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Autore Discussione: BAN KI-MOON La speranza di Haiti nasce a New York  (Letto 2335 volte)
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« inserito:: Marzo 30, 2010, 11:16:18 am »

30/3/2010

La speranza di Haiti nasce a New York
   
BAN KI-MOON*

Il Petionville Golf Club è situato su una collina che domina Port-au- Prince e il mare. I suoi vialetti, una volta ben curati, ospitano oggi circa 50.000 persone, di quel milione 200 mila sfollati a causa del terremoto e ammassati in tende o sotto teli impermeabili forniti dalle Nazioni Unite o da altre agenzie di soccorso internazionali.

Ero a Haiti la scorsa settimana, e il sole splendeva. Sembrava che la vita andasse avanti: i bambini giocavano, le madri lavavano i vestiti in vasche a cielo aperto. Molti hanno messo su attività e mercati improvvisati che vendono cibo, carbonella, frutta, scarpe, shampo. Alla luce del sole, tutto questo può sembrare un segnale di speranza, di vita tra le macerie. Ma quando piove, i terreni in pendenza si trasformano rapidamente in fango, pericoloso e malsano. Per quanti si trovano intrappolati nel campo, la speranza appare remota.

Domani i leader mondiali si riuniscono alle Nazioni Unite a New York per una conferenza dei donatori che è cruciale - un'espressione davvero tangibile di solidarietà con il governo haitiano e la sua gente. Il presidente René Préval lo definisce «un appuntamento con la storia», un accordo per costruire «una nuova Haiti», una Haiti trasformata. Offrire speranza è una missione.

Per settimane gli esperti hanno valutato bisogni e costi del disastro del 12 gennaio. In parallelo, il presidente Préval e il suo governo hanno elaborato un piano d'azione strategico nazionale per guidare la ripresa e lo sviluppo del paese. Si tratta di un documento avveniristico sotto ogni punto di vista.

Visitando la capitale devastata con l'inviato speciale delle Nazioni Unite, l'ex presidente Bill Clinton, un alto funzionario haitiano ha indicato le macerie del parlamento nazionale e del palazzo presidenziale. «Noi non vogliamo restaurarli», ha affermato riferendosi ai monumenti in stile coloniale crollati, proponendo piuttosto di rimpiazzarli con qualcosa di completamente nuovo, moderno e più adeguato alle ambizioni che Haiti ha per se stessa, come nazione autosufficiente in pieno sviluppo, animata dalla speranza genuina di un nuovo inizio e un futuro prosperoso.

Quella sarà la nostra sfida a New York - non ricostruire, semplicemente, ma «ricostruire meglio», creare quasi letteralmente una nuova Haiti. Secondo il piano, una nuova commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti dovrebbe stanziare circa 4 miliardi di dollari per progetti e programmi specifici nel corso dei prossimi 18 mesi. In dieci anni, la somma per la ricostruzione di Haiti dovrebbe ammontare a 11 miliardi e mezzo di dollari.

Chiaramente, tale assistenza deve essere bene spesa e coordinata. Essa deve alimentare con continuità gli sforzi d'emergenza: cibo, sanità e ciò che è più urgente in questo momento: alloggi. Finora abbiamo fornito tende e teli impermeabili a un milione di persone (circa tre quarti di quelli necessari) e ne distribuiremo più di 300.000 nelle prossime settimane. Abbiamo individuato un numero di siti principali nelle vicinanze di Port-au-Prince, dove trasferire coloro che si trovano in aree a rischio alluvione in previsione dell'imminente stagione delle piogge.

Nel frattempo, la missione Onu ha adottato ogni misura atta a mantenere la sicurezza e, in particolare, garantire che donne e bambini nei campi siano al riparo da violenze sessuali.

Nella transizione dagli aiuti d'emergenza alla ricostruzione di più lungo periodo non possiamo ragionare in termini di ordinaria amministrazione. La nostra visione, oggi, è quella di una radicale rigenerazione nazionale - un esercizio ambizioso ed esaustivo di costruzione statale. In collaborazione con la comunità internazionale, i governanti di Haiti hanno sottoscritto un nuovo contratto sociale con la propria gente. Ciò significa un governo democratico, saldamente radicato in politiche economiche e sociali che affrontino povertà estrema e profonde disparità nella distribuzione del benessere nel Paese. Questo implica anche elezioni libere, condotte con l'aiuto delle Nazioni Unite, preferibilmente entro la fine dell'anno.

