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Autore Discussione: Viaggio a Phnom Pehn tra bellezza e disperazione  (Letto 1876 volte)
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« inserito:: Febbraio 08, 2009, 06:18:01 pm »

Viaggio a Phnom Pehn tra bellezza e disperazione

di Michele Lupo

Lungo fiume a Sisowath Road, dentro uno sfondo di luce ocra, che sembra già filtrata per un film, cui il grigio vapore del fiume aggiunge ondate di riverbero scalfite dall’indaffararsi rilassato di centinaia di persone, di tutte le età - gente che passeggia, perde tempo, mangia. Perlopiù nel sud-est asiatico mangiano a qualsiasi ora, quando hanno fame, quando ne hanno voglia. Alcuni palleggiano con uno strambo affarino di gomma, che rimbalza elasticamente e consente ai giocatori virtuosistici scambi (colpi di tacco, volèè) che nel calcio mondiale di oggi – specie nella squadra campione del mondo – difficilmente si possono gustare… E poi ragazze e donne in pigiama – pigiami indossati come completini casual. Una donna seduta per terra, che il pigiama non può permetterselo, ha accanto a sé una bilancia scassata, rimediata chissà dove: uno passa, si pesa e le lascia qualcosa. Chissà se a Napoli qualcuno ci aveva mai pensato.

Oggi è sabato, e forse per questo, nella zona orientale di Phnom Penh, la vita sembra avere la meglio. Il presente, la naturale, buddistica capacità di vivere il presente (che non è un traguardo dialettico, una liberazione che si ottiene ideologicamente come in Occidente, il risultato di uno sforzo da chierichetti di sinistra, da Breton al ’77 – per poi finire, palmare esempio di eterogenesi dei fini, con i mignottai dei reality show), il presente ha la meglio sul dramma che non ha smesso di incombere su questa terra. Da Sisowath fino ai giardini prospicienti il Palazzo Reale (quello che contiene la cosiddetta Pagoda d’Argento: poche decine di metri quadrati in cui si concentra una ricchezza materiale – fra ori, diamanti, smeraldi etc – formidabile, tanto per introdursi in questo ossimoro vivente che è la Cambogia, un raro concentrato di splendore e miseria), circondati da un impazzimento di motorini e di automobili, che in strada seguono traiettorie imprevedibili in virtù di un approssimativo codice della strada (i motorini non è raro vederli carichi di quattro, cinque persone, nei camioncini si stipano come scimmie una sull’altra a dozzine) oggi intere famigliole si stendono su stuoie colorate che alcuni vendono lì per lì, e mangiano, riso ovviamente e uccelletti infilzati dentro oli di sconosciuta provenienza e infinita cottura: piccoli uccelli rossi, la cui consistenza plastica e cromatica come di rame, o legno laccato ti fa venire per un momento il dubbio che siano statuette, e poi latte di cocco, cosce di rana, lunghissimi fagiolini crudi, cavallette, intrugli e salse multicolori. Mentre queste famigliole, che vengono dalla campagna, qualcuna addirittura dal vicino Vietnam, mangiano allegramente, fotografi avventizi le avvicinano per un ritratto-ricordo.

Un po’ distante, appena ti allontani verso la polvere dei quertieri periferici, nel puzzo insopportabile delle discariche a cielo aperto, ti imbatti in bambini che giocano con le loro ciabatte: le lanciano con i piedi, cercando di colpire quelle degli altri, o di raggiungere un punto prestabilito. Intorno, ammassi d’immondizia, ferraglia, scassume, fango.

Ecco. I bambini, le bambine cambogiane sono splendide; la loro bellezza è assoluta e non teme confronti. E colpisce, per paradosso, l’inoppugnabilità di alcuni riscontri oggettivi. Questi bambini sono i figli dei sopravvissuti ai campi di sterminio di Pol Pot. In molti vivono in mezzo alla spazzatura. I genitori, per chi li ha, possono fare poco per loro. Debbono trovare presto il modo di sopravvivere – le ultime statistiche dicono che uno su dieci non ce la fa. La malnutrizione è la regola; le infezioni anche; le possibilità di cure scarsissime. Eppure la loro bellezza lascia senza fiato; non stupisce che spesso vada perduta dopo l’adolescenza, al contrario di quanto avvenga alle donne thailandesi, per esempio, le cui condizioni di vita sono di solito diverse). Centinaia di loro invece di chiedere l’elemosina, girano per la strada cercando di vendere libri, ognuno portando a tracolla, legato con una corda, un cesto quadrato di plastica; dentro, una quindicina di libri, metà dei quali è costituito dalle famigerate guide lonely placet. I bambini, soprattutto le bambine, puntano l’occidentale in vacanza, lo avvicinano (ti sbucano davanti anche a gruppi di otto, dieci) tirano fuori la loro “Cambodie”, la loro “Burma” (Birmania o Myanmar) e con la loro tipica voce cantilenante cominciano a chiedere dieci, dodici dollari, che presto, in successivi slittamenti di tono, diventano cinque o sei – ho provato, me ne vergogno ma lo confesso, a partecipare a queste contrattazioni, anche per capire come funzionava la cosa: non scendono mai a meno di tre dollari e mezzo. Il perché me lo ha spiegato uno di loro: le comprano a tre dollari.

