, in cui non vede che se stesso. Anche oggi è così. L’Africa è l’unico continente che ha bisogno della globalizzazione come del pane, che da oltre un decennio ha preso a crescere e a cercare forme di governo meno caotiche, e tuttavia insistiamo a guardarla con le lenti della storia europea. È il dizionario dei nostri luoghi comuni: la maggior parte delle sue caratteristiche sono invenzioni dell’Europa che dal XV secolo l’ha colonizzata. Un tempo breve, se paragonato alla storia dell’uomo eretto iniziata in quelle terre 3,5 milioni di anni fa. Un tempo brevissimo, se contempliamo il periodo in cui gli europei si spartirono l’Africa sbranandola: appena vent’anni, alla fine dell’800. Ma sono vent’anni decisivi; le prigioni mentali europee e africane si formano in quell’era di conquista-spartizione. La chiamarono Scramble for Africa: e in effetti fu una corsa ai primi posti, una «sgomitata» che travolse e mutò popoli. L’Africa divenne un’invenzione europea. Nel frattempo sappiamo che tra le invenzioni spicca il tribalismo. Certo i clan sono essenziali in Africa, ma contrariamente a quel che si pensa non esiste una congenita vocazione a dividersi in tribù impermeabili, identitarie. Gli europei idolatravano lo Stato-nazione assolutamente sovrano e in Africa cercarono qualcosa di equivalente, non trovando regni monolitici ma fragili staterelli. L’equivalente dello Stato ottocentesco (coscienza identitaria esasperata, chiusura al diverso) erano le tribù, che la Corsa all’Africa ossificò. Fu la monarchia belga a lacerare il Ruanda in tribù hutu e tutsi, attizzando un odio che sfocerà nel genocidio del 1994. Furono gli inglesi a esaltare le diversità fra etnie Shona e Ndbele, per meglio dominare lo Zimbabwe (Rhodesia). Il ritorno al tribalismo, di cui il continente nero è accusato, è ritorno all’invenzione europea dell’Africa. È un’invenzione dell’Ottocento, questo secolo europeo non meno terribile del Novecento. Gli esseri umani trattati come cose, la crudeltà sadica, i genocidi: la prova generale viene fatta nello Scramble for Africa. Sono orrori di cui si parla meno perché avvenuti lì. L’Africa è la palestra dove l’occidentale ha collaudato e anticipato gli stermini, i campi di concentramento. La Germania imperiale collauda il genocidio nell’Africa tedesca del Sud-Ovest (oggi Namibia), annientando gli indigeni Herero e Nama fra il 1904 e il 1907. Tre quarti degli Herero e metà dei Nama perirono nei Lager o nei deserti, dove il generale Lothar von Trotha li scacciò avendo avvelenato, prima, tutti i pozzi. L’ordine di liquidazione (Vernichtungsbefehl) è emanato da Trotha nel 1904. Poi vi furono i massacri e i campi nel Regno del Congo, per volontà di Leopoldo II del Belgio, re dell’orrore. Nel 1906, gli inglesi ordinano l’«annientamento» di un villaggio contadino ribellatosi in Nigeria (2000 uomini, donne, bambini uccisi). Nel costruire l’immensa ferrovia dall’Atlantico a Brazzaville nel Congo, i francesi provocano la morte di 17.000 forzati neri.

Non sono solo gli Occidentali a fuggire l’Africa, per vergogna di sé o indifferenza. Anche l’Africa fatica a liberarsi dagli stereotipi che la definiscono, a ritrovare se stessa, a vedersi protagonista responsabile e non solo vittima, a darsi una storia. L’invenzione europea del tribalismo, l’ha interiorizzata come fosse sua. Il sogno di creare Stati accentrati, coltivato negli anni dell’indipendenza, impedisce le cooperazioni transfrontaliere che scongiurerebbero tante guerre in apparenza civili, in realtà regionali. La storia della schiavitù è ricordata come inferno coloniale - e senz’altro lo fu: 13 milioni di africani furono trapiantati fra il XV e XIX secolo - non come una cultura servile sorta in Africa per far fronte alla scarsa natalità. Sono trascurate perfino le più originali invenzioni del continente: prime fra tutte le Commissioni per la verità e la giustizia in Sud Africa, che hanno inaugurato inedite, esemplari politiche della memoria.

Ma lo stereotipo più resistente è quello secondo cui l’Africa è senza storia, in fondo maledetta. Lo ha formulato Hegel all’inizio dell’800, nella Filosofia della Storia Universale: «L’Africa non è un continente storico, non ha movimento né sviluppo». Ancora nel 1963, in una conferenza a Oxford, lo storico Trevor-Roper ne ripete la stupida arroganza: «Forse in futuro ci sarà una storia africana. Ma al momento non ce n’è: esiste solo una storia degli europei in Africa. Il resto è tenebra, e la tenebra non è soggetto di storia». La storia dell’Africa esiste se comincia a vedere l’uomo dietro le tribù, ad aprirsi all’altro che non ci somiglia. Se occidentali e africani smettono l’idolo del vecchio Stato sovrano. L’aspirazione di tanti africani a forme politiche meno accentrate è un’emancipazione dall’immagine che noi ci facciano di loro, e che loro hanno finito col farsi di sé.

da lastampa.it
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« Risposta #64 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:45:13 pm »

12/7/2009
 
Chi rompe la tregua paga
 
 
BARBARA SPINELLI
 
La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.

Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.

Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.

Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.

Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.

Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.

Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.

Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.

Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.

Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.

Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.

L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.

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« Risposta #65 inserito:: Agosto 17, 2009, 12:05:09 pm »

17/8/2009
 
La strana guerra
 
BARBARA SPINELLI
 
Sappiamo poco della campagna elettorale in Afghanistan, che giovedì si concluderà con la riconferma del presidente Hamid Karzai o con la sua sostituzione. Non conosciamo altro, del Paese dove siamo schierati da quasi otto anni, che gli spostamenti dei nostri soldati e il colore delle loro tute, le terribili minacce che «insorti e talebani» fanno pesare sui militari occidentali e l’aumento delle truppe americane deciso da Obama. A malapena sappiamo quanti sono stati colpiti negli ultimi attentati: se non ci sono italiani la notizia è data verso la fine dei telegiornali, sempre che sia data.

Una singolare pigrizia assale i reporter, abituati a enumerare insorti locali e scaramucce circoscritte senza chiedersi quel che si nasconde dietro più diffuse insurrezioni e prove di forza. Le campagne elettorali dei rivali di Karzai, la profondissima corruzione che quest’ultimo ha inoculato nello Stato al punto da renderlo fatiscente, le inquietudini che vanno dilatandosi nella vasta regione attorno all’Afghanistan (Pakistan e India, Iran, Russia e anche Arabia Saudita): per i giornalisti come per i governi occidentali tutto questo è terra ignota, frequentata solo da qualche incaponito studioso.

E’ come se le guerre mondiali in Europa fossero state raccontate da un unico cronista, distaccato magari sull’orlo della Marna e incapace di alzare lo sguardo oltre la propria trincea e vedere il continente intero in preda a caos e violenza. Per questo è importante fare il punto, oggi, sulla strana guerra che viene combattuta in buona parte dell’Asia centrale, con ramificazioni politiche e strategiche nel Sud asiatico, nelle nazioni limitrofe della Russia meridionale, nel Kashmir, nel Golfo Persico. Drôle de guerre venne chiamato il preludio mortifero che precedette, fra il 1939 e il ’40, la caduta in Europa della linea Maginot e l’occupazione nazista della Francia: strana perché era guerra dichiarata e tuttavia non-guerra, perché nessuno ci credette sino in fondo e vi si preparò con mezzi e animi adeguati. Tanta incuria non poteva che sfociare, scrisse lo storico Marc Bloch che narrò in diretta la sopraffazione della Francia, in una altrettanto Strana disfatta.

È la stessa disfatta che oggi incombe sull’Afghanistan: simile è lo sguardo incollato sul proprio posto di battaglia; simile la cecità al luogo, che è spazio più vasto e stratificato del posto e include storia, cultura, consuetudini che alternano le inimicizie agli scambi. Simile infine il vocabolario: le parole ripetute tali e quali a dispetto della loro insensatezza crescente, e evidente. Quasi otto anni sono passati così, fingendo un’universale guerra contro il terrorismo e poi perdendo per strada tutto: obiettivi bellici e calcolo preciso dei mezzi per raggiungerli, sguardo alto e interesse vero a questa zona del pianeta che è oggi invelenita non solo perché Bin Laden e i suoi luogotenenti vi hanno eletto dimora.

Fanno impressione soprattutto gli Stati europei, che partecipano dal 2001 allo sforzo ma che neppure una volta hanno messo in questione la strategia generale e le decisioni statunitensi nell’insieme dell’Asia centrale, e dunque non esclusivamente a Kabul ma anche in Pakistan, India, Iran, Arabia Saudita. Non hanno mai spinto l’alleato-guida a riesaminare a fondo gli errori commessi, a soffermarsi sulla natura di un’insurrezione che non scema, a valutare i rapporti sempre più tortuosi e meno solidali fra insorti e talebani, fra talebani afghani e pakistani, fra talebani, capi tribù e Al Qaeda. Hanno ignorato sistematicamente il caos che s’inaspriva lungo il confine col Pakistan: le paure antiche di Islamabad e quelle di Teheran, il peso dell’India e della Russia nel conflitto e la maniera in cui tutte queste paure s’incrociano in terra afghana, tenendola in uno stato di bollore che tanti, troppi, vogliono perpetuare anziché raffreddare.

