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Autore Discussione: VITTORIO EMANUELE PARSI -  (Letto 54240 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 11, 2009, 05:07:31 pm »

11/1/2009
 
Quelle folle imponenti
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Numeri imponenti, quelli di ieri a Milano, che fanno impallidire quelli registrati pochi giorni fa sul sagrato del Duomo. Il fatto che il teatro della preghiera collettiva con cui si è conclusa la manifestazione pro Palestina sia stato diverso, il piazzale antistante la Stazione Centrale, consente di far chiarezza almeno su una cosa. Ciò che ci colpisce non ha nulla a che fare con l’ipotetico affronto o la meno ipotetica mancanza di delicatezza verso la religione ampiamente maggioritaria in Italia (ne scriveva sulla Stampa di ieri Gian Enrico Rusconi).

No, il punto è un altro e, evidentemente, molto più importante per la civile convivenza in una società composita culturalmente e per le istituzioni doverosamente laiche della Repubblica. Il punto è che la politicizzazione delle molte decine di migliaia di individui di religione islamica presenti nel nostro Paese sta avvenendo su un tema che incorpora, nella sua storia, sessant’anni di violenza e di rabbia: talvolta latente, talvolta esplosiva. Il punto è che ciò si manifesta nel momento in cui una «tregua duratura» tra Hamas e Israele sembra essere lontana e mentre le posizioni appaiono, se possibile, radicalizzarsi ulteriormente. Il punto infine è che, in queste condizioni e su questi temi, il rischio che organizzazioni politiche affini o vicine a Hamas (e, più in generale, al mondo del fondamentalismo islamista radicale) diventino le «beneficiarie naturali» di questa politicizzazione è estremamente elevato.

È in sé un fattore positivo che i cittadini stranieri che lavorano in Italia si organizzino politicamente per far valere i propri diritti, i propri interessi e le proprie aspettative. Ma non è indifferente, rispetto alla possibilità di una convivenza non programmaticamente conflittuale, che ciò avvenga nel nome di valori di un tipo o di un altro, sull’onda di una spinta all’integrazione o di fenomeni, come la guerra, che polarizzano e aiutano a trovare le ragioni dello scontro e della diversità esibita e brandita come un’arma, invece che impiegata come uno strumento di arricchimento complessivo della società.

Le manifestazioni pro Palestina di questi giorni, che avvengono un po’ in tutto il continente, sono legittime, in questa Europa costruita sui valori della tolleranza e della libertà. E noi vogliamo che resti tale. Guai a chi, impaurito, lo dimenticasse. Bene ha fatto il presidente del Consiglio a ricordarlo concretamente, liquidando la proposta leghista di far pagare una tassa sul permesso di soggiorno, quasi in una riedizione banalizzata della «vendita delle indulgenze» di infausta memoria. Ma chi marcia e prega per i propri «fratelli nell’Islam» deve essere consapevole che la libertà non è garantita dalle regole e dal loro rispetto, ma è costruita sulle regole e sul loro rispetto. L’entità di queste manifestazioni ci ricorda anche che il mondo arabo è parte del nostro mondo, e che i governi occidentali hanno uno speciale interesse a contribuire il più rapidamente possibile al raffreddamento di questa crisi, prestando tutta la loro disponibilità alla realizzazione del piano franco-egiziano per una forza internazionale a Gaza.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 19, 2009, 03:19:18 pm »

19/1/2009
 
La tregua impossibile
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

E’ una tregua fragilissima quella che stentatamente ha preso avvio nelle ultime 48 ore a Gaza. Proclamata unilateralmente dagli israeliani, non accettata inizialmente da Hamas.

E poi, dopo qualche altra decina di morti palestinesi, nuovamente ai nastri di partenza. Al momento non sappiamo neanche se davvero riuscirà a consolidarsi, per durare quella settimana che Hamas dichiara di essere disposta a concedere: tante, forse troppe, sono le differenze sostanziali sulla sua interpretazione e sulla sua esecuzione, a cominciare dall’effettivo ritiro delle truppe di Gerusalemme. Nel luglio del 2006, giova ricordarlo, Tsahal non abbandonò le posizioni occupate nel Sud del Libano fin quando l’esercito regolare di Beirut non arrivò a rilevarla. Qui a Gaza, dove si prospetta l’intervento di una forza multinazionale apparentemente simile a quella che da quasi due anni vigila sull’attuazione della tregua tra Israele e Hezbollah, nulla di analogo può accadere.

In realtà, nonostante le molte apparenti analogie, quasi nulla di questa tregua ricorda quanto accaduto nel Sud del Libano. E, mentre forse ci accingiamo a inviare nostre truppe nell’area, sarà utile ricordarselo. Ciò che maggiormente conta, però, è che, se tutto andrà bene, avremo a disposizione una settimana per cercare di impostare qualcosa di più di un semplice cessate il fuoco tra le parti. Il conflitto divampato il 27 dicembre scorso, infatti, non è stato la conseguenza di un doppio errore di calcolo, da una parte e dall’altra, come fu per la guerra libanese dell’estate del 2006. All’opposto, sia il governo israeliano sia Hamas hanno deliberatamente scelto la rischiosa via della guerra per mutare uno status quo ritenuto da entrambi, e per motivi diversi, insostenibile. Hamas voleva rompere l’assedio economico e militare di Gaza e il proprio isolamento politico. Israele voleva interrompere definitivamente lo stillicidio di missili sul Negev e assestare un durissimo colpo a Hamas approfittando del suo isolamento all’interno dello stesso mondo arabo. Ambedue le parti hanno cioè scelto la via dell’«azzardo politico», nella speranza di incamerare un decisivo successo. Ecco perché è stato così difficile riuscire a giungere a una tregua, che non poteva semplicemente offrire un cessate il fuoco, ma deve invece creare i presupposti per un superamento dello status quo ante accettabile per entrambi le parti.

Il trascorrere del tempo, del resto, stava già modificando il quadro politico della crisi. Nelle quasi quattro settimane di conflitto Israele si è resa conto che stava erodendo quel capitale di credito e simpatia che era riuscita ad accumulare nei lunghi mesi in cui aveva pazientemente subito i continui lanci di missili Qassam e, soprattutto, il «vantaggio» concessole da Hamas con la sua denuncia unilaterale della tregua precedente e con l’inizio dell’offensiva missilistica. Da parte sua Hamas era riuscita a lucrare, giorno dopo giorno, sulle immagini di quelle vittime palestinesi innocenti rimbalzate sui circuiti mediatici internazionali, dove un solo fotogramma decontestualizzato vale più di mille analisi.

Poco importava che quelle povere vittime, uccise dal piombo israeliano, fossero state condannate a morte dalla dirigenza di Hamas, non solo consapevole fin dall’inizio dell’enorme prezzo che il popolo di Gaza avrebbe pagato all’estremismo del gruppo fondamentalista, ma che di quelle morti (e della loro esibizione) aveva bisogno come strumento di pressione sull’opinione pubblica internazionale. Proprio questa era stata l’arma strategica capace di riequilibrare gli esiti politici del conflitto. Può anche darsi che Israele abbia raggiunto «gli obiettivi prefissati», come ha sostenuto il premier Olmert, ma di sicuro la sua situazione era sempre più insostenibile di fronte a una comunità internazionale via via più irritata, e con i governi europei in apprensione di fronte alla rabbia non sempre composta delle proprie minoranze arabe e islamiche. Quali fossero questi obiettivi, non è mai stato rivelato. Ma la sensazione è che essi si concentrassero in uno solo: ristabilire il timore arabo per la capacità militare israeliana dopo il fiasco della «guerra di luglio».

Come già avvenuto in Libano nel 2006, l’Europa è oggi chiamata a contribuire al consolidamento della tregua di Gaza. È un fatto positivo, che ridà peso alla posizione europea nel cosiddetto «Quartetto» e che arriva dopo le divisioni interne delle prime ore e anche dopo che, con la sua fermezza, Angela Merkel aveva chiarito che un manicheo invito al cessate il fuoco non sarebbe stato sufficiente. Con il suo sostegno aperto alle ragioni di Israele, la Germania ha in fondo costretto lo stesso Sarkozy a uno sforzo più effettivo, più «politico», nell’area. Francia, Germania e Italia, per ora, rappresentano la pattuglia di testa di questo maggior impegno europeo per la pace nel conflitto israelo-palestinese.

A differenza di quanto finora ben fatto in Libano, qui non basterà sorvegliare l’attuazione dell’intesa. Occorrerà darsi da fare, e parecchio, per costruire le condizioni politiche per una tregua duratura, che al momento non ci sono. Sarà necessario lavorare con tutti gli strumenti a disposizione per far compiere un passo decisivo verso l’unica soluzione possibile: cioè quella riassunta nella formula «due popoli, due Stati». A tutt’oggi le posizioni estremiste di Hamas, che continua a predicare a suon di bombe la distruzione di Israele e l’espulsione del popolo ebraico dalla Palestina, rappresentano il principale ostacolo verso questo esito. Sarebbe importantissimo che l’impegno europeo a Gaza non perdesse di vista la necessità di accompagnare Hamas a rivedere questa posizione, il cui prezzo è già costato la vita di troppe vittime innocenti, tanto israeliane quanto palestinesi.
 