Giustamente, se insisti a offirne meno di quattro, ti guardano male. E ci ho messo poco per capire che l’unico modo per non riempirsi la borsa di libri inutili è evitare di guardarli negli occhi, questi bambini. Se lo fai, e poi non gli compri qualcosa, la fatica per scrollarti il senso di colpa la senti di sguincio ma inesorabile: l’oppressione dell’afa la senti sulla maglietta bagnata di sudore, da fermo. Lo sai che è sbagliato, che non puoi sganciare dollari a ogni bambino che incontri per strada, eppure sei fregato lo stesso. Quando li trovi a servire in un ristorante – dodici, tredici anni, sorridenti nella loro divisa, una camicia bianca e una gonna al posto degli stracci, in cinque o sei che fanno a gara per versarti l’acqua nel bicchiere, un posto dove stare e un pasto, almeno, al giorno - non sai più se provi rabbia per lo sfruttamento o sollievo per il fatto di non vederli per strada, o nascosti in un garage per il passatempo di avventori indigeni e non (non c’è solo il cosiddetto “turismo sessuale” - etichetta sbrigativa che i decerebrati del politicamente corretto applicano indifferentemente a situazioni diverse; anche se mentre scrivo da uno degli innumerevoli punti internet che trovi ovunque e paghi pochissimo - un dollaro l’ora o poco più, contro i 4 euro pretesi in un qualsiasi bar della Toscana! - il browser mi mostra la cronologia recente dei collegamenti: ricerche di femmine maschi più o meno cresciuti a Phnom Penh e dintorni - ciononostante occorre ricordare che in Cambogia si registra un numero altissimo di stupri sulle bambine da parte dei locali).

La domanda più angosciante è questa: quali sono i racconti con cui crescono i bambini cambogiani? Cos’è che dà forma alla loro immaginazione, li inscrive nel mondo e li prepara al futuro? Se i loro genitori hanno trent’anni, se i loro genitori nascevano sotto il regime dei khmer rossi (1975-’79; ma bombe americane prima, invasione vietnamita poi, e stragi successive da disseminare qua e là e mine diffuse ovunque e presenti ancora oggi nelle campagne) la domanda vera è: quali sono i miti fondativi coi quali si fabbrica lo spazio mentale di questi bambini? Il racconto dell’inizio – ossia ciò che dà forma ai paradigmi narrativi sui quali si modella qualsiasi vita umana – non è già, qui, da subito, un racconto di morte?

Non ci sono solo bambini, sebbene i minori costituiscano il sessanta per cento della popolazione. E’ la presenza massiccia di poveri disgraziati che non ti lascia scampo: mutilati, gente che striscia sull’asfalto, donne che portano bambini nati da poco dentro sacche lerce, a volte buttate per terra, a respirare gas di scarico e puzza diffusa di marcio, di vapori culinari sospetti, il caos che in molte parti dell’Asia non finisci di chiederti come si tenga miracolosamente in piedi.

Negli occhi dei cambogiani a volte non puoi evitare di intuire l’eco di ciò che è stato. E che non sia una pigra fisima da turista informato, che conosce il dovuto, basta passare dalla retina a un computo sommario; fare due conti. Se Pol Pot ne fece fuori un terzo (dell’intera popolazione cambogiana), se non vi fu famiglia che non venne smembrata, se non potevi che stare di qua (e renderti responsabile del genocidio) o di là (e in questo secondo caso, se non morire, vedere altri morire, o essere torturati etc); dunque, se tutto ciò è vero, è difficile immaginare che vi sia un solo cambogiano vivente, come dire, fuori della storia, che possa far parte di un’altra storia, che non abbia, quando non vissuto in prima persona l’orrore, famigliari parenti o amici che l’abbiano vissuto. Quell’orrore ti viene alla mente di continuo, a Phnom Penh, davanti agli occhi sbarrati, come fissati in una sorta di agghiacciata stupefazione di un uomo che ti serve al ristorante, ma anche in quelli di un guidatore di tuk tuk, o di una donna seduta sulla riva del fiume. Sguardi spesso impenetrabili, ossificati fra la durezza degli zigomi, appena meno allarmati di quelli fotografati che ti sfilano davanti in successione nella prigione di Tuol Sleng. E improvvisi mutismi, o altrettanto abrupti scoppi di risa – a capire davvero, non ci riesci mai.