Non ci sono stati neppure dibattiti parlamentari, nel vecchio continente: in Germania, il paese che più esita a parlare di guerra e ha distaccato 4.050 soldati praticamente disarmati, non se ne è discusso neppure una volta dal 2001, né in commissione esteri né in commissione difesa. L’Inghilterra comincia a pensarci adesso, perché molti soldati male equipaggiati cadono. Perfino la Francia, che vanitosamente dice di far di testa sua, tace e s’accoda. Il silenzio italiano fa tanto rumore quanto più è vacuo, come accade di frequente: quella che conducono i soldati italiani non si sa se sia guerra, né si conosce il codice che regna nel teatro delle operazioni, se il codice militare di pace o quello militare di guerra. Il ministro La Russa vorrebbe chiarimenti che nessuno gli dà e nessuno discute, in pubblico o in Parlamento. Problemi analoghi li conobbe anche Arturo Parisi, ministro della Difesa nel governo Prodi.

Come nella follia di Amleto, c’è del metodo anche nell’ignoranza cieca dell’Occidente, ed è con metodica ignoranza che gli europei aderiscono, da anni ormai, alle mutevoli scelte americane in Afghanistan. Hanno condiviso il rifiuto netto di trattare con insorti e talebani locali, senza mai studiare l’evoluzione degli uni o degli altri e senza accorgersi che gli insorti non coincidono sempre con i talebani e che i talebani hanno spesso rapporti tesi con Al Qaeda. Presto scopriranno che la trattativa è invece cosa buona, e forse tutto l’Occidente comincerà fervidamente a patteggiare con bande armate che hanno voluto non meno fervidamente, ma senza riuscirvi, sterminare.

Rischiano di farlo alla cieca anche in questo caso, ragionando con testa fredda ma misconoscendo, come in passato, gli ingarbugliati tormenti della regione. I tormenti dell’Iran, che teme paradossalmente ambedue le cose: l’insediamento statunitense in un paese contiguo - motivato dall’eternarsi della guerra ai talebani - e però anche un patteggiamento con i talebani, che restituirebbe legittimità a forze fondamentaliste sunnite, legate a Pakistan e Arabia Saudita, esecrate da Teheran sin dalla fine dell’occupazione sovietica. Anche russi e pakistani sono nel tormento: i primi temono l’influenza dei talebani sui musulmani del Caucaso, i secondi paventano la nascita di un nazionalismo afghano, nella comunità talebana pashtun, animato da smanie irredentiste verso l’etnia pashtun in Pakistan.

Gli europei sono restati passivi anche dopo l’uscita di scena di Bush, quando Obama ha cambiato rotta e ha scelto di estendere l’attenzione al Pakistan e all’estrema sua fragilità statale, non fissandosi su Kabul. Anche qui, i governanti europei hanno omesso di chiedere all’amministrazione Usa il perché della svolta e il come, vietando a se stessi di sapere se l’estensione dell’impegno Usa avverrà con le sole armi o con una più accorta politica che annodi fili tra Afghanistan, Iran, Pakistan, India, Russia. In alcuni momenti è parso addirittura che quel che importava al fronte euro-americano fosse una dimostrazione di forza e prestigio autoreferenziale, più che l’interesse autentico ai destini di una zona divenuta cruciale nel mondo: non son mancati politici che hanno cominciato a dire che l’obiettivo recondito ma più vero era la sopravvivenza dell’Alleanza atlantica, la sua tenuta o il suo naufragio dopo il venir meno dell’Urss nel 1989-90. In realtà la Nato ha perso ogni senso, da quando non ha più missioni politiche chiare e strutture adatte ai bisogni. È solo una tecnica per assemblare truppe, e quando la tecnica diventa scopo la follia è vicina.

Peccati di omissione, incongruenza dei vocabolari, incapacità di meditare gli errori e quindi di correggerli. A pochi giorni dal voto afghano, l’Occidente ha grandi compiti di fronte a sé, se vuol mobilitare le menti e non solo gli eserciti.

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« Risposta #66 inserito:: Agosto 20, 2009, 05:26:14 pm »

20/8/2009
 
Una guerra fatta di errori
 
BARBARA SPINELLI
 
Vale in particolare per le guerre, e più che mai per le guerre che non riescono a finire e periclitano, la regola semplice secondo cui l’errore è maestro, e il lavorio della memoria un giudice severo. Così per il conflitto in Afghanistan, che il governo Usa ha iniziato dopo l’11 settembre, che ha visto un’ampia coalizione di Stati solidarizzare con Washington contro Al Qaeda, e che tuttavia sta andando in avaria. Così per l’Iraq, dove il conflitto continua a produrre morte e la sua fine è un inganno. Nate per portare democrazia e luce, le nuove guerre antiterrorismo hanno generato notte, nebbia, e quel mostro che promettevano di combattere: lo stato fallito, il failed state di cui il terrorismo si ciba.

Questo ci dicono gli autori dell’attentato di ieri a Baghdad: le vostre guerre sono morti che camminano. L’11 settembre è l’eterno vostro presente, nell’Iraq che avete abbandonato e anche in Afghanistan dove vi credete ancora forti perché domani si vota sotto la vostra protezione.

Nelle guerre accade che sia il nemico a dirci la stoffa di cui è fatto il principale nostro errore, e alla vigilia del voto afghano Baghdad ineluttabilmente diventa specchio di Kabul. Il conflitto ha dato agli afghani una costituzione che mette fine al predominio assoluto dei sunniti sugli sciiti, ha emancipato le donne e gli uomini dalla sfrenatezza ideologico-religiosa dei talebani, ma non ha creato uno Stato autorevole, imparziale, in grado di monopolizzare la violenza legale. Per sopravvivere, Karzai ha accettato il dilagare della corruzione e si è circondato di signori della guerra colpevoli di eccidi e malversazioni: piccoli capetti spesso appoggiati dalle truppe Usa che ne hanno bisogno. Tanti nel suo paese lo considerano una marionetta della Casa Bianca. I bei vestiti etnici che sfoggia sono confezionati da rinomati sarti occidentali. Le elezioni di oggi mostreranno se esiste un’alternativa all’esperimento Karzai, e a uno Stato corrotto che prolunga la guerra.

Tra i vizi che hanno guastato l’operazione afghana c’è innanzitutto l’incostanza americana: la fatua volubilità con cui Bush ha ballonzolato, ubriaco, da un teatro di guerra all’altro - in Afghanistan il 7 ottobre 2001, in Iraq il 20 marzo 2003 - senza stabilizzarne alla fine nessuno. Ma di questo spreco di forze e intelligenza sono stati protagonisti anche gli europei, che mai hanno messo in discussione obiettivi e strategie. Siamo ancora molto lontani da una politica comune del continente: da anni i singoli paesi dell’Unione seguono le mosse della Casa Bianca e sono in attesa che qualcosa cambi: non in Afghanistan, ma in America. Abbiamo visto in un precedente articolo quanto deleteria sia questa pigrizia della mente, quanto ipocrita l’impegno militare di Stati europei che si schierano con zelo ma si guardano dall’equipaggiare adeguatamente i propri soldati.

Tanto più scandaloso è il silenzio che copre gli errori commessi in quasi otto anni di battaglia: un silenzio indolente, di cui son responsabili i dirigenti Usa, che questa guerra l’hanno voluta e diretta, ma che rende del tutto vacua anche la presenza europea. Che contribuisce all’insabbiarsi dei combattimenti ma paralizza la politica nell’intera zona asiatica, divenuta cruciale per il mondo come cruciali furono i Balcani quando precipitarono gli imperi austro-ungarico e ottomano. Vediamo dunque di ripercorrere alcuni errori più vistosi, che gli esperti hanno più volte denunciato lungo gli anni, senza essere in genere ascoltati.

Il primo, madornale, è l’ossessivo parlare di guerra al fondamentalismo islamico, che inevitabilmente rimanda all’idea di una civiltà moderna cui tocca difendersi da un Islam retrivo e tradizionalista. In una lettera al Corriere della Sera, il ministro degli Esteri Frattini ripete questo luogo comune: «Il motivo per il quale siamo impegnati in quel Paese \ è fondamentalmente uno: difendere la nostra sicurezza nazionale e la sicurezza dell’Occidente di fronte alla minaccia del terrorismo globale. \ Una minaccia “esistenziale” \ L’Afghanistan è stato e resta il principale incubatore della rete terroristica che fa capo ad Al Qaeda».

La realtà raccontata da esperti e storici come Barnett Rubin o Ahmed Rashid è completamente diversa, e narra di una strana guerra in trompe-l’oeil, i cui veri bersagli non sono mai quelli visibili e ufficiali. Il santuario di Al Qaeda è oggi in Pakistan, e proprio questa consapevolezza ha spinto Obama a mutare rotta, a guardare ben oltre Kabul: se si resta in Afghanistan non è per esportare la democrazia o sgominare i talebani, ma per evitare che la talebanizzazione del paese acceleri il crollo del Pakistan: vera potenza chiave perché molto popolosa e armata dell’atomica.

Neppure al Pakistan quel che interessa è davvero l’Afghanistan. Se gli serve controllare Kabul, è a causa di un’unica grande ossessione, potente soprattutto tra i militari: l’ossessione dell’India, che da anni minaccia di divenire alleata stabile di Kabul e di stringere in una morsa Islamabad (da un lato tramite il Kashmir musulmano, dall’altro tramite l’Afghanistan). L’Afghanistan ancora non ha riconosciuto il confine col Pakistan (la linea Durant, fissata nel 1893 dai britannici), né è stato spinto a farlo dagli Stati Uniti. Ignorare le ansie del Pakistan significa accettare una sua non recondita tentazione: quella di impedire che lo stemperarsi della guerra occidentale al terrorismo metta fine all’importanza strategica che Islamabad ha per l’Occidente.

Non è l’unico errore americano. Non meno esiziale è stata la decisione di rinunciare all’assistenza che l’Iran presieduto da Khatami offrì dopo l’11 settembre 2001. Fu proprio nel periodo più tumultuoso del Presidente riformatore, quando l’ala dura del khomeinismo andava agguerrendosi, che Bush pronunciò il discorso sull’Asse del Male (era il 29 gennaio 2002), includendo Teheran fra i nemici esistenziali delle democrazie. Preoccupata dall’integralismo sunnita dei talebani, Teheran continuò tuttavia a cooperare, fino a quando Bush non tese un insano nuovo agguato: nel maggio 2005 proibì a Karzai di stringere con Teheran un patto di non aggressione, che vietava attacchi militari all’Iran a partire dall’Afghanistan. Poche settimane dopo, il 3 agosto, Ahmadinejad veniva eletto Presidente: l’aiuto di Bush, secondo lo storico Rubin, fu decisivo. Ancora una volta, un mortifero fondamentalismo nazionalista nacque come Golem fabbricato dall’Occidente.

