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 inserito:: Aprile 28, 2024, 11:53:32 pm 
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Scurati e Sangiuliano, censura e rimozione storica

Nel centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti per mano dei sicari fascisti di Mussolini, il ministro della Cultura Sangiuliano e il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca danno una interpretazione revisionista dei fatti omettendo il mandante e la matrice ideologica di tale atto.

Alessandro Brescia 24 Aprile 2024

Sembra un paradosso ma lo scrittore Antonio Scurati con il testo del suo monologo si è inevitabilmente legato al ministro della Cultura Sangiuliano. Un monologo mai andato in onda, oggetto di una becera censura, forse perché troppo ricco di dettagli sulla morte di Giacomo Matteotti, peraltro, va ricordato al ministro, rintracciabili anche in un buon libro storia.
Ad esempio, semplicemente, che “Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924. Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini”. Al contrario, il testo del discorso letto dal ministro Sangiuliano in occasione dell’inaugurazione della mostra dedicata a Matteotti al Museo di Roma, nel centenario della morte, è ricco di omissioni.
Nel discorso del ministro, al contrario di quello di Scurati, il nome di Benito Mussolini non compare mai. Né che Matteotti fu ucciso dai fascisti oppure che lo stesso duce si assunse pubblicamente la responsabilità politica e morale della violenza di quei giorni nefasti, compreso il delitto contro il leader socialista.
Solo l’incipit del Ministro è da antologia (forse per dei nuovi libri di storia): “La soppressione di una vita umana è uno degli atti più deprecabili che un uomo possa compiere“.
Ancora, “quando poi la motivazione proviene dall’ambito della lotta politica, cioè da quella dimensione che, pur nella varietà delle convinzioni di ciascuno, attiene al bene comune, l’atto e ancor più grave e riprovevole“.
Dopo queste parole generiche, Sangiuliano si supera toccando l’apice del qualunquismo, parlando di “un parlamentare attivissimo nel suo lavoro di oppositore al fascismo cui venne brutalmente spezzata la vita cento anni fa“. Insomma, è morto, è accaduto.
L’hanno ucciso. Ma chi ha spezzato quella vita, il Ministro non riesce proprio a dirlo. Non una riga per mettere in relazione il brutale assassinio di uno dei padri della democrazia, un gigante della nostra storia, forse troppo poco commemorato. Peggio del ministro ha fatto solo il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca.
Anche nel suo discorso, breve e sconclusionato, non c’è traccia di nulla. Anzi, secondo Rocca, “prima della scomparsa del deputato socialista, il dibattito politico, intellettuale e parlamentare rimaneva vivace e relativamente libero” e dopo le elezioni del 1924 – ha aggiunto Rocca – “Matteotti decise di prendere di petto, pubblicamente, il risultato e avviare un’opposizione forte e determinata, prendendo di mira fascisti e comunisti, considerati corresponsabili del clima di violenza, complici l’uno dell’altro”.
Insomma, una ricostruzione che è tutto dire.
Il dramma è che non si capisce se sia peggio la censura ai danni scrittore Scurati o le intenzionali rimozioni e bizzarre ricostruzioni da parte di uomini delle Istituzioni.
Ma forse, in questa Italia di destra, le due cose si spiegano reciprocamente.

https://www.micromega.net/scurati-e-sangiuliano-censura-e-rimozione-storica/?utm_source=substack&utm_medium=email

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 inserito:: Aprile 28, 2024, 07:16:00 pm 
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In ricordo di Rossana Rossanda, ancora comunista ancora dissidente
A esattamente 100 anni dalla nascita di Rossana Rossanda, ripubblichiamo una conversazione della fondatrice del Manifesto con Marco D’Eramo, uscita sul vol. 2/2017 di MicroMega. Più di cento nomi compaiono in questa intervista. Da Togliatti a Pajetta, da Castro a Ingrao, la vita della fondatrice del Manifesto ha incrociato quella dei maggiori protagonisti della sinistra (italiana e non solo) dal dopoguerra a oggi. E lei stessa ne è stata una delle figure più influenti. “Se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa di te”.