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 22, 2009, 03:35:01 pm »

22/1/2009
 
Un po' Lincoln un po' Reagan
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Non è stato un discorso memorabile, neppure lontanamente paragonabile a quelli tenuti da JFK (Kennedy) o FDR (Roosevelt). Ma nessuna «parola» avrebbe retto il confronto con il semplice «fatto» che Barack Obama sia divenuto il 44° presidente degli Stati Uniti, il primo nero in oltre duecento anni di storia. In fondo, è stata un’ennesima manifestazione della sobrietà che contraddistingue l’uomo.

Una sobrietà che dovrà tenere a bada, affinché, in tempi grami come gli attuali, non rischi essere percepita come rigidità. Il sorriso che ha regalato al mondo, mentre incespicava sulla formula del giuramento, fa ben sperare che non voglia seguire il suo modello, Abramo Lincoln, anche nel moralismo tristanzuolo da predicatore. D’altra parte, si potrebbe dire, il tempo delle chiacchiere è finito, e ora occorre che i fatti inizino a parlare, e che il nuovo presidente, come lui stesso ha ripetutamente chiesto, possa essere giudicato per quel che fa, e non per quel che è o incarna.

Barack Obama dovrà essere innanzitutto un gran traghettatore o, se si preferisce, essere quell’«Interpreter in Chief», che seppe essere Ronald Reagan, capace di prendere per mano un Paese scosso da una guerra perduta, da una presidenza dal prestigio dimidiato, dalla crisi economica e dagli oltraggi subiti in campo internazionale e lo rimise in piedi, nel nome degli autentici «valori americani». Potrà apparire paradossale accostare «l’era della responsabilità» obamiana a quella dell’ «edonismo reaganiano», ma, in realtà, l’uno e l’altro sono abili comunicatori e convincenti interpreti del discorso politico dei Padri Fondatori.

«Sfide inedite», e «strumenti nuovi», dunque, ma «valori vecchi», i solidi valori di quei testardi gentiluomini di campagna, che decisero di farsi americani perché restando sudditi inglesi non avrebbero potuto continuare a essere uomini liberi. Come osservava ieri Paul Berman nell’intervista realizzata da Maurizio Molinari, dopo le presidenze di Clinton e George W. Bush, più connotate ideologicamente, si torna all’antico, a quell’impasto di idealismo e pragmatismo che rappresenta la cifra più autentica (e meno imitabile) della politica americana. Coniugare sfide, strumenti e valori, e traghettare oggi gli americani oltre questo rigido inverno di crisi, come Washington traghettò le sue sparute truppe sulle gelide acque del Delaware, per andare a cogliere la Vittoria a Trenton e dimostrare al mondo, prima ancora che ai suoi connazionali, che «quando nulla più sopravviveva se non la speranza e il valore», che ancora una volta gli americani hanno saputo affrontare il pericolo e, uniti, averne ragione.

Mentre richiamava i valori della tradizione americana, il presidente Obama non ha però rinunciato a mantenere quella cifra di apertura sul mondo che lo rende un interprete unico, quasi il prototipo di un «nuovo» spirito americano, adeguato alle sfide del XXI secolo. Non si è limitato a dire con chiarezza ai suoi 300 milioni di concittadini che la ripresa economica e politica degli Stati Uniti non sarà possibile senza l’aiuto e la collaborazione di amici e alleati, «perché il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare insieme con esso».

Pur in un momento di grave crisi economica e finanziaria, quando una parte cospicua delle risorse e delle attenzioni del Paese sarà assorbita dai malanni interni, ha voluto ribadire come la leadership americana può essere riaffermata solo a condizione che sappia mantenere la sua vocazione universale. Perché un’America confortata nei suoi valori più autentici può tornare a essere un «faro sulla collina», ma solo un’America aperta sul mondo può riuscire a riscoprire la sua anima profonda, quella che l’ha resa, agli occhi del mondo, la «terra dei liberi e dei valorosi». Non Washington, né Lincoln: ma di sicuro Franklin Delano Roosevelt, il vero architetto delle istituzioni che hanno fatto giustamente definire il ’900 come «il secolo americano», avrebbe potuto sottoscriverle, se non addirittura pronunciarle.

Un programma ambizioso, quello di Obama, come necessariamente dev’essere per poter tentare di sconfiggere una crisi che è insieme economica e di fiducia, e per la cui realizzazione ha chiesto innanzitutto la collaborazione, l’impegno di ogni cittadino americano. Chissà. Forse l’ha fatto per quella straordinaria abilità politica che ha dimostrato di avere così rapidamente accumulato. A noi piace pensare che, più probabilmente, l’abbia fatto nella consapevolezza che, in democrazia, ciò che è davvero cruciale non è né la denuncia dei problemi, né l’individuazione delle tante possibili soluzioni. Ma la capacità di decidere a quale legare la propria fortuna e di raccogliere il consenso necessario a trasformarla da programma in realtà, da parole a fatti.
 
da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Febbraio 05, 2009, 10:25:24 am »

5/2/2009
 
I due volti di Barack
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

Sono almeno due le cose che colpiscono, e non certo positivamente, nell’apprendere la notizia che l’«America di Obama» continuerà con le «rendition», il programma che prevede la possibilità di arrestare ed eventualmente detenere segretamente all’estero i sospetti terroristi. La prima riguarda il Presidente e, in particolare, la coerenza tra le sue decisioni e i principi in nome dei quali è stato eletto e ai quali fa ampio ricorso nella sua comunicazione prima e dopo la vittoria; la seconda l’atteggiamento nei suoi confronti da parte degli osservatori, in particolar modo di quelli liberal. Potremmo definire l’una e l’altra come le due facce di una sorta di sindrome del «doppio standard», per cui il giudizio sull’accettabilità o meno di una qualunque pratica dipende esclusivamente o prevalentemente da chi la attua e non dalle caratteristiche proprie dell’azione.

E così, se ad arrestare l’imam di Milano Abu Omar, e a spedirlo in Egitto per «ammorbidirlo un po’», è la Cia di Bush si grida allo scandalo, ma se domani un’analoga operazione viene compiuta dal nuovo «potere intelligente» appena insediato alla Casa Bianca allora è tutta un’altra cosa. Certo, l’amministrazione assicura che queste operazioni saranno eseguite in «maniera diversa», che le detenzioni avranno durata limitata e che si chiederanno garanzie ai governi dei Paesi in cui i sospettati verranno inviati affinché essi non vengano torturati. Tutto ciò assomiglia però al massimo a una brutta «lettera di manleva morale», utile per scaricarsi la coscienza o, più prosaicamente, per evitare di dover mentire, con il rischio, magari, di finire nelle maglie di una possibile procedura di impeachment. In fondo l’attuale segretaria di Stato è pur sempre la moglie di quel Presidente che tali pratiche le ha autorizzate nel 1993 e che sotto impeachment c'è quasi finito.

Alla fine, almeno su questo punto, è stato più trasparente George W. Bush, che con la sua retorica dell’America sotto assedio e la sua logica di guerra giustificava le «rendition» e Guantanamo in nome dell’emergenza. Ma chi ha denunciato, opportunamente, quella logica e quella retorica, e ha impiegato ben diversi registri comunicazionali, invitando l’America e il mondo a credere in un cambiamento non solo di amministrazione e di stili o comportamenti, ma addirittura di un’epoca (l’epoca della responsabilità) dovrebbe andarci un po’ più cauto. O per lo meno evitare il ridicolo, ricordandosi che anche l’apertura di Guantanamo era stata concepita «su base transitoria».

Ma tra le tante qualità del virtuoso Obama e del suo staff sembra che l’autoironia e il senso dell’umorismo difettino un po’. Basti pensare all’involontaria comicità che oggi colpisce l’autocertificazione di «sana e robusta costituzione etica» che l’allora «Presidente eletto» aveva chiesto ai suoi futuri collaboratori di firmare, e che aveva procurato qualche imbarazzo a Hillary Clinton. Proprio lo staff si sta rivelando essere assai meno virtuoso di quanto era lecito aspettarsi: che nel «dream team» dell’era della responsabilità, ardentemente volto a ristabilire l'equità sociale, saltino fuori continuamente evasori fiscali e contributivi non è certo un bello spettacolo. Di questo passo finiremo per rimpiangere la moralità dei tempi di Bill Clinton, il quale in fondo si limitava a correr dietro a qualche sottana.

Chiudere Guantanamo e autorizzare la prosecuzione delle rendition e delle detenzioni segrete all’estero si direbbe davvero incoerente. A meno che non si consideri che, mentre è ormai ampiamente ostile a Guantanamo, il pubblico americano sembra invece molto meno interessato a procedure che riguardano innanzitutto cittadini stranieri e rapporti con i governi stranieri: alcuni dei quali (come l’Egitto) sono ben contenti di poter mettere le mani su potenziali dissidenti, mentre altri (come quelli europei) ritengono illegali le modalità di quegli arresti e di quelle detenzioni.