Viene infine l’errore dei vocabolari: intrisi di propaganda e smemoratezza storica, ignari dei fatti reali. La propaganda dice che siamo in guerra contro un Islam retrogrado, integralista: tale è il nemico esistenziale, mondialmente ramificato, della civiltà democratica. Anche in questo caso si parla a vanvera, ignorando la durata lunga della storia afghana: che non è la storia di un paese fagocitato per tradizione dall’integralismo. Il fondamentalismo regressivo, contro cui pretendiamo combattere, è frutto della politica di potenza che è stata fatta sulla pelle dei questo paese, nell’800 e poi di nuovo nella seconda metà del ’900. Prima degli Anni ’70 la tradizione afghana era laica, e Kabul era una città musulmana culturalmente aperta, sveglissima. L’ascesa dei talebani, scrive il filosofo sloveno Slavoj Zizek, «non esprime una profonda deriva tradizionalista» ma è stata «la conseguenza del fatto che il paese venne risucchiato dal gorgo della politica internazionale» (Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi 2002).

Ultimo errore: l’equivoco della guerra in corso. Equivoco in ragione della sua natura anfibia, per metà bellica per metà umanitaria, per metà scontro armato per metà «missione di ricostruzione». In realtà, questo è un conflitto di tipo nuovo, su cui vale la pena meditare. È un conflitto che estromette ogni figura terza, tipo Croce Rossa, visto che gli occidentali fanno ambedue le cose: la guerra e l’umanitario. «La guerra è presentata quasi come un mezzo per garantire la consegna degli aiuti umanitari», scrive ancora Zizek. Una delle parti in conflitto si assume il ruolo della Croce Rossa, mescolando il soldato che uccide con il ricostruttore di scuole, ed esponendo alla stessa inimicizia insurrezionale militari e civili. È forse il lato più osceno delle guerre odierne. È il motivo per cui la nostra propaganda non è così distante dallo slogan che il partito totalitario affigge sui muri, nel romanzo 1984 di Orwell: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza».

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« Risposta #67 inserito:: Agosto 30, 2009, 08:49:57 am »

30/8/2009


La coscienza orfana della legge

Barbara Spinelli
   

Stando a un sondaggio di SkyTg24, sono molti gli italiani convinti che i cinque eritrei sopravvissuti alla morte nel Mediterraneo vadano processati per reato di immigrazione clandestina: il 71 per cento. Su quel barcone sono periti 73 fuggiaschi, tra il 18 e il 20 agosto, eppure non sembra esserci emozione di fronte al naufragio ma solo famelica ansia di allontanare gli alieni dalle nostre terre, con ogni mezzo. Erano uomini di troppo i sommersi, e lo sono anche i salvati. I ministri di Berlusconi ne approfittano per ricordare che i respingimenti funzionano, che si fan rari gli intrepidi che tentano le traversate: nessuno porta il lutto per i sommersi né immagina quel che hanno vissuto i salvati. Se ci son colpe, è l’Europa a commetterle. La miseria del mondo non può addensarsi sul Sud del continente. Non siamo buoni al punto da esser fessi: questo fanno capire Maroni, Calderoli, e gli italiani sembrano sostenerli.

Ma forse l’opinione pubblica li sostiene perché scandalosamente male informata, non solo su quello che accade nel mondo ma su quello che succede in Italia, nell’anima d’ognuno di noi. Gli italiani non sono informati, e ancor meno formati, da guide morali alla testa del paese. Non conoscono l’insipienza di un’Unione europea incapace di darsi regolamenti vincolanti e rispettosi dei diritti, riguardo agli immigrati irregolari. Non sanno quel che prescrivono le convenzioni internazionali, la Costituzione, e le antiche leggi del mare che obbligano al salvataggio del naufrago anche in acque territoriali straniere (Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, cap 11 e 12; Convenzione delle Nazioni Unite del 1982 sul diritto del mare, cap 98, 1 e 18,2).

Abbiamo parlato di emozione, ma non è l’unico istinto a far difetto. Quel che è profondamente incrinato, se non spezzato, è il rapporto che gli italiani - cominciando da chi oggi pretende di governarli - hanno con la legge. Quale che sia la legge, nazionale o internazionale, essa è vista come qualcosa di esterno al singolo, allontanata dalla nostra coscienza. È come se la coscienza nazionale e dell’individuo avesse preso le sembianze e il lessico di un’azienda. Nelle aziende si usa esternalizzare a imprese terze la gestione di alcune operazioni che non fanno parte del core business. Così la coscienza: dal suo core business, dalla sua principale attività, il senso della legge viene scacciato in terre aliene.

Questo allontanamento non è in verità nuovo. Piero Calamandrei lo smascherò, il 30 marzo 1956, quando pronunciò a Palermo la sua ultima arringa in tribunale, in difesa di Danilo Dolci e della sua protesta (sciopero della fame contro i pescherecci contrabbandieri tollerati dal governo; sterramento gratuito di una strada abbandonata presso Palermo, da parte di gruppi di disoccupati). Narrando la «maledizione secolare» dell’Italia disse: «Il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e soffocare sotto carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».

Quel che è cambiato, dal ‘56, è che nel frattempo non sono solo i poveri a farsi un’idea soffocante della legalità, della giustizia, dello Stato di diritto. Se Berlusconi è tanto popolare, se a Nord la Lega è oggi il primo partito operaio, vuol dire che anche i ricchi si sentono gabbati e schiacciati da ogni sorta di regole: legali, costituzionali, internazionali. Che l’esteriorizzazione della legge è ormai una patologia diffusa, intensificata da una ostilità senza precedente alla stampa veramente libera. Se si esclude il dramma degli immigrati, la legalità e la battaglia alla corruzione non sono prioritarie neppure per alti esponenti della Chiesa, che pur di ottenere favori e pubblicità accettano di compromettersi. Di qui la sensazione che siamo male informati anche su quel che succede nei nostri animi. Una coscienza che delocalizza la legge è vuota, è pelle senza corpo. Neppure le riforme economiche riescono, in queste condizioni. Diceva ancora Calamandrei che democrazia è innanzitutto «fiducia del popolo nelle sue leggi»: leggi che il popolo sente «come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro, non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così» (i corsivi sono miei).

La legge del mare violata più volte negli ultimi anni è una delle nostre leggi: plurisecolare, fu codificata fra il ‘700 e il ‘900. Lo stesso dicasi per le condotte private che l’uomo pubblico deve avere per divenire modello oltre che capo o dirigente. All’inizio, tutte queste erano leggi non scritte, ataviche. Una sorta di permanente stato di eccezione ha sospeso anche le leggi che Antigone difende contro i decreti d’emergenza di Creonte. «Antigone obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», dice Calamandrei. Oggi tali leggi sono scritte, proprio perché si è riconosciuto che oltre a portare ordine sono anche annunciatrici dell’avvenire.

La maledizione antica si è fatta più spavalda, nei 15 anni passati. Non solo manca la fierezza della legge. C’è una sorta di fierezza dell’illegalità, ci sono tabù di civiltà fatti cadere con spocchia. Il degrado non è avvenuto con lo sdoganamento di Alleanza Nazionale, come si credette nei primi anni ‘90, ma con lo sdoganamento delle idee, degli atti, delle parole della Lega. E di questo affrancamento non è responsabile solo Berlusconi. È responsabile anche la sinistra, incurante dei principi quando è in gioco il potere (D’Alema parlò dei leghisti come di una «costola della sinistra», negli anni ‘90). Lo è ancor più da quando il Nord leghista si è ulteriormente disinibito. In ben 17 comuni del Veneto, il Partito democratico governa oggi con la Lega, senza rimorsi.

È lunga ormai la lista delle devianze leghiste, e quasi ci meravigliamo che all’estero non ci si abitui come ci siamo abituati noi. Ma come abituarsi a quanto sentito in coincidenza con l’ecatombe di agosto! Una pagina Facebook di militanti della Lega Nord con sede a Mirano, cui sono legati da «amicizia» oltre 400 persone, ha esibito qualche giorno fa la scritta: «Immigrati clandestini: torturali! E’ legittima difesa». Tra gli amici citati: Bossi e il figlio Renzo, Cota capogruppo della Lega alla Camera, Boso ex parlamentare leghista. Lo stesso Renzo Bossi ha ideato un gioco di gran successo, sulla pagina di Facebook della Lega. S’intitola: «Rimbalza il clandestino». Più barche affondi, con un clic preciso e deciso, più punti vinci. Soprattutto se i barconi son grandi e i profughi molti.

Tuttavia c’è un’immensa ansia di redenzione in Italia - e in particolare di redenzione attraverso la Legge - che si esprime in vari modi e ha i suoi protagonisti solitari, cocciuti, impavidi. Il desiderio di redenzione è passione civile, non solo religiosa. Ne furono pervasi scrittori del ‘900 come Walter Benjamin e Hermann Broch, durante il nazismo. In Italia ne ebbero sete uomini come Borsellino, Falcone, Ambrosoli, Pasolini, e oggi Roberto Saviano. È strano come i loro vocabolari si somiglino. Borsellino sognava il «fresco profumo di libertà», contro «il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, della complicità».

E altri sognarono aria pulita e uno Stato riformato. Checché ne dicano i sondaggi non c’è italiano, credo, che non aneli a quell’aria pulita e a quel fresco profumo.

