LUCA MERCALLI.

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7/12/2009
Il complotto dei climatologi
   
LUCA MERCALLI


Il 18 gennaio 1989 si chiudeva a Torino la conferenza internazionale «Atmosfera, clima e uomo». Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Gli effetti involontari della crescita economica nell’alterare i processi atmosferici globali costituiscono una seria minaccia alla sicurezza internazionale e al futuro dell’economia globale».

Né l’incertezza scientifica né la mancanza di precise conoscenze devono essere ragione di ritardo o inazione». Le soluzioni proposte coincidevano con quello che otto anni dopo sarebbe diventato il protocollo di Kyoto: riduzione delle emissioni inquinanti, efficienza energetica, energie rinnovabili, riciclo dei rifiuti e minori sprechi di materie prime, stop alla deforestazione, investimenti nella ricerca.

La conferenza non suscitò tuttavia né interesse né accesi dibattiti. Eppure non era stata indetta da un gruppo di ambientalisti, bensì dalla Fondazione Sanpaolo di Torino: ebbe luogo nel nobile salone di piazza San Carlo della banca torinese, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. I pochi ricercatori di punta di allora sostenevano con coraggio quanto nei vent’anni successivi è stato confermato dai fatti: la concentrazione di CO2 nell’aria era a 350 parti per milione ed è oggi a 390; i dieci anni più caldi degli ultimi secoli dovevano verificarsi tutti dopo il 1997; la rovente estate 2003, causa di 35000 vittime in Europa, non si era ancora verificata; la mummia Otzi, antica di cinque millenni, non era ancora emersa dal ghiacciaio altoatesino del Similaun; la banchisa del mar glaciale Artico non si era ancora ridotta come nel 2007.

Oggi disponiamo di una quantità impressionante di ricerca scientifica sul clima, supercalcolatori, carotaggi polari, nuovi satelliti, migliaia di ricercatori, un’agenzia delle Nazioni Unite - l’Ipcc - le cui conclusioni hanno confermato le affermazioni di vent’anni fa. Eppure proprio ora che le evidenze aumentano, la confusione impera, dubbi e maldicenze si insinuano sull’operato dei climatologi e tira aria di complotto. Ma mettiamoci dal punto di vista di un investigatore: manca il movente. Difficile pensare che gli scienziati riuniti a Torino nel 1989 fossero in malafede e avessero architettato tutto per arrivare - vent’anni dopo - a favorire la lobby dei pannelli solari. C’erano modi più semplici e rapidi di guadagnare! Difficile pensare alla volontà dei governi di fregare tutti i loro amministrati con nuove tasse sui combustibili fossili: la convenzione quadro sui cambiamenti climatici, emanata nel 1992, è stata firmata da 188 Paesi, ognuno con i propri interessi da tutelare, incluso il commercio di petrolio e carbone.

Come si può pensare che l’Arabia Saudita abbia la stessa visione delle Isole Tuvalu e insieme complottino contro di noi poveri mortali? E per cosa? Tuvalu ha paura di finire sott’acqua, l’Arabia vuole lucrare sul petrolio. Entrambe però hanno accettato una posizione diplomaticamente equilibrata che concorda sul problema epocale che abbiamo di fronte. E dunque, perché sulla questione climatica si assiste oggi a un accanimento ideologico che la vuole destituire di fondamento? È forse così terribile la ricetta di Copenhagen? Chiede di amputare una gamba sana o invita a fumare di meno? Un mondo che va a energia solare ed eolica, ha automobili che inquinano meno, case ben isolate che non disperdono l’energia, aria urbana più respirabile, garanzia di salvaguardia per le foreste tropicali, moderazione nell’uso delle risorse scarse e riciclo dei rifiuti, è forse così detestabile? Non ci dovremmo arrivare comunque, clima o non clima?

