UMBERTO ECO.

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LA BUSTINA DI MINERVA

Su di un libro non letto
di Umberto Eco


Conoscere di un libro la relazione con altri libri significa spesso saperne di più che non avendolo letto. Commenta  Ricordo (ma, come vedremo, non è detto che ricordi bene), un bellissimo articolo di Giorgio Manganelli, nel quale egli spiegava come un fine lettore possa sapere che un libro non si deve leggere anche prima di averlo aperto. Non stava parlando di quella virtù che si richiede spesso al lettore di professione (o all'amatore di gusto), di poter decidere da un incipit, da due pagine aperte a caso, dall'indice, spesso dalla bibliografia, se un libro valga o meno la pena di essere letto. Questo, direi, è solo mestiere. No, Manganelli parlava di una specie d'illuminazione, di cui evidentemente e paradossalmente si arrogava il dono.

'Come parlare di un libro senza averlo mai letto' (Excelsior, 16,50 euro) di Pierre Bayard (psicanalista e docente universitario di letteratura) non tratta di come si debba sapere se non leggere un libro, ma di come si possa tranquillamente parlare di un libro non letto, persino da professore a studente, e anche se si tratta di un libro di straordinaria importanza. Il suo calcolo è scientifico, le buone biblioteche raccolgono alcuni milioni di volumi, anche a leggerne uno al giorno ne leggeremmo solo 365 in un anno, 3600 in dieci anni, e tra i dieci e gli ottant'anni ne avremmo letti appena 25.200. Un'inezia. D'altra parte chiunque abbia avuto una buona educazione liceale sa benissimo di poter ascoltare un discorso, poniamo, su Bandello, Guicciardini, Boiardo, numerosissime tragedie di Alfieri e persino 'Le confessioni di un italiano' avendone soltanto appreso a scuola il titolo e la collocazione critica, ma senza averne mai letto una riga.

È la collocazione critica il punto cruciale per Bayard. Egli afferma senza vergogna di non aver mai letto lo 'Ulysses' di Joyce, ma di poterne parlare alludendo al fatto che è una ripresa della 'Odissea' (che egli peraltro ammette di non aver mai letto per intero), che si basa sul monologo interiore, che si svolge a Dublino in un giorno solo, eccetera. Così che scrive: "quindi mi capita di frequente, nei miei corsi, senza batter ciglio, di far spesso riferimento a Joyce". Conoscere di un libro la relazione con altri libri significa spesso saperne più che non avendolo letto.

Bayard mostra come, quando ci si pone a leggere certi libri trascurati da tempo, ci si accorge che se ne conosce benissimo il contenuto perché nel frattempo se ne erano letti altri che ne parlavano, li citavano, o si muovevano nello stesso ordine d'idee. E (così come fa alcune divertentissime analisi di vari testi letterari in cui si tratta di libri mai letti, da Musil a Graham Greene, da Valéry ad Anatole France e a David Lodge) mi fa l'onore di dedicare un intero capitolo al mio 'Il nome della rosa', dove Guglielmo da Baskerville dimostra di conoscere benissimo il contenuto del secondo libro della 'Poetica' di Aristotele, che pure egli sta prendendo in mano per la prima volta, semplicemente perché lo deduce da altre pagine aristoteliche. Vedremo poi alla fine di questa Bustina che non cito questa citazione per mera vanità.

La parte più intrigante di questo pamphlet, meno paradossale di quel che sembri, è che noi dimentichiamo una percentuale altissima anche dei libri che abbiamo letto davvero, anzi di essi ci componiamo una sorta di immagine virtuale fatta non tanto di quello che essi dicevano, bensì di ciò che ci hanno fatto passar per la mente. Pertanto se qualcuno, che non ha letto un certo libro, ce ne cita dei passi o delle situazioni inesistenti, noi siamo prontissimi a credere che il libro ne parlasse.

È che (e qui viene fuori lo psicanalista più che il docente di letteratura) Bayard non tanto è interessato a che la gente legga i libri altrui, quanto piuttosto al fatto che ogni lettura (o non-lettura, o lettura imperfetta) debba avere un aspetto creativo, e che (a dirla con parole semplici) in un libro il lettore debba metterci anzitutto del suo. Tanto da auspicare una scuola dove, siccome parlare di libri non letti è un modo per conoscere se stessi, gli studenti 'inventino' i libri che non dovranno leggere.

