LA LEGA.

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Arlecchino:
PROGETTO DEL VIMINALE

Il piano di Salvini per la Libia Nuovo stop alle navi delle Ong
L’Italia offrirà a Tripoli fino a dieci nuove motovedette, tre sono già in consegna
Sarà rinnovato l’impegno per il controllo della frontiera Sud nel Fezzan

Roma
Un piano di rilancio delle intese con la Libia. Con lo stop rinnovato ieri alle Ong (organizzazioni non governative): «Si cerchino altri porti». Matteo Salvini non arretra di un passo, anzi alza la posta. Il ministro dell’Interno avverte le due ong tedesche con bandiera olandese, Lifeline e Seefuchs, giunte al largo delle coste libiche: «Dovranno cercarsi porti non italiani dove dirigersi». «Non hanno mezzi e personale per salvare un gran numero di persone, l’Olanda le faccia rientrare» dice il ministro M5S delle Infrastrutture Danilo Toninelli. «Non sono Ong olandesi nè imbarcazioni registrate in Olanda» contesta la rappresentanza olandese presso la Ue.
Ora dopo ora, la vicenda diventa un crescendo frenetico dentro il governo. Coinvolge il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Deve passare il principio di responsabilità di ogni nazione per le navi di quella bandiera, si dicono i ministri interessati. Palazzo Chigi si farà sentire con il governo di Amsterdam. Un putiferio, insomma. Finora le due ong non hanno imbarcato migranti, il meteo è in peggioramento. Ma un secondo caso Aquarius può arrivare da un giorno all’altro. Così l’esecutivo gioca d’anticipo tra le proteste delle Ong (SeaWatch, Open Arms, Msf, la Lifeline che dà del «fascista» al ministro dell’Interno). Attacca il Pd con David Sassoli e Maurizio Martina, nota Riccardo Magi (Radicali italiani): «Con la violazione sistematica dei diritti umani l’Italia non tornerà ad avere l’autorevolezza necessaria per richiamare gli stati europei a una maggiore condivisione nel governo dei flussi». In questo scenario l’incontro di Salvini in Libia con il presidente Serraj assume un valore politico decisivo. Mancano pochi giorni, i tecnici ministeriali sono in fibrillazione. Nel disegno delle proposte per Tripoli sono in ballo la Marina Militare, l’Esercito, lo Stato maggiore Difesa, i dicasteri degli Affari Esteri e delle Infrastrutture, la Guardia Costiera, i dipartimenti Ps e Libertà civili dell’Interno, la Guardia di Finanza. In campo l’Aise (agenzia informazioni e sicurezza esterna) non solo per la sicurezza del vertice. Lavoro senza sosta anche per l’ambasciatore Giuseppe Perrone: nei giorni scorsi ha visto Serraj e i ministri Taher Siala (Esteri) e Salam Ashur (Interno). Per la prima volta in Libia con Salvini arriva un vicepresidente del Consiglio. L’Italia chiederà il rilancio dei rapporti con Tripoli con la ripresa della collaborazione politica, economica e infrastrutturale verso i libici. Offrirà un aumento delle dotazioni navali per il pattugliamento della Guardia costiera civile e militare di Serraj. C’è l’ipotesi di consegna fino a dieci nuove motovedette, finanziate con fondi europei; altre tre unità navali sono già pronte nel porto tunisino di Biserta in attesa della formazione del personale libico. In fase avanzata il progetto per la sala operativa marittima di Tripoli. Saranno aggiornati gli accordi con le municipalità locali.
E si parlerà dell’impegno nel Fezzan, la regione meridionale al confine con il Niger da dove provengono i flussi più cospicui di migranti. L’idea di un avamposto italiano a Ghat per sostenere i controlli alle frontiere è rimasta al palo per motivi di sicurezza. Ora per fine mese è stato pianificato un sopralluogo. Tra Salvini e Serraj, tra l’altro, c’è una sintesi già ufficiale sulle Ong: «Grazie a Dio alla fine l’Italia si è finalmente svegliata» ha detto l’altro giorno il portavoce della Marina libica, Ayob Amr Ghasem, dopo lo stop all’attracco in un porto italiano dell’Aquarius. Roma chiederà comunque con forza un impegno coerente e costante nel contrasto alle organizzazioni criminali e ai trafficanti. Visti anche i protocolli di intesa tra le autorità giudiziarie locali e la Procura nazionale antimafia guidata da Federico Cafiero De Raho.
Domani al ministero dell’Interno si farà una valutazione dei dossier , il ministro ha chiesto anche di elaborare i fascicoli per la Tunisia e l’Egitto. E al Viminale in mattinata farà visita una delegazione tecnica Ue di rappresentanti del presidente Claude Juncker, del commissario Dimitri Avramopoulos e la direttrice della Dg Home, Paraskevi Michou.
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Marco Ludovico