Di fronte a una Terra sempre più affollata e inquinata, con il petrolio che tra breve mostrerà la spia della riserva, Copenhagen consiglia di prendere due piccioni con una fava. Essere più efficienti in un mondo che non ha risorse infinite, è sempre una vittoria. Dall’altro lato c’è invece la prudenza: oltre tre gradi in più a fine secolo, l’aumento dei fenomeni estremi e del livello dei mari, la stabilità dell’agricoltura e della biosfera dalle quali dipendiamo, non sono certo uno scherzo. È in gioco la qualità del nostro futuro e chi punta i piedi contro Copenhagen, ha interessi probabilmente molto più espliciti da difendere.

da lastampa.it

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20/12/2009
 
Ma almeno il problema ora esiste
 
LUCA MERCALLI
 
Forse avevamo caricato la Conferenza di Copenhagen di troppe aspettative. In fondo si tratta pur sempre del più complesso negoziato internazionale mai intrapreso nella storia dell’umanità.

Mettere d’accordo 193 Paesi, praticamente tutto l’orbe terracqueo, è ovvio che non è impresa semplice. E allora guardiamo non a ciò che Copenhagen non ha partorito - un accordo condiviso legalmente vincolante sulla riduzione delle emissioni climalteranti - bensì a ciò che ha invece raggiunto. Il primo risultato è che i governi di tutto il mondo non mettono in dubbio il problema climatico, la sua importanza e la sua urgenza, anzi aprono così il comunicato ufficiale: «Noi sottolineiamo che il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del nostro tempo».

La consapevolezza c’è e la volontà di agire pure. Il fatto stesso che l’accordo politico plenario sia stato inficiato proprio dall’opposizione di uno stato minuscolo come le isole pacifiche di Tuvalu, è sintomatico: non era l’Arabia che difendeva il suo petrolio, ma la quarta più piccola nazione del mondo, ventisei chilometri quadrati e 11.500 abitanti, minacciata dall’aumento del livello marino causato dalla fusione dei ghiacciai e dall’espansione termica delle acque. Un’opposizione affinché il nuovo trattato fosse più incisivo di quanto l’asse Usa-Cina avrebbe voluto. Gli obiettivi sono però ormai accettati da tutti: contenere l’aumento della temperatura mondiale entro un paio di gradi, ridurre significativamente le emissioni di gas serra e ad aumentare i finanziamenti a favore dei paesi in via di sviluppo.

A questo punto l’Accordo di Copenhagen, come ha detto Yvo de Boer, segretario esecutivo della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici «pur non essendo tutto quello in cui si era sperato, è un primo passo importante; ora la sfida è arrivare ad uno strumento legalmente vincolante tra un anno in Messico». Non si discute dunque sui fini, ma solo sulle modalità. L’importante è che il processo di perfezionamento del trattato prosegua senza sosta, e non ci sono motivi di pensare il contrario. Semmai questa pausa di riflessione può servire a correggere il tiro, anche da parte dell’informazione di massa. Uno dei luoghi comuni che più ostacolano la presa di coscienza collettiva è la questione dei costi. A Copenhagen i paesi sviluppati si sono impegnati a raggiungere l’obiettivo di trasferire cento miliardi di dollari all’anno entro il 2020 verso i paesi in via di sviluppo, per favorire la riduzione delle emissioni.

C’è la diffusa convinzione che questa voce rappresenti solo un costo, uno spreco, soldi buttati. Ma è vero? Dove vanno questi denari? Non sono forse investimenti per la ricerca scientifica, il trasferimento tecnologico, la difesa delle foreste tropicali e della biodiversità, l’adozione di nuovi cicli produttivi più rispettosi dell’ambiente nel suo complesso e non solo del clima, la riduzione dei rifiuti, l’ottimizzazione dei trasporti? Certo, è vero che per fare investimenti di tale portata bisognerà spostare dei fondi da alcuni settori dell’economia ad altri che stanno emergendo, è vero che toccherà introdurre nuovi meccanismi di tassazione, di incentivi e di sanzioni. Ma alla fine il gioco vale la candela. Chi perderà un po’ dei suoi margini di guadagno attuali, godrà comunque di vantaggi collettivi e avrà pure tutto il tempo per riconvertirsi a una nuova economia più sobria e meno impattante sull’ambiente. E se queste somme, ci auguriamo in crescita, verranno spese bene, forse tra qualche anno avremo case che consumano un decimo dell’energia che usiamo oggi, avremo automobili forse più piccole ma molto più efficienti, avremo prodotti più riciclabili e meno tossici per la salute nostra e della biosfera.