Questo contratto sociale deve poter garantire le prerogative delle donne, nella loro qualità di responsabili della vita delle loro famiglie, di imprenditrici che sviluppano attività commerciali, di paladine dei deboli, che godano di pieni diritti nei processi decisionali che fanno evolvere le istituzioni democratiche e le organizzazioni di azione civica. Il contratto deve offrire nuove opportunità di sviluppo economico - soprattutto, lavoro. Il programma Onu che prevede una retribuzione in cambio di attività lavorativa svolta rappresenta in questo senso un modello. In fin dei conti, solo gli haitiani possono ricostruire Haiti, ricostruirla migliore.

I governanti haitiani sanno bene che questa nuova forma di cooperazione richiede l'impegno alla trasparenza, alla mutua responsabilità, al buon governo - un impegno che è tra governanti e governati, tra il settore pubblico e privato, tra Haiti e la comunità internazionale. C'è bisogno di un approccio nuovo a vecchi problemi, tra i quali il futuro della capitale di Haiti, una città sovrappopolata. Se si vuole che Haiti prosperi, infrastrutture sociali e sviluppo economico devono essere delocalizzate da Port-au-Prince a regioni e città in tutto il Paese. Questo è il motivo per cui il piano nazionale haitiano è attento a recupero ambientale, riforma fondiaria e nuovi investimenti nella pesca e nell’agricoltura.

Nei prossimi giorni, i leader mondiali faranno sentire la loro voce a sostegno di Haiti - una solidarietà che dovrà manifestarsi nel tempo, ben al di là dell'impatto iniziale causato dal disastro di gennaio. Sono fiducioso che, insieme, possiamo mettere Haiti in marcia verso un futuro nuovo, diverso.

La costruzione di questo domani migliore comincia oggi, in luoghi come il campo di Petionville, nell'immediato spostando migliaia di persone in aree sicure. In ultima analisi, dobbiamo offrire qualcosa di assai meno tangibile ma infinitamente più confortante: speranza. E per Haiti la speranza comincia domani a New York.

*Segretario Generale dell’Onu
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 21, 2010, 06:23:32 pm »

21/8/2010

Il Pakistan ha bisogno di tutti noi

BAN KI-MOON


Domenica scorsa in Pakistan, sotto un cielo di piombo, ho visto un mare di sofferenza. Le acque dell’alluvione hanno spazzato via migliaia di città e di villaggi. Strade, ponti e abitazioni in ogni provincia sono andati distrutti.

Dal cielo ho visto migliaia di ettari di terreno agricolo - la risorsa essenziale dell’economia del Pakistan - inghiottiti dall’innalzamento delle acque. Sul terreno, ho incontrato gente terrorizzata, che vive nella paura quotidiana di non riuscire a sfamare i propri figli o a proteggerli dalla prossima ondata di crisi: la diffusione di diarrea, epatite, malaria e colera. La portata del disastro quasi sfida l’umana capacità di comprensione. In tutto il Paese si stima che tra 15 e 20 milioni di persone siano state toccate dall’alluvione: più di quanti furono colpiti dallo tsunami nell’Oceano Indiano, dal terremoto in Kashmir nel 2005, dal Ciclone Nargis nel 2007 e dal terremoto ad Haiti di quest’anno, messi insieme.

Almeno 160 mila chilometri quadrati di terreno sono sott’acqua, quasi l’equivalente dello Stato di New York. Perché il mondo è stato così lento nel comprendere le dimensioni di questa calamità? Forse perché un disastro così, con il suo impatto improvviso e le sue drammatiche operazioni di salvataggio, non si presta a essere riproposto in tv. Un terremoto può mietere decine di migliaia di vittime in un istante; in uno tsunami, città intere sono inghiottite in un istante insieme ai propri abitanti. Questa, invece, è una catastrofe al rallentatore – che va prendendo forma nel tempo. E che è ben lungi dall’essere finita.