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180617&startpage=1&displaypages=2

Arlecchino:
Giorgetti ha raccontato cosa è successo realmente alla cena con Parnasi

La 'mente politica del Carroccio' e sottosegretario a Palazzo Chigi in un'intervista al Fatto ha raccontato i dettagli dell'incontro con l'imprenditore romano finito in carcere per l'inchiesta sullo stadio della Roma

16 giugno 2018,09:18


La cena con Luca Parnasi e Luca Lanzalone? “Era un aperitivo… un bicchiere di vino e qualche fetta di salame”. Giancarlo Giorgetti, la ‘mente politica del Carroccio’, finito tra politici vicini ai due personaggi coinvolti nell’inchiesta sulla costruzione del nuovo stadio della Roma (Parnasi, costruttore, in carcere, Lanzalone, ex presidente di Acea, ai domiciliari), in un’intervista a Il Fatto Quotidiano racconta la sua versione dei fatti. Paranasi si vantava di aver fatto il governo a quella ‘cena’.


"Parnasi mi disse che mi doveva presentare una persona, un contatto che mi poteva tornare utile. [Lanzalone] ha lasciato intendere che fosse stato l’avvocato di Grillo".

Giorgetti dice di non sapere quanti soldi Parnasi ha versato alla Lega (250 mila euro, secondo il Fatto) e che la frase di Parnasi che avanzava l’ipotesi di Lanzalone premier è solo un suo “delirio di onnipotenza”. Ma conferma di conoscere Parnasi da 15 anni: "a Roma eravamo vicini di casa".

“Parnasi diceva: ‘Voi mi piacete, vorrei aiutarvi in qualche iniziativa’. Gli ho detto che ne doveva parlare con l’amministratore del partito, Giulio Centemero. Ho scoperto adesso di questa associazione di cui faccio parte. Centemero mi ha detto che è stato fatto tutto in modo regolare.

Tutto quello che è riconducibile ai partiti dovrebbe essere messo in evidenza. Ma se un’associazione ha una personalità giuridica diversa e non appartiene al partito, non può essere tout court ricondotta al partito stesso.

"Non abbiamo fatto niente di male, non vedo perché dovremmo (ridare i soldi indietro a Parnasi). Non arrivano da un’attività illecita. E noi con lo stadio della Roma non c’entriamo niente. […] Sapevamo perfettamente che nel momento in cui si andava al governo, qualche azione di questo tipo sarebbe arrivata. […] Un aperitivo diventa quello che ha costruito il nuovo governo… Questo governo l’hanno voluto più che altro le opposizioni. Fosse stato per la Lega andavamo a votare a luglio e passavamo all’incasso".