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« Risposta #68 inserito:: Settembre 06, 2009, 12:19:35 pm »

6/9/2009
 
Le dicerie contro la verità
 
 
BARBARA SPINELLI
 
Una guerra mentale è in corso in Italia, condotta dall’esecutivo per tacitare, intimidendola, il controllo esercitato dalla stampa e per neutralizzare ogni sorta di contropotere. Nei confronti della stampa assistiamo a vere rese dei conti, e per capire quanto sta accadendo è più che mai urgente distinguere tra due attività: la diffusione di dicerie, e l’accertamento dei fatti. La guerra non ha come soli protagonisti l’élite politica e giornalistica: ogni cittadino - se vuol restar cittadino - è chiamato a distinguere l’opinione dal fatto, la calunnia dal disvelamento di reati. L’offensiva di Berlusconi contro la stampa libera è predisposta per accentrare ancor più il potere esecutivo ma è al contempo guerra mentale, per conquistare il cervello degli italiani e creare in essi uno stato confusionale diffuso.

All’origine del dispositivo bellico c’è una sensazione di debolezza acuta: l’esecutivo ha l’impressione di non poter fare politica senza un’opinione pubblica che non solo approvi i suoi programmi ma esalti il capo considerandolo legibus solutus, non soggetto alla legge.

Manuel Castells, studioso dell’informazione, si sofferma sui metodi delle guerre mentali nei media. Il termine fu coniato a proposito del conflitto in Vietnam da Paul Vallely, analista di Fox News: «Se perdemmo la guerra - così Vallely - non è perché fummo sconfitti sul campo ma per la guerra psicologica dei media», e perché il potere non seppe contrapporre una sua «guerra mentale» (Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi 2009).

È simile la guerra mentale di Berlusconi, e simili sono gli strumenti, da lui maneggiati con perizia e risorse sovrabbondanti prima ancora di entrare in politica: sin dall’inizio la sua battaglia fu di trasformare i mezzi televisivi d’informazione in mezzi di distrazione, infotainment, gossip. «Per questo è così importante - prosegue Castells - che i magnati dei media non diventino leader politici, come nel caso di Berlusconi». Per questo è legittima la domanda del direttore di Famiglia Cristiana, don Sciortino: «Quello che accade non riguarda solo il giornalismo. Quando in un Paese è in discussione la funzione del giornalismo, la sua libertà di esprimersi, di criticare o di commentare le azioni di un potere che non è solo potere di governo, ma pervasivo controllo del sistema mediatico, possiamo parlare di vera democrazia?».

La guerra mentale ha fini e mezzi specifici. Il fine è il pensiero dell’uomo della strada («questa creatura mitologica che ha rimpiazzato la cittadinanza nel mondo mediatico», scrive Castells). Il mezzo è la confusione dei concetti, il caos nell’uso delle parole. Si parla molto, in questi giorni, di killeraggio o imbarbarimento generale: concetti perversi oltre che diseducativi, perché escogitati per rendere appunto confondibili, in un magma indistinto, i due comportamenti radicalmente diversi che sono la diceria e l’accertamento dei fatti. Tutti sarebbero killer: il giornalista che interroga criticamente il Premier (rapporti di suoi collaboratori con la mafia, corruzione di testimoni e magistrati, coinvolgimento in giri di prostituzione) e quello che costringe alle dimissioni il direttore dell’Avvenire Dino Boffo, usando veline anonime. Proviamo dunque a distinguere quel che viene confuso.

Una cosa è la diceria. Nella Russia di Putin si chiama kompromat, materiale che compromette e può anche spedirti in Siberia. È la calunnia che insinua fabbricando prove, e mira a distruggere il carattere dell’avversario politico (character assassination, in inglese). In genere la diceria ha come obiettivo la vita privata del politico, non il suo programma o la cura che egli ha della repubblica e dei suoi vincoli.

Altra cosa è l’indagine sui comportamenti dei politici (comprese le massime cariche dello Stato) e sulla verità dei fatti. L’oggetto della ricerca sono condotte che hanno rilevanza pubblica. Da questi comportamenti può derivare un carattere personale più o meno ostico, ma il bersaglio non è il carattere.

Ambedue i procedimenti, è vero, si propongono di indebolire chi è preso di mira, di delegittimare il leader. Sono ambedue guerre mentali, volendo persuadere chi l’uomo della strada, chi il cittadino, ma il funzionamento della democrazia è influenzato in modi ben diversi dai due operati.

La democrazia accetta il conflitto, esige e stimola la ricerca del vero, anche se il vero è scomodo per il potente. E l’accetta continuativamente, non solo il giorno del voto, perché democrazia non è Unzione dell’Eletto ma un arcipelago di poteri che si frenano l’un l’altro affinché nessuno commetta abusi. Questo gioco di equilibri è garantito dalle costituzioni e da poteri autonomi, tra cui campeggiano la stampa e la televisione. È in tale ambito che la differenza fra accertamento dei fatti e calunnia diventa cruciale. La verità sul comportamento del politico è il fine di chi esercita un contropotere, e l’effetto che si vuol ottenere è la correttezza e l’autolimitazione del potere. Non vuol distruggere, ma correggere. Può darsi che la verità si riveli falsa. È per questo che il cercatore del vero raduna prove, fatti, sentenze di tribunale.

La diceria vuole non salvaguardare ma abolire l’equilibrio dei poteri: personalizzando-privatizzando la politica, accentrando tutti i poteri. La sua guerra mentale è distruttiva: nella testa degli elettori, dei telespettatori, dei lettori, va lacerato tutto quel che li lega alle norme costituzionali, alla politica, allo Stato, alle istituzioni, ai giornali, alla chiesa stessa. È uno strumento antico, è l’anti-Stato teorizzato nelle stagioni terroriste. Fruga, non cerca. La diceria ha un rapporto singolare con la verità, non più fine ma mezzo di scambio utile a sganciare il principe dalle leggi: se tu dici una verità amara su di me, io ne dirò una peggiore su di te. Da tempi immemorabili la calunnia viene usata in tempi di torbidi, non quando lo Stato è forte ma quando vacilla (Rivoluzione francese, uscita dal Terrore nel Termidoro).

Se tutto è diffamazione privata, anche la ricerca della verità pubblica scade al rango di diceria, di assassinio di carattere. Perfino chi condanna l’attacco al direttore dell’Avvenire, perfino chi chiede più prudenza alla Chiesa (un direttore gay è ricattabile se dirige il quotidiano della Cei, scrive Vittorio Messori sul Corriere della Sera), dimentica che la parola chiave nella questione Boffo non è l’omosessualità, ma le minacce a un privato cittadino: un decreto penale di condanna, nel 2004, lo giudicò colpevole di molestie telefoniche, nei confronti di una giovane donna, durate 6 mesi. L’omosessualità non c’entra niente: quel che conta è un comportamento (l’intimidazione) di rilevanza pubblica. Patteggiamenti o risarcimenti aboliscono la pena, non il fatto.

La cosa più grave per i giornalisti sarebbe reagire all’offensiva contro alcuni giornali e reti televisive dividendosi. Accusandosi l’un l’altro di temerarietà o codardia, a seconda. Sostiene Berlusconi che alle dieci domande risponderebbe, se fossero altri giornali a porle. Dicendo questo, egli ammette che domandare è lecito e che rispondere è doveroso. Motivo di più perché tutti continuino a porre domande al premier.

Ricordiamo quel che accadrebbe in Francia e Germania, in simili circostanze. In entrambi i paesi è ben raro che i giornalisti si aggrediscano l’un l’altro (tranne in presenza di reati). Ma se una o più testate sono attaccate per la determinazione con cui indagano sui potenti, tutta la professione fa quadrato. È come se valesse, non scritta, una legge simile all'articolo 5 del Patto Atlantico: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse... sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti». Fare lo stesso in Italia aiuterebbe a preservare l’arcipelago di poteri di cui è fatta la democrazia.

da lastampa.it
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« Risposta #69 inserito:: Settembre 13, 2009, 12:17:11 pm »

13/9/2009

Il paese della vista corta
   
BARBARA SPINELLI


La lezione forse più importante degli ultimi anni di crisi economica è l’inconsistenza, la vuotezza del tempo breve. Per chi gioca in borsa il tempo è un attimo. Così per il politico, quando si nutre di sondaggi al punto di fabbricarseli. Per il giornalista, l’imprenditore, il sindacalista, le generazioni future sono nulla, l’immediato è tutto anche se serve a preservare un potere ormai finto.

Già nell’800 Jacob Burckhardt scriveva che l’indebitarsi dello Stato («La più grande, miserabile ridicolaggine del XIX secolo») era un «dissipare in anticipo il patrimonio delle future generazioni: una superbia senza cuore». Non rattrappisce solo il tempo, come la pelle di zigrino di Balzac. Il rattrappimento colpisce anche lo spazio. Tempo breve e spazio corto eclissano artificialmente le più vaste realtà che sono la nazione, l’Europa, il mondo. L’artificio sta ovunque sbriciolandosi perché ha prodotto danni enormi.

Non la crisi è mentale, come dissero gli avversari di Obama e come ripete Berlusconi. È mentale l’illusorio ottimismo consumistico di cui la crisi è stata la nemesi. Citiamo l’Italia perché da noi questa genealogia mentale della crisi persiste, con molteplici rami. Perché il tempo breve qui celebra i suoi fasti, e più che altrove è malato il rapporto col tempo: passato, presente, dunque futuro. Inutile commemorare 150 anni di storia italiana, se di questa malattia non si discute. Ambedue, tempo e luogo, sono pilastri delle storie nazionali e da noi pericolano. Quando Berlusconi vanta i tanti anni a Palazzo Chigi, quando imprime il suo marchio sull’anniversario dell’unità («Credo sinceramente di essere stato e di essere di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto in 150 anni della sua storia») parla di una cosa apparentemente essenziale: del tempo lungo. Ma è tempo lungo fittizio, centocinquant’anni di storia sono un’emanazione luminescente e plastificata della sua persona e vengono d’un colpo vanificati. Il suo vero tempo è il governare giorno per giorno, come denunciato giovedì da Gianfranco Fini a Gubbio. Lo stesso avvenne in vari paesi sviluppati, prima della crisi: la furia dell’attimo borsistico era la regola, e da essa nascevano i chimerici incanti chiamati bolle.