Che dire poi del fatto che la stessa Human Rights Watch, vero e proprio mastino dei diritti umani durante l’amministrazione Bush, si sia ora trasformata in un grazioso barboncino (come il Daily Mirror definì Blair ai tempi di un tempestoso G8 nel luglio 2006), ammansita al punto di prendere per oro colato le giustificazioni presentate dallo staff presidenziale. Il sospetto, che speriamo possa venire fugato al più presto, è che, in America come in Italia, il mondo liberal si consideri «antropologicamente superiore» ai cowboys della destra repubblicana, dimostrando di essere afflitto da quel pregiudizio (a proprio favore) così brillantemente descritto da Luca Ricolfi in alcuni lavori tanto documentati quanto micidiali sulla sinistra italiana.

I problemi che Obama deve affrontare sono tanti e complessi, a cominciare dalla crisi economica che rischia di far saltare il contratto sociale anche in America. Sarebbe quindi ingeneroso non concedergli il beneficio d’inventario, come a lungo venne riconosciuto a George W. Bush: che dovette misurarsi con l’«inaudito» dell’11 settembre, non riuscendo a dimostrarsi all’altezza di un compito così tremendo. Non possiamo che augurare a Barack Obama miglior fortuna del suo predecessore, confortati nella speranza dalle qualità che l’uomo sembra davvero possedere. Ma, proprio a fronte della gravità degli impegni, dell’enorme investimento emotivo che ha circondato la sua elezione e delle aspettative che il mondo nutre su di lui, l’ultima cosa di cui il Presidente ha bisogno è un coro di adulatori acritici.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 26, 2009, 03:42:11 pm »

26/2/2009
 
Possiamo farcela ma come?
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
A fronte di una crisi economica che continua a configurarsi sempre un po’ peggiore e un po’ più lunga della più aggiornata delle previsioni, il presidente degli Stati Uniti sembra aver scelto una strada - innanzitutto di comunicazione ma non solo - orientata a sottolinearne l’aspetto grave eppure contingente. La notte che ci aspetta, è questo il senso del suo primo Discorso sullo stato dell’Unione, sarà buia e lunga ma, quando tornerà a sorgere, il sole illuminerà un’America rigenerata dal punto di vista non solo finanziario, ma nella struttura industriale, nello spirito e negli equilibri sociali. Per ricorrere a uno slang pokeristico, piuttosto che «vedere» le carte della crisi, Obama «rilancia»: cerca di riaccendere la fiducia degli americani (ai minimi storici da quando è rilevata sistematicamente) richiamando quella capacità di osare, quello spirito indomito che per tutta la campagna elettorale ha cercato di ridestare nei concittadini. Obama sta dicendo agli americani che la crisi è ancora peggiore di quanto sembri, perché colpisce un sistema che aveva perso progressivamente energia. Perché negli anni della grande abbondanza, in quelli di Clinton e persino in quelli di Bush, il Pil è cresciuto attraverso l’indebitamento, la finanziarizzazione, e la sostanziale deindustrializzazione dell’economia a stelle e strisce. Troppa dell’industria rimasta nel Paese è «vecchia» e poco competitiva rispetto a quella dei concorrenti. Per paradosso, solo il comparto legato alle commesse del Pentagono, all’aerospaziale e alla ricerca di nicchia più avanzata è veramente all’avanguardia.

E così il presidente si assume, auguriamoci consapevolmente, un rischio enorme: di «scommettere» sulla crisi, di coglierne l’aspetto di rottura con un modello che ritiene sbagliato e di sfruttarne i potenziali aspetti di rigenerazione. I 700 miliardi di dollari già stanziati (anche dalla precedente amministrazione) non saranno sufficienti. Ne serviranno molti ancora di più. Ma a questo punto l’obiettivo deve essere diverso dal semplice ripristino dei precedenti equilibri economici. E per ogni dollaro che va alle banche (grandi finanziatrici della sua campagna elettorale) e all’industria automobilistica (i cui lavoratori sindacalizzati hanno votato in massa per lui), altri ne devono essere ritrovati: per rilanciare l’istruzione e riformare ed estendere i servizi sanitari. Quale economia il sole tornerà a illuminare tra due o tre anni, alla fine della grande crisi, dipenderà dalle scelte politiche che l’amministrazione farà. In questa impostazione la chiarezza sulle scelte, tanto più se di rottura, dev’essere massima. E invece qui è ancora nebbia fitta.

Dire che i mercati hanno preso male l’indeterminatezza presidenziale è un garbato eufemismo. In molti si chiedono se la strategia di Obama - forte in termini comunicativi, per il l’impatto ideale, per la capacità di evocare il sogno in tempi da incubo - sia anche realistica. «Hope and change» non è solo un fortunato slogan elettorale: esprime un bellissimo concetto. Però, malauguratamente, «hope and change» risuona diversamente nello «studio ovale». La crisi è gigantesca e Obama deve dimostrare di avere poche idee chiare per fronteggiarla. Roosevelt ci mise tre anni per trovare la ricetta giusta che fu il New Deal. I tempi sono cambiati dagli Anni 30. E, d’altra parte, un nero non sarebbe stato neppure eletto sindaco negli Anni 30. Obama non avrà tre anni, ma al massimo tre mesi per convincere tutti quelli che hanno investito così tanto su di lui. Giusto o sbagliato che sia, «è la politica, bellezza».

Obama è stato eletto anche perché ritenuto più idoneo di McCain a domare l’orso. Ora deve iniziare a farlo. Deve spiegare quali sono le due, tre priorità che ha identificato, con quali strumenti intende affrontarle, con quali risorse e a spese di chi. È il «commander in chief», e sa bene che nessuna scelta politica importante può accontentare tutti. Anzi. Il plauso universale, in genere, testimonia solo che tutti sono convinti di aver scampato lo scomodo ruolo di «involontari finanziatori dell’interesse generale». Ma se nessuno «paga», nessuno «incassa». Il giudizio positivo sulle politiche del New Deal rooseveltiano l’hanno dato gli storici, dopo. Ma i contemporanei si accapigliarono eccome su quelle politiche, gridando all’«involuzione autoritaria» della presidenza e al «rischio di socialismo». Quello scontro furibondo fu il miglior testimone che quelle politiche stavano incidendo la carne viva del tessuto finanziario, economico e sociale, distruggendo privilegi e realizzando nuovi diritti: cioè erano vere «riforme». Al momento, sono ancora troppi i plaudenti perché si capisca dove s’intendono trovare le risorse necessarie alle politiche prescelte. È il momento di passare decisamente all’azione, signor Presidente, di andare oltre alla pur importante rassicurazione sul fatto che «possiamo farcela», per spiegarci un po’ meglio «che cosa» possiamo fare. Coraggio.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Marzo 05, 2009, 09:29:31 am da Admin » Registrato
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 05, 2009, 09:28:51 am »

5/3/2009
 
Il mercato ci fa uguali
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 

A leggere certi commenti, come ad ascoltare talune dichiarazioni, sembra quasi di respirare un’aria di mesta rivincita nei confronti del mercato, accusato di essere un meccanismo che, quando va bene, alimenta l’ineguaglianza e le vanità, e quando va male accentua la prima e mostra il carattere fatuo delle seconde. Si insinua il dubbio che il mercato non sia il luogo in cui si manifesta la «distruzione creatrice» del capitalismo ma, al contrario, abbia in sé una tendenza dissipatrice, che deve essere permanentemente regolata dall’esterno.

Normalmente la difesa della «virtù» del mercato avviene associandolo alla sua funzione di scudo, insieme con la proprietà privata, della liberta politica e, in termini di efficienza, ricordando che, in ambito economico, vale per il mercato e il capitalismo quel che è stato osservato per la democrazia in ambito politico: è la peggior forma di organizzazione economica a parte tutte le altre. Nessun socialismo (e neppure nessun colbertismo) riuscirà mai a eguagliare l’efficienza del mercato.

Per la semplice ragione che esso si basa sulla semplice constatazione che non esiste alcun giudice illuminato migliore del singolo individuo nel determinare quale sia la propria scala di priorità nella soddisfazione dei suoi bisogni. Ma difendere il mercato in nome della libertà è operazione fin troppo facile. Ciò su cui si riflette meno è invece il ruolo che il mercato gioca per consentire che l’eguaglianza sia qualcosa di più che un semplice enunciato astratto.

Potrà apparire paradossale che il mercato, che si fonda sulla disuguaglianza per fornire incentivi all’azione economica e che produce disuguaglianza in forza della diseguale qualità del contributo di ognuno, possa essere «difeso» in nome dell’eguaglianza. Ma il paradosso è solo apparente. L’eguaglianza è un principio politico fondamentale, a cui solo i totalitarismi di destra e il conservatorismo preilluminista e antimoderno si sono opposti apertamente. All’azione politica, e non a quella economica, spetta primariamente di riallineare le posizioni tra i membri della comunità e, in un’ottica liberale, di garantire ai cittadini non solo un trattamento eguale a prescindere dalle condizioni di ricchezza o dalle abilità e competenze possedute, ma persino condizioni eque di partenza anche nella competizione economica.