Salvo che Bayard, per mostrare come, quando si parla di un libro non letto, anche chi l'ha letto non si accorge delle citazioni sbagliate, verso la fine del suo discorso confessa di aver introdotto tre notizie false nel riassunto de 'Il nome della rosa', de 'Il terzo uomo' di Greene e di 'Scambi' di Lodge. La faccenda divertente è che io leggendo mi sono subito accorto dell'errore su Greene, ho avuto un dubbio a proposito di Lodge ma non mi ero accorto dell'errore a proposito del mio libro. Il che vuol dire che probabilmente ho letto male il libro di Bayard oppure (e sia lui che i miei lettori sarebbero autorizzati a sospettarlo) che l'ho appena sfogliato. Ma la cosa più interessante è che Bayard non si è reso conto che, denunciando i suoi tre (voluti) errori, egli assume implicitamente che dei libri ci sia una lettura più giusta delle altre -tanto che, dei libri che analizza per sostenere la sua tesi della non-lettura, dà una lettura molto minuziosa. La contraddizione è così evidente da dar adito al dubbio che Bayard non abbia letto il libro che ha scritto.

(20 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it

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LA BUSTINA DI MINERVA

Come perdere la Trebisonda
di Umberto Eco


Due spiegazioni per Scalfari e alcuni chiarimenti sulla 'sindrome di Bayard': cioè l'attribuzione ad altri di idee che invece sono nostre 

La settimana scorsa su questa pagina Eugenio Scalfari si chiedeva perché si dice 'perdere la Trebisonda' o 'andare in cimbali', e annotava che forse io lo so. Grazie per l'attestato di fiducia, ma per Trebisonda (che noi 'happy few' chiamiamo confidenzialmente Trapezunte) basta andare su Internet, dove però si alternano due spiegazioni alquanto diverse.

Una è che, siccome Trebisonda era il maggior porto sul Mar Nero, per i mercanti perdere la rotta di Trebisonda significava perdere il denaro investito nel viaggio. L'altra, che mi pare più attendibile, è che Trebisonda costituiva un punto di riferimento visivo per le navi, perdendo il quale si perdeva l'orientamento, o la bussola, o la tramontana.

Quanto ad andare in cimbali, che comunemente si usa per uno stato di ubriachezza, il Dizionario Etimologico di Cortelazzo e Zolli ci dice che originalmente significava essere smodatamente allegro, che viene già usato dall'Aretino e che deriva dal Salmo 40, 'in cymbalis bene sonantibus'. E Scalfari può ora dormire sonni tranquilli tra due cimbali.

Chi non li dorme sono io, che nella Bustina scorsa citavo il libro di Bayard su come si possa parlare di libri non letti. Evidentemente si può, ed ho appena parlato del Cortelazzo-Zolli i cui cinque volumi (dato che non sono un pazzo) non ho mai letto per intero. Ma Bayard toccava anche un altro argomento, e cioè che anche chi un libro lo ha letto di solito non lo ricorda con esattezza perché leggendolo vi ha messo dentro del suo, attribuendolo all'autore. Mi è già accaduto di citare un episodio esemplare. Ai tempi della mia tesi di laurea, mentre mi arrovellavo senza riuscire a risolverne il problema centrale, leggendo il libro di un oscuro autore ottocentesco, tale abate Vallet, vi avevo trovato l'idea decisiva - e anche a decenni di distanza ricordavo il segno che vi avevo fatto a margine, in rosso e con punto esclamativo. Trent'anni dopo, parlando di questo caso con un amico, ero andato a ricuperare quel libro mai più toccato, avevo ritrovato di colpo la pagina col segno rosso, e mi ero accorto che l'autore non esprimeva affatto quell'idea mirabile. Essa (probabilmente per associazione d'idee) era venuta in mente a me mentre leggevo lui, che diceva tutt'altro, e gliela avevo attribuita.

Se così accade mentre si legge attentamente un libro per ragioni di studio, immaginiamoci cosa accade quando si legge disattentamente un giornale o si segue con la coda dell'occhio una trasmissione televisiva. Ed ecco che cosa mi è capitato con 'L'espresso' di due settimane fa. Avevo appena letto a pagina 9 il convincentissimo articolo di Bocca sul cretinismo generale, avevo sfogliato a pagina 16 e vi avevo trovato la notizia di un film che Wim Wenders sta per girare in Italia. Forse mi aveva anche aiutato la foto dove Wenders non ci fa una gran figura, ma subito avevo pensato a un film con Boldi e De Sica e mi ero subito rammaricato che anche Wenders contribuisse al cretinismo generale. Poi mi sono fermato. Ammiro moltissimo Wenders, lo giudico regista profondo e pensoso, non mi è mai passata per la testa l'idea che sia uno stolto.