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Arlecchino:
PRIMA PAGINA15 GIUGNO 2018Il Sole 24 Ore
CORRUZIONE

I pm indagano sui fondi di Parnasi alla Lega

Lanzalone si dimette da presidente Acea. Salvini: nessun impatto su governo
Accertamenti sui finanziamenti dell’imprenditore Luca Parnasi alla Lega. I pm capitolini vogliono vederci chiaro nelle erogazioni che sarebbero state fatte verso il Carroccio. L’ultimo finanziamento risale al 14 febbraio scorso: 100mila euro. Al riguardo il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha detto: «Nessun problema per il Governo» e «aspetto che parli chi ne sa più di me: quello che posso dire è che Parnasi, per come l’ho conosciuto, mi è sembrata una brava persona». Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto che c’è «massima attenzione del Governo» ma che non c’è «nessun caso Roma ma un caso corruzione sul quale dobbiamo stare attenti». Intanto dagli atti dell’inchiesta emergono nuovi aspetti. È il caso del presunto incontro che ci sarebbe stato il 12 marzo scorso tra il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, della Lega, l’imprenditore Parnasi e l’avvocato Luca Lanzalone, dimessosi dalla presidenza di Acea dopo essere stato arrestato per corruzione. Lanzalone, espressione del Movimento 5 Stelle, risulta legato a Luigi Di Maio e alla sindaca di Roma Virginia Raggi. Partono domani gli interrogatori di garanzia: saranno ascoltati Parnasi, l’ex assessore regionale del Pd Michele Civita e il vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio Adriano Palozzi.

Ivan Cimmarusti pag. 4

Stadio di Roma, faro dei pm sui fondi di Parnasi alla Lega
L’inchiesta. Salvini: «Nessun impatto sul governo». Indagato il sovrintendente Prosperetti A casa del costruttore incontro tra Giorgetti e Lanzalone (ieri dimissionario). Il ruolo di Malagò
roma
Quel finanziamento da 250mila euro all’associazione “Più Voci”, rappresentata dal tesoriere e deputato della Lega, Giulio Centemero, non era l’unico. A meno di un mese dalle scorse consultazioni, l’imprenditore Luca Parnasi – dominus del progetto del Nuovo Stadio della Roma e presunto corruttore di pubblici ufficiali e politici di M5S, Pd e Forza Italia – organizza un nuovo contributo al Carroccio, centomila euro fatti passare attraverso due società a lui riconducibili, tanto che ai suoi collaboratori assicura: «Il Governo lo sto a fare io, eh!».
All’indomani dei nove arresti per sospetti illeciti dietro la costruzione dell’impianto giallorosso a Tor di Valle, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parla di «massima attenzione del Governo» ma precisa che non esiste un «caso Roma ma un caso corruzione sul quale dobbiamo sempre stare attenti».
I contributi politici
Le verifiche dei pm ora riguarderanno queste elargizioni. D’altronde è stato lo stesso giudice per le indagini preliminari a esprimere un «giudizio di illiceità» sull’operazione dei 250mila euro. Del nuovo finanziamento da 100mila euro l’imprenditore - che oggi sarà sottoposto a interrogatorio di garanzia nel carcere di Milano dove è stato rinchiuso - parla con Gianluca Talone, suo stretto collaboratore. È il 14 febbraio scorso, alle elezioni manca meno di un mese. Gli inquirenti riassumono negli atti che «Parnasi incarica Talone di eseguire delle operazioni sui conti societari citando alcuni partiti politici quali destinatari di tali movimenti bancari». In questo contesto Parnasi fa riferimento ai 100mila euro «dicendo che sono emesse da Immobiliare Pentepigna srl», società del suo gruppo. Al suo collaboratore dice: «Lega c’abbiamo cento e cento». Si tratta di aspetti che entrano in connessione con un’altra indagine, quella in corso di istruzione alla Procura di Genova, dove si lavora sui finanziamenti al Carroccio. Al riguardo il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha spiegato che non c’è «nessun problema per il Governo». Sulle accuse relative ai finanziamenti ha detto: «Aspetto che parli chi ne sa più di me: quello che posso dire è che Parnasi, per come l’ho conosciuto, mi è sembrata una brava persona».
Il sottosegretario Giorgetti
Secondo gli inquirenti, però, i finanziamenti «rivelano - si legge negli atti - come Parnasi sia in grado di permeare le istituzioni pubbliche». Il riferimento, annotano gli inquirenti, è anche «a un incontro che l’imprenditore ha organizzato il 12 marzo scorso a casa sua tra il parlamentare Giancarlo Giorgetti della Lega Nord e l’avvocato Luca Lanzalone», che dopo l’arresto si è dimesso dalla presidenza della società quotata capitolina Acea. Lanzalone - pura espressione dei vertici del Movimento 5 Stelle, legato a Luigi Di Maio e stretto consulente della sindaca di Roma Virginia Raggi - sarebbe stato corrotto con una tangente da 12mila euro più altri 90mila promessi con consulenze. L’incontro con Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, «assume rilievo - ritengono gli inquirenti - in ragione delle disposizioni impartite da Parnasi ai suoi sodali»: il 15 marzo 2018 Parnasi precisa a Gianluca Talone, suo collaboratore, «che deve essere “precisissimo” nei pagamenti ai partiti politici in quanto: “Il Governo lo sto a fare io, eh! Non so se ti è chiara questa situazione”». Il nome di Giorgetti torna altre volte nell’incartamento. È il caso di un «lavoro» di cui parlano Parnasi e Lanzalone: il 6 giugno scorso l’imprenditore «gli chiede se Luigi Di Maio sa del lavoro fatto con Giancarlo Giorgetti, Lanzalone dice di sì. I due condividono che questa cosa sia stata utile». A quale lavoro facciano riferimento, però, non è specificato. Nella stessa intercettazione, inoltre, «Parnasi continua dicendo che Giorgetti gli avrebbe detto che il contratto (di Governo, ndr) va firmato subito».
Il ruolo di Malagò e Prosperetti
Il nome di Giovanni Malagò, presidente del Coni, risulta nel capitolo d’indagine sullo stadio. Il dirigente parla con Parnasi anche della costruzione del nuovo impianto del Milan e si preoccupa di far incontrare all'imprenditore l’allora ministro dello Sport Luca Lotti. Stando agli inquirenti, lo stesso Malagò avrebbe chiesto e ottenuto da Parnasi di fare un colloquio di lavoro al fidanzato di sua figlia. Nel fascicolo è stato iscritto nel registro degli indagati il sovrintendente Francesco Prosperetti, che si occupò del vincolo sulle tribune dell’ippodromo di Tor di Valle. Per i pm Prosperetti avrebbe rimosso illecitamente quel vincolo su richiesta dell’ex capo segreteria del Mibac Claudio Santini.