L’eguaglianza è un concetto antico, tipico delle democrazie, ma non è loro esclusivo appannaggio. I sistemi aristocratici, tipicamente, prevedevano l’eguaglianza tra «i migliori». E le stesse democrazie dell’antichità sono delle «aristocrazie allargate», egualitarie al punto che le cariche politiche potevano essere estratte a sorte, perché persino la virtù era supposta essere identica tra i pochi che potevano vantare il titolo di cittadino.

A questa eguaglianza dai tratti «esclusivi», le moderne democrazie hanno contrapposto un’eguaglianza effettivamente «inclusiva». Questo passaggio, indubbiamente positivo, ha finito però col fare sì che, nella vita quotidiana di gran parte dei cittadini delle democrazie liberali, il valore dell’eguaglianza fosse assai poco sperimentabile, limitato al diritto di voto e all’eguaglianza di fronte alla legge. Ciò che ha cambiato radicalmente le cose, facendo dell’eguaglianza un dato diffuso nella vita quotidiana di centinaia di milioni di individui delle classi non privilegiate, è stato in realtà il mercato di massa. È il successo del mercato di massa che ha reso le classi popolari sempre meno distinguibili da quelle «agiate», a partire dai consumi, innanzitutto, elevando in maniera inimmaginabile il loro tenore di vita, schiudendogli la praticabilità di desideri prima preclusi: e questo resta vero nonostante il fatto che negli ultimi decenni la ricchezza abbia conosciuto una nuova polarizzazione.

Così, chi oggi invita al pauperismo, alla sostituzione dei consumi e a una sobrietà non certo intesa come eleganza e ragionevole distacco dal superfluo, o chi si erge a triste profeta della «decrescita» come soluzione alla crisi economica, o favoleggia di arcadie economiche perlomeno improbabili, in un pianeta sovraffollato di viventi, dovrebbe ripensare a com’era l’Italia di inizio Novecento, guardare le foto dell’Archivio Alinari, ricordarsi dei tempi grami in cui «il popolo» si riconosceva persino dall’odore. E soprattutto, dovrebbe ricordare che se domani saremo più poveri saremo anche meno eguali: perché, come la storia insegna, l’eguaglianza non alligna nella miseria.

da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Marzo 09, 2009, 10:32:00 am »

9/3/2009
 
Trappola iraniana per Obama

 
VITTORIO EMANUELE PARISI
 

Può darsi che la strategia di Bush incentrata sulla necessaria interdipendenza delle varie crisi del «Greater Middle East» fosse troppo ambiziosa, ma la sensazione è che l’attuale amministrazione stia optando per un frazionamento molto rischioso, che condurrà gli Usa a giocare una serie di battaglie tattiche, lasciando all’Iran il privilegio di muoversi strategicamente sui diversi scacchieri subregionali. Con una mossa audace, ma forse poco lungimirante, Hillary Clinton ha invitato l’Iran a partecipare a una conferenza di pace sull’Afghanistan da tenersi entro la fine del mese.

Anche nel momento più buio della crisi irachena, timidi tentativi di approccio alla repubblica islamica erano stati messi in atto. Senza gran successo, peraltro, al punto che il miglioramento della situazione in Iraq era arrivato dal surge e dalla politica di apertura ai leader tribali della minoranza sunnita, entrambi voluti dal generale Petraeus. Nel caso afghano, si parte da un presupposto corretto, il comune interesse degli alleati della coalizione e degli iraniani a sconfiggere i talebani, ma si sottovaluta la partita strategica che Teheran sta giocando con lucida coerenza da anni.

Se l’interesse iraniano a una sconfitta dei talebani in Afghanistan e Pakistan è evidente, molto meno chiaro è quale contributo potrebbe fattivamente apportare l’Iran alla pacificazione della regione.

I Paesi arabi sunniti, infatti, sono tutt’altro che favorevoli alla prospettiva di un qualche riconoscimento della leadership iraniana nella regione. E quanto poco velleitaria fosse la visione del Greater Middle East, lo dimostra uno sviluppo di solo 48 ore fa: il Marocco ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran dopo l’ennesima minaccia lanciata da Teheran all’indipendenza del Bahrein, definito una «ex provincia iraniana». Quasi le stesse parole con le quali Saddam Hussein liquidò la sovranità kuwaitiana prima dell’invasione del 1990, che scatenò la guerra del Golfo.

Tutt’altro che dubbio, invece, è quale ruolo la teocrazia iraniana stia giocando nell’altra grande crisi mediorientale, cioè quella israelo-palestinese, dove si frappone frontalmente alla ripresa del processo di pace, al punto da essere stato invitato da Abu Mazen a non intromettersi negli affari dei palestinesi. L’Iran non è solo uno dei maggiori finanziatori di Hamas ed Hezbollah, è anche uno dei principali avversari di qualunque riavvicinamento tra Damasco e Gerusalemme e di ogni ipotesi di normalizzazione tra Libano e Israele. Ma soprattutto, come è stato ribadito dai vertici del regime schierati al gran completo appena pochi giorni or sono, fa del non riconoscimento del diritto all’esistenza di Israele un’arma fondamentale della propria politica estera. Ed è molto improbabile che essa possa essere abbandonata, poiché è la via attraverso la quale il regime rivoluzionario iraniano cerca di conquistare i cuori e le menti delle masse arabe, aggirando i loro governi (ritenuti asserviti all’Occidente), e facendo passare in secondo piano la natura sciita e non araba di chi tanto rumorosamente la agita.

Simili considerazioni sarebbero sufficienti a spingere Obama e Hillary Clinton a una maggior prudenza, prima di cadere nella «trappola iraniana». Conviene alienarsi larga parte del mondo arabo sunnita per compiacere Teheran? E in cambio di che cosa? Resta poi il dubbio se l’attuale amministrazione sarebbe davvero in grado di mantenere una simile politica di fronte alle pressioni che inevitabilmente Israele metterebbe in campo per spingere gli Usa ad abbandonarla, lasciando gli alleati europei col classico «cerino in mano».

Ovviamente, il fatto che l’Iran sia reticente sui propri programmi nucleari, sulla cui esistenza ha mentito per anni in aperta violazione del Trattato di non proliferazione da esso liberamente sottoscritto, e che ormai sia fortemente sospettato di essere a un passo dal raggiungimento di una capacità nucleare militare, non fa che aggiungere dubbi circa la saggezza di questa nuova fase della politica americana. In questo caso, paradossalmente, è l’Iran che sembra essere rimasto intrappolato nella sua stessa tela. Concepito come uno strumento per asseverare le proprie pretese di leadership o, quantomeno, per vedere riconosciuto il proprio ruolo di potenza regionale, il programma nucleare rischia invece di essere il maggiore ostacolo al conseguimento di un simile risultato. Proprio ora che in molti sarebbero pronti a mettere la buona volontà iraniana alla prova, la sua presunta esistenza rende sostanzialmente impossibile il raggiungimento di un fine strategico lungamente perseguito.

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« Risposta #22 inserito:: Marzo 22, 2009, 10:23:09 am »

22/3/2009
 
Lo scandaglio di Barack
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
In poco più di 24 ore la Guida suprema della Repubblica islamica ha gelato le profferte di apertura americane. A Washington sono subito aumentate le critiche repubblicane per l'inusuale iniziativa di Obama, con paralleli più o meni espliciti e velenosi alla naïveté di Jimmy Carter. In realtà, la durezza e la rapidità della reazione di Khamenei lasciano supporre che, in casa iraniana, il videomessaggio qualche crepa l’abbia prodotta. Se accantoniamo le polemiche politiche di corto respiro, nelle parole di Obama possiamo rintracciare tre temi: la ricerca di interlocutori possibili all'interno del circuito politico «legale» della Repubblica islamica; l’offerta da parte di Washington di abbandonare una politica iraniana inchiodata al regime change; la rassicurazione dei dirigenti arabi che la nuova offensiva diplomatica verso l’Iran non avverrà a scapito del mondo arabo e sunnita.

Con una mossa audace, ambiziosa e non priva di rischi, Obama ha cioè deciso di provare a prendere il toro iraniano per le corna, e verificare quale sia lo spazio effettivamente a disposizione per la ricerca di un accordo regionale complessivo con la teocrazia di Teheran. Da decenni infatti l’Iran alimenta due immagini contrastanti eppure entrambe vere. Da una parte quella di un paese dal circuito politico interno estremamente articolato, per nulla monolitico e tutto sommato espressione di una società molto aperta e differenziata. Dall’altra, quella di una politica estera coerente, ma sostanzialmente incompatibile sia con gli interessi occidentali sia con il rafforzamento della stabilità regionale desiderata a Riad, al Cairo e a Gerusalemme. Per dirla in maniera molto sintetica, alla ricchezza e alla vivacità del dibattito politico interno iraniano non sembra corrispondere un’articolazione altrettanto imponente delle linee di politica estera.