Che cosa era successo? Era successo che stavo ancora riverberando sull'articoletto di pagina 13 i sentimenti che avevo provato leggendo Bocca, e pensavo ancora che tutti siano fatalmente cretini..

Sempre su questo giornale leggo la 'Satira preventiva' di Serra, mi diverto come un matto ma, proseguendo a leggere le altre pagine, tutte le altre notizie mi paiono inventate da Serra e ho l'impressione che questo giornale ci parli di un mondo surreale. Ora è certamente possibile che (1) viviamo davvero in un mondo in cui tutti hanno perso la Trebisonda oppure (2) io inizi a mostrare sintomi di demenza senile; ma mi consola il fatto che rilevo spesso che anche gli altri si comportano in questo modo. Per esempio, incontro un tale che mi dice quanto è d'accordo su quanto ho scritto sull'ultima Bustina, e io so di sicuro che non ho mai espresso quella idea, anche perché si tratta proprio del contrario di quel che penso. Tento di spiegare, ma il mio lettore quasi si offende e dice di ricordare benissimo che io ho scritto quelle cose. Evidentemente le aveva lette in un articolo su un'altra pagina, o addirittura su un altro giornale, si era trovato consenziente e leggendo poi me (certamente con simpatia) mi aveva attribuito la sua idea (come io avevo fatto con l'abate Vallet). Del pari mi accade che il barista si compiaccia per la mia intervista alla televisione della sera prima, quando io ho la certezza di non essere stato in televisione ma, se lo dico, quello al massimo concede che forse era stato due sere prima. È che, vedendomi di persona, mi aveva associato alla mia immagine vista in qualche telegiornale chissà quanti mesi fa, poi aveva introdotto nel cocktail anche qualcosa che aveva udito la sera prima da qualcun altro.

Di solito a questo punto lascio perdere. Non riuscirò mai a spiegare al mio interlocutore che è vittima di quella che chiameremo la sindrome di Bayard.

da espressonline

Arlecchino:
LA BUSTINA DI MINERVA

Ebrei, massoni e radical chic
di Umberto Eco


Il complotto evocato da don Gelmini dimostra che nel suo animo è conservato lo stesso mostro che aveva ossessionato i suoi maestri più anziani

Mentre scrivo non si è ancora sopita la discussione giornalistica sul caso di don Gelmini, e vorrei subito dire che non sono gran che interessato a sapere se le accuse che gli rivolgono sono giuste o sbagliate, perché errare è umano, sia che abbia sbagliato un prete sia che abbia sbagliato un magistrato, e per il resto si tratta di faccende personali. D'altra parte ammetto che gli accusatori non solo sono carcerati o pregiudicati, ma vengono da storie di droga e, se sotto l'imperio della droga si può immaginare di essere assaliti da un mostro con gli occhi d'insetto, si può anche immaginare di essere baciati da un ecclesiastico ottantenne, perché all'orrore (come sapeva Lovecraft) non c'è mai fine.

Tuttavia l'aspetto più interessante della faccenda è quello (che invece è stato liquidato in due giorni) dell'affermazione che le accuse venivano da una cricca ebraica e radical chic. Poi don Gelmini, di fronte alla reazione ebraica, si è corretto, ha detto che pensava ai massoni, i massoni sono come l'Opus Dei o i gesuiti, meno si fa chiasso intorno a loro e meglio è, e quindi non hanno dato gran seguito alla cosa, anche perché nessuno ha mai ammazzato sei milioni di massoni (hanno solo fucilato qualche carbonaro in tempi risorgimentali) e quindi i massoni su queste cose sono meno permalosi degli ebrei.

Sono apparsi subito alcuni articoli (ricordo quelli di Serra e di Battista) che notavano come la citazione di don Gelmini rivelasse echi (consci o inconsci) di antiche polemiche clericali, e che questo costituiva l'aspetto più triste della faccenda. Infatti è più che noto che l'idea del complotto giudaico massonico, prima di andare a nutrire i Protocolli dei Savi Anziani di Sion, era nata in ambiente gesuitico e aveva percorso tutta la polemica anti rivoluzione francese, prima, e anti risorgimento, dopo.