Marco d'Eramo 23 Aprile 2024

Rossana Rossanda in conversazione con Marco D’Eramo
Verso la fine di La ragazza del secolo scorso scrivi una frase strana: «Del resto, il mio scacco come persona politica è totale soltanto da una ventina d’anni». Poiché tu scrivevi queste parole nel 2005, il tuo «scacco come persona politica» si riferiva alla metà degli anni Ottanta, non prima, non dopo. Bizzarro, no?
Bizzarro.
Ma perché?
Forse perché avvertivo che stava maturando una crisi definitiva nel Partito comunista, cui devo la mia identità politica. La crisi non era recente, tanto meno è avvenuta con la caduta del Muro di Berlino. Nell’89 si è solo catalizzata: il Pci non ne ha dato una spiegazione. Si è limitato a incassare il giudizio dei suoi avversari storici: «Era sbagliata l’idea stessa di comunismo». Identica posizione tra i russi, i cinesi, i cubani. Nessuno cerca di dare un’altra spiegazione, nessuno di loro dice: «Perseguivamo un ideale giusto ma abbiamo commesso i seguenti errori». Nessuno si chiede perché la crisi abbia colpito tutti e nello stesso momento.
Non è forse dovuto anche al fatto che il marxismo non ha previsto gli effetti del marxismo? Nel senso che l’esistenza stessa del marxismo, con tutto quel che ha comportato in termini di nascita di movimento operaio e di regimi proclamatisi marxisti, ha fatto sì che le previsioni del marxismo non si realizzassero?
Sì, in parte, se intendi dire che all’estendersi del comunismo si sono opposte potenze o forze politiche di indirizzo soprattutto neoliberale: le avevano spaventate non solo le virtù, ma soprattutto i vizi dei partiti comunisti e dei cosiddetti socialismi reali. Ma c’era un nostro limite teorico: quel che Marx dice della contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e sistema politico del capitale lo abbiamo concepito come un processo sicuro, inesorabile, che si sarebbe concluso con la vittoria del comunismo. Cosa che non si è verificata. Alla domanda «quando è avvenuta la crisi nel comunismo russo?», risponderei: quando Lenin afferma «bisogna saper chiudere una rivoluzione» e lo fa con la Nuova politica economica. Forse la verità è che non si chiude una rivoluzione se non approfondendola, e non nel senso di «reprimere più avversari», ma approfondendo il carattere irreversibile della nuova società, cioè nella direzione contraria a quella che Lenin credette di dover scegliere. Probabilmente era dovuto anche al fatto che la Rivoluzione del ’17 è avvenuta come una mobilitazione di minoranze relative e in pochi luoghi, non di tutta la popolazione e su tutto il territorio della futura Unione Sovietica. Sicché quando i bolscevichi hanno avuto il potere, hanno dovuto gestire un paese enorme con enormi problemi, e segnato da una grande arretratezza e con una popolazione in gran maggioranza non alfabetizzata. Il problema del diverso sviluppo fra città e campagne riemerge alla fine del ventennio con l’accelerazione imposta ai contadini, ma soprattutto con il fatto che bisogna nutrire gli operai con la loro produzione – questione che ha portato allo scontro con Bukharin.
Secondo me è l’Unione Sovietica ad aver sotterrato il vero internazionalismo.
Lascia perdere. Non è stato un proposito, ma un effetto. La Terza Internazionale è stata una forza unitaria che ha affrontato problemi che l’Occidente neppure si sogna. Che poi essa non fosse l’internazionalismo come lo pensiamo noi, è un’altra storia. All’interno del suo gruppo dirigente ci fu discussione vera. Non è stato un legame puramente formale.
Non è solo il comunismo sovietico a essere stato tradito, c’è stata anche la sconfitta del maoismo. Adesso, quarant’anni dopo, come vedi la traiettoria del maoismo?
Ho pensato che il maoismo rappresentasse, diciamo, una opposizione di sinistra al XX congresso del Pcus e alla linea di Khrušcˇëv. L’Occidente sostiene invece che è stato una forma di dittatura. Sospendo il giudizio.
Tutto quello che si legge sulla Rivoluzione culturale è che era peggio dei gulag staliniani.
Conosco questa letteratura, ma non c’è nessuno che mi offra serie pezze di appoggio, anche per la difficoltà di esplorare un mondo assai diverso dal nostro.
Ma com’è che il maoismo è stato sconfitto in modo così totale?
Perché all’interno del Partito comunista cinese c’era una posizione che, soltanto per intenderci, chiamerei socialdemocratica, favorevole a uno sviluppo sociale sì, ma più lento. Mao le ha dato una zampata pubblicando il famoso «Bombardate il quartier generale», cioè legittimando e scatenando l’ondata di protesta che si era aperta all’Università di Pechino. Anche sul modo in cui ci viene raccontata quella vicenda ci sarebbe da indagare: non credo che Lin Biao stesse scappando con dei soldi verso l’Unione Sovietica. Magari è stato ucciso.
È probabile. Il fatto è che non si riesce a capire quanto la Rivoluzione culturale fosse movimento popolare di base, e quanto uno scontro di vertice.
Ma che cosa vuol dire «base» in un partito come quello cinese? L’apparato? I militanti? In genere, non mi pare facile da definire: lo si può fare, con un po’ di fatica per l’Italia, ma come si fa per la Cina? È un mondo che non conosciamo e i nostri parametri politici sono diversi. Pensa ai primi film di Zhaˉng Yìmóu, il regista di Lanterne rosse, Sorgo rosso e del bellissimo Ju Dou – che si svolge attorno a una coppia di tintori di seta. Siccome i protagonisti sono operai, possiamo dire che è «un film operaio»? Certo non è il proletariato descritto da Marx o Engels; e infatti Mao dice a un certo punto: «Il nostro proletariato sono i contadini», che è una maniera un po’ semplificata di metterla giù.
Voglio dire che Lin Biao probabilmente è stato ucciso durante una lotta di potere di vertice. Non è stato un movimento di popolo…
Non sarei così perentoria. Fra le poche persone di cui mi fido e che hanno vissuto in Cina e che vi hanno scritto, c’è l’italiana Edoarda Masi. Quello che lei descrive è uno scontro di vertice che si incrocia con un movimento di massa; le Guardie rosse sono un fatto popolare autentico e giovanile. C’è da riflettere su che cosa sia un gruppo dirigente in un partito comunista, non ridotto all’immagine caricaturale che si dà oggi dei comunisti.
Ho capito, ma il risultato è che la Cina è una distopia: ha tanta libertà quanta ne aveva l’Urss di Stalin e ha tanta uguaglianza quanta l’America di Trump.
Sarei più prudente. Di una forma di libertà, la Cina ne ha parecchia, come dimostra il suo enorme sviluppo. Essa lascia, apparentemente, più libertà ai ceti possidenti. Ma andrebbe studiato il ruolo «della repressione consentita»: nel senso che il sistema deve avere la capacità di modificare le teste in modo reale, di averne un consenso. Magari della libertà di parola – tolti gli intellettuali e una parte di ceto politicamente formato – forse non gliene frega nulla. Al Pcc importa lavorare a fondo sulla struttura sociale del paese e ci riesce, diversamente dai comunisti russi.
È ironico che continui a chiamarsi comunista un partito che promuove il capitalismo forse più spietato della Terra.
Non sarei così sicura che sia il sistema economico o politico più crudele.
Sul Financial Times è uscita una storia sulla rinascita del culto di Mao, incoraggiata dall’attuale leader cinese Xi Jinping, che però persegue una politica del tutto opposta al maoismo.
I cinesi non tentano mai di annullare la loro storia precedente. Usano Mao come eroe popolare pur facendo il contrario di quel che egli proponeva.
Torniamo a casa nostra: dal tuo libro sembra che la vera crisi del comunismo italiano sia innescata nel 1956, con la repressione dell’Ungheria, e che da allora sia stato un aggravarsi continuo.
Sì, ma sino alla fine degli anni Sessanta da noi ci fu una speranza: quel che cambia la natura del partito è, credo, il compromesso storico negli anni Settanta. Spiegare alla propria base che era necessaria un’alleanza strategica con la Democrazia cristiana non era semplice. Era una svolta a 360 gradi. E quella che in Berlinguer dovette essere un’idea ambiziosa – puntare su una certa condanna della ricchezza propria della tradizione cattolica – nelle periferie si è trasformata in un tentativo di fare con la Dc accordi al ribasso. Tieni presente che nel 1975, l’Italia prese dovunque un colore rosso. Erano rosse Milano, Venezia, Torino, Firenze, Roma, Napoli.
Negli anni Cinquanta hai diretto la Casa della cultura di Milano, poi nel 1959 sei entrata nel comitato centrale e nel 1963 sei stata eletta in parlamento. Come ricordi quegli anni, prima milanesi poi romani?
Nel 1951 avevo 27 anni, c’era una specie di giovinezza delle giornate, dei mesi, e poi la guerra era alle spalle, era durata sette anni e non ne potevamo più. Oggi dire «Casa della cultura di Milano» sembra una cosa imponente. In realtà, la Casa della cultura nasceva per la seconda volta: prima era presso la sede dell’ex Circolo dei nobili a due passi dalla Scala, poi, dopo il 1948 e la presa dal potere da parte della Dc, in un seminterrato comprato da un certo numero di persone della sinistra, dove la domenica scorrazzavano enormi topi, ma nel quale scendeva l’intelligencija italiana ed europea. Fu il centro della discussione di tutte le forze laiche e il luogo di raccolta della cultura milanese. Giorgio Strehler e la gente del Piccolo Teatro erano di casa. Chiamavano Jean Vilar e Jean-Louis Barrault. Un amico era Jean-Paul Sartre, persona molto cortese e alla mano (fra i pochi attenti a quanto potevamo spendere), l’unico che si chiedesse: «Ma come pagherà le mie fatture questa poveretta?». Una volta vinse un premio e buttò l’assegno nel cestino, pensava fosse un’onorificenza apparente. Mentre in genere, quando i «grandi» venivano in Italia, mi venivano i brividi a pensare ai soldi che avremmo speso… Fatto salvo il rispetto per Neruda, egli fu una botta difficile da smaltire. Certo venivano volentieri anche perché dove c’era un Partito comunista li trattava piuttosto male. Ricordo che una volta a Berlino, mi pare fosse il ’60, dissi ad Alfred Kurella, che era il mio omonimo nella Ddr e che ha una storia personale abbastanza interessante, «Stasera vado al Berliner Ensemble» [compagnia teatrale fondata da Brecht] e lui mi rispose «Bertold Brecht va bene per l’Occidente, ma del socialismo non ha capito niente». E pensare che Brecht è forse il poeta più «staliniano» che ci sia. Il partito tedesco, la Sed, mi è parso il Partito comunista più stupido che abbia conosciuto.
Ma fuori dal Pci chi frequentavi?
A Milano la resistenza c’era stata sul serio ed era stata lunga. Pareva che ci conoscessimo tutti. Ho avuto rapporti di vera amicizia con Riccardo Lombardi e Lelio Basso, peraltro non morandiani. E nella cultura ero legata a Franco Fortini, Vittorio Sereni e molti altri. Conoscevo anche alcuni grandi borghesi come Raffaele Mattioli, erede di Jósef Toeplitz e amico di Piero Sraffa: era in buoni rapporti col Pci soprattutto attraverso un’eminenza grigia, Franco Rodano, marito della leader delle donne comuniste, Marisa Cinciari.
Nel tuo libro fai descrizioni inattese dei dirigenti comunisti. Per esempio quella di Giancarlo Pajetta.
Era tagliente e disperato. Viveva molto poveramente, come se non avesse interiormente mai cessato di essere in galera, nei pressi di una marrana alla periferia di Roma. Tu sai cos’erano le marrane?
I torrenti con i canneti, no?
Proprio così. Ricordo che un giorno di Natale l’ho trovato sotto casa mia a Milano in via Bigli, e gli ho detto: «Ma che fai?», «Ah, dice, «cerco una trattoria». «Una trattoria il giorno di Natale? Vieni su da me, ti faccio da mangiare». Mio marito, Rodolfo Banfi, era paziente e si divertiva. Quella sera Pajetta era talmente infelice che ci ha detto: «Io potrei uccidermi adesso». Allora dopo un’ora che si lamentava, gli dico: «Guarda, quella è la finestra: o ti butti giù subito o non mi rompi più le scatole con questa solfa». E lui: «Ma lo dici sul serio?». «Sì lo dico sul serio». Fra l’altro sarebbe finito nel giardino del museo Poldi Pezzoli che è molto bello.
Sei perfida.
La sola cosa che gli è andata bene nella vita è stata avere avuto una compagna come Miriam [Mafai], che quando lui faceva questo show scoppiava a ridere. E quindi gli ha fatto bene, penso. Sua figlia Giovanna sarebbe venuta a lavorare più tardi al Manifesto.
E Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao che conoscesti meglio a Roma?
Per me la domanda più difficile è su Togliatti come persona. Dopo il Sessantotto, sono stata come tutti molto antitogliattiana, ma ora mi domando come sarebbe stato Togliatti nel Sessantotto. Certo più attento di quanto non sia stato il Pci. Non lo avrebbe ostacolato, pensava che non si dovesse mai andare contro un movimento di sinistra spontaneo, magari per un motivo di opportunismo. Una volta, a Milano, Adriano Celentano venne a una festa dell’Unità destando la collera di tutti i vecchi della federazione del Pci. Togliatti era invece curioso e interessato. Togliatti come persona rimane davvero per me un interrogativo. Perché poi ho potuto frequentarlo abbastanza, nel senso che eravamo sempre i primi ad arrivare a Botteghe Oscure, dove era la sede centrale del Pci a Roma, io perché ero sola e abitavo lì vicino, Togliatti non so per quale motivo. Quindi tra le 8.30 e le 9.30 potevo bussare e chiedere: «Posso entrare?». Io fra i dirigenti non contavo niente e lui era incuriosito dalla «compagna di Milano» che canzonava come sociologa. Allora avevo la responsabilità politica anche degli Editori Riuniti e pubblicammo Trockij, Kamenev e l’opposizione operaia, alcuni fra i primi protocolli del Pcus. Lo avevo avvertito in modo generico: «Pubblicherei materiali degli anni Venti». E lui mi rispondeva sempre: «Fai, fai». Un giorno si trovò quei testi sul tavolo, ed esclamò: «Ma che stai facendo?». Gli risposi: «Ma sei tu che mi hai detto “fai, fai” e io l’ho fatto».
Quindi secondo te se Togliatti non fosse morto nel 1964, forse il Pci avrebbe seguito un’altra traiettoria.
Credo che le cose sarebbero andate in modo almeno parzialmente diverso. Per esempio, aveva cambiato totalmente la redazione di Rinascita, che era una specie di sua rivista personale, facendovi entrare uno come Aldo Natoli, e poi Bruno Trentin, Luciano Barca, Romano Ledda, e me, considerati in genere come i giovani agitati. L’unico dei vecchi rimasti era Mauro Scoccimarro, della commissione di controllo del partito. Davanti alla scrivania di Togliatti, in perpendicolare, c’era un tavolo dove stavamo noi. Dall’altra parte della scrivania Scoccimarro, come per dire: io ho un rapporto alla pari. Ricordo che, come Scoccimarro apriva la bocca, Togliatti, che era pestifero, gli diceva cortesemente: «Vuoi parlare tu Scoccimarro?». Lui diceva «sì» ovviamente, e Togliatti tirava subito fuori dal cassetto uno dei cataloghi delle case editrici antiquarie che prediligeva e cominciava a sfogliarlo. Appena Scocciamarro taceva: «Hai finito, Scoccimarro?». E quando lui diceva «sì» Togliatti rimetteva il catalogo nel cassetto.
L’altro non capiva, faceva finta di non capire?
Faceva finta, credo. Ma ti ripeto, continuo a pensare che i rapporti interni specifici di un Partito comunista, anche quello italiano, sarebbero da indagare. Certo, erano molto diversi da quelli che sarebbero ora. Pensa che prima del Sessantotto, questi personaggi andavano a cena o al cinema da soli, senza guardie del corpo, cosa che adesso non si può neanche immaginare. Li accompagnava sì e no l’autista, il più delle volte no, perché per risparmiare il partito aveva detto: «Basta con gli autisti, prendete la patente». Tra quelli che presero la patente c’era Pajetta, che guidava come un matto. Comunque, nella mia esperienza, molto modesta, Togliatti fu quello che mi apriva tutte le porte; non certo per ingenuità. E quindi mi chiedo che cosa pensasse davvero e che cosa sia stata la sua vita per molti aspetti pensante e anche crudele.
In quegli anni andasti a Cuba con K.S. Karol, che sarebbe diventato il tuo secondo marito, e parlaste molto con Fidel Castro.
Era il 1967 e Carlos Franqui, già direttore del Lunes de Revolución, ci aveva invitato al Salón de Mayo, un convegno di intellettuali che si supponevano amici di Cuba. C’era un’enormità di gente, incrociavi dal fisico Jean-Pierre Vigier al promotore del Black Power, Stokely Carmichael. Una volta, vidi sotto il palco, dal quale Fidel teneva uno dei suoi interminabili discorsi, Giangiacomo Feltrinelli in guayabera e cappellaccio sfondato. L’Avana aveva un suo fascino fra il vecchio centro, ancora popolato dalla memoria di Hemingway, e i quartieri nuovi attorno al Malecón. Un gran disordine, una percepibile scarsità, trasporti approssimativi, auto americane rattoppate fino all’inverosimile, cinema e arti di prim’ordine, dibattito zero e l’unico giornale, Granma, illeggibile. La sera del 26 di luglio, anniversario dell’assalto alla caserma Moncada, fummo trasportati tutti nella provincia di Oriente, sopra Santiago di Cuba, per vedere un insediamento operaio nuovo e incontrare Fidel Castro. Fu un viaggio epico, le guaguas cadevano morte in mezzo a un polverone credo di bauxite. Ricordo Marguerite Duras e Michel Leiris come pazienti maschere d’argilla rossa. Marguerite Duras fu una sorpresa, perché non si dava mai l’aria di occuparsi di politica, ma era una donna molto attenta. Karol e io parlammo tutta la notte con Fidel, il quale poi ci invitò ad accompagnarlo nel giro che doveva fare per l’isola. E così facemmo. Guidava lui stesso la prima jeep ed era manifestamente sicuro, la gente che incontravamo lo interpellava con simpatia. Fu un viaggio per molti aspetti interessante. Vi partecipavano Celia Sánchez, la sua compagna, sottosegretaria di Stato, e gran parte del governo. A un certo punto ci prese un temporale, l’esercito alzò le tende e mise i fornelli da campo e, naturalmente, affidarono a me, cioè all’italiana, il compito di preparare gli spaghetti al pomodoro. Dopo un po’ che mi affaccendavo, spunta Castro che mi dice: «Guarda, la salsa si fa così e così». E io: «Non mi insegnerai come si fa il sugo». Lo ammise di malavoglia. Parlammo con lui per molte notti di seguito, apparentemente ammetteva i dubbi e le critiche: «Hay problemas, hay contradicciones». Era curioso della storia sovietica: aveva vissuto per un pezzo in Messico, ma non sapeva che Stalin aveva fatto uccidere Trockij, gli parve un’enormità!
Nel libro, a questo proposito scrivi: «La capacità di non sapere nulla di quel che succede fuori dal proprio orizzonte non cessa di meravigliarmi».
Sì. Ma l’esercizio della critica non gli era congeniale, come succede per lo più ai gruppi dirigenti. Quando decise di affidare al fratello Raúl le redini del governo, si limitò a dire: «Il modello che proponevamo non era adatto a Cuba», un po’ poco.
Per tornare al Pci, tu a un certo punto scrivi che «era diventato perbene». Non è stato proprio il perbenismo a causare alla lunga la sua morte?
Come ebbe a dire una volta Giorgio Amendola: «Noi comunisti siamo gente come gli altri». Mi scandalizzò, non volevo assolutamente essere come gli altri. Amendola fu il solo a dire, a cadavere di Togliatti ancora caldo: «Bisogna unificarci coi socialisti», cosa che a nessun altro sarebbe stata perdonata. Egli stesso non perdonò mai al Manifesto di esistere, fu il primo che, incontrandomi nel giugno ’69, mi annunciò: «Vi buttiamo fuori». E non per antipatia personale. Era un animale interamente politico. Ricordo un episodio a Botteghe Oscure: tutto il gruppo dirigente aveva l’ufficio al secondo piano, mentre io (Cultura), un intelligente compagno che morì presto, Luciano Romagnoli, e Ledda per Critica marxista, eravamo al quinto, dal quale, detto fra parentesi, si vedevano splendidi tramonti. Per parlare con i dirigenti, eravamo noi a scendere; né Togliatti né Ingrao li vedemmo mai al quinto piano. Invece Pajetta e Amendola salivano quasi ogni mattina, aprivano la porta e s’infilavano sfacciatamente in ogni riunione: volevano sapere come la pensavam
o. C’era un piccolo ascensore che funzionava soltanto per gli interni; ricordo, subito dopo la morte di Togliatti, Amendola che ne esce, elegantissimo come sempre nel suo corpaccione elefantesco, e mi fa: «Vieni, andiamo a prendere un caffè al bar Roma». Con lui e Pajetta eravamo abituati a prendere un caffè assieme più o meno verso le 10.30. Quella volta lì, scendendo mi fa all’improvviso: «Voi cosa pensate adesso? Che cosa si ha da fare del partito?», e intendeva dire, chi pensavamo dovesse dirigere il partito. Gli risposi: «Beh, o tu o Ingrao». Obiettò fermamente: «No, il partito si dividerebbe», e poi aggiunse guardandomi: «Tutti stretti attorno a Enrico». E io stupita: «Quale Enrico?», perché non è che fossero emersi tanti Enrichi. E lui: «Berlinguer». Berlinguer aveva un incarico nel Lazio ma quando mai si andava a scegliere un segretario del partito nel Lazio! Io: «Ma non è possibile, non è un leader!». Di fatto il Pci ha costruito letteralmente Berlinguer, il «leader», anche diffondendo un mucchio di sue fotografie, cosa che non era affatto nell’abitudine e nello stile.