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Ivan Cimmarusti

Arlecchino:
Soldi della Lega, ecco i documenti che incastrano Matteo Salvini
Una lettera di diffida. Un file del Senato. E i rendiconti interni al partito.

Pubblichiamo le carte che smentiscono la versione del ministro sullo scandalo che fa tremare il Carroccio

DI GIOVANNI TIZIAN E STEFANO VERGINE
04 luglio 2018

«È un processo politico, che riguarda fatti di 10 anni fa su soldi che io non ho mai visto». Matteo Salvini si è difeso così dall'accusa di aver beneficiato dei quasi 50 milioni di euro frutto della truffa firmata Bossi e Belsito.
La tesi del ministro è quindi semplice: tutta colpa del vecchio leader, io non c'entro niente. I documenti ottenuti da L’Espresso dimostrano invece che esiste un filo diretto tra la truffa firmata dal fondatore e i suoi successori.

Tra la fine del 2011 e il 2014, infatti, prima Maroni e poi Salvini hanno incassato e usato i rimborsi elettorali frutto del reato commesso dal loro predecessore. E lo hanno fatto quando ormai era chiaro a tutti che quei denari rischiavano di essere sequestrati. Il nostro giornale lo aveva già scritto in una lunga inchiesta nell'ottobre 2017. Qui sotto riprendiamo alcuni stralci di quell'articolo e pubblichiamo i documenti che dimostrano quanto da noi ricostruito già dieci mesi fa.