Nella prigione S-21 di Pol Pot, per esempio, ora museo del genocidio, non ti decidi mai, fra l’ovvia necessità della testimonianza e della salvaguardia della memoria, e la constatazione che ti trovi lì, a segnare una tappa del tuo viaggio, in una catena sintattica che mette insieme il Tuol Sleng col bellissimo museo khmer costruito dai francesi – tutto di rosso, padiglioni aperti - meno di un secolo fa. C’è qualcosa che non va, in questo. O forse è inevitabile; forse è inevitabile che i cambogiani abbiano fatto un museo di una prigione e si facciano pagare per vederla – poco, a dire il vero. Eppure, la sensazione che le migliaia di fotografie di poveri disgraziati torturati e uccisi dai khmer rossi facciano parte della serie spettacolare delle immagini di un viaggio, mi inquieta assai. Quando, da insegnante, mi sono trovato dinanzi alla proposta di portare i miei studenti ad Auschwitz, ho sempre mostrato perplessità. Tempo che sia un fatto estetizzante: il viaggio in treno, la visita alle celle, non so, non mi convince. Mi dicono che in effetti ormai torme di scolaresche verbigeranti fanno il medesimo, distrattissimo chiasso ad Auschwitz come a Disneyland. Così anche l’ossario nel campo di sterminio di Choeung Ek, a 15 chilometri dalla capitale, su una strada crepata, tutta polvere e fango: mi vien fatto di pensare a questo più che altro, al fatto che migliaia di militanti e intellettualini qui da noi abbiano scambiato vicende terribili per straordinarie avventure politiche, magari da importare, modelli di quella POLitica POTenziale che quel pazzo ostentava di perseguire. Ma forse anche per questo, la contraddizione resta, e irrisolvibile: a qualcuno, vedere dal vivo le tracce di ciò che è stato può servire, come si dice, a futura memoria, e anche gli ossari necessitano di manutenzione. Nel prodotto interno lordo della Cambogia, se Angkor la fa da padrone, la visita ai killing fields (con tanto di escursioni cinematografiche e riduzione della faccenda all’indutria hollywoodiana) fa da complemento non disprezzabile. Anche la corte di storpi e mutilati dalle mine che ti aspetta davanti a quei luoghi è ormai parte di una specie di “sistema” che sta in piedi sulle proprie macerie – che di quelle macerie vive.

Paese complicato, non c’è che dire. Si dice che i cambogiani siano super-individualisti, ma lì si è fatto il tentativo più mostruoso, violento e astratto di negazione dell’individuo. Persino i matrimoni venivano imposti a caso - un altro ossimoro. E’ una fesseria, probabilmente, ma per un momento penso che solo una popolazione votata al delirio poteva dar luogo a quella stupefacente visione fatta forma e materia che è Angkor. Delirio di onnipotenza, ma delirio visionario di sicuro, grandezza impareggiabile dell’immaginazione. A essere perfidamente generosi, nel delirio criminale di Pol Pot c’era il disegno di una perfezione sociale, quale che fosse, ma insomma la fabbricazione di un sistema immanente - impossibile e perciò stesso delirante – in cui gli umani fossero ridotti con la violenza alla regola costruttiva di un disegno: gli uomini come frammenti della laterite che impasta l’Angkor Wat, inerti automi ridotti a blocchi di pietra come quelli che compongono una delle più straordinarie concezioni architettoniche della storia. Va dato atto a Pol Pot che il suo totalitarismo era, come dire, filologicamente meno esatto di quello nazista, ma di sicuro più stringente.

E di nuovo, vengono in mente i volti delle bambine cambogiane – l’eleganza naturale e inavvertita (non il frutto di una complicata sofisticazione intellettuale: insomma ragazzi, qui non c’è trucco), la leggerezza appena indolente nella camminata di corpi di morti di fame bellissimi, e ti chiedi attraverso quale filogenesi si sia giunti a tale perfezione, perché proprio qui, in questa parte di mondo. A colpire, poi, nella prigione di Tuol Sleng, è l’ossessività nomenclatoria con cui gli aguzzini schedavano le loro vittime. Le facce fotografate perlopiù sono attonite, terrorizzate; ma a volte esibiscono incongrui sorrisi, perlopiù in qualche ragazzino che probabilmente fa un ultimo tentativo di ottenere clemenza.

Non si contano le donne, colpevoli, al minimo, di essere sposate con gente malvista. Il cartellino numerato sul petto, anche loro. E i bambini, molti neppure decenni, delle cui colpevolezze sapevano solo le menti superiori di chi andava fabbricando a colpi d’ascia l’Uomo Nuovo. Le mani quasi sempre dietro la schiena; a volte invece nascoste dentro fasciature che avvolgono entrambe le braccia. Assieme ai temporaneamente vivi, i burocrati della prigione non mancavano di fotografare chi per le torture moriva prima di essere trasferito al campo di sterminio di Choeung Ek. Se a Tuol Sleng, non le celle o gli strumenti di tortura, ma la visione di quei volti, le migliaia di fotografie di morituri o già crepati per le torture (corpi mutilati, scuoiati, carbonizzati) ti lascia tutta la sera senza aprire bocca, davanti allo stupa di Choeung Ek che conserva i teschi dentro teche di vetro su più piani, davanti a questa cruda rappresentazione della morte in serie, ti chiedi non tanto se tutto questo serva a ricordare o a fare - nel caso qui specifico – trascurabile business ma una cosa forse più oziosa ma molto insistente nel suo rumore di fondo; ossia se serva ad ammonire lo spettatore o piuttosto a consolarlo, a rassicurarlo che a lui tutto questo non accadrà mai, a farlo sentire ingannevolmente migliore.


07 febbraio 2009
da unita.it
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