In quel periodo nel Pci era molto influente il filosofo Lucio Colletti: le quattro-cinque volte che lo nomini nel libro, ne parli sempre con una certa simpatia, anche se poi Colletti è diventato addirittura berlusconiano.
Io non rispondo di quello che la gente diventa. Colletti era un uomo intelligente, molto colto, molto amato come professore. Negli anni Sessanta fondò e diresse una rivista, La Sinistra. Credo che la convergenza tra Pci e Dc negli anni Sessanta e poi Settanta lo avesse avvicinato ai socialisti, e poi una parte di essi, con Craxi, diventò berlusconiana.
Forse la tua simpatia deriva dal fatto che Colletti era stato vicino al Sessantotto. E voi, come viveste quel biennio ’68-’69 con il movimento studentesco, il maggio francese, la primavera di Praga, l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la fondazione della rivista il Manifesto, l’autunno caldo del ’69, la vostra espulsione dal Pci?
Lo vivemmo con stupore e allegria. Le cose parvero perfino eccessivamente facili. Chi aveva mai visto tanti studenti in piazza e dalla parte di una sinistra radicale? Non mi pare che contasse negativamente la vicenda cecoslovacca. C’è una bella espressione coniata da Ernst Fischer, che era stato segretario del Partito comunista austriaco e ne fu buttato fuori 4 perché si era pronunciato contro quello che chiamò, appunto, «Panzerkommunismus». Allora era solitario, ammalatissimo, venne praticamente a morire in Italia. Berlinguer non trovò mai il tempo di incontrarlo. Il Panzerkommunismus rimase una discriminante fra noi nel partito. Ma subito dopo il Sessantotto degli studenti, nel ’69 ci fu la più grande e più colta lotta operaia del dopoguerra: l’«autunno caldo». Il Pci non la sostenne; anzi durante le procedure della nostra espulsione ci fu detto che quella non era «una vera stagione di lotte». Invece lo fu, la Cgil e, in particolare, la Fiom di Trentin, lanciò con successo la parola d’ordine del «sindacato dei consigli». La Cgil e la Fiom ebbero un rapporto complesso con Botteghe Oscure, furono i soli anni nei quali il sindacato fu egemone nell’opinione pubblica rispetto al partito. Bruno Trentin, che era un grande amico, polemizzava col partito.
Secondo la vulgata della sinistra, Trentin stava alla Cgil come Ingrao stava al Pci, cioè buoni e perdenti. D’altronde nel tuo libro a un certo punto definisci Ingrao «figura innocente, arcangelesca».
Trentin non è stato un perdente. Mentre Ingrao sì; è stato un perdente per una qualche sua incertezza di fondo. Nel ’66 propose libertà del dissenso e un modello di transizione sociale che incontrarono ambedue netta contrarietà da parte della direzione: venne allora mazzolato di brutto. Anche se raramente si poté constatare una popolarità grande come la sua: i comunisti adorano chi critica il gruppo dirigente ma poi rientra nell’ordine. E Ingrao ha sempre esitato a fare un gesto di rottura col suo partito. In quella occasione, alcuni di noi avrebbero voluto seguirlo con i propri interventi, ma egli ci raccomandò di tenere un profilo basso e disciplinato. Non volle mai coinvolgere un gruppo nella sua disgrazia e forse essere accusato di frazionismo. Più tardi, nell’ottobre del ’90, durante la discussione precedente al XXII congresso che seguiva la dichiarazione di Occhetto di cambiar nome al partito, ci fu una riunione della seconda mozione (Ingrao e Bassolino ad Arco, in provincia di Trento). La relazione doveva essere tenuta da Lucio Magri, che ne aveva parlato a lungo con Ingrao, il quale aveva approvato il suo testo; ma quando fu chiaro che avrebbe portato a una rottura, Ingrao preferì affermare che non se la sentiva di rompere con il partito. Restò famosa la frase: «Preferisco rimanere nel gorgo». Ingrao ha sempre voluto difendere l’unità del partito, e la cosa bizzarra è che Magri – che molti anni prima era stato segretario dei Giovani cattolici – non gli rimproverò mai di averlo abbandonato nel momento decisivo. Nel mio libro, lo attacco molto di più, pur avendogli voluto molto bene. E adesso quelli che portano avanti la ripubblicazione dei suoi scritti, Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, sottolineano più volentieri l’Ingrao poeta, l’amante della musica e del cinema, il comunista del dubbio, piuttosto che approfondire il fatto che negli anni Sessanta e Settanta venne da lui e dagli ingraiani la proposta di un indirizzo veramente diverso, slegato sia dal compromesso storico sia da Amendola.
Ma tu, alla fin fine, che giudizio dai su Berlinguer?
Era un comunista diritto, onesto, appassionato e aperto al dialogo; non un grande statista. Si sbagliò del tutto sulla Democrazia cristiana scommettendo su un accordo cui né essa né Moro furono mai disposti. Dopo il ’79 tornò all’opposizione dura, appoggiò la proposta della Fiat ed ebbe contro di sé Giorgio Napolitano e la destra del partito.
Ma lui con il compromesso storico non fece solo un’operazione politica: dietro c’era anche un’idea culturale di società austera.
Mirava a una società anticapitalista, moralmente pulita e austera.
Piuttosto precapitalista.
Non direi. Pensava al superamento del capitalismo nel senso di Marx, come un movimento che costruisce la società e viene distrutto dal proletariato. Pensava che la Chiesa cattolica fosse fondamentalmente avversa al denaro e a una società dei consumi, e lo incoraggiavano in questa logica Franco Rodano, Bufalini e in genere il partito romano.
Affrontiamo il Manifesto. Il nucleo originario che nel 1969 lanciò la rivista e poi fu espulso (o non gli fu rinnovata la tessera) era costituito nel Pci da te e Luigi Pintor, più o meno della stessa età (tu del 1924, lui del 1925), da Aldo Natoli con parecchi anni di più (1913), e poi un po’ più grave; giovani, a scalare, Eliseo Milani (1927), Luciana Castellina (1929), Valentino Parlato (1931), Lucio Magri (1932). Con che spirito intraprendeste quest’avventura?
L’idea del Manifesto nasce a Milano da Lucio Magri e me. Vi aderiscono Luigi Pintor, Eliseo Milani, Luciana Castellina, Valentino Parlati e altri. A Roma incontra un dirigente di grande seguito come Aldo Natoli. Fu un tentativo di essere comunisti e insieme libertari: questo era l’insegnamento del Sessantotto. Nel quale entrava fortemente la problematica della persona cui noi comunisti eravamo stati educati a non dare troppo peso. La rottura col partito avvenne nel corso delle lotte operaie del ’69, quando il Manifesto raccolse molti quadri nelle città italiane e anche molti studenti, attratti però di più – credo – dal gruppo Lotta continua. Noi fuoriusciti dal Pci fummo il gruppo che durò più a lungo, non senza incontrare ostilità da parte degli altri: rimanemmo sempre un po’ sospetti ad altri gruppi e in genere ai sessantottini puri. Eravamo colti, tentavamo di essere marxisti, leggevamo e facevamo leggere. Nel collettivo, specie nel giornale, si crearono perfino degli elementi «familisti»: io avevo giusto l’età per essere madre della maggior parte dei ragazzi che ci seguivano. E mi pareva naturale assumere un ruolo di suggeritrice e consigliera nelle questioni di cultura e di anima. Non ho avuto figli, ma tutta questa figliolanza. Mi considerarono madre e quindi anche castratrice. Fu un legame profondo e che durò a lungo. Forse talvolta cortocircuitato dalla nostra inclinazione all’autorità. Il gruppo del Manifesto perde la sua ragione di stare assieme quando cadono le speranze del cambiamento perché viene tentato un accordo – almeno da una parte di noi alla cui testa c’era Lucio Magri – con la corrente socialista, che aveva finito per confluire nel Pdup, in particolare Vittorio Foa e Pino Ferraris. Fu un percorso accidentato, seguito più dai manifestisti di base, legati all’organizzazione del movimento; Pintor lo lasciò presto, non accettando che il giornale dipendesse in qualche modo dal Pdup; Vittorio Foa e io fummo direttori per qualche mese. I socialisti erano fra i più persuasi che noi fossimo una filiazione dei comunisti, proprio culturalmente e caratterialmente; Vittorio Foa non lo scordò mai e penso che non ci apprezzò affatto. Del resto eravamo stati sempre arroganti: la prima baruffa del giornale avvenne con Umberto Eco, che scriveva con lo pseudonimo Dedalus; quando se ne andò, Luigi scrisse un corsivo intitolato «Fuori uno». Era solo il primo dei collaboratori più prestigiosi con i quali rompevamo.
Ma ci fu una rottura anche con Natoli.
Aldo era il più anziano di noi e aveva una grande storia nel Pc romano. Non era d’accordo che dovessimo organizzare anche noi un partito e non gli piaceva il giornale. Con Pintor fece una litigata omerica: aveva scritto un editoriale che sforava di 20 righe la gabbia grafica di Trevisani. Luigi Pintor gli disse senz’altro «taglia» e lui «col cavolo che taglio, fammi girare» in pagina interna». Per il giornale era una bestemmia. Di Trevisani e della sua rivoluzione grafica eravamo orgogliosissimi. Quel che posso dire è che il Manifesto ha conosciuto molte rotture ma nessuna di natura bassa o personalistica. Anche noi rappresentavamo una specificità dei comunisti del Nord, più legati alla classe operaia rispetto a quelli del Centro-Sud: per la storia del comunismo italiano sarebbe interessante esaminare queste due piste di lavoro. Non è difficile osservare che nel gruppo dirigente i vecchi quadri furono messi fuori attorno all’VIII congresso da una generazione più giovane, nessuno dei quali veniva però da una fabbrica di Torino o Milano.
Noi milanesi ci consideravamo l’anima più moderna, più industriale, più operaia, più colta, quelli che qualche testo di Marx l’avevano letto.
Va bene Foa e Natoli, poi però vi siete divisi anche con Lucio Magri e con Luciana Castellina.
Io mi sono divisa. Verso la metà degli anni Settanta, Lucio mi disse: «Non ce la facciamo più, il Sessantotto non ce la fa più». E non aveva torto. Ma io non ho mai accettato di riannodare col Partito comunista; in fondo lo consideravo un matrimonio nel quale non si può dire a un certo punto «cambiamo strada». Forse non era una posizione prevalentemente politica. Prevalentemente politica fu la posizione di Lucio Magri e quella di Pintor, anche se Pintor rimase deputato nella Sinistra indipendente, mentre Magri rientrò nel partito nel 1984; ma ambedue avevano interiormente ricomposto con Berlinguer, che a sua volta stava cambiando strada, capendo che l’accordo con la Democrazia cristiana non era più possibile. E a quel punto propose anche al Manifesto di rientrare nel Pci, sia pure in via riservata. Ma che cosa avrebbe portato nel Pci il Manifesto? Un gruppo di quadri dirigenti, che infatti vi affluirono e vi restarono a lungo, e poi il giornale. Sennonché Michelangelo Notarianni, Valentino Parlato e io, non fummo d’accordo; sapevamo che il giornale non sarebbe sopravvissuto. Così nel corso di un comitato centrale abbiamo detto: «Noi non vi consegniamo il giornale; è nato in un altro modo e lo manteniamo indipendente». Era il gesto più antidemocratico possibile: eravamo in tre su tutto il comitato centrale, ma avevamo la forza di farlo e la redazione era con noi. Non che io non pensassi come Magri che ormai la spinta «propulsiva» del Sessantotto fosse finita, era che mi pareva che il giornale avesse costituito un nucleo vitale per una battaglia di cultura politica e di sostegno alle lotte operaie e che avrebbe potuto continuarla. In realtà non è stato così: quando il movimento del Sessantotto fu esaurito e poi caddero anche i «socialismi reali» e i partiti comunisti, lo stesso giornale, come tutta la sinistra radicale, ne seguì paradossalmente le sorti. Oggi il Manifesto è il solo giornale autonomo che resta, ma dubito che riesca a dare un contributo politico e teorico che conti. E credo che questa sia stata anche la conclusione di Lucio Magri; a un grave lutto personale si è aggiunta in lui la costatazione che i nostri progetti si erano insabbiati, forse definitivamente. Questo lo indusse al suicidio. Ne parlammo a lungo nei giorni che lo precedettero perché la nostra amicizia non si era mai spenta.
Forse si è ucciso perché non accettava la vecchiaia.
Ma no. Credo che l’idea di essere un vecchio non lo abbia mai sfiorato, era sempre un bel ragazzo, uno sportivo, cosa che gli uomini perdonano ancora più difficilmente di quanto le donne non perdonino la bellezza a una di loro. Non potevo lasciarlo morire da solo, così lo accompagnai sino alla fine [Rossanda accompagnò Lucio Magri nel viaggio in Svizzera per compiere il suo suicidio assistito nel novembre 2011]. A riflessione fatta, ho avuto nel Manifesto dei compagni di valore cui ho voluto bene: Luigi Pintor, Lucio Magri, Aldo Natoli e anche Valentino Parlato, ma fra loro fu sempre difficile un accordo. A parte il fatto che erano tutti dei «tombeurs de femmes» e le loro conquiste venivano a miagolare da me. Se scrivessi la storia privata del giornale sarebbe divertente. Io ero più giovane di Natoli, avevo uno o due anni più di Luigi e parecchi più di Magri e di Parlato. Cercavo di tenerli assieme col risultato che ognuno mi rimproverava più o meno esplicitamente che non scegliessi la sua parte.
Ma del Manifesto in quanto giornale quotidiano cosa pensi? Il primo numero del quotidiano uscì nell’aprile 1971.
Riuscire a fare uscire ogni giorno un quotidiano senza mezzi, senza editori, ci stupiva e riempiva di allegria. Siamo vissuti con pochissimi soldi; avevamo stabilito di assegnare a tutti (tecnici, grafici, amministrativi, giornalisti) uno stipendio uguale e pari al contratto degli operai metalmeccanici. Quando ci siamo allontanati, la nuova direzione ha differenziato gli stipendi non capendo che finché pensi che quello che fai conta, guadagnare poco non ti pesa molto. La militanza fa stare su di giri. E credo che mediamente la nostra redazione non fosse peggiore di quella della Prima Repubblica.
Però poi non c’era la direzione… Come primo incarico fui corrispondente di Paese Sera a Parigi quando ne era direttore Arrigo Benedetti (1975-1976). Io ero un ragazzotto di 28 anni e lui uno dei più grandi direttori del dopoguerra, eppure ogni mattina ti telefonava e ti faceva le pulci all’articolo che avevi scritto. Invece al Manifesto noi siamo stati diretti da direttori che non leggevano mai nemmeno un articolo del giornale, non sapevano cosa c’era scritto. Nessuno dei fondatori del giornale aveva mai studiato da direttore.
Come no? Luigi Pintor aveva praticamente diretto l’Unità quando era un vero giornale, ed era considerato uno dei migliori giornalisti italiani. Fu il clima sessantottino a fungere da forza e anche da ostacolo: poco dopo l’inizio del giornale, Pintor mandò a tutta la redazione una normale lettera in cui indicava alcune regole di funzionamento. La reazione fu: «Ma come si permette?», i redattori attaccarono un enorme tazebao vicino all’ingresso: «Pintor come Agnelli». Il bello è che Luigi neppure se ne accorse per diversi giorni, dovetti dirgli io: «Guarda quel tazebao». Lo guardò, capì che non era tempo di disciplina e da allora pensò, come ha scritto in suo libro, che eravamo una specie di «nave dei folli».
Il problema non era che non c’era disciplina, era che non c’era organizzazione, sono due cose diverse.
Né disciplina né organizzazione rientrano nell’ideologia del Sessantotto, che rifiutava tutto quello che evocasse l’ombra di una gerarchia. I ragazzi che affluirono verso di noi cercavano un gruppo, ma senza legge, per il bisogno di raccogliersi attorno a un’idea. Questo ci tenne assieme a lungo, non come un giornale simile agli altri; ma quando è venuto meno, è stata la crisi.
E poi c’era la sempiterna discussione durata per decenni se fare un Le Monde della sinistra italiana oppure un giornale nazional-popolare.
Non ricordo che volessimo mai essere Le Monde, che rispettavamo come un giornale della classe dominante. Il nostro avrebbe dovuto essere un giornale colto ma popolare, non nel senso che tu dai a «nazional-popolare». La base del Manifesto oltre che leggerci ci diffondeva, partendo alle sei del mattino a ritirarci in treno, ma pretendeva in cambio che parlassimo dei suoi problemi, delle sue lotte. Quando andai in Cile, nel corso dell’esperienza di Allende, i calzaturieri del Brenta protestarono: «Perché ti occupi di cose lontane, che non interessano nessuno, invece che di noi?».
Ma tra tutte le cose che tu hai fatto dopo il ’69, dal Manifesto in poi, quali sono quelle che secondo te sono andate meglio?
Quelle che non sono andate come speravo sono molte di più di quelle che lo hanno fatto. Non sono entusiasta di quello che abbiamo prodotto, e in particolare di me.
Cosa ti rimproveri?
Adesso mi rimprovero di non aver pestato di più i pugni sul tavolo e aver perduto, se non la direzione, l’egemonia del Manifesto. Era già successo qualche anno prima della nostra uscita. Mi capitò di proporre che il giornale si attenesse a una certa linea culturale, che fosse esplicitamente marxista. Marco Bascetta e Stefano Menichini protestarono, Pintor e Parlato mollarono subito e io decisi: «Dunque devo lasciare».
Avresti dovuto fare come Luigi che mandava una lettera di dimissioni e poi aspettava di essere richiamato a furor di redazione.
Erano dimissioni tattiche, salvo quando se ne andò davvero. La sua rottura non fu con la redazione ma con il Pdup.
Anche con Franco Fortini il suo non fu uno scontro da poco.
Povero Fortini! Aveva osato accennare una critica al fratello di Luigi, Giaime, che era morto nell’autunno del 1943. Per Luigi era come attaccare la Madonna, si infuriò e gli dette del terrorista. Fortini rimase in collegamento personale soltanto con alcuni del giornale.
Fu difficilissimo: ogni tanto noi della cultura riuscivamo a farlo scrivere, ma si faceva pregare…
Non dimenticare che il giornale lo faceva aspettare una o due settimane prima di pubblicare i suoi pezzi.
Il Manifesto era famoso per questa arroganza sia esterna sia interna.
Ricordi il nostro slogan: «Sempre dalla parte del torto»? Era ironico, e anche in esso affiorava un po’ d’arroganza; era chiaro che pensavamo di essere stati sempre dalla parte della ragione sull’onda lunga della storia. E confesso che io, nel fondo, ne sono ancora sicura.
A un certo punto il Manifesto si schierò con Solidarnos´c´.
Eravamo collegati con due dissidenti polacchi molto interessanti, Karol Modzelewski e Jacek Kuron´; non ci veniva neppure in mente che la rivolta operaia di Danzica fosse alimentata dalla Chiesa cattolica e s’inginocchiasse volentieri; fu un’operazione in particolare di Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyła.
Ci fu un’altra grande cantonata?
Quella che prendemmo sull’Iran, seguendo Michel Foucault. Pensammo che quella di Khomeini fosse una via rivoluzionaria perché abbatteva lo scià.
Se tu guardi adesso dopo quarant’anni a tutti i gruppi degli anni Settanta, a parte la malinconia, cosa provi per quella nuova sinistra che è presto diventata vecchia, che è evaporata subito?
Non è evaporata subito, in Italia ci ha messo almeno dieci anni. Potere operaio era il gruppo più colto, Lotta continua il più diffuso portatore del rifiuto, del «tutto e subito», i marxisti-leninisti filocinesi si divisero rapidamente in due.
Che ne pensi del maoismo italiano?
Quelli di Servire il popolo, seguaci di Aldo Brandirali, erano alquanto chiesastici, persuasi che «bisogna vivere da poveri». Io, figlia del Partito comunista, ero dell’idea che bisogna vivere come se si fosse ricchi. Già a Milano, con i miei amici nel partito, del sindacato, di sabato, se non c’erano riunioni, ci fiondavamo in treno a Genova a fare il bagno sulla riviera. C’era sempre qualche casa di genitori libera dove dormire, stavamo in barca tutta la domenica e alla sera avevamo i soldi per una pizza o per un gelato e scendevamo a Portofino. Ho sempre pensato che gli operai vivono poveramente, e che nel tempo breve che abbiamo, dobbiamo cercare non di rinunciare a tutto, ma di avere tutto.
E gli altri gruppi
I due più interessanti sono stati Potere operaio e Lotta continua. Potere operaio, diventato a un certo punto Autonomia operaia, resta un focolaio di riflessione marxista. E così Paolo Virno e il gruppetto di Padova. Puoi non essere d’accordo, ma non sono il silenzio della mente. Lotta continua resta sostanzialmente in Adriano Sofri.