Una strada non facile
Rivolgendosi direttamente agli iraniani, Obama cerca di capire se, nell’ambito del circuito politico «legale» iraniano, esistono (e quanto pesano) attori che sulla politica estera del paese possano avere posizioni diverse da quelle fin qui ostentate dal regime e offre loro una sponda. È una strada lunga e per nulla facile, che però deve essere tentata, considerate le nubi nerissime che si stanno addensando sulla regione. Da qualche tempo, ormai, i rapporti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica sembrano essere più pessimisti di quelli della National Intelligence Agency. È una curiosa inversione, che illustra la preoccupata consapevolezza americana di non avere troppe frecce al proprio arco (alternative a un pericolosissimo intervento militare israeliano o congiunto), qualora l’Iran fosse davvero in procinto di raggiungere una capacità nucleare che nessuno sinceramente crede sarà solo civile. Quella nucleare è una delle politiche che l'Iran deve essere indotto ad abbandonare, insieme con l'altra pericolosissima, riassumibile nel sistematico sabotaggio di una pace tra Israele, Palestina e mondo arabo fondata sulla formula «due popoli, due Stati». Washington non chiede da subito l’accantonamento della più becera retorica anti-israeliana, né l’immediata e definitiva rinuncia ai progetti di grandezza nucleare, anche se, ovviamente, fa dipendere dallo scioglimento di questi due nodi il raggiungimento di un accordo complessivo con l’Iran. Vuole però capire se, nell’attuale circuito politico della Repubblica islamica, c’è qualcuno capace di raccogliere davvero il segnale inviato con il video di Obama.

Un video usato come un ecoscandaglio, che prova a sondare le profondità della politica iraniana alla ricerca di forme di vita politica finora non conosciute. Questo implica - ed ecco il secondo punto - la disponibilità americana ad accettare la teocrazia per quello che è, mettendo da parte ogni velleità di cambiamento di regime indotto o favorito dall’esterno. Tutto ciò suonerà poco «liberal», ma in realtà investe sull’ipotesi che, allentando la pressione esterna, le dinamiche interne del rapporto istituzioni politiche-società possano lentamente e naturalmente evolversi nella direzione di una progressiva liberalizzazione del regime.

Un segnale al mondo arabo
Infine, e non meno importante, c’è un ulteriore chiaro segnale al mondo arabo, la cui dirigenza è estremamente inquieta di fronte a un possibile riavvicinamento tra Teheran e Washington, tanto più dopo gli innegabili vantaggi ottenuti dall’Iran grazie alla guerra irachena, alle campagne israeliane di Libano e Gaza e al ventilato coinvolgimento iraniano nella soluzione del rompicapo afghano. Solo alcuni giorni fa, i sauditi avevano fatto ufficialmente sapere che il loro «piano» non sarebbe stato sul tavolo «per sempre», ricordando all’America che la ricerca di un riavvicinamento con l’Iran non avrebbe dovuto significare l’inizio di un’inaccettabile egemonia persiana e sciita sugli arabi sunniti. La partita continua a restare complicata e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma almeno, per ricorrere a una metafora rugbistica in omaggio al «Torneo delle 6 Nazioni», per la prima volta dopo tanti anni siamo tornati a giocare «nei loro 22».

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« Risposta #23 inserito:: Aprile 03, 2009, 05:31:15 pm »

3/4/2009
 
Dollari e regole
 
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Due erano i rischi principali cui andava incontro il delicato vertice G20 di ieri a Londra: la clamorosa rottura tra le posizioni anglo-americane e quelle franco-tedesche, o un accordo di facciata e al ribasso. Entrambi avrebbero prodotto conseguenze disastrose, con contraccolpi psicologici tali da distruggere in un giorno la timorosa euforia delle Borse mondiali di questi tempi, rendendo lo spettro del baratro sempre più reale.

Al di sotto degli interessi immediati e corposi dei protagonisti, e delle loro legittime preoccupazioni sul minaccioso avanzarsi di un pericoloso dissesto sociale, quella che è sembrata riemergere, nelle settimane che hanno condotto al vertice di ieri, è stata l’antica ruggine tra modello anglosassone e modello renano dell’economia di mercato.

Tale tenzone, assai fiorente fino a tutti i complicati Anni Settanta, sembrava essere andata in soffitta con la fine del decennio successivo, il crollo del comunismo e il trionfo della new economy. Non a caso la tenzone si rianima proprio ora che una nuova e assai più radicale crisi si manifesta con asprezza.

Così, alla ricetta proposta da America e Gran Bretagna, cioè i Paesi che ospitano le due più grandi piazze finanziarie mondiali, incentrata sulla priorità di rianimare il malato con massicce iniezioni di liquidità e di credito, Parigi e Berlino replicavano con l’esigenza di imporre al mercato regole nuove e rigorose, affinché non finisse col ripercorrere i medesimi errori.

Ha prevalso una soluzione di buon senso, non spettacolare di sicuro, ma allo stesso tempo la sola che potesse inviare un segnale di cauto ottimismo ai mercati: aumentare la dotazione dell’Fmi e sostenere il commercio internazionale, così da allontanare lo spettro del protezionismo. Il tutto accompagnato da misure simboliche, ma importanti, di «moralizzazione» del circuito finanziario (come il veto ai bonus per i banchieri), e dall’introduzione di un maggior controllo sulle attività degli hedge funds, alla promessa di intervenire nei confronti dei paradisi fiscali.

L’Europa, a partire dalla Germania, si è ritrovata nella rinnovata leadership francese. E questo è un bene. Certo la riunione di Londra non è stata una nuova Bretton Woods, per la quale del resto mancano i presupposti politici. D’altra parte, se è giusto sottolineare che l’assenza di regole adeguate è stata una delle cause determinanti (anche se non la sola) dell’attuale dissesto finanziario, occorre anche ricordare che sarebbe deleterio confondere la terapia di rianimazione del mercato con la necessaria riabilitazione successiva all’eventuale scampato pericolo. Comunque sia, è stato evitato che, all’indomani del vertice, ognuno vada per la sua strada, replicando l’errore capitale che trasformò la gravissima crisi del 1929 nella «Grande Depressione» degli Anni Trenta.

Il successo europeo al vertice di Londra, però, non deve farci scordare che queste assise hanno fornito anche qualche indicazione sull’assetto del sistema internazionale che potrebbe profilarsi al tramonto del sempre più imperfetto e claudicante unipolarismo americano, registrando il crescente ruolo della Cina. In tal senso, c’è da esser certi che aumenterà l’attenzione dell’America di Obama verso Pechino: una marcia di avvicinamento da cui potrebbe emergere un nuovo assetto bipolare, assai meno competitivo di quello sovietico-americano. Washington potrebbe cioè essere tentata di scommettere su un accordo preferenziale con Pechino, il cui effetto potrebbe manifestarsi appieno quando i tempi volgeranno nuovamente al bello. Nel delineare la nuova architettura internazionale, anche la Russia gioca le carte che ha, le quali non appaiono così disprezzabili: siano quelle del proprio arsenale nucleare (alla cui riduzione bilaterale Medvedev si è detto disponibile) o quelle della sua posizione di fortissimo dealer di prodotti energetici.

Se i passi intrapresi a Londra verranno confermati alla Maddalena e al prossimo G20 di fine anno, l’Europa potrà essere soddisfatta di aver contribuito a rendere più simile a sé la struttura del sistema economico globale. Ma è importante che ciò non le faccia dimenticare come essa rischi di uscire oggettivamente «ridimensionata» da vertici cui partecipano Paesi «terzi» del calibro di India o Brasile. La partita è appena all’inizio. E va oltre la riscrittura delle regole dell’economia globale. In un nuovo ordine mondiale che fosse governato da un sostanziale condominio bipolare sino-americano e, persino nell’ipotesi di un multipolarismo allargato ai nuovi Paesi emergenti e alla Russia di Medvedev, l’Europa dovrà comunque continuare a faticare e a rischiare come ha fatto a Londra, per trovare il posto cui aspira al tavolo della «Bretton Woods prossima futura».
 
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« Risposta #24 inserito:: Aprile 06, 2009, 11:56:42 am »

6/4/2009
 
Una sfida per l'Europa
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Un Obama in «gran spolvero» quello visto ieri a Praga, capace di un discorso in cui visione per il futuro, attenzione per la storia e generosità verso gli alleati europei sono riusciti superbamente a mascherare la delusione per lo scarso raccolto fatto nella prima visita presidenziale sul Vecchio Continente. Quello visto in questi giorni è stato un Obama persino troppo kennediano nei modi e nello stile, a cui dobbiamo augurare maggior fortuna di quella che arrise al suo predecessore nel portare a casa punti pesanti nelle partite che contano.