Le piogge monsoniche potrebbero continuare per settimane. Anche se le acque si ritirano da alcune zone, nuove inondazioni ne interessano delle altre, in particolare nel sud. E ovviamente sappiamo che ciò sta accadendo in una delle regioni più problematiche del mondo, dove stabilità e prosperità sono nell’interesse comune di tutto il mondo. Per tutti questi motivi, le inondazioni di agosto sono molto più di un disastro che riguarda esclusivamente il Pakistan. Esse rappresentano piuttosto la più grande prova di solidarietà globale del nostro tempo.

Ecco perché le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per aiuti di emergenza del valore di 460 milioni di dollari. Si tratta di meno di un dollaro al giorno per persona per tenere in vita sei milioni di individui per i prossimi tre mesi – compresi tre milioni e mezzo di bambini. L’impegno in aiuti internazionali cresce di giorno in giorno. Meno di una settimana dopo il lancio dell’appello, siamo già a metà strada, anche se l’entità della risposta è inadeguata alla dimensione del disastro. Giovedì, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è riunita per intensificare i nostri sforzi collettivi. Se agiamo ora, una seconda ondata di morti causata da malattie trasmesse dall’acqua può essere prevenuta. Non è facile organizzare operazioni di soccorso in condizioni tanto difficili, a volte rischiose. Ma l’ho visto accadere in tutto il mondo, dalle più remote e pericolose zone dell’Africa fino alle città dilaniate ad Haiti. E ho visto la stessa cosa in Pakistan questa settimana.

Una moltitudine di agenzie Onu, gruppi di soccorso internazionali come la Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni non governative hanno sostenuto il Governo del Pakistan nella risposta all’emergenza. Utilizzando camion, elicotteri, perfino muli per trasportare il cibo e per raggiungere quanti erano tagliati fuori dagli aiuti, abbiamo fornito razioni di cibo per un mese a circa un milione di persone. Più o meno lo stesso numero di persone ha ora un riparo di emergenza, e un numero ancora maggiore riceve acqua potabile ogni giorno. Medicinali anti-colerici, dosi di antidoto contro il veleno dei serpenti, strumenti chirurgici e sali di disidratazione orale stanno salvando sempre più vite.

Questo è un inizio, che richiede però un forte impulso. Sei milioni di persone non hanno cibo; 14 milioni necessitano di cure sanitarie, in particolare i bambini e le donne incinte. E man mano che l’acqua si ritira, dobbiamo agire rapidamente per aiutare la gente a ricostruire il proprio Paese e le proprie vite. La Banca Mondiale ha stimato danni alle coltivazioni per almeno un miliardo di dollari. Gli agricoltori avranno bisogno di semi, fertilizzanti e attrezzi utili per ripiantare, con l’intento di evitare che il raccolto del prossimo anno vada perso come quello attuale. I prezzi degli alimenti nelle maggiori città del Pakistan hanno già subito un’impennata. Nel lungo periodo, il grande danno provocato alle infrastrutture dovrà essere riparato: da scuole e ospedali a canali d’irrigazione, reti di comunicazione e trasporto. Anche le Nazioni Unite avranno un ruolo in tutti questi progetti.

Attraverso i media sentiamo parlare di «fatica» – voci secondo cui i governi sarebbero riluttanti a fronteggiare un altro disastro ancora, ed esiterebbero nel sostenere maggiormente questa parte del mondo. Ma è vero il contrario. I donatori stanno offrendo il proprio contributo al Pakistan e ciò è incoraggiante. Se qualcuno deve essere stanco, sono quelle persone normali che ho incontrato in Pakistan: donne, bambini, piccoli agricoltori e tutti coloro che hanno perso tutto, stanchi dei disastri, dei conflitti e della difficile situazione economica. Eppur, al posto della fatica, ho visto determinazione, resistenza e speranza: speranza e fiducia di non essere soli nelle loro ore più buie di bisogno. Semplicemente non si può rimanere a guardare e lasciare che questo disastro naturale si trasformi in una catastrofe umana. Restiamo vicini al popolo del Pakistan lungo tutto il difficile cammino che ci aspetta. *Segretario Generale delle Nazioni Unite

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