Lo sviluppo delle energie rinnovabili è poi un passaggio cruciale per l’umanità, anche se non ci fosse la grana climatica. Perfino l’International Energy Agency ha riconosciuto che siamo in prossimità del picco di estrazione petrolifera. Se non ci muoviamo ora a progettare un futuro meno dipendente dall’energia fossile, quando dovremmo farlo? Quando saremo in guerra per spartirci l’ultimo barile di petrolio? I soldi di Copenhagen sono ben altro che buttati via.

da lastampa.it

Admin:
28/12/2009

Costretti a salvare anche chi sbaglia
   
LUCA MERCALLI


Con un bollettino di rischio valanghe di livello quattro su cinque non si dovrebbe partire per un'escursione fuori pista. Se lo si fa, si deve essere consci di mettere a repentaglio la propria vita.

E alcune amministrazioni pubbliche stabiliscono, a titolo dissuasorio, che la salata fattura dell'eventuale soccorso sarà a carico dell’infortunato o dei suoi familiari in caso di morte. Ma come affrontare il problema dell'incolumità dei soccorritori? Se un'operazione di recupero si svolge sotto la minaccia di nuove valanghe o durante forte maltempo che riduce i margini di sicurezza degli elicotteri, cosa bisogna fare? Astenersi e lasciar morire qualcuno o tentare la roulette russa? La risposta non è facile e attinge ai più profondi valori umani.

Per definizione, chi offre la propria competenza, il proprio coraggio e la propria abnegazione per salvare qualcuno, non si pone la domanda se costui sia un imbecille o un criminale degno o no di essere salvato. Se così non fosse, le ambulanze non dovrebbero mai affrontare pericolosamente il traffico a sirene spiegate per salvare un ubriaco causa di incidente stradale, né si sarebbe mai dovuta rischiare la vita a soccorrere le vittime di un terremoto in case moderne che violavano le normative antisismiche, oppure gli alluvionati in edifici abusivi costruiti sul greto di capricciosi torrenti.

Insomma, lo sfogo di Bertolaso è comprensibile in quanto pronunciato sotto lo stress dell'emergenza, ma inattuabile in pratica: in ogni situazione drammatica i soccorritori tentano sempre il massimo compatibile con le loro capacità tecniche e i mezzi a disposizione, ma si astengono giustamente dal dare giudizi. A questo penserà dopo la magistratura. Il prezzo da pagare è che ogni tanto, per fortuna raramente, le cose vanno male anche per i soccorritori.

Soluzioni? Tanta, tantissima informazione e prevenzione. A chi scia fuoripista, non ci si stancherà mai di ripetere che la neve è un elemento mutevole e instabile, che i bollettini di rischio servono proprio per non trasformare il divertimento in tragedia, che bisogna sempre portare con sé l'apparecchio di localizzazione Arva. Ma si ripete da sempre che anche superare i limiti di velocità sulle strade aumenta il rischio di incidenti mortali, eppure le 4731 vittime della strada del 2008 quasi non fanno più notizia, mentre per i 19 sfortunati che in media periscono sotto la neve ogni anno, e non sempre per imperizia o tracotanza, chissà perché ci si indigna di più.

da lastampa.it

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18/1/2010

Dura la vita degli stregoni della pioggia
   
LUCA MERCALLI


Si è diffusa ieri la notizia che la Bbc voglia esautorare il MetOffice, uno degli uffici meteorologici più celebri e autorevoli del mondo, dalla fornitura delle previsioni a causa di imprecisioni sulla stima delle nevicate dei giorni scorsi. Al suo posto subentrerebbe la società neozelandese Metra, ramo commerciale del servizio meteo governativo agli antipodi.