La mancanza di visione del domani viene spesso identificata con un accidioso attardarsi sul passato. In realtà è il culto idolatrico dell’istante che crea immobilità, se è vero che l’istante nel momento stesso in cui arriva cessa d’esistere. Questo gioco col tempo fabbricato, che lusinga l’artefice e perciò è idolatrico, è una patologia non solo dell’Italia ma in Italia specialmente acuta; è il «chi me lo fa fare» che ricorre nei film di Fellini. Mai meditato a fondo, il passato viene insabbiato, anche giudiziariamente, e le ferite restano aperte. La patologia dell’Italia plasmata da 30 anni di tv berlusconiana è metodica distruzione del tempo. Quando se ne è afflitti accade che una sola cosa resti: l’inalterabile gelatina degli stereotipi. Gli stereotipi sono oggi, dice il Times, la nostra maledizione.

Come si sopprime il tempo? Trasformando la storia lunga in una successione di verbali scoppi rivoluzionari senza seguito, e il leader in prestigiatore carismatico onnipotente. La soppressione del tempo è compiuta da un re che non si cura delle istituzioni, fiero della propria corona ma ignaro di come i regni durino solo se si distingue tra corpo deperibile del monarca e permanere eterno della Corona. Un re che maschera il vuoto dietro il villaggio che Potemkin, amante di Caterina II, allestì lungo il Dnepr, per gabbare la regina (ieri illudeva la cartapesta, oggi lo schermo che gli spagnoli chiamano caja tonta: scatola tonta). Eros e Priapo imperversano come nel saggio di Gadda e sfociano nel sottotitolo gaddiano: «Da furore a cenere». Eros e Priapo vuol dire che il corpo del re è tutto, e il regno niente. Nelle democrazie parlamentari l’equivalente del Regno e della Corona è il senso delle istituzioni, dello Stato, della Costituzione.

La soppressione del tempo accade con la complicità di molti, perché sono molti, in tutti i partiti, ad aver interiorizzato il pensar breve, anzi brevissimo. Non mancano le eccezioni, e grazie alla crisi c’è chi tenta un cambio di rotta. Può apparire paradossale, ma due persone diverse come Obama e Fini allungano lo sguardo, provano a restaurare il tempo. Pur impensierito dal voto di metà mandato, Obama non smette d’insistere sui disastri dei tempi brevi, sull’obbligo di «costruire il futuro». È significativo che Fini abbia dato vita a una Fondazione che usa parole analoghe, «Fare futuro», e che i tempi lunghi siano un suo pensiero dominante.

Società e classi dirigenti riluttano a questo apprendistato. Soprattutto in Italia, Obama è dato per spacciato (i giornali già annunciano il «naufragio della riforma sanitaria») come si dava per spacciato ogni giorno Prodi. Alla furia borsistica dell’istante Obama risponde, nel discorso alle Camere del 9 settembre: «Troppi hanno usato \ come occasione per assicurarsi punti di vantaggio nel breve periodo, anche se così facendo derubano il paese dell’opportunità di risolvere una sfida di lungo termine». E conclude: «Non è quello che ci proponevamo di fare venendo qui. Non siamo venuti qui per aver paura del futuro».

L’uccisione del tempo ha i suoi conformisti, anche tra chi critica il governo. Anch’essi accumulano vantaggi brevi, trascurano l’arduo durare. Il caso Fini è così importante perché svela la permanenza, ben oltre la destra, dello sguardo tattico, corto. Non sono solo i giornali del premier a scagliarsi contro il presidente della Camera. Una più ampia platea reputa velleitarie le sue parole e proposte: perché le giudica prive di immediati consensi. Quante «divisioni» ha Fini? vien chiesto: è vista corta anche questa. Fini e FareFuturo sono minoritari a destra perché guardano oltre, lontano. Qui è la loro forza, che per molti è debolezza. Sono tanti a difendere uno status quo che garantisce popolarità e profitti, subito.

Anche l’Unione Europea fu pensata con sguardo lungo, e derisa da chi lo aveva corto. È l’inerte saldezza dei vecchi ordini, descritta da Machiavelli nel Principe: «E debbesi considerare, come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché l’introduttore ha per nemici tutti coloro che degli ordini vecchi fanno bene, e tepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene». L’ordine vecchio rincuora, ma è dal nuovo che verranno i benefici.

Tempo lungo e spazio vasto (lo spazio della nazione, dell’Europa, del mondo) sono le due grandi vittime di chi guarda corto, e con l’accetta abbrevia, rimpicciolisce. Il sindaco di un paesino del Bergamasco, il leghista Aldegano, ritiene che la targa di Peppino Impastato nella biblioteca comunale non interessi nessuno da quelle parti e vada tolta, negando con ciò che mafia e illegalità siano fatti nazionali. Antonio Rapisarda sul sito FareFuturo scrive che simili offese toponomastiche rinchiudono il divenire collettivo «tra le strade del piccolo rione». Non diversa la reazione del premier alla riapertura delle indagini sulla morte di Borsellino e sul patto Stato-mafia: «È follia pura», ha detto l’8 settembre, che le Procure di Palermo e Milano «ricomincino a guardare i fatti del ’92, ’93, ’94». I magistrati sperperano soldi dei contribuenti, «cospirano come tori inferociti».

Non è cospirazione e non è spregio dei contribuenti accendere la luce su quegli anni. Sono gli anni in cui Dell’Utri «promise alla mafia precisi vantaggi in campo politico» (sentenza di primo grado), e nacque Forza Italia. Gli anni in cui ci accorgemmo che era vinta la battaglia contro il terrorismo ma non contro la mafia (Gian Carlo Caselli, Le due guerre, Melampo 2009). Gli italiani non sono solo consumatori-contribuenti ma cittadini con diritto di sapere il tempo da cui vengono e quello verso cui vanno. Giacché tutti viviamo il tempo come il duca di Guermantes in Proust: siamo «appollaiati» sul passato come «su viventi trampoli che aumentano senza sosta» e, certo, per questo siamo malfermi. Difficile camminare su trabiccoli «più alti di campanili». Ma difficile anche - senza trampoli - guardare alto e vedere lontano.

da lastampa.it
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« Risposta #70 inserito:: Settembre 20, 2009, 06:27:05 pm »

20/9/2009

Una guerra che va ripensata
   
BARBARA SPINELLI


E’ stato detto, subito dopo l’attentato a Kabul che ha ucciso sei soldati italiani, che quando si vivono lutti così grandi non son decenti le polemiche e neppure le analisi politiche. Invece è proprio nell’ora del lutto e della pietà che urge il pensiero profondo, come è nelle tenebre che più si aspira alla luce. Neanche la polemica è fuor di posto, non fosse altro perché la guerra stessa è pólemos, controversia, e sulle controversie si dibatte, specie se sanguinose. Parlarne non è offendere i morti ma onorare una missione su cui certamente anch’essi si sono interrogati.

Molte guerre, a cominciare dal ‘14-18, avrebbero evitato il decadere in inutili stragi, se fossero state ridiscusse nel momento in cui cominciavano a divenire non solo sanguinarie - ogni guerra lo è - ma assurde e addirittura, come disse Benedetto XV nel 1917, inutili.
Iniziata nel 2001 come offensiva contro lo Stato talebano che ospitava Bin Laden, la guerra in Afghanistan è giunta a questa temperatura critica, dopo 8 anni. È una temperatura che non migliora estendendo la lotta al Pakistan o aumentando soldati, come nelle prime mosse di Obama. Migliora solo a condizione che la guerra non continui così: inerte, vuota di pensiero, indiscussa, indiscutibile. Non migliora se Obama continua a definirla «necessaria», dunque votata all’immutabilità perché da essa dipenderebbero le nostre vite. Se non ora che fa più morti e non dà frutti, quando metterla in discussione? Quando esaminare i suoi difetti maggiori, che sono la vista breve, la pigrizia mentale, l’occhio fisso su Kabul anziché su un’intera regione malata? Gli europei sanno per esperienza che le inutili stragi nascono dalla paura reciproca dei nazionalismi in un più vasto continente. Eppure, proprio l’Europa è singolarmente afasica sull’Afghanistan.

In Asia centrale accade qualcosa che gli europei conoscono. Il Pakistan ha un’enorme paura dell’India, il suo confine con l’Afghanistan ancora non è riconosciuto da Kabul, e l’alleanza afghano-indiana è per esso un incubo. Per questo Islamabad vuole non solo controllare Kabul, ma prolungare una guerra che tiene l’America in zona. L’Iran teme il ritorno dei talebani sunniti ma anche il perennizzarsi di basi Usa al proprio fianco Est. La Russia teme di legittimare con negoziati il terrorismo musulmano. Pensare la guerra vuol dire considerare la geografia e la storia di questi vari elementi. È quello che non è stato fatto. Bush è andato a Kabul come se sulle mappe fosse scritto: qui ci sono i leoni, hic sunt leones. E la guerra prosegue in un paese di cui non si vedono gli uomini: simile all’Africa senza storia descritta da Hegel.

Conoscere chi combattiamo significa meditare sugli avversari e su noi stessi: su come l’Occidente può sventare le minacce, sui mezzi - non obbligatoriamente militari - per promuovere una pace continentale che non si limiti all’area afghana. In particolare, significa capire chi sono gli insorti che si moltiplicano contro gli occupanti occidentali: cosa li muove, dopo l’iniziale benvenuto del 2001, e come oggi si dividono. Loro ci studiano, meticolosi. Noi ignoriamo abissalmente l’Afghanistan, persuasi di combattere un monolite nominato Al Qaeda. Sul terreno è da tempo che le cose non stanno così: gli insorti non sono tutti talebani, i talebani afghani e pakistani sono diversi, tutti hanno rapporti complessi o inesistenti con Al Qaeda. Non hanno agende politiche globali, ma nazionali se non tribali. Marc Sageman, ex agente Cia e studioso di terrorismo, è convinto: se la guerra è insensata, è perché Al Qaeda non è più lì e s’è indebolita: «Se Obama vuol tutelare l’America, non deve fare la guerra in Afghanistan. Gli insorti afghani e pakistani non viaggiano»: viaggia chi mette bombe in Occidente (intervista a Rémy Ourdan, Le Monde, 9 settembre 2009). Non è neppure detto che un governo con talebani ospiterebbe oggi Al Qaeda.