C’è stato anche Guido Viale. Nel libro parli qua e là del femminismo, ma non lo affronti. Eppure nel 1981 fosti una delle fondatrici della rivista L’Orsa minore, la cui redazione era formata da Maria Luisa Boccia, Franca Chiaromonte, Giuseppina Ciuffreda, Licia Conte, Ida Dominijanni, Anna Forcella, Biancamaria Frabotta, Tamar Pitch.
Ho scoperto il femminismo tardi e non è mai stato il mio impegno principale. Forse lo è di più adesso, in tarda età e, per così dire, con un piede nella fossa.
Come l’hai incontrato?
La scoperta di un radicalismo del problema delle donne, della loro condizione, di come è il rapporto fra i due sessi è stato uno dei fondamenti del Sessantotto, che ha segnato un cambiamento durevole. Sotto il profilo personale, fu Lidia Campagnano a mettermi in contatto con Lea Melandri; con la Libreria delle donne c’è stato sempre amore e scontro. Le mie amiche femministe mi hanno sempre criticata e una di loro mi apostrofò: «Con te un giorno faremo i conti». Molte di loro mi dicono: «Gli uomini non si sono occupati di noi e a noi non interessa occuparci di loro». Su questo non sarò mai d’accordo: se tu non ti occupi di politica, la politica si occupa di te.
A un certo punto scrivi che è una grande difficoltà «essere nello stesso tempo donna e persona».
Ma sì, il femminismo affermava: «Non si può dire persona, va detto maschio o femmina, persona è un neutro inesistente». Io ero e resto per quel neutro inesistente. Mi sono formata prima del femminismo. Al Manifesto lo incontrammo prima con Lidia Menapace, poi soprattutto con Ida Dominijanni, legata alla Libreria di Milano, dove ho conosciuto anche Luisa Muraro, una donna molto intelligente. Uno dei punti che ci separano è che le donne più impegnate scrivono, in genere, come se reinventassero tutto. Io ho bisogno di informarmi su cosa è stato scritto prima e senza di loro.
Comunque ti ho visto sempre piuttosto diffidente verso la teoria della differenza.
Non ne ho mai accettato la tesi estrema, che il genere femminile è quasi una specie altra. Ma è un discorso troppo complesso da fare in due battute.
Ma quando dicono che le categorie del pensiero sono tutte diverse…
Possono esserlo effettivamente, come fra gli uomini lo sono per ragioni di classe. Una femminista francese, Françoise Duroux, ora purtroppo deceduta, aveva tentato di approfondire se si può parlare delle donne come di una classe a parte. A me pare difficile.
C’è bell hooks, una femminista americana, che dice di sentirsi identità multiple: lei è donna, è proletaria, è nera e sono tre cose che per lei contano quasi nello stesso modo.
Lo si può capire. Io sono stata privilegiata, e non solo perché siamo in una zona privilegiata del mondo. Al Manifesto le donne hanno sempre avuto un ruolo preminente, siamo state spesso più di metà della redazione, alcune donne hanno diretto il giornale ma tutte sono state influenti. Penso alle altre testate: Corriere della Sera, la Repubblica. L’editoriale è qualche volta di una donna? Lo scrive qualche volta Chiara Saraceno, in quanto specialista della società civile, oppure Nadia Urbinati come politologa o Lucetta Scaraffia come esperta di teologia. Come donna sono stata privilegiata anche perché coi miei uomini mi è andata bene: intelligenti, simpatici, divertenti. Non solo non mi hanno ammazzata (come capita a non poche…), ma mi hanno voluto bene e mi hanno aiutata. Ma già come emancipata sentivo la specificità di essere donna: quando parlavo alla Camera, c’era sempre una parte dell’emiciclo ad ascoltarmi, non perché dicessi cose straordinarie, ma perché ero una delle 14 deputate su 600.
L’altro grande tema su cui ti sei impegnata a fondo è stato il garantismo. Nell’85 fondasti insieme a Luigi Manconi e a Massimo Cacciari la rivista Antigone.
Prima avevo un’idea sommaria della giustizia. A educarmi fu Luigi Ferrajoli e l’occasione fu il processo «7 aprile», processo assurdo e che infatti finì in grandissima parte in assoluzioni, ma dopo avere inflitto agli imputati cinque anni di galera. L’aveva istruito un magistrato, Pietro Calogero, convinto che il terrorismo rosso si identificasse in Autonomia operaia. Non è mai stato vero. Si può essere in disaccordo con Toni Negri, ma le Brigate rosse sono un’altra cosa. Anche esse dovrebbero essere capite: ci fu un momento di vera simpatia popolare per le Brigate rosse. Io sono andata a cercarli, volevo vedere che cosa fossero e da dove venivano e resto in amicizia con Mario Moretti; ho sempre pensato che è un figlio estremo del Movimento operaio italiano.
Proprio del movimento operaio?
Sì, degli operai. È venuto dalla Siemens, come altri sono venuti dalla Fiat o dall’Alfa Romeo di Arese e anche da Genova. Il Pci rifiutò di porsi il problema e lo Stato italiano fu soltanto repressivo: il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, a sua volta poi ucciso dalla mafia, si fece dare l’indirizzo e forse la chiave della sede delle Br genovesi, credo da Patrizio Peci, e li fece uccidere nel sonno 5. Ne ho scritto diverse volte e nessuno mi ha mai smentita. Del resto, forse perché mi informavo il più possibile, non ho mai avuto problemi con la magistratura. Ma sono molte le pagine non chiare negli anni dell’emergenza. Una delle più oscure è quella che riguarda Aldo Moro, quando Francesco Cossiga scrive: «Se le Br lo liberano, noi abbiamo già preparato il Piano Viktor per metterlo in una clinica e farlo tacere». Hai letto il memoriale Moro?
No.
È depositato agli atti ma poco conosciuto e per nulla discusso: è un’accusa molto dura al potere politico. L’errore più grande che, dal loro punto di vista, fecero i brigatisti, fu di non liberarlo senza condizioni: sarebbe stato una mina vagante. Quando ne parlai con Moretti, mi rispose: «Non credo. A quest’ora sarebbe presidente della Repubblica». Mario Moretti era l’unico che durante la prigionia di Moro parlava con lui tutti i giorni, e, che io sappia, è uno dei pochi mai rilasciato. Gli altri, anche se condannati a pene molto pesanti, nel tempo sono stati liberati, Mario Moretti no [dal 1997 in regime di semilibertà, di giorno lavora in un centro di recupero, la sera rientra nel carcere di Opera]. La vicenda delle Brigate rosse è un pezzo di storia che va ancora scritta, e, secondo me, senza le virtuose indignazioni d’uso. Fecero scelte terribili uccidendo della gente, ma credevano di doversi battere con nemici riconosciuti, come era stato un tempo per i partigiani. Sbagliavano, ma nessuno di loro si può considerare un criminale comune. Bisognerebbe chiedersi perché questa insorgenza sanguinosa nacque allora e non prima né dopo. Ci fu anche una concorrenza fra Pci e democristiani a chi era più credibile sulla «linea della fermezza»: il Pci temeva che le Br venissero da qualche punta estrema dei suoi stessi scritti, cosa che non fu mai vera. Del resto, il terrorismo italiano non è mai stato un fenomeno molto esteso: durante il sequestro Moro, i brigatisti a tempo pieno saranno stati non più di 120.
Però avevano la maggioranza del consiglio di fabbrica dell’Alfa Romeo di Arese.
Non so se avessero la maggioranza. In quegli anni era cominciata una reazione padronale molto dura. Ai cortei dei Fazzoletti rossi, la direzione Fiat rispose con 81 licenziamenti. Fu in questo contesto che frange del movimento operaio del Nord divennero estremiste, il che non vuol dire che abbiano tutti aderito alle Brigate rosse. Certo un estremismo ci fu, ma viene rimproverato come un crimine, che secondo me non era, e la cui repressione ha certo più ferito che «educato» il movimento. Un caso di lotta acuta fu quella al Petrolchimico di Porto Marghera: era diretta da Potere operaio, che investì il tema di quella produzione velenosa, tema sviluppato anche alla Montedison di Castellanza da Medicina democratica e dai discepoli di Maccacaro. Il punto non era solo il salario, anzi era il rifiuto della contropartita salario-salute. Le Br vere e proprie erano nate a Trento in un ambiente di estremismo sociale cattolico, negli anni in cui agivano i gruppi guerriglieri in America Latina. Fra le prime Br ci sono Renato Curcio e Mara Cagol uccisa assai presto in uno scontro a fuoco alla Cascina Spiotta in Piemonte. Nel 1968, scendono a Milano e propongono il Collettivo politico metropolitano, e si inseriscono in alcune zone produttive.
C’era anche Alberto Franceschini.
Franceschini è di Reggio Emilia e viene dal gruppo che si richiama ai partigiani. Più tardi fu fra i primi a dissociarsi.
E Roma.
Roma si è inserita più tardi nel movimento. Ne hanno fatto parte Valerio Morucci e Adriana Faranda che poi si persuasero a collaborare con le forze di polizia, e ottennero forti sconti di pena.
Che ruolo ebbero i giudici?
Non è stato un momento glorioso per la giustizia italiana. E qui c’è una responsabilità particolare del Pci, soprattutto con i suoi responsabili del settore, Ugo Pecchioli e Luciano Violante che influirono anche su Magistratura democratica: il Pci è stato il fer de lance contro quello che ha chiamato subito terrorismo; esso non capì molto del Sessantotto in genere e ancora meno delle sue derive estreme. Alcuni suoi membri si chiedevano quanti libri, e non solo d’ispirazione comunista, fossero stati scritti sulla questione se le Br fossero pagate dai russi o dagli americani, ambedue preoccupati di una partecipazione dei comunisti al governo, cosa che in realtà non fu mai all’ordine del giorno per la Democrazia cristiana. Bettino Craxi e il Psi ebbero un occhio più attento alle Br, ma, salvo che nel caso di Giuliano Vassalli, non credo per ragioni migliori, ma per ostacolare il rapporto fra Pci e Dc.
Oltre al femminismo e al garantismo, l’altro tema su cui ti sei molto impegnata negli anni Settanta e Ottanta è stato il blocco sovietico: il convegno sui paesi dell’Est nel novembre ’77 ebbe una notevole funzione, fu qualcosa di importante nella vita politica italiana.
Per quel convegno, che raccolse critiche dai partiti del «socialismo reale» e che, non fosse per altro, fu di grande interesse per questo, ricevetti anche un violento telegramma di Vittorio Foa: «Mentre lo Stato italiano sta distruggendo i giovani di Lotta continua, voi andate a cercare rogne all’Unione Sovietica».
Torniamo così al crollo del Muro di Berlino. Ricordo la spaccatura netta che ci fu nel Manifesto quando crollò: una gran parte della redazione era contenta. Invece un’altra parte, Luigi compreso, era tristissima, aria da funerale. Come se gli fosse stata tolta sotto i piedi la base dell’«eresia comunista»: la posizione di eretico richiedeva che l’Urss fosse lì, perché sennò rispetto a cosa era eretico?
Anch’io ero triste. Tuttora non considero positivo il giorno in cui è stata calata la bandiera rossa dalle torri del Cremlino; nessuno può sostenere che la situazione nell’ex Unione Sovietica sia veramente migliorata in senso democratico. Per la verità, andrebbero esaminati anche i limiti della critica di Berlinguer che non si spinse mai in fondo. In questo il Manifesto fu più serio. Per chi aveva vissuto il Sessantotto, era stato più semplice affermarsi in presenza di un’Unione Sovietica che tuttavia spaventava gli Stati Uniti e la destra di quanto non sia stato dopo.
Mi colpì che con la fine del Pcus, in Russia i dissidenti non vinsero, ma scomparvero.
I dissidenti esprimevano un rifiuto ma non riuscivano a proporre un cambiamento. Bisognerebbe riconoscere che era assai difficile in regimi senza libertà.
Ma secondo te perché tutti i regimi comunisti che sono esistiti hanno avuto questo diavolo di problema con la libertà? Cioè non ce n’è uno che non l’abbia avuto.
Penso che lo si debba anche alla tesi, proprio marxista, che il sistema capitalistico dominante non può essere abbattuto senza violenza; di qui la necessità della «dittatura del proletariato». C’è da chiedersi invece il perché di una crisi della socialdemocrazia come quella cui assistiamo oggi. E non solo in Italia.
I giovani politici che portarono alla dissoluzione del Pci erano tutti delfini berlingueriani.
Eh sì. Il Pci si è dissolto in maniera un po’ miserabile. La borghesia non ha mai rinnegato se stessa nelle sue svolte, che sono state molte. In verità nel Pci non sembra esserci stato nessuno in grado di affrontare la caduta del Muro; e ancora meno in grado di dirsi dove e quando abbiamo sbagliato, pur seguendo un ideale giusto. I vari comunisti, come i D’Alema e i Veltroni, hanno riconosciuto sostanzialmente che l’errore era stato voler rovesciare il capitalismo.
Uno faceva il socialdemocratico, l’altro il democratico americano, tutti e due senza essere né l’uno né l’altro.
Non hanno neanche detto: «Avremmo dovuto scegliere la socialdemocrazia»: il solo che lo abbia proposto nel ’64 è stato Amendola.
Ma la ragione strutturale di questa sconfitta non può dipendere solo dagli errori dei gruppi dirigenti.
I gruppi dirigenti sono risolutivi, specialmente nei partiti comunisti: la stessa asprezza nella lotta contro il capitale fa del partito una specie di esercito dove la disciplina è risolutiva.
Ma vuol dire che qualcosa non va nella formazione, nella scelta del gruppo dirigente: se scegli sempre quelli che ti portano alla rovina, vuol dire che hai scelto male.
Non è questione di cattive scelte di un’ipotetica base. L’idea comunista entra in crisi per molte ragioni, fra le quali anche l’insufficienza di democrazia del partito. È interessante che oggi nell’ex Urss ci sia molta nostalgia per il periodo sovietico; nostalgia più che riflessione. E non è un caso se è in crisi l’idea stessa di socialdemocrazia: ormai non c’è una sola socialdemocrazia che tenga in Europa. La mia idea è che con il crollo del Muro di Berlino, non è stato sconfitto tanto il comunismo, già alquanto ammaccato, ma la tesi keynesiana, di John Maynard Keynes e Hyman Minsky, cioè quella di un vero compromesso fra le classi. Osserva come sta finendo male in Francia con Hollande!
Tornando all’Italia, nel ’94 il Manifesto organizzò a Milano una manifestazione contro Berlusconi in chiave antifascista.
Vi partecipò una marea di gente.
Ma la chiave dell’unità antifascista non portava da nessuna parte.
Non era il problema di quella fase, né lo è ora. Berlusconi non è stato un fascista in senso proprio. Io non mi sono mai scaldata su di lui, mi interessa una lotta esplicita, e forse un’analisi della struttura del capitale, che sta subendo serie involuzioni: pensa come il governo italiano non abbia detto parola quando la Fiat si è spostata armi e bagagli in Olanda. Bene o male, la Fiat era la più grande azienda italiana ed era fortemente sovvenzionata dai vari governi della Repubblica. Del resto forse ti ricordi l’Italia «dei condottieri», glorificata all’estero negli anni Ottanta? Oltre gli Agnelli, erano Gardini e De Benedetti. Gardini si è ucciso. Carlo De Benedetti si è deindustrializzato.
Di Renzi cosa pensi?
È un dirigente più abile che intelligente.
Sì, però guarda la facilità con cui ha fatto fuori D’Alema, Bersani, Veltroni, Letta, lo stesso Berlusconi.
A D’Alema davo più capacità di resistenza. Penso all’intervista che gli feci prima di venire via dal giornale. Era interessante, durò diverse ore e pareva molto sicuro di sé. Tuttavia a rileggerla adesso, si vede che non riuscì a prevedere nessuna vera tendenza né sull’andamento politico dell’Ue, né sulla crescita. Poco dopo perdette anche il partito, nel quale ci fu un vero vuoto di presenze. È sempre stato molto corretto col Manifesto, non posso lamentarmi: i miei migliori nemici lo sono sempre stati con me.
Ma per te chi è oggi il personaggio più interessante in Italia?
È una persona che non fa parte della politica nel senso proprio: Bergoglio. Ha modificato molti poteri in Vaticano, ha abbracciato e chiesto perdono a una prostituta. Credo che abbia contro molti porporati cui deve apparire intransigente in modo eccessivo. Non è il tipo di gesuita che di solito si ha in mente.
Per molte estati dagli anni Novanta hai trascorso giornate di studio all’eremo di Monte Giove.
Era in origine un eremo camaldolese e rimase a lungo un luogo di discussione fra cattolici e laici. Indirettamente, lo dirigeva il padre Benedetto Calati, ex generale dei Benedettini più volte richiamato da Ratzinger quando dirigeva il Santo Uffizio. A mio avviso Ratzinger fu tremendo, anche se ha avuto il coraggio di dimettersi; però diversi amici laici lo apprezzano più di Giovanni Paolo II.
Ma lo rispettavano anche tanti intellettuali di sinistra, come Mario Tronti, e non solo lui. Forse perché gli restituiva l’immagine tradizionale della Chiesa come dovrebbe essere.
Probabilmente sì. Perché era un teologo molto colto.
L’ultima domanda deriva dal bilancio di tutta quest’intervista. Emerge un paradosso che mi devi spiegare, quindi ci devi riflettere e spiegarmi. Il paradosso è il seguente: tu sei diventata molto più influente, hai avuto molto più peso, il tuo nome è diventato più famoso dopo il ’69, piuttosto che prima. Nello stesso tempo, nella tua memoria, la parte prima del ’69 rimane infinitamente più importante di quella successiva.
In non sono fra quelli che si vergognano di essere stati comunisti. Ho conosciuto il Pci nel 1943, poi ho conosciuto altri partiti comunisti e penso che quello italiano sia stato uno dei migliori. Certo negli anni Sessanta ha prodotto una sinistra comunista moderna come quella «ingraiana», che fu notevolmente diffusa e influenzò anche il sindacato. Perfino il Manifesto nasce in qualche misura da esso, anche se la grandissima parte dei dirigenti non ci seguì. Sono persuasa che fra il ’60 e l’89 avrebbe potuto prodursi una svolta; se non c’è stata, si deve – credo di non esagerare – anche all’esclusione di noi del Manifesto.
Ma sei ancora comunista? Perché io sono anticapitalista, ma non mi è più ben chiaro cosa voglia dire essere comunisti, cioè come possa realizzarsi in concreto una proprietà collettiva che non sia un capitalismo di Stato.
A me non è ben chiaro cosa voglia dire essere «anticapitalista sì, marxista e comunista no». Cioè tutta l’accumulazione di teorie e di vite che è avvenuta almeno dal ’48 sulle spalle del lavoro. E poi io resto persuasa di una battuta di Mario Tronti: con il movimento comunista si è avuta una grande civilizzazione del conflitto. E non accetterò mai che il mondo resti non solo pieno di povertà ma con le disuguaglianze in aumento, come riconoscono le Nazioni Unite. Certo, i «socialismi reali» non sono stati una società augurabile, ed è su questo che, se il movimento comunista esistesse ancora, si dovrebbe lavorare. Io comunque vi appartengo. Ho commesso tanti errori e ammetterlo fa parte di una vita capace di riflettere su di sé. Non penso che siamo sconfitti per l’eternità e so che non vivrò per l’eternità; mi dispiace non riuscire a vedere la società che desidero.
A un certo punto nel libro dici che quello che ti dà molto fastidio è «l’eterodirezione delle esistenze», cioè che le esistenze siano eterodirette, una cosa che non puoi sopportare. Ma adesso siamo in un periodo in cui ci sentiamo totalmente eterodiretti.
Appunto, non lo sopporto e resto in collera. Sono perpetuamente furibonda.
NOTE:
[1]Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Enrico Berlinguer, Walter Veltroni, Massimo D’Alema… per il Pc-Pds-Pd; Pietro Nenni, Sandro Pertini, Riccardo Lombardi, Giacomo Mancini, Francesco De Martino, Antonio Giolitti, Bettino Craxi… per il Psi; Adriano Sofri, Luigi Manconi, Gad Lerner, Guido Viale, Franco Piperno, Lanfranco Pace, Oreste Scalzone, Mario Capanna per i sessantottini.
[2]Con il breve saggio L’anno degli studenti (De Donato, Bari 1968).
[3]Ecco il comunicato ufficiale di allora: «Allo stato dei fatti, non si comprende come abbia potuto in queste condizioni essere presa la grave decisione di un intervento militare. L’ufficio politico del Pci considera perciò ingiustificata tale decisione, che non si concilia con i princìpi dell’autonomia e indipendenza di ogni Partito comunista e di ogni Stato socialista e con le esigenze di una difesa dell’unità del Movimento operaio e comunista internazionale. È nello spirito del più convinto e fermo internazionalismo proletario, e ribadendo ancora una volta il profondo, fraterno e schietto rapporto che unisce i comunisti italiani alla Unione Sovietica, che l’ufficio politico del Pci sente il dovere di esprimere subito questo suo grave dissenso».
[4] Fu riabilitato dal partito nel 1998, 26 anni dopo la sua morte, n.d.c.
[5] Rossanda si riferisce all’irruzione, da parte dei carabinieri, in un appartamento di via Fracchia, dove nel 1980 rimasero uccisi tutti e quattro i brigatisti presenti, n.d.c. (20 settembre 2020)