Ma siccome al complotto giudaico massonico ci aveva ormai rinunciato da quel dì' lo stesso Vaticano, sembrava che questa immagine fosse rimasta sepolta in polverose biblioteche di seminari vescovili, lasciandone il copyright ad Adolf Hitler e a Bin Laden. E invece ecco che un sacerdote che vive oggi, e che presumibilmente ha studiato in seminario negli anni Trenta (dopo la Conciliazione), dimostra di aver conservato nei recessi della propria anima ricordi se non altro verbali del mostro che aveva ossessionato i suoi maestri più anziani.

Nel 1992 un povero cardinale, che non pensava affatto agli ebrei ma stava attaccando la mafia, l'aveva definita Sinagoga di Satana. Apriti cielo. Subito era sorta una polemica, a cui avevo partecipato anch'io con due Bustine. Chi giustificava l'uso di quella espressione ricordava come sinagoga nei dizionari significasse anche riunione, adunanza, conventicola, e che se ne parlava già nell'Apocalisse. Il fatto è che non solo nell'Apocalisse il termine appare in contesto antigiudaico, ma che il suo uso corrente è stato dovuto a un libro pubblicato nel 1893 da monsignor Meurin, 'La Sinagoga di Satana', dove si dimostrava che la massoneria, setta di adoratori di Lucifero, era pervasa di cultura ebraica (come del resto, e qui Meurin era molto generoso, gli scritti di Ermete Trismegisto, gli gnostici, gli adoratori del serpente, i manichei, i templari e i cavalieri di Malta) e che attraverso di essa gli ebrei miravano alla conquista del mondo.

Ora, dopo il libro assatanato di Meurin (che all'epoca aveva avuto molto successo) non si può più impunemente usare l'espressione 'Sinagoga di Satana' così come non si può più agitare una bandiera con la svastica affermando che si tratta soltanto di un venerabile e innocente simbolo astrale di origini preistoriche.

Annotavo qualche Bustina fa che stanno apparendo da un lato accanite polemiche anticlericali e antireligiose e dall'altro riprese della polemica clericale e sanfedista contro il mondo moderno e (da noi) contro i miti risorgimentali e l'ideologia dello Stato unitario. Altro che passo di gambero. Però forse mi sbagliavo, non si tratta di un paradossale ritorno a polemiche ormai morte, bensì di un naturalissimo ritorno del rimosso, di qualcosa che era sempre rimasto lì e non se ne parlava più solo per buona educazione. Ma chi è stato educato a temere il complotto giudaico non lo dimentica mai, anche se solo per via di frasi fatte - e anche se una patina di aggiornamento culturale permette di aggiungere espressioni come 'radical chic'. Insomma, pare che ci sia chi non ha mai smesso di leggere (sia pure di notte) i romanzi di padre Bresciani.

In questa vicenda l'unico aspetto che mi ha stupito è che, nel suo confusivo citazionismo, don Gelmini abbia tirato in ballo anche i massoni. Bel senso della riconoscenza, visto che (mi attengo a quanto ha detto lui) generosissimi finanziamenti ha ricevuto da un ex membro della P2, tessera 1.816, codice E.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625.

(17 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it

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Ma chi ha scritto i 'Protocolli'?
di Umberto Eco

Che il documento sia falso è pacifico. Tuttavia chi lo abbia prodotto e quando è ancora materia di dibattito 

Il 31 luglio scorso è scomparso (a 92 anni) Norman Cohn. È sempre stato interessato alle psicopatologie collettive perché nel 1957 aveva scritto un affascinante libro sui vari millenarismi (uscito in italiano come 'I fanatici dell'Apocalisse', Comunità) e nel 1992 un altro (tradotto come 'I demoni dentro' da Unicopli) sulla caccia alle streghe. Ma il suo libro più sinistramente attuale rimane 'Warrant for a genocide' (1967) in cui si ricostruisce la vicenda della produzione e dello smascheramento di quel celebre falso che è stato 'I Protocolli dei Savi Anziani di Sion'. Sui Protocolli mi è accaduto di tornare sovente in queste Bustine, ma non per ossessione mia, bensì per ossessione altrui, visto che il tema ancora affolla il Web, specie nei siti fondamentalisti arabi, ma non solo.