Esistono ormai studi minuziosi sull’insurrezione, che confermano queste analisi. Essi constatano invariabilmente un fatto: così come è stata condotta, la guerra fa solo danni perché il vero nemico non è più lì ma in Waziristan (Pakistan), e perché gli insorti non coincidono con Al Qaeda anche quando ricorrono a metodi terroristi. È un’insurrezione con molte radici, secondo Thomas Ruttig, consigliere dell’Onu e dell’Unione Europea, professore all’Università Humboldt di Berlino e all’Università di Kabul. Una serie di fattori spiega il suo dilatarsi negli anni: gli errori fatti all’inizio da Bush, che ha abbattuto Kabul lasciando un vuoto nelle aree rurali; l’omertosa complicità coi signori della guerra più corrotti e legati al traffico di droga; i ripetuti bombardamenti contro i civili; la corruzione infine del governo Karzai, divenuta più che palese nelle elezioni di agosto (Thomas Ruttig, The Other Side, Afghanistan Analysts Network, luglio 2009).

Irresponsabilmente ciechi, Washington e alleati hanno fatto propria la strategia di Karzai, e dei signori della guerra con cui Karzai si è alleato prima del voto: ogni insorto, ogni oppositore, è chiamato talebano terrorista. Ignorata è la sete di giustizia, tanto che nei territori controllati dai talebani le corti islamiche sono considerate più eque. Trascurate e minimizzate sono le sfaccettature dell’insurrezione, e la sua metamorfosi in guerra civile. Se si parla di Vietnam non è per il numero di morti (in Vietnam furono molti di più). È perché si ripete il fatale errore che consiste nell’entrare nelle guerre altrui. Perché resta del tutto inascoltata l’autocritica di McNamara, architetto della guerra vietnamita, che nel ’95 ammise in un’intervista: «Quella che combattemmo - e non ce ne rendemmo conto - era una guerra civile. Certo, esistevano influenze sovietiche e cinesi. Senza dubbio, i comunisti volevano controllare il Sud Vietnam. Ma fondamentalmente era una guerra civile. Non puoi vincere una guerra civile con truppe esterne, soprattutto quando la struttura politica del paese è dissolta». Il «problema non fu la stampa. Fu che l’America era nel posto sbagliato con la tattica sbagliata». Il male non fu discutere troppo la guerra, ma troppo poco.

La metamorfosi dell’insurrezione ha dato forza ai talebani, rilegittimandoli e diversificandoli. Oggi ci sono i radicali ma anche i cosiddetti talebani anti-corruzione, ostili a Karzai e ai suoi legami col crimine. Ci sono i talebani per necessità (forced Talebans), entrati in insurrezione quando i bombardamenti occidentali hanno colpito assiduamente i civili. Il nucleo centrale talebano è a sua volta eclettico, contraddittorio. I talebani moderati non sono inventati: l’ultima volta che si manifestarono (trenta dirigenti, nel 2005) proposero un piano in sette punti che nessun occidentale esaminò seriamente.

Il fronte anti-Karzai è per forza divenuto un possente fronte anti-occidentale, viste le cecità e acquiescenze Usa e Nato. Resta, nei più, il timore di un ritorno dei talebani e dell’abbandono di una costituzione che ha dato garanzie alle minoranze e alle donne. Ma i vincoli di un fronte variegato hanno attenuato l’integralismo religioso, pur non mutando le opinioni talebane sulla democrazia parlamentare. Non è vero dunque che in Afghanistan combattiamo in primis contro il fanatismo: l’ideologia religiosa non è attraente per la maggioranza degli insorti, specie fra non pashtun, sciiti, donne. Risultato: nel 2003 i talebani controllavano 30 distretti su 364. Alla fine del 2008 ne controllavano 164. Gli attacchi sono aumentati del 60 per cento tra ottobre 2008 e aprile 2009, e nuovi fronti si sono aperti a Nord-Ovest, in zone difficili per i talebani.

In Europa e nei rapporti con la Russia, Obama sta mostrando intelligenza, senso della storia. Ha studiato le paure della Russia, dell’Iran, e ha studiato anche l’Unione Europea, mettendo fine alle divisioni letali che Bush aveva attizzato fra paesi fondatori e Stati dell’Est riluttanti a condivisioni esplicite di sovranità. Ha deciso di rinunciare allo scudo antimissile per promuovere la pace nel continente, non per congelare dissidi, paure, nazionalismi. Quest’intelligente prudenza, ancora deve mostrarla in Asia centrale. Non può che cominciarla aprendo, sull’Afghanistan, la vera discussione che in Vietnam mancò.

da lastampa.it
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« Risposta #71 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:12:06 am »

11/10/2009

Barak Obama e il fardello dell'uomo diverso
   
BARBARA SPINELLI


Adesso Barack Obama andrà in giro per il mondo con quel peso: che lo premia in anticipo, lo lega, lo segna. Il comitato di Oslo non premia un’azione, una carriera compiuta. Premia forze impalpabili eppure decisive come la parola, la speranza suscitata, l’attesa che somiglia a un’enorme sete, il valore attribuito da un leader all’imperio della legge e della Costituzione, più forte di ogni convenienza. Ricompensa uno stile, un essere nel mondo che non è in sintonia con il predominio americano e la sua dismisura, la sua hybris nazionale. Siamo abituati a pensare che la speranza sia poco più di uno scintillio ineffabile, essendo fatta di cose non avvenute, malferme.

Siamo abituati a pensare che la parola, diversamente dall’atto, sia fame di vento. Che ripensare la politica e le sue routine sia vano. Non è così. Abbiamo solo dimenticato che la parola è tutto nei testi sacri che fondano le civiltà, compresa la nostra. Per il Siracide, nella Bibbia, «meglio scivolare sul pavimento che con la lingua», e «un uomo senza grazia è pari a un discorso inopportuno».

Da ora Obama porta questo fardello. Deve ancor più dar senso alla parola, e in primo luogo tenerla. Lui stesso è parso colto da tremore, all’annuncio. Era serio davanti al microfono, come Buster Keaton che non ride mai. Faceva pensare a quei profeti o sentinelle turbati dall’appello, che ammutoliscono o «hanno un gran bue sulla lingua», come nella Bibbia o nell’Agamennone di Eschilo. Ha detto: «Onestamente non credo di meritarlo», intendendo che ancora non è divenuto quello che pure già è - una transformative figure. La notizia lo ha «sorpreso e reso umile», nel Nobel vede non una gratificazione ma una «chiamata all’azione». I premi mettono sempre spavento. Se non lo mettono, più che chiamare lusingano.

La parola che già oggi fa di Obama una figura trasformativa concerne questioni essenziali: la coscienza che la solitaria superpotenza americana è un’impotenza, se non cerca la cooperazione col mondo; l’ascolto dell’altro e la mano tesa giudicati indispensabili, purché a essi non si opponga il pugno che non s’apre. E ancora: inutile provare a fermare gli Stati aspiranti all’atomica, quando il nucleare è l’unico passaporto di potenza e quando i Grandi non cominciano da se stessi, riducendo i loro esorbitanti arsenali. Anche questo cambiamento ha risonanze bibliche. Dice ancora il Siracide: «Quando un empio maledice un avversario, maledice la propria psiche». Inferni e assi del male non sono fuori: vedere anche in se stessi il male che suscita caos è inizio di conversione e guarigione.

Obama non fa discorsi facili, è un comunicatore ma non un semplificatore: il suo discorso sulla razza, a Philadelphia il 18 marzo 2008, il discorso al Cairo del 4 giugno 2009 e quello del 17 maggio 2009 all’università cattolica di Notre Dame in Indiana, il discorso infine su clima, disarmo nucleare e multilateralismo, all’Onu il 23 settembre, non sono lisci, non hanno due colori, uno puro e uno impuro. Neppure la chiusura di Guantanamo è facile e ancor meno la rinuncia agli antimissili in Est Europa, che mette fine alla strategia del divide et impera nel Vecchio Continente e sicuramente urta il complesso militare-industriale Usa. Sono discorsi che educano alla complessità, e a vedere le cose da più punti di vista, non uno solo.

I cambiamenti decisivi esordiscono così: dalla parola e dallo sguardo su di sé. Non eravamo avvezzi a questo con i presidenti Bush, con Reagan e Clinton. Paziente, ostinato, Obama tenta di far capire che la potenza Usa non ha il destino manifesto che la mette sopra le altre e ne fa un’eccezione, «città sulla collina» come nel messianesimo politico teorizzato nell’800. Il punto da cui parte è il precipizio: il declino della supremazia Usa dopo la fine dell’Urss, in politica ed economia; il dominio non solo contestato ma inefficace. Come gli europei presero atto che la hybris nazionalista aveva prodotto mostri, e dopo il ’45 escogitarono l’Unione per recuperare in Europa le perdute sovranità nazionali, Obama scopre che sovrano è chi può far seguire l’azione alla parola, non opera da solo, calcola le conseguenze di quel che fa. A cominciare dalla guerre: quella finita in Iraq, e quella che stenta a finire in Afghanistan. Anche qui il Nobel è fardello. Difficile l’escalation chiesta dai militari, con un sacco sì ingombrante da trascinare.