Da - https://www.micromega.net/in-ricordo-di-rossana-rossanda-ancora-comunista-ancora-dissidente/?utm_source=substack&utm_medium=email

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 inserito:: Aprile 28, 2024, 07:05:53 pm 
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Quanti valori racchiusi nel messaggio del Presidente Mattarella a MF

Posta in arrivo

ggiannig <ggianni41@gmail.com>

a me

Leggilo in esclusiva su https://www.milanofinanza.it/news/quanti-valori-racchiusi-nel-messaggio-del-presidente-mattarella-a-mf-202404262021339385

 64 
 inserito:: Aprile 26, 2024, 01:01:17 am 
Aperta da Admin - Ultimo messaggio da Admin
Gianni Gavioli - LISTA DEI MIEI/NOSTRI GRUPPI TEMATICI.

CULTURA, LAVORO, GIOVANI, FAMIGLIA, PER LA MIGLIORE REALTA' SOCIALE.

L'ISOLA di ARLECCHINO EURISTICO. TROVARSI SENZA ESSERSI CERCATI.

INTESA OLIVO POLICONICO e OPINIONE PUBBLICA ORGANIZZATA. IL PROGETTO.

OLIVO POLICONICO. IDEE, PROBLEMI E RISORSE DEL TERRITORIO, IN PIATTAFORMA.

DOMANESIMO N.O.M. NUOVO ORDINE MONDIALE, DIRITTI UMANI e PACE ATTIVA.

ARLECCHINO EURISTICO.

LA COLLINA DELLE PERSONE CURIOSE, PERCHE' ATTIVE NELLA REALTA'.

TRA DIVERSI E DIFFERENTI L'OLIVO POLICONICO, PACE ATTIVA, DIRITTI UMANI.

PROGRESSISTI o CONSERVATORI, ma in una VERA DEMOCRAZIA!

ICR-E Informazione, Comunicazione e Operatività nel Sociale. - Editoria.

ggg

 65 
 inserito:: Aprile 25, 2024, 12:17:00 am 
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Cristina V. R. la libertà e la democrazia non si difendono solo a parole.

E spesso chi conosce molte parole, vecchie e nuove, sceglie di voltare la faccia dai problemi sociali.

La Gente ha bisogno di riferimenti per orientarsi in questo pantano di falsità e odio populista e settario, per non assecondarlo come sta di fatto, accadendo.
ggg

 66 
 inserito:: Aprile 23, 2024, 08:06:44 pm 
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Stefano C.

Paolo L. questo è il problema.

I giornali generalisti tendono a scomparire, fatta eccezione per alcune testate che si sono ritagliate un posto di autorevolezza e serietà riuscendo a conquistare una "community" (Internazionale su tutti, L'Espresso in parte, grazie anche alla sua storia).

Poi ci sono alcuni casi molto interessanti, a metà tra digitale e cartaceo: il Post e Linkiesta hanno raggiunto prima un pubblico vasto sul digitale e poi, in un secondo tempo, si sono sdoppiati su carta, raggiungendo ottimi risultati.
Segno evidente che della carta c'è ancora bisogno.

Infine, come dici tu c'è il settore della stampa indipendente e di settore che è in piena crescita.

Cosa ci dice tutto ciò? Che il sistema giornali tradizionale - basato su modelli economici non più sostenibili, con redazioni fisiche e numero di giornalisti sovradimensionato - è in crisi, ma al contempo un nuovo modello editoriale sta conquistando terreno.

Da FB 9 marzo 2024

 67 
 inserito:: Aprile 23, 2024, 07:13:57 pm 
Aperta da Admin - Ultimo messaggio da Admin
STATUTO di VOLT ITALIA

SEZIONE I – Disposizioni Generali
Articolo 1 – Costituzione, sede e fonti di disciplina
1.   È costituita, ai sensi del Libro I, Titolo II, Capo III, del Codice Civile, un’associazione politica volontaristica non riconosciuta senza fini di lucro denominata «Volt Italia» (di seguito indicata anche come «Volt» o «Associazione»).
2.   Volt Italia ha sede legale in Milano Piazza IV novembre 4, 20124 Milano. La sede legale dell’Associazione non può essere trasferita al di fuori del territorio della Repubblica italiana.
3.   Volt Italia è disciplinata dal presente Statuto, dai regolamenti e dalle deliberazioni e dalle decisioni adottate dagli organi di Volt e agisce nel rispetto della Costituzione italiana, del diritto dell’Unione europea e delle leggi vigenti.
4.   Il logo di Volt Italia è allegato al presente Statuto come Allegato A. Volt Italia è contraddistinta da un logo a sfondo viola al cui interno è presente la scritta “Volt” di colore bianco e da variazioni dello stesso, con o senza l’aggiunta di indicazioni geografiche e/o di rimandi alla bandiera italiana e a quella dell’Unione Europea. Spetta al Consiglio Direttivo dell’Associazione la tutela del logo di Volt Italia.

SEZIONE II – Obiettivi e Finalità
Articolo 2 – Natura e finalità di Volt
1.   Volt Italia nasce, come associazione politico culturale, per volontà di numerose persone, da varie parti d’Italia e d’Europa e di diversa matrice sociale ed esperienza politica, le quali, ritrovandosi e discutendo, hanno preso atto della necessità di creare un nuovo modo di fare politica in Italia ed in Europa, e di ridare ai cittadini italiani ed europei speranza e fiducia nel processo di governo.
2.   Volt Italia è un’associazione politica paneuropea, progressista, che si ispira alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto, e che mira a rappresentare i suoi membri e le loro idee sintetizzate nel Manifesto di Volt Europa AISBL (di seguito indicata anche come «Volt Europa») di fronte all’Unione Europea, alla Repubblica italiana ed ai suoi enti autonomi.
3.   Volt Italia aderisce e fa proprio il Manifesto di Volt Europa. Il manifesto è pubblicato – nella sua versione di volta in volta aggiornata – senza soluzione di continuità nel sito internet di Volt Italia (https://www.voltitalia.it/), in modo che i principi fondanti dell’Associazione possano essere sempre consultabili da chiunque.
4.   Volt lavorerà per favorire la nascita e lo sviluppo di tutte le forme e le esperienze di democrazia partecipativa e sarà lieta di collaborare con le associazioni, organizzazioni e istituzioni del territorio, aventi carattere politico o di promozione sociale, che perseguono i suoi stessi obiettivi e che sono dotati di regole interne che ne assicurino democraticità e trasparenza di bilancio. Volt Italia potrà allearsi a tali soggetti anche al fine di concorrere nelle competizioni elettorali.
5.   Per il raggiungimento dei suoi obiettivi, Volt Italia potrà istituire delle articolazioni territoriali. Tali diramazioni, denominate entità regionali o entità locali– che assumeranno la denominazione “Volt” seguita dal nome della Regione, Provincia, Comune o altra articolazione territoriale che rappresentano – si impegneranno a collaborare per mantenere l’unità di Volt Italia e per tutelarne i valori fondanti e la reputazione.
6.   Volt Italia è membro dell’associazione Volt Europa AISBL in modo da poter perseguire al meglio gli obiettivi e le finalità paneuropee di cui al presente articolo, anche in collaborazione con le altre associazioni riunite sotto l’egida di Volt Europa.
7.   Nel perseguire i propri ideali ed obiettivi, Volt si impegna a rispettare i principi su cui si fonda l’Unione Europea, come descritti nel Trattato sull’Unione Europea del 7 Febbraio 1992 e modificati dal successivo Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, e specialmente la protezione della dignità umana, della libertà, della democrazia, della solidarietà, dell’uguaglianza e il rispetto per le leggi e i diritti umani, inclusa la protezione delle minoranze.

