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Autore Discussione: MINA. -  (Letto 2673 volte)
Admin
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« inserito:: Marzo 14, 2010, 09:06:38 am »

14/3/2010

Quando il relativismo è un alibi
   

MINA

Continua imperterrita la civiltà degli alibi, delle scuse, delle circostanze attenuanti. Il crimine non è individuale. L’accusa diventa generica o generalizzabile e il diritto alla difesa non è più un fatto destinato a un imputato singolo. Il popolone può permettersi, nella sua voglia naturale di linciaggio, di menare bastonate a casaccio e si soddisfa di avere, comunque, impartito giustizia. I giudici, i condannati e, seppur con minore probabilità, anche le vittime tornano ai propri posti e nei loro ruoli con la netta sensazione dell’impotenza e del rammarico. Nella nebbia dell’imprecisione si sta sfogando, oggi, l’attenzione sulla pedofilia negli ambienti religiosi di qualche diocesi europea. Dove sta la novità? Di che cosa ci dovremmo preoccupare?

È soltanto un ribrezzo che continua, una nausea disperata senza vomito liberatorio. La storia e la geografia dell’intero globo terracqueo sono avvilite dalla costanza del fenomeno della pedofilia e della sua insopportabile frequenza negli ambiti religiosi. Da Pasquino a Belli, da Boston alla California, dal Brasile all’Australia, dal documentario «Sex crimes and the Vatican» al «John Jay Report», da prelati a suore, il dossier è gonfio di obbrobrio indiscutibile. Le edulcorazioni possibili riferite a condanne limitate, coperture magiche, nascondigli assolutori, rendono fumoso l’argomento. Ed ecco il colpo di genio, quello del «mal comune mezzo gaudio», della giustificazione lamentosa, delle recondite ragioni. Le mie più sentite congratulazioni. Navarro Valls avrà avuto un brivido. Nelle sue mani la cosa sarebbe stata trattata con maggiore saggezza e minor coda di paglia. Altrettanto per la questione del celibato citato quale causa prima che originerebbe il problema. Non credo che avrebbe fatto il benché minimo riferimento a questo vincolo.

È che i singoli dovrebbero capire quando stare zitti se c’è in ballo il pensiero, discutibile o no, condivisibile o no, di un capo unico e infallibile. Nei Comandamenti, tanto per rimanere da queste parti, non si fa cenno al fatto che un ladro lo sia più o meno in confronto a un altro ladro, o che un assassino sia meno assassino in base al tipo di vittima. Il pedofilo fa schifo o pena sicuri, senza alcuna relazione con i vestiti o le maschere che indossa, il suo stato anagrafico o altre bazzecole psichiatroidi. Ma il relativismo non era stato messo all’indice?

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 09, 2010, 09:14:13 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 09, 2010, 09:06:24 am »

9/5/2010

Sua maestà la Madre
   
MINA

E pensare che una volta, qualche decennio fa, nei primi Anni Sessanta, i pediatri neonatologi sostenevano fortemente la bontà dell’allattamento artificiale. Lo preferivano a quello materno affermando che fosse più controllabile nella sua composizione. E le mamme che non avevano latte si consolavano. Le nonne, però, di nascosto scuotevano la testa e dicevano: «Mah, chissà dove andremo a finire?». Adesso è molto chiaro il contrario. Il latte materno, oltre a essere una trasfusione continua di amore puro, è in assoluto il migliore alimento.
Il sottosegretario Eugenia Roccella ha promosso la campagna «Il latte della mamma non si scorda mai» per incoraggiare l’allattamento al seno soprattutto al Sud, dove è meno adottato.