Ma c’è anche qualcosa di conturbante nel Nobel, di ominoso. Il premio è come dato in grande fretta, come se non vi fosse molto tempo e occorresse lanciare un segnale subito. A circondare Obama infatti non ci sono solo attese, speranze. C’è, sempre più acuta, un’immensa fragilità, se non un pericolo che incombe. Thomas Friedman ha scritto un articolo impaurente, il 29 settembre sul New York Times. Racconta di un clima in America che non tollera l’intruso, che trama tribali ordalie: che ricorda, tenebroso, l’atmosfera in Israele prima dell’omicidio di Yitzhak Rabin. Rabin aveva preso il Nobel con Arafat e Peres, nel ’94. L’anno successivo, il 4 novembre, il colono estremista Ygal Amir l’uccise ma alle sue spalle c’era un’opposizione che lo demonizzava da tempo, Netanyahu in testa con il Likud e molti rabbini.

Lo stesso sta avvenendo in America. Nei manifesti ostili e in numerosi discorsi dell’opposizione e di giornalisti astiosi, Obama appare come un alieno comunista, ma secondo l’analista Philip Kennicott è altra la colpa che gli viene imputata: non il socialismo ma il suo essere afro-americano, meticcio, dunque antiamericano (Washington Post 6-8-09). Su Facebook è apparso un sondaggio che chiede se Obama debba o no essere ucciso. Con risposte a scelta tra «sì-no-forse» e «sì, se taglia la sanità».

Tutto questo il Presidente nero non l’ignora. Sappiamo che l’ha messo in conto fin dalla candidatura. Ciononostante insiste: nel voler trasformare il proprio paese, nel dire che da una specie di conversione urge ricominciare. Per questo la parola è tanto importante: perché disturba, scavando. Chi a Oslo ricompensa questa cocciutaggine sembra anche tremare per la sua vita. Chi dice che il premio giunge troppo presto non sa quel che dice e che accade, è cieco alla campagna di odio disseminata negli Stati Uniti.

Obama impersona l’America complicata, che diffida di sé. Non la nazione di Bush che si compiace nel parlar perentorio e approssimativo, ma l’America della grande contorta letteratura, della musica, del cinema, che ragiona sottile e resuscita le parole di John Quincy Adams, il segretario di Stato che nel 1821 dice: «L’America non si avventura nel mondo in cerca di mostri da abbattere. Essa auspica la libertà, l’indipendenza di tutti. È campionessa solo della propria libertà, indipendenza. Si batte per grandi cause con la compostezza della sua parola e la benigna simpatia del suo esempio. (...) Potrebbe divenire dittatore del mondo: non sarebbe più padrona del proprio spirito».

Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come Reinhold Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al paese non il messianesimo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti. Solo una cultura di questo genere poteva permeare le svolte del Presidente. Solo in un’America simile, la discendente di un’adolescente schiava nera stuprata da un padrone bianco poteva divenire first lady degli Stati Uniti.

I gesti e la parole possono molto. Creano storie e cammini nuovi. Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 cade d’un tratto in ginocchio di fronte al memoriale del ghetto distrutto di Varsavia non aveva ancora riconosciuto la linea Oder-Neisse tra Germania e Polonia. Quel gesto cambiò tutto, prima che lo scabro itinerario cominciasse. Così Obama a Philadelphia, al Cairo, a Notre Dame, all'Onu.

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« Risposta #72 inserito:: Ottobre 11, 2009, 10:22:33 am »

4/10/2009

Il grande sacco dell'Italia


Barbara Spinelli.

   
Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l'Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.

E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.

Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.

Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.

È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.

Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po' come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del '500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.

L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.

Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D'un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c'è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.

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« Risposta #73 inserito:: Ottobre 18, 2009, 05:21:36 pm »

18/10/2009

Telecom France, la battaglia dei suicidi
   
BARBARA SPINELLI


Venticinque persone che si suicidano alla Telecom francese in un anno e mezzo: è sconvolgente perché somiglia a un’ecatombe, a una guerra inconfessata. I profitti dell’azienda sono altissimi, la semi-privatizzazione del 2004 è stata un successo, ed ecco: l’operazione è riuscita, ma i morti sono tanti. Non siamo di fronte all’immolazione d’un capro espiatorio: il capro stesso tende il collo, si considera degno di olocausto. Un divario così grande fra utili dell’impresa e sofferenza umana riguarda la società, non semplicemente la psiche di individui che fanno harakiri, il più delle volte dimostrativamente nel posto di lavoro. Che non riescono a traversare indenni la nuova mobilità, i licenziamenti sempre incombenti, l’ansia che recide tranquillità e speranza, l’organizzazione del lavoro fondata sulla nuova cultura della valutazione, tutta protesa a cifrare come a scuola risultati, ritmi lavorativi, comportamenti psichici, su base quantitativa e mai qualitativa: «Una cultura di morte e per la morte», scrive Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera del 17 ottobre.

Strano come negli ultimi due-tre anni la morte volontaria abbia messo radici in una terra di rivoluzioni, di regicidi. Il fenomeno si è rivelato più tenace dei sequestri di manager. Oltre ai suicidi in Telecom vanno ricordati quelli al centro Guyancourt di Renault nel 2006-2009 (4 suicidi, l’ultimo in ottobre), nella fabbrica Peugeot-Citroën di Mulhouse (6 suicidi nel 2007), nel gruppo Electricité de France (3 suicidi in 6 mesi, nel 2007).

I dati parlano di 500 suicidi l’anno per lavoro, ma gli esperti sono convinti che il numero sia assai più alto.

A Telecom i sindacati sono presenti, altrove c’è deserto sindacale e la notizia s’insabbia.

Bisognerebbe fare una raccolta delle lettere che alcuni hanno lasciato, prima di uccidersi, come si fa con le lettere dei condannati a morte. Aiuterebbe molti a capire, a rettificare parole, certezze, a vedere un’emergenza sociale dietro le intimità di una psiche. Il lavoro occupa l’intera mente dei suicidi, e l’intera esistenza. Illuminante e terribile è la lettera di Michel D, il quadro dirigente che si è tolto la vita il 14 luglio scorso. È indirizzata ai familiari e a tutti i colleghi: «Mi uccido a causa del mio lavoro a France Telecom. È l'unico motivo. Urgenza permanente, sovraccarico di lavoro, assenza di formazione, disorganizzazione totale dell’azienda: questo mi ha completamente disorganizzato e perturbato. Sono diventato un relitto, meglio farla finita». E in un post scriptum: «So che molte persone diranno che esistono altre cause (sono solo, non sposato, senza bambini). Alcuni insinueranno che non accettavo d’invecchiare. Ma no, con tutto questo mi sono arrangiato abbastanza bene. L’unica causa è il lavoro».

I rapporti degli esperti (psichiatri, medici del lavoro, sociologi, mobilitati nell’ultimo anno) individuano nel lavoro l’epicentro del terremoto suicida. Jean-Claude Delgenes, fondatore della società Technologia che studia questi casi, elenca numerosi motivi ma su uno insiste, in particolare. Il male è nella parola, dice: nella parola che perisce prima della persona, cancellando ogni legame sociale. Il flusso dell’informazione si dissecca, e il singolo si sente solo, minacciato da declassamento, controllato da troppi occhi che «lo assillano moralmente e lo spingono a lasciare l’azienda per esaurimento». La Telecom è un caso speciale, perché per oltre mezzo secolo è stata un grande servizio pubblico: il 65% degli impiegati sono tuttora funzionari dello Stato. La maggior parte dei suicidi avviene tra loro e nelle classi alte: quadri e ingegneri di 48-50 anni, sconvolti dall’avvento di cellulari e internet.

L’assenza di parola è malefica, quando non circola più e si allontana come un Dio dichiarato morto: non viene data a chi forse si salverebbe parlando, non viene ascoltata quando stentatamente è detta dal sofferente, non è scambiata tra colleghi. Qui è il crimine, e tutti sono responsabili di un’afasia proliferante e contagiosa: i manager ma anche i sindacati, i politici che non illustrano i costi della crisi e i mezzi di comunicazione. Un mondo sta finendo - il lavoro fisso, il sindacato forte che arginava le disperazioni - e l’enorme mutazione è occultata, sottovalutata.

Ivan du Roy, giornalista a Témoignage chrétien e autore di un libro sui suicidi a Telecom, ricorda che non fu diverso l’affare dell'amianto: ci vollero decenni per riconoscere che i tumori nascevano in fabbrica. Lo stesso accadrà per il nesso lavoro-suicidio (Du Roy, Orange stressé: Le management par le stress à France Telecom, Parigi 2009). Gli amministratori della compagnia hanno esitato a lungo, prima di ammettere che qualcosa non andava, a cominciare dai vocabolari. Il management attraverso la paura, denunciato da Michel D, è qualcosa che non vogliono afferrare. Per mesi, il presidente Lombard ha parlato di «moda dei suicidi».

Questo linguaggio sprezzante è mortifero, soprattutto in un’azienda che è stata servizio pubblico dove il lavoro significava fierezza, prestigio. È un linguaggio sfrontato nato dal fondamentalismo anti-statalista. Mette in luce gli ingiusti privilegi di certi lavoratori ma fa loro mancare quello che più li motiva e li aiuta: il riconoscimento, la stima di sé. La parola d’ordine è, in Francia: Il faut secouer le cocotier - bisogna scuotere l’albero di cocco. Un’espressione perfida che richiama l’usanza, osservata in alcune etnie polinesiane nell’800, di eliminare fisicamente i vecchi quando non erano più capaci di arrampicarsi sugli alberi e raccogliere il cocco. Usato oggi, il termine significa: bisogna eliminare gli improduttivi. In Italia un ministro usa vocaboli simili (fannulloni, parassiti) senza sapere che la storia di certe parole è tragica, proprio quando esse diventano popolarissime.

I sindacati sono specialmente in causa, perché spetta a loro incanalare le ribellioni, educare al nuovo, e dare ai lavoratori non illusioni ma verità. Il suicidio smaschera la loro inconsistenza, essendo una rivolta strozzata subito. Il ribelle, lo dice l'etimologia, ricomincia sempre la guerra (re-bellum). Il suo linguaggio (militanza, mobilitazione) è militare. Il suicida grida, muto, che la guerra è finita: è infinitamente stanco di storia. Come l’Amleto europeo che Valéry descrive dopo il 14-18, «pensa alla noia di ricominciare il passato, alla follia di voler sempre innovare. Barcolla fra due baratri, perché due pericoli incessantemente minacciano il mondo: l’ordine e il disordine».