SEZIONE III – Status di membro
Articolo 3 – Adesione a Volt Italia
1.   Il numero dei membri di Volt Italia è illimitato, ma non può essere inferiore a tre (3).
2.   L’adesione a Volt è libera. Possono aderire a Volt, conseguendo la qualifica di membro, tutte le persone che abbiano compiuto 16 anni, senza alcuna distinzione di sesso, razza, idee, religione o condizione sociale, che ne condividono le finalità e si impegnano a rispettare il Manifesto, lo Statuto e ogni atto e regolamento adottato ai sensi di quest’ultimo.
Articolo 4 – Requisiti per divenire membro di Volt Italia
1.   Per associarsi a Volt Italia, l’aspirante membro deve presentare richiesta di adesione compilando l’apposito modulo disponibile presso l’articolazione territoriale di riferimento o sul sito internet di Volt Italia. Al momento della compilazione, l’aspirante membro deve fornire:
•   i propri dati personali;
•   una completa informativa sui procedimenti penali pendenti o conclusi nei suoi confronti;
•   ogni informazione relativa alla propria affiliazione a qualsivoglia altro partito od organizzazione politica;
•   ogni informazione relativa ad azioni passate, presenti o pianificate per il futuro che possano costituire un rischio grave o una minaccia per la missione e le operazioni di Volt;
•   ogni altra informazione che venga richiesta ai sensi dei regolamenti adottati da Volt Italia.
2.   Le richieste di adesione a Volt in qualità di membro presentate da soggetti di età compresa tra i 16 e i 18 anni dovranno essere controfirmate da un titolare della responsabilità genitoriale.
3.   La richiesta di adesione si intende accolta se, entro 2 mesi decorrenti dal giorno della compilazione del modulo, il Consiglio Direttivo, o il soggetto da questo delegato, non comunica all’aspirante membro la propria opposizione. Durante il periodo indicato, il Consiglio Direttivo ha la facoltà di prorogare il suddetto termine, per un periodo non superiore ad ulteriori due mesi e chiedere all’aspirante membro di fornire informazioni aggiuntive. In circostanze eccezionali, il Consiglio Direttivo a maggioranza di due terzi dei suoi componenti può accogliere con una delibera motivata una richiesta di adesione prima della scadenza del periodo iniziale di 2 mesi.
4.   I membri di Volt Italia non possono essere contemporaneamente iscritti ad altro partito politico italiano o europeo, ad eccezione di Volt Europa e delle altre associazioni che sono membri di Volt Europa, salvo in ipotesi eccezionali debitamente motivate dal Consiglio Direttivo. Al momento della presentazione della richiesta di adesione, l’aspirante membro si impegna a ritirare o revocare la propria adesione ad altri partiti politici entro 2 mesi, ritenendosi altrimenti ritirata, alla scadenza del suddetto periodo, la propria richiesta di adesione a Volt.
5.   L’avvenuta adesione è riportata nel Registro dei membri ed è comunicata all’interessato. Il Registro dei membri è tenuto e conservato dal Consiglio Direttivo con modalità telematiche e in modalità analogica presso la sede di Volt. Il Registro dei membri è aggiornato almeno ogni tre mesi e comunque prima di ogni Assemblea. Ogni membro può richiedere di prendere visione del Registro dei membri in ogni momento.
Articolo 5 – Diritti dei membri di Volt Italia
1.   Ai membri di Volt Italia sono riconosciuti i seguenti diritti:
•   diritto di voto nell’Assemblea di Volt Italia, secondo le modalità e i limiti stabiliti nel presente Statuto e nei regolamenti;
•   diritto-dovere di partecipare all’attività di Volt manifestando liberamente la propria opinione e la propria critica sugli argomenti in discussione ad ogni livello, eventualmente tramite delegazione secondo le disposizioni del presente Statuto e quelle regolamentari che dovessero venire successivamente adottate;
•   diritto di utilizzo del simbolo e dei materiali di Volt in buona fede, in conformità con gli scopi di Volt e in osservanza delle regole stabilite dai competenti organi di Volt Italia;
•   diritto di presentare la propria candidatura per l’elezione degli organi sociali, nel rispetto delle forme e dei limiti stabiliti dal presente Statuto e dai regolamenti;
•   diritto di presentare la propria candidatura per la partecipazione alle competizioni elettorali, nel rispetto delle forme e dei limiti stabiliti dal presente Statuto e dai regolamenti.
Articolo 6 – Doveri dei membri di Volt Italia
1.   Il comportamento dei membri deve essere conforme alle regole della correttezza e della buona fede.
2.   Ogni membro è tenuto ad osservare lo Statuto, i regolamenti, le deliberazioni e le decisioni adottate dagli organi di Volt, compreso il codice di Condotta. È fatta salva la possibilità di continuare a sostenere la propria posizione differente su scelte deliberate all’interno di Volt, nel rispetto della libertà di espressione di ogni membro e del suo diritto alla partecipazione alla vita di Volt.
3.   Ogni membro si impegna a promuovere e supportare la causa di Volt e il perseguimento dei suoi obiettivi.
4.   Ogni membro chiamato a ricoprire una funzione all’interno di Volt, o in ogni caso a rappresentare Volt in qualsiasi sede, si impegna a farlo in ossequio alla visione politica di Volt, al suo programma e alle sue linee politiche, chiedendo supporto al Consiglio Direttivo in caso di necessità.
5.   Ogni membro si impegna a pagare la quota associativa, secondo le modalità e nel rispetto dei termini di cui al presente Statuto e ai regolamenti adottati da Volt Italia.
Articolo 7 – Perdita della qualifica di membro, procedimento disciplinare e sanzioni
1.   La qualifica di membro si perde per:
•   recesso;
•   espulsione;
•   perdita dei requisiti;
•   decesso.
I membri possono recedere da Volt mediante comunicazione scritta inviata al Consiglio Direttivo a mezzo di posta elettronica. Il recesso ha effetto immediato ed è certificato dalla rimozione del nome del recedente dal Registro dei membri.
1.   I membri sono tenuti ad informare per iscritto Volt Italia in caso di modifica di qualsiasi informazione che costituisca un requisito per divenire membro di Volt.
2.   I membri che vengano meno ai principi ispiratori di Volt o che violino il presente Statuto, il Codice di Condotta e ogni altro regolamento, nonché le deliberazioni e decisioni adottate dagli organi di Volt, possono essere sottoposti alla procedura disciplinare a norma del successivo articolo 8.
3.   Il diritto di voto dei membri non in regola con il versamento della quota associativa è temporaneamente e automaticamente sospeso in tutti gli organi di cui essi fanno parte, salvo ulteriori sanzioni irrogate ai sensi del presente Statuto. Il Consiglio Direttivo, con propria delibera, potrà disciplinare tempi e modalità di rinnovo delle tessere annuali.
4.   I membri receduti, esclusi, deceduti o comunque cessati dalla qualifica di membro non hanno alcun diritto sul patrimonio di Volt e pertanto essi o i loro aventi causa non possono richiedere il rimborso delle quote associative versate.
Articolo 8 – Procedura disciplinare
1.   Competente a giudicare su qualsiasi violazione nei confronti di tutti i membri di Volt Italia è il Collegio Disciplinare e di Garanzia previsto dall’art. 15 del presente statuto, secondo la seguente procedura e le disposizioni dell’art. 15 stesso.
2.   Ciascun membro di Volt Italia che venga a conoscenza di una violazione del presente statuto, dei regolamenti o delle normative interne, può inviare una segnalazione al Collegio di Reclamo (art. 16).  Il Collegio raccoglie la segnalazione, la istruisce con i dati fondamentali (nome delle persone segnalanti e segnalate, contenuto della segnalazione, eventuali documenti o altre indicazioni fornite) e la trasmettono alla prima sezione del Collegio Disciplinare e di Garanzia entro 15 giorni dalla ricezione. La prima sezione del Collegio Disciplinare e di Garanzia entro 10 giorni dalla ricezione della segnalazione informa le parti segnalate dell’apertura della procedura e le invita a fornire le proprie controdeduzioni entro 25 giorni. Ricevute le controdeduzioni, o comunque scaduto il termine per il loro invio, la prima sezione, sentite eventualmente le parti interessate, emette un provvedimento entro 30 giorni scritto motivato di archiviazione o di accoglimento, con indicazione della sanzione applicata. Il provvedimento viene comunicato a cura della stessa sezione alle parti interessate.
3.   Le persone interessate possono ricorrere avverso le decisioni della prima sezione del Collegio Disciplinare e di Garanzia presentando reclamo scritto alla seconda sezione dello stesso Collegio entro 25 giorni dalla comunicazione del provvedimento. La seconda sezione del Collegio Disciplinare e di Garanzia, sentite eventualmente le parti interessate, decide sul reclamo entro 30 giorni.
4.   È fatta salva la facoltà dei soggetti del procedimento di integrare la documentazione già presentata ove tale integrazione sia fondata su atti o fatti sopravvenuti o non noti alla parte che se ne avvale in relazione ad ogni fase del procedimento disciplinare e nel rispetto dei rispettivi termini di cui ai commi precedenti.
5.   Ai soggetti del procedimento disciplinare è garantito il diritto alla partecipazione ad ogni fase del procedimento ed al corretto trattamento dei dati personali nel rispetto della legge.
6.   Le sanzioni applicabili, in via permanente o temporanea, a seconda della gravità del caso, e anche cumulativamente, sono:
•   richiamo scritto;
•   sospensione dall’esercizio dei diritti riconosciuti al membro;
•   sospensione o rimozione dagli incarichi interni a Volt;
•   espulsione.
7.   Nel caso in cui al termine del procedimento disciplinare la sanzione di cui alla lettera c del comma precedente sia applicata nei confronti di uno o più membri del Consiglio Direttivo, il soggetto sanzionato ha la facoltà di sottoporre al voto dell’Assemblea Generale la disapplicazione della suddetta sanzione nei propri confronti. In tale ipotesi l’Assemblea Generale decide a maggioranza del 66% dei votanti. La decisione dell’Assemblea circa la disapplicazione della sanzione non è ricorribile.
8.   Un membro sanzionato rimane vincolato ad ogni obbligazione finanziaria e di qualsiasi altra natura assunta nei confronti di Volt Italia.