L’attuale leader della Lega e Bobo Maroni hanno utilizzato una parte dei 48 milioni di euro frutto della truffa orchestrata dal Senatur e dall’ex tesoriere. Lo dimostrano le carte del partito tra la fine del 2011 e il 2014 che abbiamo consultato

Per scoprire i retroscena di questo intrigo padano bisogna tornare al 5 aprile del 2012. E tenere a mente le date. Quel giorno, a poche ore dalla perquisizione della Guardia di Finanza nella sede di via Bellerio, a Milano, Bossi si dimette da segretario del partito. È la prima scossa del terremoto che sconvolgerà gli equilibri interni alla Lega.

A metà maggio diversi giornali scrivono che a essere indagato non è solo il tesoriere Francesco Belsito, ma anche il Senatùr. Il reato ipotizzato è quello di truffa ai danni dello Stato in relazione ai rimborsi elettorali. Il primo di luglio Maroni viene eletto nuovo segretario del partito. E quattro mesi dopo, il 31 ottobre, passa per la prima volta alla cassa. Come certifica un documento inviato dalla ragioneria del Senato alla Procura di Genova, quel giorno l’ex governatore della Lombardia riceve 1,8 milioni di euro. È il rimborso che spetta alla Lega per le elezioni politiche del 2008, quelle vinte da Berlusconi contro Veltroni. Il primo di una lunga serie.

Da questo momento in poi a Maroni verranno intestati parecchi bonifici provenienti dal Parlamento. A fine 2013, cioè al termine del mandato di segretario, Bobo avrà così ricevuto 12,9 milioni di euro in nome della Lega. Tutti rimborsi relativi a elezioni comprese tra il 2008 e il 2010, quando a capo del partito c’era Bossi e a gestire la cassa era Belsito. Insomma, proprio i denari frutto della truffa ai danni dello Stato.

Che cosa cambia quando Salvini subentra a Maroni? Niente, se non le cifre. A metà dicembre del 2013 Matteo viene eletto segretario del partito. L’inchiesta sui rimborsi elettorali intanto va avanti, e a giugno del 2014 arrivano le richieste di rinvio a giudizio: i magistrati chiedono il processo per Bossi. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, Salvini incassa 820mila euro di rimborsi per le elezioni regionali del 2010. Lo dimostrano i mastrini, i registri contabili del partito che L'Espresso è riuscito a ottenere. Perché allora il segretario della Lega continua a sostenere che lui quei soldi non li ha mai visti? E come poteva non sapere che erano frutto di truffa?

Due mesi dopo aver incassato gli oltre 800 mila euro, Salvini e la Lega si costituiscono infatti parte civile contro i compagni di partito. Si sentono vittime di un imbroglio, di una truffa che ha sfregiato il vessillo padano. E vogliono essere risarciti. La nuova dirigenza è dunque consapevole della provenienza illecita del denaro accumulato sotto la gestione di Bossi. Ma il 27 ottobre, solo venti giorni dopo l’annuncio di costituirsi parte civile, Salvini fa qualcosa che appare in netta contraddizione con quella scelta: ritira altri soldi. Questa volta la somma è piccola, poco meno di 500 euro: l’ultima tranche di rimborso per le elezioni regionali del 2010.

Due giorni dopo l’ultimo prelievo, Salvini riceve persino una lettera (inviata anche al tesoriere Giulio Centemero) dall'allora avvocato di Bossi, Matteo Brigandì. «Ti diffido dallo spendere quanto da te dichiarato corpo del reato», si legge nella missiva con la quale la vecchia guardia lancia un messaggio chiaro al nuovo gruppo dirigente: voi ci accusate di aver rubato quattrini, allora sappiate che i soldi che avete in cassa sono il profitto della truffa, e usarli vuol dire diventare complici del reato.