In realtà, Bbc ha annunciato ieri il passaggio al nuovo software grafico tridimensionale per la presentazione televisiva delle previsioni, di cui Metra è indiscusso leader mondiale, ma non sembra intenzionata a sollevare il MetOffice dall’incarico. Le polemiche hanno piuttosto riguardato le previsioni stagionali che il MetOffice aveva emesso in autunno, pronosticando un inverno mite che invece sulla Gran Bretagna coperta di neve non si sta verificando. Le previsioni a lungo termine, dell’ordine del trimestre, sono infatti ancora a carattere sperimentale e molti esperti ritengono che non dovrebbero essere diffuse al pubblico, altrimenti creano confusione intaccando la reputazione del servizio meteorologico che sul breve termine ottiene invece eccellenti risultati. In effetti la previsione a 48 ore oggi raggiunge oltre il 90 per cento di affidabilità grazie ai modelli numerici di simulazione, e i risultati sono indiscutibilmente migliorati negli ultimi vent’anni.

Ma queste riflessioni mettono in luce la dura vita del meteorologo che è condannato alla critica sia che faccia, sia che non faccia. Ricordate la previsione di neve su Genova di pochi giorni fa? Gli ingredienti per la nevicata c’erano tutti, l’allerta della protezione civile è stata data, poi la neve si è appena vista e tutti addosso ai meteorologi, per un grado di differenza che ha trasformato la neve in pioggia. E se non si fosse dato l’allarme e al mattino la città fosse stata davvero bloccata? Chi si trova a prendere decisioni così delicate nel giro di poche ore ha prima di tutto come missione l’incolumità delle persone. Gli errori, in verità modesti, sono sempre possibili, come per ogni previsione non solo meteorologica, ma rappresentano una piccola percentuale rispetto ai successi che ogni giorno fanno decollare e atterrare aerei, riempire e svuotare dighe, programmare viaggi e vacanze, semine e raccolti. Semmai si è diventati tutti così esigenti da non tollerare più la minima incertezza, peraltro dichiarata apertamente in ogni previsione. Più che un problema di fisica dell’atmosfera, è un problema di comunicazione: tocca spiegare alle persone cos’è il concetto di probabilità. Al contrario, viviamo in una società che tende sempre più a polarizzare le visioni: o è bianco o è nero, o è buono o è cattivo, o piove o fa sole. La previsione meteorologica utilizzata in giusta prospettiva, oltre che permetterci di scegliere che abito indossare domani, potrebbe anche aiutarci a fare un piccolo esercizio quotidiano sulla consapevolezza del concetto di probabilità: lo vogliamo deliberatamente ignorare, ma permea la nostra vita.

da lastampa.it

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1/3/2010

Prevedere i cataclismi non basta più
   
LUCA MERCALLI

Esposta sull’Atlantico, la Vendée è stato il dipartimento francese più martoriato dalla tempesta «Xynthia», così battezzata dall’Istituto di Meteorologia dell’Università di Berlino. Vi si sono contate 29 vittime, annegate nel corso delle repentine inondazioni causate da pioggia e ondate oceaniche in periodo di alta marea.

Il vento a oltre 150 chilometri orari, con una raffica di 242 km orari al Pic du Midi, sui Pirenei, ha poi portato il tragico bilancio francese ad almeno 45 morti sommando i vari incidenti negli altri dipartimenti, in particolare a causa di caduta di alberi e detriti, ma aggiungendo le vittime in Portogallo, Spagna, Belgio e Germania il totale assomma a 57.