Il libro di Cohn era stato tradotto nel 1969 da Einaudi come 'Licenza per un genocidio', ma purtroppo non è mai stato ristampato. D'altra parte non è mai stato tradotto in italiano un altro libro, più ricco di quello di Cohn (ottocento invece di duecentocinquanta pagine), specie per la storia remota dei Protocolli, 'L'apocalypse de notre temps' di Henri Rollin - che solo recentemente l'editore Allia ha riproposto in Francia. È un'opera che, apparsa nel 1939, all'inizio della guerra, annunciava con precisione quasi visionaria quello che i Protocolli avrebbero prodotto negli anni seguenti.

In un'altra Bustina citavo 'Il complotto' di Willy Eisner (Einaudi 2005) dove si ricorda (in forma narrativa, ma in base a seria documentazione) che i Protocolli sono stati presi ancor più sul serio proprio dopo che, nel 1921, il 'Times' aveva dimostrato che erano stati scopiazzati da un libro di Maurice Joly contro Napoleone III. Ma la posizione di chi li considera sempre validi continua a essere quella che ripeteva Julius Evola nella prefazione all'edizione italiana del 1938 (anno, ricordiamolo, delle leggi razziali in Italia): "Il problema della loro autenticità è secondario e da sostituirsi con quello, ben più essenziale, della loro 'veridicità'. Quand'anche (cioè: dato e non concesso) i Protocolli non fossero 'autentici' nel senso più ristretto, è come se essi lo fossero, per due ragioni capitali e decisive: perché i fatti ne dimostrano la verità; perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell'Ebraismo tradizionale e moderno è incontestabile". Come dire: se anche non fossero stati scritti dagli ebrei esprimerebbero comunque quello che noi antisemiti pensiamo che gli ebrei pensino.

Sapevo che Rollin aveva collaborato nel 1939 con i servizi segreti francesi, ma ora apprendo, dall'articolo apparso su 'The Guardian' in morte di Cohn, che anche lui aveva lavorato durante la guerra per l'Intelligence Service. La coincidenza non è strana perché evidentemente la dimestichezza con i documenti falsi e con le doppiezze dei servizi segreti aveva aiutato questi due autori a dipanare una storia che ha assolutamente del romanzesco. Infatti che il documento sia falso è pacifico, ma chi lo abbia prodotto (e quando) è ancora materia di dibattito - tranne il fatto che il materiale d'origine nasce certamente in Francia.

Sia Rollin che Cohn hanno reso plausibile la tesi per cui tutto sarebbe stato ordito dai servizi segreti russi ovvero da quella Ochrana allora diretta a Parigi da Rakowsky, negli anni del caso Dreyfus - e ne 'Il complotto' Eisner accentua il ruolo avuto nella stesura finale da tale Golovinskij, che peraltro era collaboratore di Rakowsky. Una interpretazione radicalmente diversa di tutta la storia ha dato invece Cesare G. De Michelis nel suo 'Il manoscritto inesistente' (Marsilio, 1998). Siccome in effetti i Protocolli erano apparsi ufficialmente a stampa solo nel 1903 nel quotidiano russo 'Znamja' e poi in volumetto, a Pietroburgo nel 1905, De Michelis - lavorando con acribia filologica sugli originali russi - arriva alla conclusione che il testo sia stato steso solo in quegli anni in ambiente russo (devo ovviamente tralasciare le prove che egli adduce, e la dimostrazione di come le successive traduzioni abbiano sofferto di varie manipolazioni). Ma l'anno scorso Carlo Ginzburg in un congresso a Los Angeles ha criticato questa tesi come troppo radicale.

Si può in ogni caso ritenere che, anche se De Michelis ha ragione, il materiale sia stato a poco a poco assemblato nei decenni precedenti in Francia, anche perché in altra sede avevo individuato tra le fonti dei Protocolli persino i romanzi di Sue (tranne che per Sue il complotto non era degli ebrei bensì dei gesuiti).