© Riproduzione riservata 04 luglio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/07/04/news/soldi-lega-la-lettera-che-incastra-salvini-1.324561?ref=fbpe

Arlecchino:
PER CAPIRE (E BATTERE) SALVINI STUDIATE GEORGE WALLACE E CERCATE LYNDON JOHNSON
   
PAOLO MANFREDI
1 luglio 2018

A chi volesse comprendere qualcosa in più del presente e dell’ascesa del piccolo Orban in felpa che sovraintende alla nostra sicurezza nei ritagli di tempo di un’infinita campagna elettorale, consiglio di sollevare lo sguardo dal trito paragone con il fascismo e andare più avanti di quarant’anni e molto più a Ovest, fino a Tuscaloosa, Alabama, davanti ad una foto in bianco e nero.

La fotografia scattata l’11 giugno del 1963 vede un piccolo uomo, ex peso gallo di pugilato, ritto davanti alla porta dell’Università dell’Alabama per impedire l’ingresso a due studenti afroamericani, i primi ad essere stati ammessi dopo la desegregazione delle scuole decisa dalla Corte Suprema ben 9 anni prima.

Wallace, che era appena diventato Governatore dell’Alabama pronunciando il famoso “segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre”, guarda spavaldo il Viceprocuratore degli Stati Uniti, pronuncia un discorso iperfederalista sui diritti degli Stati contro l’oppressione del Governo federale e poi si sposta per fare passare i due studenti, che non avrebbe in alcun modo potuto veramente fermare.

Lo stand at the schoolhouse door è il paradigma perfetto delle rodomontate del più famoso dei southern demagogues, quei politici del Sud degli Stati Uniti che univano aperto razzismo, convinto populismo, e oratoria fiammeggiante e che sono i veri padri politici di Salvini e di tutta la sua schiatta di imprenditori della paura.

Come per la chiusura dei porti del nostro buon Ministro dell’Interno, lo stand fu per Wallace uno straordinario trampolino per la carriera politica, che culminò nella corsa alle primarie democratiche del 1964 e soprattutto nella corsa da indipendente alle presidenziali del 1968. Nel 1968 Wallace fu un vero fenomeno politico e probabilmente avrebbe preso più del comunque ragguardevole 13,5% dei voti popolari se non avesse scelto come vice un Generale dell’Aviazione americana a cui Kubrick si sarebbe ispirato per il mad bomber de “Il Dottor Stranamore” e che fece naufragare la campagna dichiarando in conferenza stampa che nell’atollo di Bikini dopo i test nucleari i topi erano più grassi e in salute che mai (strano ma vero, i populisti attirano sempre i dementi).

La desegregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti era fino agli anni ’60 quello che è per noi l’immigrazione oggi. Visto con l’occhio di Dio e dei liberal americani era un fenomeno storico, doveroso e soprattutto ineluttabile, per i leghisti di allora, elettori di Wallace e simpatizzanti del KKK, era un tentativo di soffocare la libertà degli Stati di fronte allo strapotere del Governo federale e delle élite (c’erano anche allora).

Alla fine quello che era storicamente ineluttabile si realizzò e il proto Salvini perse non solo le elezioni ma anche la sua base elettorale che si sfarinò mentre gli Stati del Sud cambiarono pelle grazie alle riforme che fecero degli afroamericani una base elettorale imprescindibile (alla quale a fine carriera si rivolgerà lo stesso Wallace) e all’aria condizionata che portò nuovi abitanti e cambiò l’economia e la società. Wallace e i suoi accoliti (alcuni dei quali con gli stessi occhi cerulei e l’espressione fanatica del Ministro Fontana) persero però anche politicamente, a dimostrazione che il populismo ha le gambe corte e, se si sa trattare, cortissime.

Il più grande nemico politico di Wallace e dei proto Salvini non fu il patrizio Kennedy, morto troppo presto, ma il suo vice e poi successore Lyndon Johnson.

Kennedy aveva scelto Johnson, senatore texano di lunghissimo corso, come vice per tenere buono il Sud. Johnson andò molto oltre questo ruolo e prima e soprattutto dopo la morte di Kennedy firmò provvedimenti storici e controversi che cambieranno per sempre i diritti civili e i diritti sociali negli Stati Uniti e ne faranno, almeno nella politica interna, uno dei migliori Presidenti della storia americana.