Dopo aver riconosciuto la specificità di un’Alleanza fondata su valori comuni e aver reso omaggio alla perdurante novità della costruzione europea, Obama ha ribadito la volontà di tornare a collocare gli Usa alla guida delle politiche ambientali e del disarmo nucleare. Musica per le orecchie europee, straziate da anni di retorica bushiana. In realtà, quella di Obama è sembrata anche una sfida lanciata all’Europa perché, in quanto trattata «da pari», si dimostri capace di assumere più responsabilità. A cominciare dalla questione della proliferazione nucleare. Sarebbe infatti un pericolosissimo paradosso che, mentre le superpotenze nucleari disarmano, regimi irresponsabili e più o meno paranoici si dotassero di armi atomiche e missili intercontinentali. È il caso della Corea del Nord, ma evidentemente anche dell’Iran. Ai russi e agli europei Obama ha ribadito ciò che sosteneva già Bush: lo scudo ci protegge dalla minaccia iraniana, e solo se e quando l’Iran rinuncerà ai suoi bellicosi propositi esso verrà rimosso. E tanto i russi quanto gli europei, che non amano lo scudo, possono fare molto per esercitare maggiori pressioni su Teheran.

La scommessa di Obama è la stessa, con i russi come con i cinesi, con gli iraniani come con gli europei: cambiare i toni e talvolta apportare correzioni tattiche alla rotta, ma senza deflettere rispetto agli obiettivi. Agli europei in particolare Obama offre rispetto e attenzione, ma in cambio chiede all’Europa di dimostrare di essere cresciuta e di essere pronta a giocare un ruolo a tutto tondo, anche sulla sicurezza e in Afghanistan. E qui cominciano le dolenti note. A fronte della richiesta Usa di più truppe combattenti da parte degli alleati, quello che ha ottenuto è stato un incremento di addestratori e ausiliari di vario tipo e «a tempo determinato». Voleva soldati, gli si manderanno poliziotti, crocerossine e panettieri con un contratto che scadrà con le elezioni afghane e impicciati dai soliti caveat. Risposta un tantino incongrua, soprattutto quando proviene da governi che schierano l’esercito nei parchi cittadini per scoraggiare scippatori e malintenzionati, ma che a quanto pare ritengono che nell’Helmand e nel Farah, dove marines americani e soldati italiani combattono una vera guerra, l’apertura di qualche commissariato sia sufficiente per sconfiggere le milizie talebane.

Al di là della legittima soddisfazione per come si è concluso il G20 londinese, l’Europa corre un serio rischio: che il tavolo del futuro ordine mondiale sia di foggia più europea, ma non preveda una sedia per l’Europa. È l’Afghanistan a rappresentare il vero torture test sulla serietà delle ambizioni europee e sulla capacità di diventare un fornitore di sicurezza collettiva. Come abbiamo sostenuto altre volte, una sconfitta a Kabul non segnerebbe solo la relativizzazione dell’importanza della Nato (e di quella degli alleati europei agli occhi degli Usa), ma renderebbe molto più arduo l’emergere di quello scenario multipolare che è il solo nel quale l’Europa può sperare di avere un posto. L’alternativa sarebbe un bipolarismo sino-americano, meno conflittuale di quello Usa-Urss ma, proprio per la natura post-ideologica che lo caratterizzerebbe, anche molto più pervasivo e, alla fin fine, opprimente per tutti gli altri. Non potremmo, per intenderci, arricchirci e farci gli affari nostri mentre le nuove superpotenze si minacciano a vicenda, ma rischieremmo di divenire tributari del nuovo con-dominio planetario. È anche per scongiurare questo pericolo che, in quanto europei, dobbiamo vincere in Afghanistan. E la sfida afghana, proprio in termini di sicurezza, è alla nostra portata. Perché mentre l’Europa non può illudersi di far da sola per garantire la propria sicurezza nei confronti della superpotenza nucleare con la quale confina, può invece giocare un ruolo decisivo in un conflitto convenzionale, per quanto asimmetrico, come quello afghano.
 
da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Aprile 15, 2009, 09:05:30 am »

15/4/2009
 
Caraibi duemila

 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Come ai tempi in cui i vascelli di Sua Maestà davano la caccia a pirati e bucanieri tra le coste del New England e quelle dei Caraibi, così la Us Navy pare aver iniziato la propria guerra contro i pirati che infestano il Corno d’Africa. Apparentemente la sproporzione delle forze non dovrebbe lasciar dubbi sull’esito della lotta: la Marina americana vale, da sola, quanto le 16 flotte inseguitrici messe insieme, una proporzione incredibile, se si pensa che quando Britannia governava le onde, il Primo Lord del Mare si accontentava di un rapporto decisamente meno favorevole. Paradossalmente, è proprio la gigantesca potenza della flotta statunitense a costringere Washington a una reazione dura ed esemplare, tanto più in tempi di tagli di budget come gli attuali, durante i quali sarebbe difficile per gli ammiragli del Pentagono giustificare ai contribuenti l’imponente spesa per portaerei, caccia e aviazione imbarcata, qualora un pugno di straccioni del mare potesse continuare impunemente ad abbordare navi commerciali a stelle e strisce. Eppure, Washington è conscia che proprio il successo dell’operazione cha ha condotto alla liberazione del capitano Phillips, potrebbe portare a una radicalizzazione del conflitto.

Quella che rischia di divampare tra i bucanieri e gli Stati Uniti potrebbe assumere i contorni di una guerra asimmetrica della peggior specie. Il pericolo è quello che, a fronte di una decisa militarizzazione dello scontro, i pirati optino per una altrettanto netta politicizzazione della natura della loro lotta e della loro stessa identità. Al momento, per quanto sia dato sapere, queste formazioni sono sostanzialmente paragonabili a poco più che gang criminali organizzate. Anche sfruttando la condizione di anarchia che dall’inizio degli Anni 90 caratterizza la Somalia, e in virtù dell’indotto economico generato dai sequestri, esse stanno però ampliando il proprio seguito presso la popolazione. In parte si spacciano come dei novelli Robin Hood, in parte sono essi stessi sensibili ai messaggi più radicali della predicazione jihadista, che chiude volentieri un occhio sulle attività criminali dei suoi potenziali accoliti, quando queste sono principalmente rivolte contro l’Occidente. E i governi occidentali hanno imparato sulle montagne afghane quanto sia pericolosa una simile miscela e come sia difficile rendere attraente una «onesta miseria», quando il partecipare all’economia criminale assicura a tanti poveracci quantomeno la sopravvivenza.

Somalia, icona degli «Stati falliti»
La Somalia, insieme all’Afghanistan, fu una delle icone dei cosiddetti «Stati falliti», che si moltiplicarono negli Anni Novanta, quando conclusasi la Guerra Fredda venne meno anche la sua straordinaria capacità di strutturare il sistema internazionale, saturandolo, e impedendo che esso potesse conoscere «spazi vuoti». Non per caso, il crollo del regime di Siad Barre, cliente a fasi alterne di sovietici e americani, fu praticamente simultaneo a quello del Muro di Berlino. Proprio nelle vie di Mogadiscio si infranse l’illusione che, tramontata l’epoca dei blocchi e in nome di una ritrovata unità d'intenti, fosse possibile restaurare l’ordine, almeno quel tanto necessario a distribuire aiuti umanitari. Oggi, l’Oceano Indiano di fronte alla Somalia è davvero simile ai Caraibi di metà Settecento. E, come allora, solo l’affermarsi di un qualche potere nell’entroterra e sulle coste può rendere quelle acque insicure per la pirateria. La quale non scomparirà, visto che i profitti sono straordinariamente alti se paragonati agli investimenti necessari per questa attività (che certo è rischiosa, ma che è concretamente svolta da chi non ha nulla da perdere, a parte una vita di stenti e senza prospettive), e potrebbe assumere proporzioni più «accettabili», simili a quelle che si registrano nello Stretto di Malacca.

Puntare sulle autorità locali
Negli Anni Novanta gli americani provarono a restaurare un potere centrale vagamente efficace a Mogadiscio. Ci hanno riprovato le Corti islamiche qualche anno fa e poi ancora gli americani, attraverso l’invasione etiope. Nulla di fatto. Forse sarebbe ora di accantonare l’idea che, almeno a breve, sia possibile restaurare un’autorità centrale effettiva in Somalia, e cercare piuttosto di favorire, o non ostacolare, il consolidamento di «autorità locali di governo», con le quali tentare poi la via di accordi basati su incentivi e punizioni così da rendere più dura la vita ai pirati.
 
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« Risposta #26 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:26:20 am »

5/5/2009
 
Teheran salverà il Pakistan
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
E’ cosa risaputa che la situazione in Afghanistan continui a essere tutt’altro che brillante, nonostante il progressivo potenziamento del contingente americano e il timido rilassamento dei caveat delle forze alleate. E sarebbe grave se il tragico evento occorso a Herat due giorni fa, con l’uccisione accidentale di una ragazzina ad opera di militari italiani, divenisse un pretesto per provocare un’ulteriore burocratizzazione delle regole d’ingaggio dei nostri soldati. Quel dramma, che ci colpisce così particolarmente all’interno del più ampio dramma afghano, deve semmai ricordarci come sia irta di pericoli e di vittime, anche innocenti, la via che porta alla stabilizzazione del Paese e dell’intera regione circostante.