È naturale che, nel corso dei quarant'anni decorsi dall'apparizione del libro di Cohn, in ogni nuova ricerca sulle origini dei Protocolli si avanzino delle riserve su alcuni aspetti della sua ricostruzione. Ma questo non rende il libro meno appassionante, anche perché porta in calce alcuni documenti di grande interesse come il famigerato 'Discorso del rabbino' che (falso anch'esso e sempre riapparso in forme diverse) ha certamente costituito una delle origini remote dei Protocolli.

da espressonline.it

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LA BUSTINA DI MINERVA

Qualunquismo e neo-qualunquismo
Umberto Eco


Il 'Vaffanculo Day' di Beppe Grillo, a differenza della minoranza 'malata' che diede vita all'Uomo Qualunque, rappresenta una malattia dell'intero corpo sociale  Il comico Beppe GrilloLa partecipazione al 'Vaffanculo Day' organizzato da Beppe Grillo ha riacceso la discussione se vari sintomi di disaffezione e sfiducia nei confronti della classe politica rivelino la rinascita del qualunquismo. Non credo che la crociata ormai decennale di Grillo contro tutti possa essere definita qualunquismo, perché caso mai si tratterebbe di una sorta di neo-savonarolismo laico.

Il problema è quello della gente che partecipa con lui, e persino di quelli che lo vanno a sentire per puro divertimento, perché se si divertono è perché viene sollecitato pur sempre qualche loro rancore profondo. D'altra parte le 150 mila copie (sino a luglio, che poi se va bene diventano 300 mila lettori) di 'La casta' di Stella e Rizzo non sono noccioline: tutti quei lettori che si interessano a come vengono spesi e sprecati i soldi pubblici, non sono gente che vuole soltanto divertirsi. È gente che cerca materia alla propria indignazione o almeno alla propria insoddisfazione nei confronti della classe politica e degli amministratori degli enti pubblici.

Ma si tratta di 'qualunquismo'? Il qualunquismo storico (lo racconto ai giovanissimi) nasce quando nel dicembre 1944 (nella Roma già liberata, ma mentre i fascisti dominano ancora l'Italia del nord), Guglielmo Giannini fonda un giornale, 'L'uomo qualunque', che già nel 1945 raggiunge le 850 mila copie di tiratura (tantissimo per quei tempi) sino a che nel 1946 dà origine al movimento omonimo che manderà ben 30 deputati alla Costituente. Che poi il movimento da un lato venga strumentalizzato dalla Democrazia cristiana e infine si smembri andando a ingrossare le file del partito monarchico e del neonato Movimento sociale, ci dice soltanto che il suo richiamo catalizzava i malumori dei vecchi fascisti epurati e di chi, uscito frastornato da vent'anni di dittatura, non riusciva a capire né la dialettica tra partiti diversi, né la retorica post-resistenziale che chiamava tutti a un pronunciamento ideologico. Era insomma il movimento dei 'vaffanculo' dell'epoca, ma per ragioni del tutto diverse da quelli odierni.


Infatti quel movimento rappresentava una reazione allo choc di una vita democratica ancora ignota, mentre questo rappresenta una disaffezione verso una vita democratica a tutti nota e (pareva) accettata. Quello era una malattia infantile della democrazia italiana, e infatti non ha avuto un successo veramente significativo perché gli si opponevano i grandi partiti di massa (Democrazia cristiana, Partiti comunista e socialista) che suscitavano l'entusiasmo e l'impegno dei cittadini. Invece il neo-qualunquismo non rappresenta il rifiuto a priori di una dialettica democratica (che i settatori dell'Uomo Qualunque rifiutavano prima ancora di averla conosciuta). Esso rappresenta la sindrome di delusione nei confronti della classe politica da parte di chi in quella dialettica ci credeva. Il primo riguardava una minoranza di 'malati' che non potevano inquinare il corpo sociale più di tanto, il secondo rappresenta o annuncia una malattia (incipiente) del corpo sociale nella sua totalità.

Non posso (e non so) analizzare tutti i motivi di questa disaffezione, ma vorrei dire quello che ho letto sui quotidiani o visto al telegiornale nelle ultime settimane, quando siamo stati avvisati ogni giorno che il governo intendeva diminuire le tasse. Ora un governo che dice a più riprese che diminuirà (al futuro) le tasse, certamente non le ha diminuite, e pazienza, perché potrebbe (come in parte ha fatto) spiegare perché ancora non può farlo. Ma ripetere ogni giorno che le tasse saranno diminuite induce in chi legge o ascolta due (e solo due) interpretazioni possibili: una, che il governo 'non' ha diminuito le tasse (altrimenti non userebbe il futuro), due, che ha aumentato le tasse, e proprio per questo si affanna a ripetere che poi le diminuirà.