A me Johnson ha sempre ricordato Giolitti.

Come il “ministro della malavita”, Johnson fu molto odiato dai radicali (e certamente a ragione per il disastro in Vietnam che ne stroncò la carriera), al punto da non vedersi riconosciuto il ruolo chiave di leader politico modernizzatore e di padre del riformismo poco glamour e tutta concretezza. Per ambedue la politica era “sangue e merda”, roba per stomaci forti, ma anche strumento fondamentale per accompagnare e accelerare i cambiamenti della società in senso progressista.

Mentre Giolitti fu più calcolatore nelle sostanziali riforme che cambiarono molto della società e della politica italiana (fino a essere travolto dal Fascismo che non riuscì a ingabbiare), per Johnson la componente ideale fu più forte. La politica, anche quella alla House of Cards, e le riforme furono lo strumento per realizzare un disegno populista buono: fare uscire America nera e America bianca povera e rurale dalla miseria civile ed economica offrendo diritti e tutele e cercando di superare una dicotomia montata ad arte dai populisti, che uscirono sconfitti.

Il disastro politico e sociale che fu il 1968 in America e la fine ingloriosa di Johnson non fanno venir meno il senso per il disastrato presente di questo lungo (ma spero non noioso) excursus storico: il populismo si batte un po’ soffocandolo nel suo ridicolo e molto facendo politica, ossia risolvendo i problemi delle persone e accompagnando i cambiamenti perché facciano meno paura anche a chi ha meno strumenti per leggerli.

Smontare la paura vuol dire togliere carburante ai Salvini di turno, che sulle ansie e la rabbia prosperano e per questo al di là delle fanfaronate non hanno alcun interesse ad aumentare la felicità e il benessere.

Smontare la paura oggi in Italia attorno ad un fenomeno ineluttabile ma tragicamente controverso come l’immigrazione, che permette al demagogo Salvini di prosperare oltre i suoi meriti, richiede una leadership e una credibilità politica molto più affini a quelle dell’odiato Johnson che a quelle (inesistenti) del reggente trasparente Martina.

Mai come in questa fase è evidente che avere moralmente e razionalmente ragione in democrazia serve a pochissimo se non si parla alla testa e alla pancia degli elettori e la politica è esattamente l’arte di fare questo con la retorica, i simboli e le idee. Sono gli stessi elementi che utilizzò Johnson nella sua “Guerra alla Povertà” che unì bianchi poveri e neri in una grande visione di civiltà, resa possibile anche dal suo essere stato un maestro nel Texas rurale più povero (dove tornò per firmare una legge sull’educazione primaria universale).

Senza attenzione per le condizioni dei più poveri tra i bianchi, i diritti civili per i neri sarebbero stati un processo ineluttabile ma ancora più lungo e controverso. Similmente, per venire a noi, senza un programma organico di crescita per il Paese che parta dal disinnesco dell’ansia sociale gli imprenditori della paura continueranno a prosperare.

Come si disinnesca l’ansia sociale? Bel tema, certamente troppo complesso per un’articolessa estiva e soprattutto per le competenze del suo autore, comunque sufficientemente presuntuoso per tentare di abbozzarne alcuni punti.

1.     Aver ragione moralmente sull’immigrazione non basta. Le statistiche sulla percentuale (ridicola) di immigrati nel nostro Paese rispetto al Nord Europa non spostano mezzo voto e possono molto meno delle fake news e delle immagini dei richiedenti asilo sparsi nelle piazze dei piccoli centri italiani. Soprattutto, se una cosa non indecente ha fatto Salvini è stato mostrare il visegradismo presente in tutti i Paesi europei. Il cerino dell’immigrazione dal Sud del mondo non si spegne con le foto degli occhioni dei bimbi africani. È una bomba politica per tutte le democrazie e le persone per bene devono saperlo e organizzarsi di conseguenza, dosando il gas dell’apertura e massimizzando l’attenzione all’integrazione, anche attraverso un controllo ferreo al tema negletto della sicurezza. L’alternativa a questo oggi non è Gino Strada, ma Casa Pound.