Che, per arrivare a destinazione, questa via debba passare per Teheran, e vedere un qualche coinvolgimento della Repubblica islamica è un’opinione che va prendendo corpo, soprattutto in Europa e anche in forza del sostegno a favore di questa ipotesi da parte della Farnesina. Secondo i più audaci sostenitori di un maggior ruolo iraniano nella crisi afghana, in questo modo sarebbe possibile contrastare il doppio e forse triplo gioco che il Pakistan sta conducendo rispetto ai talebani.

Giova ricordare che gli studenti islamici sono una creatura dell’Isi (i servizi segreti militari pachistani, potentissimi e sostanzialmente autonomi dalle autorità politiche) e che ci volle la minaccia da parte di Bush di «portare il Pakistan all’età della pietra» per convincere Musharraf a sospendere (almeno ufficialmente) l’assistenza che i propri servizi fornivano ai talebani, in termini di armi, addestramento e protezione. La crescente presenza nello stesso Pakistan dei gruppi integralisti pashtun (etnia maggioritaria in Afghanistan, fortissima anche in Pakistan e particolarmente ben rappresentata tra i quadri dell’Isi) allunga del resto più di un’ombra sulla lealtà che è lecito attendersi dallo strategico «alleato» pachistano il quale, mentre combatte l’islamismo militante al di là del confine, lo blandisce al di qua, autorizzando l’applicazione della Sharia nella valle dello Swat (a 150 km da Islamabad) o tollerando la presenza di talebani pachistani nel distretto di Bruner (100 km dalla capitale).

Washington appare particolarmente preoccupata della prospettiva che il fragile ma determinante alleato possa finire frammentato in tanti potentati de facto: un vero e proprio incubo nell’ipotesi che alcuni dei possibili «signori della guerra» si trovino a esercitare il proprio controllo su alcuni dei siti di stoccaggio delle testate nucleari pachistane (stimate tra 60 e 100), di cui Washington non conosce neppure l’esatta ubicazione. Infatti, proprio per evitare che di fronte a un simile esito gli americani potessero decidere di bombardare i siti nucleari pachistani (ipotesi alquanto rocambolesca, in realtà), le autorità pachistane si sono sempre ben guardate dal fornire a Washington informazioni troppo dettagliate al riguardo.

Ma un simile scenario è scavalcato, in peggio e di gran lunga, dalla possibilità che il Pakistan sia oggi in una situazione analoga a quella dell’Iran negli Anni 70. Nel 1979, la rivoluzione guidata dall’ayatollah Khomeini trasformò l’Iran da uno dei tre pilastri (insieme con Turchia e Israele) dell’ordine regionale patrocinato da Washington nel suo più radicale contestatore e più attivo destabilizzatore. Più di una rivoluzione in stile iraniano, con l’improbabile avvento di una teocrazia a Islamabad, ciò che viene ipotizzato è la progressiva e sempre più decisa penetrazione dell’islam radicale e dei suoi adepti all’interno dei gangli dello Stato pachistano, soprattutto degli apparati di sicurezza. Questi ultimi, proprio per i lunghi decenni di sostegno ai talebani, appaiono tutt’altro che ostili o impermeabili a quei «nemici» che dovrebbero combattere. Inoltre, e contrariamente a quanto era vero per il laico «impero» dello Sha Palhavi, lo Stato pachistano è stato già parzialmente ma pesantemente «islamizzato». Uno dei più decisi in questa direzione fu, guarda caso, un generale: quello Zhia ul Haq il cui colpo di Stato portò all’impiccagione del padre di Benazir Bhutto, a sua volta uccisa in un attentato da molti ritenuto irrealizzabile senza la partecipazione dell’Isi, proprio mentre un altro generale, Musharraf, si apprestava a lasciare il potere.

Probabilmente nemmeno Teheran sarebbe contenta di vedere una replica della sua lezione, se ciò dovesse portare alla nascita di una potenza nucleare islamica sunnita e integralista. Inutile nascondersi che un simile disastro strategico, evidentemente, rischierebbe di far pericolosamente accostare la figura di Barack Obama a Jimmy Carter (il presidente che perse l’Iran) piuttosto che a quella di Franklin Delano Roosevelt (il Presidente che donò prosperità e sicurezza all’America e al mondo). Ed è l’ultima cosa di cui il mondo e l’America hanno bisogno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Maggio 12, 2009, 04:21:00 pm »

12/5/2009

La sana religione
   
VITTORIO EMANUELE PARSI


La prima parte del pellegrinaggio di Benedetto XVI in Terrasanta, quella più specificamente incentrata sui rapporti con l’islam, si è conclusa come meglio non sarebbe stato possibile. Accolto da un re, Abdallah di Giordania, che ha legato il destino politico suo personale, quello della dinastia e quello del Paese alla scommessa che sia possibile sconfiggere dall’interno le derive radicali così insistenti nel mondo arabo, il Papa si è mosso con prudenza e sagacia, smentendo sia quelli che lo avrebbero voluto protagonista di un viaggio più politico (si veda l’intervista concessa dal solito ambiguo Tarik Ramadan alla Stampa domenica), sia chi lo aveva dipinto come una sorta di «augusto gaffeur», interrogandosi su quante «nuove Ratisbona» avrebbero potuto sorgere dai 32 discorsi previsti per il Papa (così l’Herald Tribune di venerdì scorso, in un articolo forse un po’ troppo disincantato). Tutto bene, quindi, almeno per ora.

Al di là dei suoi inevitabili significati anche politici, nel senso nobile del termine, quello del pontefice romano è innanzitutto il viaggio di un illustre pellegrino nei luoghi che, secondo la tradizione cristiana, furono testimoni di gran parte dell’avventura terrena di Gesù. Non bisognerebbe mai dimenticarlo.

EBenedetto XVI, lo ha voluto ribadire, ancora sull’aereo che lo conduceva ad Amman, ricordando che si muoveva nella sua veste di «leader spirituale di una grande religione e non in quella di capo politico». Il concetto è a dir poco cristallino e, condivisibile non solo dai fedeli cattolici o dai credenti in generale, ma anche da chi, laicamente, rispetta il ruolo che le religioni possono liberamente svolgere proprio grazie alla netta separazione tra religione e politica che ha forgiato la modernità.

Ciò che immediatamente salta all’occhio, tanto più sullo sfondo del tormentato Levante, è il destino peculiare (e positivo) che il cristianesimo, anche nella sua versione cattolica, ha avuto in Occidente. È grazie al secolare processo di laicizzazione e secolarizzazione che la società occidentale ha prodotto e conosciuto, e che ha consentito anche la trasformazione dei credo religiosi storicamente più diffusi in Occidente, che, oggi, la massima autorità spirituale del cattolicesimo può essere accolta come amica in un Levante dove l’Islam è di gran lunga dominante. Inutile sottolineare come l’incandescente situazione del Medio Oriente veda uno scenario nel quale, invece, le speranze che laicizzazione e secolarizzazione progrediscano sono ormai pie illusioni. Dal Libano all’Iran, dall’Iraq all’Egitto e, sia pure in forme molto diverse, allo stesso Israele e alla Turchia, la politicizzazione della religione e la deriva religiosa del discorso politico sembrano semmai essere la nuova tendenza. Al punto che suonano tutt’altro che convenzionali le parole pronunciate sabato da Ratzinger di fronte alle autorità religiose e culturali del regno ascemita: è «la manipolazione ideologica della religione per scopi politici il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e anche delle violenze nella società».

Il corollario di queste affermazioni è che quando la religione è impropriamente utilizzata come strumento di lotta politica essa si trasforma: il suo messaggio intimamente pacifico viene sostituito da un simulacro dal valore spirituale molto più basso, ma dal potenziale devastante. La potremmo definire la «legge di Gresham applicata alla religione»: così come, dove circolano due mezzi di pagamento di valore intrinseco diverso (oro e argento), la moneta cattiva (cioè quella di bassa lega) scaccia quella buona, altrettanto si potrebbe dire accada dove circolano due proposte religiose dal valore intrinseco differente (una capace di non prestarsi a un uso improprio e l’altra politicizzata). Alla fine, il rischio è che la religione piegata ad uso politico prevalga su quella autenticamente intesa. Ovvero che il cattivo uso scacci il buon uso poiché, detto più semplicemente, quando «la si butta in politica», la «cattiva» religione scaccia quella «buona».