Perché un governo scelga questo modo di comunicare ai suoi elettori, mi rimane dolorosamente oscuro, ma ammetto chela colpa non sia del governo bensì dei mass mediaha riacceso la discussione se vari sintomi di disaffezione e sfiducia nei confronti della classe politica rivelino la rinascita del qualunquismo. Non credo che la crociata ormai decennale di Grillo contro tutti possa essere definita qualunquismo, perché caso mai si tratterebbe di una sorta di neo-savonarolismo laico.

Il problema è quello della gente che partecipa con lui, e persino di quelli che lo vanno a sentire per puro divertimento, perché se si divertono è perché viene sollecitato pur sempre qualche loro rancore profondo. D'altra parte le 150 mila copie (sino a luglio, che poi se va bene diventano 300 mila lettori) di 'La casta' di Stella e Rizzo non sono noccioline: tutti quei lettori che si interessano a come vengono spesi e sprecati i soldi pubblici, non sono gente che vuole soltanto divertirsi. È gente che cerca materia alla propria indignazione o almeno alla propria insoddisfazione nei confronti della classe politica e degli amministratori degli enti pubblici.

Ma si tratta di 'qualunquismo'? Il qualunquismo storico (lo racconto ai giovanissimi) nasce quando nel dicembre 1944 (nella Roma già liberata, ma mentre i fascisti dominano ancora l'Italia del nord), Guglielmo Giannini fonda un giornale, 'L'uomo qualunque', che già nel 1945 raggiunge le 850 mila copie di tiratura (tantissimo per quei tempi) sino a che nel 1946 dà origine al movimento omonimo che manderà ben 30 deputati alla Costituente. Che poi il movimento da un lato venga strumentalizzato dalla Democrazia cristiana e infine si smembri andando a ingrossare le file del partito monarchico e del neonato Movimento sociale, ci dice soltanto che il suo richiamo catalizzava i malumori dei vecchi fascisti epurati e di chi, uscito frastornato da vent'anni di dittatura, non riusciva a capire né la dialettica tra partiti diversi, né la retorica post-resistenziale che chiamava tutti a un pronunciamento ideologico. Era insomma il movimento dei 'vaffanculo' dell'epoca, ma per ragioni del tutto diverse da quelli odierni.

Infatti quel movimento rappresentava una reazione allo choc di una vita democratica ancora ignota, mentre questo rappresenta una disaffezione verso una vita democratica a tutti nota e (pareva) accettata. Quello era una malattia infantile della democrazia italiana, e infatti non ha avuto un successo veramente significativo perché gli si opponevano i grandi partiti di massa (Democrazia cristiana, Partiti comunista e socialista) che suscitavano l'entusiasmo e l'impegno dei cittadini. Invece il neo-qualunquismo non rappresenta il rifiuto a priori di una dialettica democratica (che i settatori dell'Uomo Qualunque rifiutavano prima ancora di averla conosciuta). Esso rappresenta la sindrome di delusione nei confronti della classe politica da parte di chi in quella dialettica ci credeva. Il primo riguardava una minoranza di 'malati' che non potevano inquinare il corpo sociale più di tanto, il secondo rappresenta o annuncia una malattia (incipiente) del corpo sociale nella sua totalità.

Non posso (e non so) analizzare tutti i motivi di questa disaffezione, ma vorrei dire quello che ho letto sui quotidiani o visto al telegiornale nelle ultime settimane, quando siamo stati avvisati ogni giorno che il governo intendeva diminuire le tasse. Ora un governo che dice a più riprese che diminuirà (al futuro) le tasse, certamente non le ha diminuite, e pazienza, perché potrebbe (come in parte ha fatto) spiegare perché ancora non può farlo. Ma ripetere ogni giorno che le tasse saranno diminuite induce in chi legge o ascolta due (e solo due) interpretazioni possibili: una, che il governo 'non' ha diminuito le tasse (altrimenti non userebbe il futuro), due, che ha aumentato le tasse, e proprio per questo si affanna a ripetere che poi le diminuirà.

Perché un governo scelga questo modo di comunicare ai suoi elettori, mi rimane dolorosamente oscuro, ma ammetto che la colpa non sia del governo bensì dei mass media

(14 settembre 2007)


da espresso.repubblica.it

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