SEZIONE IV – Organi di Volt Italia
Articolo 9 – Elenco degli organi di Volt Italia
1.   Sono organi di Volt Italia:
•   l’Assemblea Generale
•   il Consiglio Strategico
•   il Consiglio Direttivo
•   i Co-Presidenti
•   il Tesoriere
•   il Comitato Elettorale
•   il Collegio Disciplinare e di Garanzia
•   il Collegio di Reclamo
2.   Nel rispetto del pluralismo sono garantiti i diritti delle minoranze negli organi collegiali. L’elezione degli organismi rappresentativi e di controllo interni è rigorosamente improntata al principio proporzionale, garantendo che almeno il 25% delle posizioni disponibili negli organi collegiali non esecutivi sia assegnata alla rappresentanza delle minoranze, ove presenti.
Articolo 10 – L’Assemblea Generale
1.   L’Assemblea Generale dei membri (di seguito «Assemblea») è l’organo di indirizzo politico di Volt Italia.
2.   L’Assemblea è costituita da tutti i membri con diritto di voto. Hanno diritto a votare solo coloro che alla data di convocazione dell’Assemblea risultino iscritti nel Registro dei membri ed il cui diritto di voto non risulti sospeso per effetto di un provvedimento sanzionatorio o del mancato pagamento della quota associativa.
3.   L’Assemblea:
•   elegge e revoca i componenti del Consiglio Direttivo, del Collegio Disciplinare e di Garanzia e del Collegio di Reclamo;
•   individua i rappresentanti di Volt Italia da candidare alle competizioni elettorali nazionali ed europee o da nominare in seno ad enti od organismi nazionali ed internazionali, assicurando l’equilibrio e la parità tra i generi di cui all’art. 51 della Costituzione;
•   approva e modifica i regolamenti e il Codice di Condotta di Volt Italia;
•   stabilisce l’indirizzo politico di Volt Italia, definendone le direttive generali e approvando le policy di Volt Italia;
•   approva il rendiconto consuntivo e il bilancio preventivo;
•   delibera sull’approvazione dell’eventuale compenso spettante ai componenti del Consiglio Direttivo;
•   delibera sulle modificazioni dello Statuto, della denominazione o del simbolo;
•   delibera sullo scioglimento di Volt Italia e sulla destinazione del patrimonio residuante dalla liquidazione;
•   decide su ogni altra questione ad essa rimessa dal presente Statuto o dai regolamenti di Volt Italia, tra cui l’impugnazione delle decisioni emesse dal Collegio Disciplinare e di Garanzia nelle procedure sanzionatorie nei confronti dei membri del Consiglio Direttivo.
4.   L’Assemblea è convocata dal Consiglio Direttivo ogni qual volta esso lo ritenga necessario, nonché quando ne venga fatta richiesta da almeno 1/5 dei membri di Volt Italia aventi diritto di voto. In caso di inerzia del Consiglio Direttivo, l’Assemblea è convocata dal Presidente del Collegio Disciplinare e di Garanzia. È convocata dal Presidente del Collegio Disciplinare e di Garanzia nel caso previsto dall’art. 8.
5.   L’Assemblea è convocata, almeno una volta all’anno, con preavviso di almeno 16 giorni, o di 8 in caso di urgenza, mediante avviso di convocazione inviato a mezzo email o altri mezzi idonei a tutti i membri con diritto di voto e contenente il luogo, la data, l’ora dell’Assemblea e i punti all’ordine del giorno.
6.   L’Assemblea può essere svolta e deliberare online, attraverso strumenti telematici, e/o nella sede di Volt o in qualunque altra sede indicata nell’avviso di convocazione.
7.   La direzione dei lavori assembleari spetta ai Co-Presidenti, che nominano un segretario per la redazione del verbale, da entrambi sottoscritto. I Co-presidenti possono delegare un terzo, anche consultando i membri.
8.   A meno che non sia diversamente stabilito, l’Assemblea decide a maggioranza semplice dei votanti. Per la modifica dello Statuto, della denominazione, del simbolo, del Codice di Condotta e per l’approvazione e la modifica dei regolamenti, l’Assemblea decide con il voto favorevole del 66% dei votanti.
9.   Le modalità di funzionamento dell’Assemblea potranno essere disciplinate nel relativo regolamento nel rispetto del presente Statuto.
Articolo 11 – Il Consiglio Strategico
1.   Il Consiglio Strategico collabora con gli altri organi di Volt Italia alla definizione delle strategie politiche di Volt Italia, come disciplinato dal presente articolo.
2.   Il Consiglio Strategico è composto da:
•   i componenti del Consiglio Direttivo;
•   i coordinatori delle articolazioni territoriali negli enti locali regionali, i coordinatori dell’articolazione territoriale Estero e, nella misura prevista dall’art. 22 del presente Statuto, i coordinatori eletti nelle articolazioni territoriali locali;
•   una rappresentanza di al massimo 5 persone, nominate da e scelte tra gli eletti di Volt Italia alle cariche elettive di deputato al parlamento europeo, deputato o senatore del parlamento italiano o a consigliere regionale, Presidente della Giunta Regionale o a Sindaco in un comune con più di 15.000 abitanti per la durata del rispettivo mandato;
3.   I componenti del Consiglio Strategico restano in carica per la durata dei rispettivi mandati di cui al comma 2;
4.   Il Consiglio Strategico:
•   svolge funzioni di coordinamento tra il livello centrale e il livello territoriale di Volt Italia, garantisce uniformità di posizionamenti e attività politiche sul territorio, definisce e coordina le campagne politiche e di attivismo nazionali, si adopera per garantire unità e coerenza nell’azione politica di Volt italia su tutto il territorio nazionale.
•   esprime il proprio parere preventivo, obbligatorio e non vincolante, in merito alla partecipazione di Volt alle competizioni elettorali a livello nazionale ed europeo;
•   elegge il proprio Presidente tra i suoi componenti, all’esclusione dei membri del CD, eletto per la durata di un anno.
•   decide su ogni altra questione ad esso rimessa dallo Statuto o dai regolamenti interni di Volt Italia.
5.   Il Consiglio Strategico è convocato almeno una volta al mese dal Presidente del Consiglio Strategico nonché quando ne venga fatta richiesta da almeno 1/6 dei propri componenti o dal Consiglio Direttivo.
6.   Il Consiglio Strategico è convocato senza particolari formalità con preavviso di almeno 3 giorni, salvo in casi di particolare urgenza.
7.   Le riunioni del Consiglio Strategico possono essere svolte e le relative deliberazioni possono avere luogo online, attraverso strumenti telematici, e/o nella sede legale di Volt o in qualunque altra sede fisica indicata.
8.   La direzione dei lavori del Consiglio Strategico spetta al Presidente dell’organo che li conduce senza particolari formalità. Gli ordini del giorno e le decisioni del Consiglio Strategico potranno essere consultati dai membri di Volt Italia.
9.   I membri del Consiglio Strategico votano a maggioranza semplice dei presenti. Se un’articolazione territoriale ha eletto più di un coordinatore, entrambi potranno partecipare ai lavori del Consiglio Strategico ma l’articolazione territoriale ha un solo voto. Hanno diritto di voto solamente le articolazioni territoriali che hanno eletto i propri coordinatori ai sensi dell’art.21 del presente Statuto. Tutti i componenti del Consiglio Direttivo possono partecipare ma il Consiglio Direttivo ha un solo voto.
10.   Partecipano ai lavori del Consiglio Strategico, senza diritto di voto, le persone nominate dal Consiglio Direttivo per la gestione operativa del partito. Su invito, possono partecipare persone esterne al Consiglio Strategico, senza che le stesse abbiano diritto di voto.
Articolo 12 – Il Consiglio Direttivo
1.   Il Consiglio Direttivo è l’organo incaricato dell’organizzazione, della gestione e della promozione di Volt Italia, nonché dell’attuazione del suo indirizzo politico.
2.   Il Consiglio Direttivo è composto da 9 membri di cui:
•   2 co-Presidenti di genere diverso;
•   1 Tesoriere;
•   6 consiglieri, di cui al massimo tre dello stesso genere. Qualora non ci siano candidati sufficienti a coprire i ruoli di consigliere di genere diverso rispetto a quello più rappresentato, i posti di tali consiglieri rimarranno vacanti e il numero dei componenti del Consiglio Direttivo sarà quindi ridotto. Dovrà essere inserita nell’ordine del giorno della successiva assemblea generale (ordinaria o straordinaria) l’elezione suppletiva per coprire i posti vacanti.
3.   I componenti del Consiglio Direttivo sono eletti dall’Assemblea secondo un criterio che tenga conto del voto espresso da tutti i membri di Volt Italia. Il Tesoriere è eletto tra soggetti con comprovate competenze in materia contabile e economico-finanziaria.
4.   Possono essere eletti componenti del Consiglio Direttivo i membri di Volt Italia con diritto di voto, iscritti da almeno 6 mesi.
5.   Il mandato dei componenti del Consiglio Direttivo dura 2 (due) anni. I componenti del Consiglio Direttivo sono rieleggibili per un massimo di ulteriori 2 (due) mandati, all’esito dei quali non possono essere rieletti se non previo decorso di 2 (due) mandati successivi.
6.   Il Consiglio Direttivo:
•   attua l’indirizzo politico di Volt Italia, secondo le direttive generali e nel rispetto del bilancio approvati dall’Assemblea;
•   garantisce il coordinamento tra Volt Italia, le associazioni nazionali corrispondenti di altri Stati membri dell’Unione Europea, e Volt Europa;
•   assicura il coordinamento tra le articolazioni territoriali e Volt Italia;
•   esprime il proprio parere sulla selezione dei candidati effettuata dal Comitato Elettorale;
•   individua eventuali soggetti esterni a Volt che, in virtù degli specifici requisiti posseduti, possono essere candidati nelle liste di Volt nelle competizioni elettorali;
•   promuove Volt Italia nei diversi ambiti politici, sociali, culturali, artistici ed economici;
•   tiene il Registro dei membri;
•   istituisce i team operativi delegati a ricoprire specifiche funzioni di assistenza al Consiglio Direttivo, agli altri organi di Volt Italia e alle articolazioni territoriali, e ne nomina e/o revoca i responsabili;
•   può delegare ai singoli componenti del Consiglio Direttivo specifiche funzioni rientranti nelle sue competenze. La delega può essere revocata in ogni momento;
•   esegue le decisioni degli organi di Volt;
•   convoca l’Assemblea almeno una volta all’anno per l’approvazione del rendiconto consuntivo e il bilancio preventivo per la loro approvazione;
•   previo parere del Tesoriere, può proporre all’Assemblea di deliberare un compenso in favore dei componenti del Consiglio Direttivo, indicando, eventualmente, anche l’entità del compenso proposto;
•   può consultare i membri di Volt Italia su qualsiasi questione o tematica, senza particolari formalità e anche attraverso strumenti telematici; il risultato della consultazione non è vincolante;
•   approva le liste elettorali, sia nazionali che locali, assicurando l’equilibrio e la parità tra i generi di cui all’art. 51 della Costituzione; la selezione delle candidature avviene sulla base di curricula presentati dai membri o da persone esterne a Volt Italia a norma della lettera e) del presente articolo, sentiti i Coordinatori Territoriali di cui all’art.21 del presente Statuto di Volt Italia;
•   segnala al Collegio di Reclamo comportamenti dei membri contrari allo Statuto o ai regolamenti di Volt Italia, formulando istanza allo stesso per l’apertura di una procedura disciplinare;
•   delibera su tutte le questioni che non sono rimesse ad altri organi di Volt Italia dalla legge o dal presente Statuto.
7.   Il Consiglio Direttivo è convocato senza formalità dai co-Presidenti e adotta le proprie deliberazioni a maggioranza semplice dei propri componenti. Di ogni riunione del Consiglio Direttivo è redatto e sottoscritto un verbale da parte di uno dei suoi Co-Presidenti e di uno dei suoi altri componenti.
8.   Le modalità di costituzione e funzionamento del Consiglio Direttivo saranno disciplinate nel rispetto del presente Statuto in apposito regolamento approvato dall’Assemblea.
9.   La cessazione di uno o più componenti del Consiglio Direttivo dalla carica, per qualunque ragione, comporta l’obbligo per i rimanenti componenti del Consiglio Direttivo (che agiranno ad interim in regime di prorogatio) di convocare urgentemente l’Assemblea Generale per procedere a una nuova elezione del componente/i cessato/i dalla carica. Il/i consigliere/i eletto/i ovvero scelto/i in sostituzione completeranno il mandato del componente/i cessato/i, ma se subentrano quanto sono trascorsi più di 12 mesi del mandato, tale elezione non viene considerata nel computo dei mandati di cui al comma 5 del presente articolo.
10.   I componenti del Consiglio Direttivo non possono, per tutta la durata del loro mandato, ricoprire cariche elettive all’interno di Volt Italia o di Volt Europa, ad esclusione di quanto previsto dal presente Statuto e dallo Statuto di Volt Europa.
11.   La carica di componente del Consiglio Direttivo è incompatibile con la carica di membro del Parlamento Europeo, membro del Parlamento Italiano, componente del governo italiano, presidente di giunta regionale o di  provincia autonoma, assessore regionale o di provincia autonoma, consigliere regionale o di provincia autonoma, sindaco di comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
Articolo 13 – I co-Presidenti
1.   I due co-Presidenti, di genere diverso, sono i co-leader politici di Volt Italia. Come i membri del Consiglio Direttivo restano in carica due anni e possono essere rieletti per altri due mandati.
2.   Oltre ai poteri loro attribuiti in qualità di componenti del Consiglio Direttivo e quanto previsto dall’art. 17 del presente Statuto, hanno i seguenti poteri e doveri:
•   assicurano il mantenimento, contribuiscono e promuovono la visione politica, il programma e le policy di Volt;
•   gestiscono l’utilizzo del simbolo e degli altri segni distintivi di Volt, anche ai fini dello svolgimento di tutte le attività necessarie alla presentazione delle liste nelle tornate elettorali;
•   svolgono l’attività di rappresentanza politica interna ed esterna a Volt;
•   convocano, aggiornano e presiedono il Consiglio Direttivo.
Articolo 14 – Il Comitato Elettorale
1.   Il Comitato Elettorale è l’organo costituito ai fini della gestione della selezione dei candidati per le elezioni politiche europee, nazionali, regionali e locali, nonché della gestione delle elezioni alle cariche elettive negli organi di Volt Italia e delle sue articolazioni territoriali.
2.   Il Comitato Elettorale è composto da 7 membri di Volt Italia nominati dal Consiglio Strategico.
3.   Il Comitato Elettorale resta in carica per due anni a partire dalla sua costituzione e comunque fino al completamento delle eventuali procedure di selezione in corso alla scadenza del mandato.
4.   Tutti i componenti del Comitato Elettorale devono essere membri di Volt Italia da almeno 6 mesi.
Articolo 15 – Il Collegio Disciplinare e di Garanzia
1.   Il Collegio Disciplinare e di Garanzia è l’organo di giustizia interna di Volt Italia.
2.   Esso è composto da due sezioni: la Prima sezione, di tre membri effettivi ed un membro supplente, è giudice di prima istanza relativamente alla procedura disciplinare prevista dall’art. 8 del presente statuto; la seconda, di 5 membri effettivi ed un membro supplente, è giudice di seconda istanza relativamente alle decisioni della Prima sezione. Entrambe le sezioni giudicano in composizione plenaria nei casi previsti dal successivo comma 4.
3.   I componenti sono eletti tra i membri di Volt Italia da almeno 6 mesi di comprovata moralità e competenza. Il Mandato del Collegio Disciplinare e di Garanzia dura 3 (tre) anni. Nel caso di carenza dei membri prestabiliti dell’organo, verranno convocate elezioni suppletive. Il membro eletto con elezioni suppletive completerà il mandato del componente cessato. Ogni membro viene eletto per una sola delle due sezioni e rimane all’interno della stessa per tutto il mandato. La carica di Membro del Collegio Disciplinare e di Garanzia non è compatibile con altra carica elettiva.
4.   Il Collegio Disciplinare e di Garanzia in composizione plenaria (8 membri):
•   vigila, in ogni momento, sull’osservanza dello Statuto e dei regolamenti di Volt Italia, inviando segnalazioni costruttive all’organo interessato, e relazionando annualmente l’Assemblea, il Consiglio Strategico e il Consiglio Direttivo sulle violazioni riscontrate.
•   su istanza del Consiglio Direttivo, del Consiglio Strategico o del 5% dei membri di Volt Italia:
•   delibera in merito all’interpretazione e/o applicazione dello Statuto, del Codice di Condotta e dei regolamenti di Volt Italia;
•   dichiara nulle le disposizioni dei regolamenti di Volt Italia qualora contrarie allo Statuto
•   annulla le deliberazioni adottate da qualunque altro organo associativo qualora contrarie allo Statuto o ai regolamenti di Volt Italia;
•   decide su ogni altra questione ad esso rimessa dal presente Statuto o dai regolamenti di Volt Italia.
5.   Le delibere del Collegio Disciplinare e di Garanzia sono vincolanti per tutti i membri e gli organi di Volt Italia.
6.   È fatta salva la facoltà per i membri di Volt Italia di rivolgere le proprie istanze a organi giurisdizionali esterni a Volt, nel rispetto della legge e della clausola arbitrale di cui al presente Statuto.
Articolo 16 – Il Collegio di Reclamo
1.   Il Collegio di Reclamo è competente a trasmettere al Collegio Disciplinare e di Garanzia le segnalazioni ricevute dai membri di Volt Italia relativamente alle violazioni dello statuto, dei regolamenti, ed in ogni caso di irregolarità di altri membri di Volt Italia, così come previsto agli artt. 8 e 15 del presente statuto.
2.   I componenti del Collegio di Reclamo sono eletti dall’Assemblea in numero di 3 (tre) tra i membri di Volt Italia da almeno 6 mesi per la durata di 3 (tre) anni e fino al termine delle procedure pendenti nei limiti di queste ultime. La carica di componente del Collegio di Reclamo è incompatibile con altre cariche elettive.
3.   Se la procedura disciplinare di cui all’art.8 è da attivarsi nei confronti di uno o più componenti del Collegio di Reclamo, l’organo competente a esercitarne le funzioni è il Consiglio Direttivo.
Articolo 17 – Tesoriere e Tesoreria
1.   Il Tesoriere è responsabile della regolare gestione amministrativa, patrimoniale, finanziaria e contabile di Volt Italia e resta in carica per la durata del suo mandato ai sensi dell’art.12 comma 5.
2.   Il Tesoriere:
•   tiene e aggiorna, secondo i principi dell’ordinata contabilità, i registri, i libri e gli altri documenti contabili necessari e cura gli adempimenti formali ad essi connessi, in conformità a quanto previsto dalla legge, dal presente Statuto e dai regolamenti di Volt Italia;
•   gestisce le entrate e le uscite, assicura la regolarità contabile e l’attinenza delle decisioni di spesa degli organi di Volt con le effettive disponibilità bancarie e di cassa e con le voci di bilancio, nel rispetto delle norme di legge in materia;
•   predispone annualmente il rendiconto consuntivo di esercizio e il bilancio preventivo secondo la normativa applicabile e li sottopone al Consiglio Direttivo;
•   nell’ambito delle funzioni allo stesso conferite, può disporre delle somme depositate presso i conti bancari dell’Associazione, sottoscrivere mandati di pagamento, incassare le quote sociali e le erogazioni liberali, tenere i rapporti con le banche e i fornitori in genere e compiere ogni altro adempimento previsto a suo carico dalla legge, dal presente Statuto e dai regolamenti;
•   può, in ogni momento, effettuare ispezioni e controlli amministrativi e contabili, internamente a Volt Italia;
3.   Ogni decisione di spesa o di rimborso delle spese sostenute, anche da soggetti terzi, che il Consiglio Direttivo intenda assumere deve essere preventivamente sottoposta al Tesoriere che dovrà verificarne la copertura finanziaria. Qualora la verifica abbia esito favorevole, il Tesoriere rilascerà apposita attestazione e il Consiglio Direttivo potrà deliberare la spesa o il rimborso.
4.   Nello svolgimento delle proprie funzioni il Tesoriere può farsi coadiuvare da un apposito ufficio denominato Tesoreria. La Tesoreria è composta da un numero massimo di 5 membri incluso il Tesoriere, che la presiede e ne è responsabile. I membri componenti la Tesoreria sono nominati direttamente dal Tesoriere tra soggetti con comprovate competenze in materia contabile e economico-finanziaria.
Art. 18 – Rappresentanza legale e potere di firma
1.   La rappresentanza legale dell’Associazione, sia di fronte a terzi che in giudizio, spetta al co-Presidente anagraficamente piú anziano, che la attua nel rispetto dello statuto, dei regolamenti e delle delibere degli organi statutari.

SEZIONE V – Finanze
Articolo 19 – Patrimonio di Volt Italia
1.   Il patrimonio di Volt è costituito da:
•   quote associative;
•   contributi ed erogazioni liberali;
•   investimenti mobiliari e immobiliari;
•   interessi attivi e altre rendite patrimoniali;
•   l’utile derivante da manifestazioni o partecipazioni ad esse;
•   eredità, legati, donazioni, lasciti o successioni;
•   beni, immobili, beni registrati mobili e beni mobili di proprietà, ovunque si trovino, acquistati direttamente da Volt, dalle sue organizzazioni territoriali locali, o comunque pervenuti;
•   ogni altro tipo di entrata consentita dalla legge.
2.   Volt utilizza il patrimonio per il perseguimento delle proprie finalità e dei propri obiettivi e per sostenere le spese necessarie al suo funzionamento.
3.   Le erogazioni liberali in denaro e le donazioni sono accettate dal Consiglio Direttivo o da organo appositamente preposto a ciò, nel rispetto della politica sulle donazioni di cui al presente Statuto.
4.   I lasciti testamentari sono accettati, con beneficio d’inventario, dal Consiglio Direttivo o da organo appositamente preposto a ciò.
5.   Durante la vita di Volt non possono essere distribuiti agli iscritti, neanche in modo indiretto, eventuali utili o avanzi di gestione, nonché fondi, riserve o capitale.
6.   L’anno sociale e l’anno finanziario vanno dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno.
Articolo 20 – Quota associativa
1.   Ciascun membro è tenuto al pagamento annuale della quota associativa.
2.   L’ammontare della quota è determinata annualmente dal Consiglio Direttivo su proposta del Tesoriere.
3.   La quota associativa potrà essere eventualmente differenziata a seconda delle situazioni lavorative o del reddito di classi di membri, in modo da facilitare la vita associativa per i soggetti con minori disponibilità economiche. Rientra nelle facoltà del Consiglio Direttivo la scelta dei criteri per la valutazione della sussistenza dei requisiti per il pagamento di una quota associativa differenziata.
4.   In caso di perdita della qualità di membro per qualunque motivo, la tessera non è rimborsabile
Articolo 21 – Politica sulle donazioni
1.   Il Tesoriere, in conformità con la normativa applicabile, pubblica tempestivamente e seconda le tempistiche di legge sul sito internet di Volt Italia la lista delle donazioni ricevute il cui importo superi il limite previsto dalla legge e dalla normativa sulla trasparenza delle donazioni. Nella pubblicazione sono specificati sia i singoli donanti, sia l’importo donato.