Non è vero che troppa informazione è deleteria, come dicono molti governanti. La maggior parte dei suicidi lamentano di non esser mai informati, su crisi e ristrutturazioni: né dai manager, né dai sindacati, né dai politici. Sentono solo parole offensive nei loro confronti. Sentono «un’agitazione permanente chiamata pomposamente innovazione», scrivono il 28 settembre i firmatari di una lettera aperta al presidente Telecom. Invitati ossessivamente a pensare positivo, nulla li prepara psicologicamente a tempi duri, al lavoro che ridiventa necessità e pena.

Non meno responsabile è la professione giornalistica. Da tempo ormai le pagine economiche dei giornali sono monopolizzate da articoli su imprese, finanza. I servizi sul lavoro sono pressoché scomparsi. Il capo della Confindustria si esibisce quasi fosse un ministro, pur essendo rappresentante di un sindacato come altri. Lo studioso Michael Massing scrive che la stampa Usa non si occupa praticamente più dei problemi sociali (New York Review of Books, 1-12-05). Il New York Times ha 60 reporter che seguono il business, e uno che segue il lavoro.

Il respiro breve, il tempo corto: sono mali che non affliggono solo la finanza ma anche il lavoro. Tutto deve esser ottenuto subito. Chi regna è il cliente: una giusta rivalutazione del consumatore, che rischia tuttavia di ributtare il produttore nel nulla («Je suis nul - Sono nullo, sarò licenziato», dice un altro suicida nell'ultima lettera). Tutto questo è moderno e tragico al tempo stesso. Sfocia in un brave new world dove mai sfuggi al sorvegliante. Dove ti ordinano di pensare positivo, e se pensi negativo ti eliminano come i vecchi che non sanno più inerpicarsi sull’albero di cocco.

da lastampa.it
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« Risposta #74 inserito:: Ottobre 25, 2009, 04:23:39 pm »

25/10/2009

Piccolo mondo antico
   
BARBARA SPINELLI


Il ministro dell’Economia ha dato un’occasione al Pd, che oggi affronterà le primarie e sceglierà una guida nuova. Difendendo il valore del posto fisso, presentandolo come la cosa calda anelata quando gela, affermando che nel modello europeo non si può organizzare un progetto di vita e di famiglia se il posto è variabile, incerto, Tremonti ha evocato un ingrediente essenziale del socialismo: ha evocato la stoffa dei suoi miti, delle sue mobilitazioni. Alcuni dicono addirittura che il ministro abbia astutamente rubato alla sinistra un tema che dovrebbe figurare nei suoi programmi, lasciandola sgomenta e muta. Si è appropriato della questione sociale, facendosi interprete del mondo che soffre una degradazione del lavoro destinata ad acutizzarsi.

La realtà è non poco diversa tuttavia, e la vera occasione per gli eredi del socialismo e del cattolicesimo sociale è di penetrare tale realtà.

Di dire il volto che ha oggi la questione sociale, di costruire su essa un nuovo corpo di dottrine, di sfatare le illusioni. Un primo passo importante l’ha fatto Franceschini, intervistato dal Sole - 24 Ore del 22 ottobre: «Alla retorica di Tremonti, io oppongo i fatti. E i fatti dicono che la flessibilità fa parte delle società moderne. Piuttosto il governo non fa nulla per arginare la precarietà. Lancio la sfida al ministro dell’Economia e chiedo di agire su due fronti. Primo: togliere convenienza economica ai contratti precari (...). Secondo: riforma degli ammortizzatori. Insisto: basta con la logica delle deroghe, servono protezioni sociali per l’operaio che perde il posto, per l’artigiano e per i giovani con contratti flessibili».

L’errore è forse quello denunciato da Kant: si parla di valore, quando si dovrebbe parlare di dignità. Si riempie di valore qualcosa che non ha rapporti con il reale ma con ricordi, nostalgie. Su una cosa Tremonti non ha torto: contrariamente a ciò che è stato detto nei giorni scorsi, anche a destra, il posto fisso non è un male, un fossile. Troppo facile liquidare così un mito che occupa le menti di tante persone in bilico, ed è quella «goccia del passato vivente» che secondo Simone Weil va conservata gelosamente e portata nel futuro, perché non cresca lo sradicamento del lavoro. Il lavoro stabile è quella goccia ­ più del posto fisso ­ ed è ovvio che nell’immaginario resti un bene: come potrebbe non essere così?

È un bene, tuttavia, riservato a sempre meno esseri umani. I lavoratori instabili e precari sono quasi 4 milioni (il 15 per cento degli occupati).

Fra il gennaio 2008 e il gennaio 2009, solo il 23 per cento delle assunzioni si è concretizzato in un contratto a tempo indeterminato, e di questi contratti solo il 3 per cento si è stabilizzato (al Sud l’1,7).

L’economista Tito Boeri spiega come nel mercato del lavoro si assuma «quasi solo con contratti temporanei: 4 nuovi rapporti di lavoro su 5 vengono istituiti fissando una data di scadenza, spesso molto breve. La percentuale sarebbe ancora più alta se si tenesse conto che molti contratti formalmente a tempo indeterminato per le badanti sono in realtà contratti che possono essere interrotti da un momento all’altro» (Repubblica, 22-10). Con questo dualismo urge fare i conti: non esaltando un mondo a scapito dell’altro, ma conferendo dignità a chiunque lavori, stabilmente o precariamente, e senza cercare il calduccio nei bei tempi o valori che furono. Questi non tornano, ma la questione della dignità resta. Facendo l’elogio del passato Tremonti non solo proclama l’ovvio (lui stesso l’ammette: «Ho detto una cosa scontata: come che tra stare al caldo e stare al freddo, preferisco stare al caldo»). Enuncia banalità inutili perché irrealizzabili, ha scritto su questo giornale Federico Geremicca.

Ma non è solo una banalità. La frase di Tremonti occulta il vero ed è deleteria, beffarda. Attribuendo un’inimitabile virtù di stabilità al posto fisso, inoltre, fissa valori supremi che per forza declassano altri valori, facendone dei disvalori. Il posto precario che tanti giovani devono scegliere al posto dell’inattività è condannato e dannato, non consentendo di «organizzare progetti di vita e di famiglia». La preminenza data al posto fisso sfocia «nell’esclusione degli outsider, di quelli che il posto non lo hanno», e ai quali non si offre «una società aperta ma l’arroccamento degli insider», scrive l’economista Franco Bruni (La Stampa, 21-10). Essendo in fondo senza interesse, il lavoro instabile non ha interessi da far valere né rappresentanze da costruirsi. Disperazione e rimpianto sono la sua sorte. In Italia, a differenza della Francia, chi lavora nella precarietà non ha protezioni se si ammala, se aspetta un figlio. Non ha diritti concernenti ferie, licenziamenti, pensione. Dichiarare il posto fisso come «la base di una vita dignitosa» è un crudele memento per coloro cui si dice: tu questa base non puoi averla, anche se lavori, perché non sei parte del piccolo mondo antico. È nell’Inferno che Dante lo apprende: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria». Non è neanche vero che Tremonti difende l’esistente. Le sue parole feriscono perché illudono, fingendo un esistente che non c’è. Somigliano alle case vendute con delittuosi imbrogli a chi non ha soldi per comprarle: sono parole subprime.

Sono l’ennesima bolla, fatta di vento che presto si sgonfia.

Negare la realtà è perpetuare una pigrizia mentale che lusinga i privilegiati e lascia scoperti gli sfavoriti, trasformando questi ultimi (la maggioranza dei giovani) in perdenti. Che li contagia con l’indolenza, non svegliandoli a una nuova cultura del lavoro: una cultura egualmente calda, che dia stabilità all’attività lavorativa, quale che sia la sua forma. La sinistra ha una funzione essenziale nella formazione di questa cultura, perché tradizionalmente rappresenta i lavoratori, i miseri. Quando smette di farlo ­ quando nel contempo dimentica anche gli imperativi della moralità pubblica ­ il vuoto è stato sempre riempito da destre populiste.

La sinistra e i sindacati devono ricominciare la storia, anziché impigrirsi e riecheggiare astratti rimpianti: devono capire che la questione sociale si sta ripresentando impetuosa, ma con vesti diverse. Che siamo di fronte a un passaggio storico non dissimile da quello descritto da Luigi Einaudi nel 1897, quando gli scioperi colpirono l’industria tessile del Biellese. La nascita delle fabbriche nella prima metà dell’800 aveva suscitato bisogni nuovi, per chi aveva dolorosamente vissuto la fine del tessile lavorato in famiglia, col telaio a mano installato in casa. Aveva, proprio come dice Tremonti del lavoro instabile, distrutto progetti di vita e famiglie, tanto che Simone Weil sognava, ancora nel 1949, l’abolizione delle grandi fabbriche. Garantire protezioni al lavoro discontinuo oltre che al posto fisso è un compito grande e arduo per le sinistre. Non basta che il Pd cessi di essere un partito leggero e vada nelle fabbriche che chiudono, come suggerito da Epifani sul Fatto di venerdì. Non è solo in fabbrica che la sinistra ritroverà coloro che, pur lavorando, soffrono la perduta dignità, ma nelle professioni intellettuali, negli uffici, nella pubblica amministrazione, nella ricerca.

Diceva ancora Einaudi: «Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato a ogni istante di non durare (...). Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes» (Le lotte del lavoro, Einaudi 1972). Tremonti ha il merito di aver visto l’aggravarsi dello squilibrio. Da qui bisogna partire, perché esso susciti nuove rotte di pensiero, di azione. Perché gli anni eroici del movimento operaio siano la goccia del passato vivente che porteremo nel futuro.

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