Sono cifre ancora provvisorie, ma che rendono «Xynthia» la peggior tempesta a colpire l'Europa occidentale dopo «Lothar» e «Martin» i due uragani in rapida sequenza del 26-28 dicembre 1999, che fecero registrare venti fino a 170 km/ora su Parigi e causarono una novantina di vittime. Che il cuore della vecchia Europa venga colpito così profondamente da poche ore di vento forte lascia sempre senza parole ma non dobbiamo dimenticare che questi fenomeni meteorologici - cicloni delle medie latitudini che non hanno nulla a che vedere con gli uragani tropicali - sono piuttosto frequenti al di là delle Alpi: prima di Lothar la memoria va a «Vivian» che il 27 febbraio 1990 colpì Francia e Svizzera e poi alla burrasca del 15 ottobre 1987, quando le raffiche a 180 km/h devastarono Bretagna, Normandia e Inghilterra meridionale, con 34 vittime.

Ma gli archivi conservano traccia di eventi epocali, come quelli del gennaio 1739 e soprattutto la «Great Storm» della fine di novembre del 1703, descritta anche da Daniel Defoe, il peggior disastro meteorologico dell'Inghilterra meridionale e della Manica: tredici navi della flotta di Sua Maestà di ritorno dalla guerra di successione spagnola affondarono, foreste e paesi furono rasi al suolo e il bilancio stimato fu tra le 8000 e le 15000 vittime. Se mettiamo in prospettiva questo evento con la minor popolazione del tempo ci rendiamo conto che dopo tutto la prevenzione e l'allertamento ottengono oggi ben altri risultati.

Grazie alle previsioni offerte dai modelli matematici, Météo France sabato aveva già posto in vigilanza rossa, il massimo grado di pericolo, le regioni francesi poi effettivamente colpite dal fortunale. Navi e aerei non sono stati così coinvolti e milioni di persone si sono attrezzate per resistere al sicuro. Il tributo di vittime residuo si può considerare inevitabile durante un evento di tale portata: rami che cadono, tetti scoperchiati, tegole che volano come proiettili, cartelli pubblicitari, pannelli stradali e pali della luce, incidenti stradali, il rischio zero non si può pretendere.

Tutto sommato le lezioni del dicembre 1999, con gli ulteriori richiami dovuti a «Kyrill» che a metà gennaio 2007 reclamò in Europa centrale 45 morti con venti a 200 km/ora e a «Klaus» che solo un anno fa, dal 23 al 25 gennaio spazzò la Francia meridionale e i Pirenei causando 31 vittime, sembrerebbero aver perfezionato i piani di protezione civile e la prevenzione a lungo termine dei danni. Resta da vedere se questi episodi in futuro potranno presentarsi con maggior frequenza e intensità a causa del riscaldamento globale.

Per ora la statistica non è significativa, secondo lo storico del clima Emmanuel Garnier, dell'università di Caen, dal 1700 al 2000 gli archivi hanno restituito le cronache di almeno 22 tempeste maggiori sulla Francia e questi recenti episodi non possono ancora fornire chiare evidenze di aumento, tuttavia le simulazioni contemplano uno scenario futuro nel quale l'Europa centro-settentrionale potrebbe vedere una crescita di cicloni invernali. Se così fosse è ovvio che il meccanismo di prevenzione deve essere ulteriormente perfezionato, almeno per salvare le vite, mentre per i danni materiali sarà difficile limitare le perdite e il mercato assicurativo dovrà sicuramente evolvere per non fare bancarotta.

Lothar e Martin sono infatti costati all'Europa circa 16 miliardi di euro, di cui solo una dozzina rimborsati dalle assicurazioni, Kyrill è costata circa 5 miliardi di euro, Klaus ha fatto spendere solo alla Francia 1,2 miliardi di euro. Senza contare i disagi per milioni di persone rimasti per giorni senza elettricità e possibilità di riprendere le normali attività lavorative. Mentre oggi si contano dunque i nuovi danni di Xynthia, la civiltà del XXI secolo, anche se dotata di mezzi e conoscenze scientifiche come non mai, si riconosce ancora una volta vulnerabile.

da lastampa.it

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