Nel Levante ciò appare particolarmente evidente. E non riguarda questa o quella fede, per i propri contenuti specifici. Ma piuttosto investe tutte le religioni in quelle società dove i processi di laicizzazione e di secolarizzazione sono falliti, si sono interrotti o non hanno mai davvero preso piede. Anche in Occidente del resto, in secoli bui, il cristianesimo rischiò di «snaturarsi» e «corrompersi», perché alcuni tentarono di porlo al «servizio della politica». Ma quel rischio venne progressivamente rintuzzato e tanto la religione quanto la società furono poste al sicuro da ciò che altrimenti avrebbe minacciato la libertà di entrambe.

Un’ultima notazione. In un mondo in cui è diffuso l’impiego della religione come strumento di mobilitazione politica, i moderati e illuminati come re Abdallah rischiano di avere vita difficile. Per dirla con Schumpeter, i radicali e gli estremisti sembrano infatti essere imprenditori politici più «appropriati», una volta che si consenta un uso politico della religione.

da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 26, 2009, 03:25:03 pm »

26/5/2009
 
I talebani e la vendetta dei burattinai
 

VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Appena nel febbraio 2009, il governo pachistano aveva concesso ai talebani che controllavano lo Swat di adottare la Sharia, estendendo così a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale l’area di giurisdizione della legge islamica tradizionale, la cui validità, fino a quel momento, non oltrepassava le aree tribali della frontiera nordoccidentale. L’umiliante capitolazione era stata la sola via individuata dal governo per ottenere il cessate il fuoco dalle milizie integraliste di etnia pashtun (e di nazionalità pachistana), che di fatto controllavano il distretto. In queste settimane, il debole governo di Islamabad che con quell’accordo aveva fatto infuriare Washington e le altre capitali della coalizione alleata, sta conducendo una dura offensiva contro i talebani nella valle dello Swat, e sembra prossimo a riconquistarne le più importanti città.

Che cosa ha cambiato la situazione al punto tale da ribaltare le posizioni tra i ribelli e le forze governative? Di sicuro le pressioni americane affinché l’«alleato» nella guerra al terrore mutasse atteggiamento non devono essere state ininfluenti. Tanto le autorità civili, quanto i vertici militari, sanno benissimo che gli aiuti degli Stati Uniti sono vitali per tenere a galla lo Stato pachistano. Altrettanto importante è risultato il cambio di strategia imboccato con decisione dall’amministrazione Obama, che reputa possibile la sconfitta dei talebani solo a condizione di affrontare il fenomeno per quello che è: un’espressione politico-militare dei Pashtun, le cui valli attraversano il confine tra Pakistan e Afghanistan, e che devono perciò essere contrastati in ambedue i Paesi.

Ma il fattore probabilmente determinante è stata la percezione, finalmente chiara a Islamabad, che proprio in virtù del loro successo nello Swat, i talebani rischiavano di assumere progressivamente il controllo del Paese o di provocarne il collasso. Le forze armate pachistane e i servizi segreti (Isi) non si erano mai mostrati entusiasti di dover collaborare con americani e Nato alla distruzione di quella che essi ritenevano (e in buona sostanza era) una propria creatura. Per l’intera durata della campagna afghana, né dall’Isi né dall’esercito era venuto chissà quale aiuto. Per decenni, del resto, essi avevano considerato i talebani uno strumento attraverso il quale praticare il proprio «piccolo gioco» (piccolo se confrontato al «grande gioco» di India e Russia nel corso dell’800 per il controllo dell’Asia sud-occidentale): cioè la direzione politica unitaria di tutti i pashtun, tanto afghani quanto pachistani. Per fare ciò, era opportuno che nessuna potenza «maggiore» interferisse e che lo Stato pachistano e soprattutto l’esercito, progressivamente islamizzati, mantenessero la propria solidità.

La prima condizione è venuta meno con l’11 Settembre e il successivo intervento americano. Può darsi che tra i vertici della sicurezza di Islamabad qualcuno abbia ancora pensato di poter sfiancare gli Usa, fino a provocarne il ritiro, elevando i costi umani dello scontro. Ma giorno dopo giorno, i talebani si sono rinforzati e fatti più audaci, fino a «mettersi in proprio» e tentare il loro «piccolo gioco» a cavallo del confine. Il burattino tentava così di prendere il posto del burattinaio, esponendolo, per di più, al rischio serissimo di perdere tutto il potere accumulato in decenni e decenni. Ed ecco allora come si spiega la reazione durissima dell’esercito pachistano, che ha iniziato a combattere per la sopravvivenza sua e del Paese, e non più nello scomodo ruolo di alleato neghittoso della coalizione occidentale.

da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Maggio 30, 2009, 10:15:15 am »

30/5/2009
 
Afghanistan vietato perdere
 
VITTORIO EMANUELE PARSI
 
Questa volta è andata bene. Le truppe italiane impegnate in Afghanistan non hanno subito perdite, e i tre parà feriti hanno riportato danni lievi. Ma, nel corrente e corrivo «dibattito politico», questi fatti riportano in primo piano quello scenario internazionale che meriterebbe qualche attenzione in più, almeno in prossimità del voto europeo. I nostri soldati, rischiando ogni giorno la loro vita in Afghanistan, ci ricordano che il mondo con i suoi problemi non si fermerà nella spasmodica attesa di sapere chi vincerà il trofeo della volgarità tra i «leader» nostrani. Militari, carabinieri (e poliziotti, con e senza pancia) sono un pezzo di istituzioni, un pezzo di Stato di cui andare orgogliosi. Il modo migliore di onorare il sacrificio loro e delle loro famiglie è interrogarci sul senso della nostra presenza in quel tormentato Paese, cercando di capire perché, per l’Europa ben più che per l’America, sia decisivo l’Afghanistan.

Proviamo infatti a chiederci quali sarebbero le conseguenze se gli Stati Uniti si disimpegnassero dall’Afghanistan prima di essere riusciti a stabilizzarlo. In termini regionali, una sconfitta delle forze alleate in Afghanistan potrebbe avere effetti molto seri, potenzialmente in grado di destabilizzare l’intera area circostante. Potrebbe infatti risultare estremamente difficile «tenere» il Pakistan, avendo perso l’Afghanistan. È la riedizione della vecchia «teoria del domino», questa volta applicata all’Asia sudoccidentale. Ma a livello sistemico, funziona sempre la teoria del domino? Dipende. In Corea, nel 1948, mentre l’Urss di Stalin e la Cina di Mao erano saldamente alleate, quella teoria fornì un’interpretazione appropriata della realtà. In Vietnam, quasi trent’anni dopo, fu invece il suo abbandono a consentire a Nixon e Kissinger di riformulare la politica americana, sacrificando il Vietnam per consentire il riavvicinamento sino-americano. La bruciante sconfitta vietnamita produsse limitate conseguenze strategiche a favore dell’Urss, perché più che compensata dal vantaggio conseguito da Washington grazie all’alleanza con Pechino.

In politica internazionale, insomma, la gravità delle sconfitte dipende soprattutto da chi se ne avvantaggia. Anche la Gran Bretagna nel 1842 subì una sanguinosa débâcle (17 mila morti) nella ritirata da Kabul, che la rivale Russia non seppe sfruttare, e l’influenza inglese nella regione cessò solo nel 1947, con l’indipendenza indiana. E nel 9 d. C. i Romani persero 3 legioni ad opera di Arminio, nella selva di Teutoburgo; ma nessun rivale strategico di Roma fu in grado di avvantaggiarsi di tale sconfitta, e l’impero sopravvisse oltre 4 secoli. E quindi: al di là del danno in termini di reputazione e motivazione per la leadership americana, un eventuale ritiro americano avrebbe conseguenze sistemiche solo se avvantaggiasse qualche rivale strategico degli Usa, o invogliasse qualcuno a diventarlo. I candidati realistici a una simile posizione sono solo due: Cina e Russia, ma ambedue appaiono decisamente refrattari a invischiarsi in un’area dove i ricordi del passato (per la Russia) o i timori su futuri contagi islamisti (per la Cina) funzionano da efficace deterrente.

Per l’Europa le cose sono ben diverse. Sconfiggere i talebani e l’estremismo che incarnano dovrebbe essere una nostra priorità. Siamo noi, e non gli Stati Uniti, a confinare con quel mondo musulmano dove il fondamentalismo fa proseliti. Siamo ancora noi, e non gli Stati Uniti, ad avere al nostro interno quote crescenti di popolazioni musulmane che, anche per la nostra incapacità di offrire loro un’efficace integrazione politica e civile, potrebbero essere sensibili al messaggio estremista. Ma c’è un ulteriore interesse di natura strategica che spiega le ragioni del nostro impegno nelle valli afghane. Se, malauguratamente, l’instabilità regionale dovesse alterare il quadro sistemico e costringere l’India a concentrare tutte le sue attenzioni su un Pakistan sempre più inquieto, nessuna politica di engagement nei confronti della Cina sarebbe seriamente possibile. Con il risultato di rendere sempre più allettante, agli occhi di Washington, la realizzazione di un grande accordo con Pechino - il famoso G2 - e di segnare il tramonto della rilevanza politica e militare della Nato e, insieme a essa, dell’Europa.
 
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