2.     A pancia piena si è tutti più buoni. Il combinato disposto della crisi economica e di una formidabile campagna mediatica ha contribuito a creare una narrazione del declino così solida da ottundere la razionalità. Non mi riferisco solo al ciarpame dei social network, delle TV del pomeriggio, di Libero (dalla decenza) o di qualche testata che si reinventa salviniana per campare, ma anche alla cosiddetta stampa borghese, Corriere in primis, che in odio a Renzi ha pavimentato la strada a Salvini. È necessario che i buoni facciano lavorare il cervellino per immaginarsi una nuova narrazione della crescita, fatta di tecnologia, impresa e lavoro e magari di un po’ di animal spirit liberati e che utilizzi modalità di comunicazione nuove e se possibile meno corrotte. Certamente non è cosa facile ma almeno qui abbiamo un vantaggio: Salvini, come il clown di IT si nutre di paure e sfighe e se si racconta in modo credibile dello sviluppo e del lavoro che l’Italia già esprime e ancor più potrebbe esprimere, non sa che dire. La prosperità è la kriptonite dei populisti.

3.     Il Villaggio Globale deve stare un po’ in soffitta. Dagli anni ’90 la modernità delle leadership progressiste e democratiche si è incarnata quasi sempre in diverse versioni del governo dei processi di globalizzazione, considerati tanto ineluttabili quanto positivi. Oggi questa idea è in crisi come le stesse leadership progressiste e democratiche. L’alternativa a Visegrad non è e non può essere il modello Google, il passato di verdure apolide senza cultura e senza identità. Serve una versione democratica dell’interesse nazionale da spendersi in Europa e dell’interesse locale da spendersi in Italia, una generazione Erasmus che torna a Matera e lavora per fare crescere il proprio territorio e la propria cultura come provincia non provinciale, società aperte ma con un senso d’identità e di interesse, senza il quale vincono le felpe Made in China di Salvini.

4.     Identità nuove per leader nuovi. Ingloriosamente tramontato un promettente Giolitti come Matteo Renzi, oggi la questione della leadership del campo progressista si pone come un tema tanto fondamentale quanto lungi dal risolversi. Personalmente considero i due candidati più accreditati, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti, profondamente inadatti per standing personale, capacità di leadership, curriculum e soprattutto visione del futuro, accomunati come sono da una non sopita nostalgia dei DS e delle tavolate dell’Ulivo. Ottime persone, per la carità, ma polli di batteria del PCI-PDS-DS e convinti che il richiamo alla sinistra valga elettoralmente e politicamente qualcosa in questo Paese e da lungi non è più così. Nuovi leader potranno uscire solo dalla frontiera del lavoro e della produzione e dal governo dei territori e speriamo non si perda troppo tempo dietro a questioni, nomi e sigle di nessuna rilevanza.

Se ci si mette a lavorare sono convinto che la minaccia di Salvini di governare quasi quanto Francisco Franco potrà almeno essere decisamente contrastata e speriamo che il ridicolo faccia la sua parte.

A proposito di ridicolo non ho parlato di Di Maio, semplicemente perché non c’è nulla da dire, a parte rimarcare la pervicacia con cui il Nostro dice quello che l’interlocutore vuole sentirsi dire. A tale proposito si vocifera che dietro la sua scrivania di Ministro dello Sviluppo economico sia appeso un poster che recita a caratteri cubitali questa massima di Marx (Groucho): “Questi sono i miei principi, e se non ti piacciono… beh, ne ho altri.”

Da - https://www.glistatigenerali.com/governo_intelligence/per-capire-e-battere-salvini-studiate-george-wallace-e-cercate-lyndon-johnson/

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