SEZIONE VI – Organizzazione territoriale
Articolo 22 – Articolazioni Territoriali
1.   Volt Italia promuove l’articolazione territoriale democratica nel rispetto della pluralità di genere quale strumento di crescita interna. L’azione territoriale si articola attraverso l’attuazione di progetti politici e di cittadinanza attiva, al fine di realizzare obiettivi e i valori descritti nel presente statuto.
2.   L’organizzazione territoriale di Volt Italia è costituita da ventuno articolazioni territoriali regionali (di seguito “Entità Regionali”), una per ciascuna regione d’Italia, con l’eccezione della Regione Trentino-Südtirol/Alto Adige, nel territorio della quale vengono istituite due Entità Regionali, una per la provincia autonoma di Trento e una per la provincia autonoma di Bolzano. A queste, si aggiunge l’articolazione territoriale Estero, che raccoglie i membri di Volt Italia residenti all’estero ed è equiparata alle Entità Regionali per norme interne, diritti e doveri.
3.   Il Consiglio Direttivo di Volt Italia, può istituire con delibera articolazioni territoriali locali a livello comunale o, in casi particolari e motivati, a livello di qualsiasi altra suddivisione territoriale all’interno di una regione o provincia autonoma (di seguito “Entità Locali”).
4.   Le Entità Regionali e Locali (di seguito insieme i “Territori”) non godono di personalità giuridica né autonomia patrimoniale distinta da quella di Volt Italia, ma sono articolazioni territoriali di Volt Italia e in quanto tale si impegnano a collaborare per mantenere l’unità di Volt Italia e per tutelarne i valori fondanti e la reputazione.
5.   In funzione del loro numero di Membri e del numero di abitanti, i Territori vengono suddivisi in Territori “in Avviamento” e Territori “Avviati”.
•   La leadership dei Territori in Avviamento viene nominata dal Consiglio Direttivo, sentiti i Membri del territorio, ed è in capo a uno o due Coordinatori, a scelta del Consiglio Direttivo. Il Consiglio Direttivo deve impegnarsi a rispettare la parità di genere negli incarichi. L’incarico ha durata di 2 (due) anni e può essere rinnovato. Il Consiglio Direttivo può revocare i Coordinatori dei Territori in Avviamento.
•   La leadership di ogni Territorio Avviato viene eletta dai Membri del Territorio ed è in capo a uno o due Coordinatori. L’incarico ha durata di 2 (due) anni e può essere rinnovato per un massimo di 2 (due) mandati consecutivi. Qualora ci fossero persone candidate appartenenti a generi diversi, vengono eletti i due coordinatori di genere diverso più votati. I Coordinatori hanno i medesimi compiti, poteri e responsabilità.
Articolo 23 – Sospensione, Commissariamento, Chiusura e Scioglimento delle Articolazioni
1.   Sentiti i coordinatori territoriali interessati, il Consiglio Direttivo dispone con delibera motivata la sospensione, il commissariamento, la chiusura o lo scioglimento di una Articolazione territoriale in caso di gravi irregolarità nella gestione, di impossibilità di funzionamento dell’articolazione medesima, nonché in ipotesi di gravi violazioni dei principi fondamentali di Volt o del presente Statuto.
2.   In caso di chiusura o scioglimento, il Consiglio Direttivo provvede, sentiti i membri dell’articolazione interessata, a riassegnare la loro affiliazione ad altra articolazione territoriale.
3.   Contro le delibere di sospensione, commissariamento, chiusura e scioglimento è ammesso il ricorso al Collegio Disciplinare e di Garanzia, entro quattordici giorni dalla notifica della delibera. Il Collegio Disciplinare e di Garanzia può annullare o confermare la decisione del Consiglio Direttivo entro trenta giorni dalla data del ricorso. In caso di ricorso, ogni elezione di un nuovo Coordinatore per l’Articolazione coinvolta sarà sospesa fino alla decisione del Collegio Disciplinare e di Garanzia.

SEZIONE VII – Miscellanea
Articolo 24 – Trasparenza ed accesso agli atti
1.   Volt Italia garantisce il pieno diritto di accesso documentale di ogni iscritto relativamente ai documenti interni, nel rispetto della normativa italiana ed europea sulla privacy. Ogni iscritto che desideri accedere ad un documento ne fa richiesta al Consiglio Direttivo. Il partito riscontra la richiesta entro 30 giorni dal ricevimento.
2.   Nell’ottica di assicurare la massima trasparenza, i provvedimenti sulla gestione economico-finanziaria e i provvedimenti degli organi rappresentativi del partito sono pubblicati in apposite sezioni del sito entro 30 giorni dalla loro approvazione.
Articolo 25 – Politica sulla privacy
1.   Volt Italia conduce le proprie attività nel pieno rispetto di tutta la normativa italiana ed europea in materia di protezione dei dati personali. In particolare Volt si adegua alle disposizioni di cui al Codice della Privacy e successive modifiche e alle disposizioni di cui al Regolamento (UE) 2016/679 e successivi interventi normativi di recepimento e implementazione dello stesso. Volt assicura che solo i dati personali dei propri membri rilevanti e necessari allo svolgimento delle attività di Volt e al rispetto di obblighi di legge vengano trattati, ciò sempre e comunque nel rispetto della suddetta normativa e con l’adozione di tutte le misure necessarie per assicurare la sicurezza di tali dati.
Articolo 26 – Uguaglianza di genere
1.   I membri si impegnano a adempiere pienamente alle norme relative alla tutela del genere meno rappresentato, di volta in volta in vigore.
2.   Al fine di promuovere la diversità e l’equilibrio tra i generi all’interno di Volt, valori in cui l’associazione crede fermamente, tutti i membri degli organi collegiali saranno eletti con un sistema di voto che garantirà equa rappresentanza tra i generi.
3.   Per il Consiglio Direttivo si rimanda all’art. 12 del presente Statuto. Per il Collegio Disciplinare e di Garanzia, il Collegio di Reclamo e il Comitato elettorale sarà garantito che il genere più rappresentato non superi la soglia del 60% delle posizioni disponibili. Qualora non ci siano candidati di altro genere sufficienti a coprire i restanti posti, per il Comitato elettorale rimarranno vacanti, mentre per il Collegio Disciplinare e di Garanzia e per il Collegio di Reclamo saranno assegnati ai candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti tra i non eletti a prescindere dall’identità di genere.
4.   Questo articolo non pregiudica eventuali norme più restrittive che dovessero di volta in volta essere in vigore in relazione a situazioni o organi specifici.
Articolo 27 – Durata e scioglimento
1.   La durata di Volt è a tempo indeterminato.
2.   Potrà tuttavia essere sciolta in qualsiasi momento per cessazione dell’attività o per qualunque altra causa. Lo scioglimento è deliberato dall’Assemblea Generale con il voto favorevole di almeno i 3/4 dei membri aventi diritto di voto.
3.   In caso di scioglimento, per qualunque causa, di Volt le eventuali attività residue potranno essere devolute dall’Assemblea Generale solo ad altre organizzazioni con finalità analoghe, anche avente sede all’estero, o a fini di pubblica utilità, salvo diversa destinazione imposta dalla di legge.
Articolo 28 – Controversie, scelta del foro e legge applicabile
1.   Il presente atto è interpretato e regolato secondo la legge italiana.
2.   Fatta salva la facoltà di ciascun membro di adire il Collegio Disciplinare e di Garanzia, tutte le questioni relative a sanzioni, associazione, interpretazione e applicazione dello Statuto, regolamenti interni di Volt Italia, nonché le questioni relative a controversie tra i membri e Volt Italia stessa saranno risolte mediante arbitrato rituale, di diritto, amministrato secondo il Regolamento della Camera Arbitrale di Milano, da un arbitro unico, nominato in conformità a tale Regolamento. Il diritto applicabile a qualsiasi controversia, indipendentemente dalla nazionalità delle parti coinvolte, sarà il diritto della Repubblica italiana.
3.   Per ogni controversia non arbitrabile, e unicamente per tali controversie, senza che ciò possa valere o essere interpretato in modo incompatibile con il precedente paragrafo, è esclusivamente competente il Foro di Milano.

DISPOSIZIONI FINALI
1.   Per quanto non disciplinato dal presente Statuto si fa rinvio alle norme di legge e ai principi generali dell’ordinamento giuridico italiano.

Da Volt
Scarica lo statuto di Volt Italia
Regolamento Articolazioni Territoriali
Codice di Condotta
Futuro M


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 inserito:: Aprile 23, 2024, 07:09:32 pm 
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I migliori vigneti d’Italia secondo Giovanni Bigot: la classifica dei 62 top
di Redazione
11 aprile 2024

Giovanni Bigot
In occasione di Vinitaly 2024 Giovanni Bigot, fondatore e titolare della società Perleuve, premierà per il quarto anno consecutivo le aziende le cui vigne hanno raggiunto o superato i 90 punti secondo l’Indice Bigot, metodo scientifico di valutazione del potenziale qualitativo del vigneto ideato dallo stesso agronomo friulano. Dopo aver analizzato 1.400 appezzamenti totali, distribuiti in diverse regioni italiane, Slovenia, Cipro e Macedonia, il team di Perleuve ha selezionato 62 vigneti che nel 2023 hanno raggiunto altissime valutazioni sui 9 parametri monitorati e valutati dall’Indice Bigot, messo a punto in oltre vent’anni di ricerca sul campo, in Italia e a livello internazionale. Tali indicatori, capaci di influenzare in modo specifico le caratteristiche del vino, sono: produzione, superficie fogliare, rapporto tra foglie e produzione, sanità delle uve, tipologia del grappolo, stress idrico, vigore, biodiversità e microrganismi ed età del vigneto.
“L’Indice Bigot si conferma un ottimo strumento per identificare le vigne con una vocazione naturale distintiva – commenta Giovanni Bigot –. È interessante notare come alcuni vigneti si riconfermano negli anni, delineando così le aree viticole che in futuro potremmo definire, alla francese, cru”. La combinazione ottimale dei 9 fattori agronomici è rara, tanto che solo il 5% dei vigneti esaminati la scorsa annata è riuscito a ottenere un punteggio uguale o superiore ai 90 punti, anche a causa delle difficili condizioni meteorologiche che hanno colpito l’intero territorio italiano e il Mediterraneo, mettendo alla prova le capacità dei viticoltori nel mantenere alti standard qualitativi. “Anche nelle annate difficili ogni regione viticola presenta delle zone vocate che l’Indice Bigot è in grado di evidenziare – continua Bigot – I vigneti capaci di distinguersi testimoniano la capacità dell’essere umano, dell’agricoltore, di adattarsi nel trovare soluzioni agronomiche e produrre grandi vini nonostante le avversità”.
Nella classifica ritroviamo sei vigneti, tutti vinificati come single vineyards, premiati anche nel 2022: il vigneto Nebbiolo La Rosa di Casa E. Mirafiore (da cui nasce Langhe Nebbiolo Doc), il vigneto Pignolo Rosazzo di Le Vigne di Zamò (Pignolo Rosazzo Doc), il vigneto Merlot Trobno di Marjan Simčič (Merlot Opoka Trobno Cru), il Sangiovese Colombole di Tenuta del Cabreo (Il Borgo Toscana Igt), e il Nebbiolo Apostoli di Rainoldi (Vigna Degli Apostoli Sassella Docg). Complessivamente, nel 2023 ben 44 aziende vantano vigneti con punteggi pari o superiori ai 90 punti, quasi il doppio rispetto alle 25 dell’anno precedente. Tra queste, le aziende Radikon e Tikveš spiccano come le più premiate, con quattro vigneti ciascuna dall’elevato potenziale qualitativo.
I VIGNETI PREMIATI
Albiana – Laški Rizling Zameje – 90
Bentu Luna – Atzara Burdaga – 91
Blasi Mauro – Riesling Lisetti – 90
Blasi Mauro – Cabernet Franc Cantina – 90
Cantina Dionigi – Sangiovese Montefalco Rosso Madonna della Pia – 91
Casa di Sala – Sangiovese Grande – 90
Casa E. Mirafiore – Nebbiolo La Rosa – 90
Castello di Cigognola – La Maga Pinot Nero Sottocastello – 90
Conterno Fantino – Sorì Ginestra – 90
Di Filippo – Sangiovese Fondata Cantalupo – 90
Ermacora – Tocai Friulano Fantin Nodar – 90
Ferdinand – Rebula Zavrt – 91
Ferdinand – Pinot Grigio Trojica – 90
Ferlat – Pinot Grigio Canale – 90
Fradiles – Mandrolisai Santa Maria – 90
Fradiles – Creccheria 1994 – 90
Ilaria Addis – Sa Neula Vermentino 1992 – 90
Korenika & Moškon – Malvazija Bankina 1952 – 93
Korenika & Moškon – Malvazija Kalcinar – 92
Kyperounda Winery – Mandarì Chardonnay Yerolatzia – 90
La Tosa – Cabernet Sauvginon Morello – 91
La Castellada – Merlot Hrib – 90
La Sclusa – Sauvignon Gramogliano – 90
La Tosa – Sauvignon Morello – 90
Le Vigne di Zamò – Cabernet Sauvignon Rosazzo Sud – 90
Le Vigne di Zamò – Pignolo Rosazzo – 90
Loredan Gasparini – Venegazzù 008 Cabernet Sauvignon – 92
Loredan Gasparini – Venegazzù 052 Cabernet Franc – 90
Marjan Simčič – Merlot Trobno – 91
Mauro Veglio – Nebbiolo Gattera – 90
Mazzaporro – Nerello Mascalese Case Vecchie – 90
Michele Satta – Cabernet Sauvignon I Castagni – 90
Michele Satta – Sangiovese I Castagni – 90
Michele Satta – Sauvignon Coste di Giulia – 90
Monsupello  – Redavalle Chardonnay – 90
Monsupello  – Montagnera Pinot nero – 90
Mustilli – Pozzillo Vigna Segreta – 91
Radikon – Sauvignon Tre Buchi – 91
Radikon – Sauvignon Ceno – 91
Radikon – Pinot Grigio Genkerjevo – 90
Radikon – Ribolla Gialla Ceno – 90
Rainoldi – Nebbiolo Apostoli – 90
Rainoldi – Nebbiolo 1970 Cartello – 90
Rainoldi – Sauvignon 2021 Campione – 90
Russiz Superiore – Sauvignon Relais – 90
Sgubin Ferruccio – Tocai Friulano Restocina – 90
Sgubin Ferruccio – Pinot Bianco Lonzano Alto – 90
Subida di Monte – Friulano Vigna Alta – 90
Tenuta del Cabreo – Sangiovese Colombole – 90
Tenuta del Cabreo – Sangiovese Fonte – 90
Tenuta di Nozzole – Cabernet Sauvignon La Costa – 90
Tenuta la Fuga – Sangiovese Le due Sorelle – 90
Terre Margaritelli – Laghetto – Sangiovese Freccia degli Scacchi – 93
Tikveš – Barovo – Vranec Barovo Mečkovec – 90
Tikveš – Demir Kapija – Cabernet Sauvignon Demir Kapija – 92
Tikveš – Lepovo – Cabernet Sauvignon Lepovo – 90
Tikveš – Manastirec – Vranec Manastirec Šumka – 90
Verstovšek Estate – Blaufränkisch Silnica  – 90
Viviano Luigia – Nero D’avola 2006 Cannamasca Rossi – 90
GIOVANNI BIGOTINDICE BIGOTVIGNETI

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 inserito:: Aprile 23, 2024, 07:06:15 pm 
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https://www.fondazionecrt.it/wp-content/uploads/2023/11/statuto-fcrt-2023.pdf


Lo statuto fondazione CRT Torino.

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 inserito:: Aprile 23, 2024, 12:43:49 pm 
Aperta da Admin - Ultimo messaggio da Admin
Senza entrare nell'episodio infelice per la vittima, desidero richiamare l'attenzione della Opinione Pubblica e dell'Informazione d'Inchiesta, per segnalare la stranezza del fatto che i dentisti NON siano tenuti a dare la garanzia legale del proprio lavoro!
Sono considerati alla pari, sotto questo aspetto, dei medici che ovviamente non possono garantire la guarigione da malattie, non dipendenti da loro.
Ma il lavoro del dentista é totalmente un’opera (super pagata) del loro lavoro ed è totalmente dipendente dalle loro capacità professionali, assurdo e ingiusto che non ne rispondano al paziente spesso vittima di errori o lavori malfatti.
ggg .

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