E, forse, è vero che, come dice Gianni Letta che si è candidato come testimonial, dà una forza in più. «Quando esco da Palazzo Chigi la sera tardi, mi chiedo: davvero ho fatto tutte queste cose? Eppure, non sono stanco, anche se non ho più 25 anni. Quindi l’allattamento al seno lo raccomando». Mi commuove fino alle lacrime pensare al viso della mamma e alla faccina del neonato al momento della «pappa».
Lei lo nutre con tutte le sue forze perché vuole che diventi «bello e iocundo e robustoso e forte», sì, proprio come il sole di San Francesco. Grande ruolo quello della femmina. Di tutte le specie. Una volta, alla domanda: «Rinasceresti uomo?», rispondevo precipitosamente di sì. Mi sbagliavo. Niente è barattabile con la possibilità di diventare madre. Se si riescono a tenere gli occhi aperti, lo spettacolo più bello al quale si possa assistere è quello della nascita. L’uomo, ogni uomo è un evento immenso.

E l’origine di questa immensità è la speranza che si libera nell’atto stesso del parto. Certo, noi siamo sempre troppo disattenti e la società di cui siamo, nonostante tutto, figli o figliastri, favorisce e alimenta una vita e uno sguardo distratto. Ma la donna, ogni volta, è in grado di sconquassare le nostre svagatezze mostrandoci un accadimento colossale. Quello della nostra nascita, appunto.
Un atto di gloria, di umiltà trionfante che ci riporta dentro la nostalgia dell’essere creati. E insieme al nuovo individuo si origina la potenza più alta e invincibile che questa terra ci dia la possibilità di contemplare. La più grande di tutte le astrazioni e di tutti i meccanismi. Il vero, puro, sublime, commovente motore del mondo. Sua maestà la Madre.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7323&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 29, 2010, 09:12:14 am »

29/8/2010

W la solitudine (anche da morti)
   
MINA

Ci ho pensato spesso, in questi ultimi settant’anni. E se dovessi descrivere il funerale ideale, lo sognerei vuoto di dolore e di addolorati. Converrebbe aver lasciato di sé una traccia di allegria così potente da controbilanciare l’assenza. Un segno di leggerezza da consumare anche postumo. Il funerale deserto andrebbe proprio bene. Non sono fra quelli che piagnucolano: «Ricordati di me». Dimènticati di me, piuttosto, ma, soprattutto non soffrire. Mi farebbe più male del morire. Ma come si fa? O muori così vecchio, ma così vecchio che le persone che ami si sentirebbero estenuate dal vederti ancora lì. Insomma, ne avrebbero avuto più che a sufficienza. Oppure, sempre nel desiderio di non lasciare dolore dietro di sé, tramutarsi, se non lo si è già, in un essere detestabile e malvagio. Così perfido da far tirare un sospiro di sollievo a chi resta. E poi ho poca voglia che l’uomo continui a concedere alla morte la di lei capricciosa, ostinata supremazia.

E che magnifichi se stessa in consessi preficanti dall’organizzazione paramilitaresca. Se proprio fosse necessario, lascerei sfilare dietro il feretro i volontari dell’addio a tutti i costi. Il ricordo del beneamato dovrebbe essere sparpagliato il più possibile e senza le dimensioni strette e obbligatorie di una cerimonia con corteo semiordinato. Incrocio di sguardi interrogativi e rumorino di suole che strascicano ghiaietta e pensieri a caso. Ma la convenzione vuole che alla morte si debba rispetto e al morto onore e saluti. Così, oggi, appare molto sconveniente una preghiera funebre univocale del celebrante. Si è stabilito che sia sempre preferibile un rito con ondulazione corale, abbastanza nera. Un rito composto, religioso comunque. La parola deve essere multipla. Le strampalate regole tramandate della pietas sembrano avvertirci che il de cuius, solo dopo la morte, non debba essere solo. Strana pietas. Da morto, dicevo, qualcuno deve pure piangerlo. Vanno bene legionari smaniosi di macabri eroismi così come prezzolati professionisti del piagnisteo. Don Marcello Colcelli, della parrocchia di Sant’Egidio all’Orciolaia, si è stancato dei funerali deserti. E ha deciso di varare la «compagnia dei defunti». Invita uomini e donne alla supplenza, nel caso non ci fosse nessuno a soffrire intorno ad una bara. Il vantaggio della solitudine non deve essere concesso mai. Allegra oggi, vero? Ridanciana, direi.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7760&ID_sezione=&sezione=
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