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Autore Discussione: La storia segreta della trattativa per la resa di Cosa nostra  (Letto 2432 volte)
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« inserito:: Agosto 14, 2007, 12:12:27 am »

13/8/2007 (7:10)

La storia segreta della trattativa per la resa di Cosa nostra
 
I boss pronti a consegnare le armi in cambio di benefici.

Ma lo Stato: condizioni inaccettabili, nessun cedimento

FRANCESCO LA LICATA


C’è una parte importante di Cosa nostra siciliana che da tempo cerca un accordo con lo Stato: una sorta di «dissociazione dolce» - per dirla con l’eufemismo di chi ha portato avanti questa proposta - in cambio di qualche beneficio carcerario che attenui il rigore del «41 bis», il regime di isolamento previsto per i mafiosi e per i terroristi. Ma anche in cambio della non remota possibilità di rivedere le posizioni processuali di alcuni che ritengono di essere stati artatamente coinvolti nelle indagini sulle stragi e «ingiustamente condannati».

Diversi tentativi di arrivare ad una consultazione generale del gruppo dirigente mafioso, attraverso incontri combinati nelle carceri, sono andati in fumo più d’una volta. E c’è stato persino il tentativo di consentire un intervento diretto di Bernardo Provenzano, nel frattempo arrestato (aprile 2006) e dunque giocoforza entrato a far parte del «partito dei carcerati», quello maggiormente interessato alla realizzazione dell’insolita «assemblea tra le sbarre» che potrebbe «autorizzare» l’avvio di una vera e propria trattativa fino a questo momento andata avanti a spizzichi e bocconi e senza il necessario confronto diretto tra le diverse anime di Cosa nostra.


La trattativa
Su tutta questa massa di avvenimenti, che sembra più una spy-story che il racconto di una reale inchiesta giudiziaria, sta indagando la procura della Repubblica di Roma. Già, perchè c’è da verificare se nel corso dei reiterati tentativi di far incontrare i boss - attività portata avanti sostanzialmente dal Gom (l’intelligence creata dalla Direzione delle carceri che vanta, sembra, buoni agganci coi servizi di sicurezza) - sia stato violato il codice penale. E soprattutto c’è da verificare se la «trattativa» sia mai stata autorizzata da chi ne ha il potere o se è andata avanti nell’interesse di gruppi extra-istituzionali. Una inchiesta sull’attività dei servizi segreti nell’ambito delle carceri che ospitano i mafiosi al «41 bis» e sulla nascita dell’«ufficio specializzato» - che usa la tecnologia dei servizi - diretta emanazione della Dap (Direzione penitenziari), è condotta dai sostituti procuratori Erminio Amelio e Maria Monteleone. Questa, più recente, viaggia parallela all’altra ed è inevitabile che i filoni siano destinati a ricongiungersi. La storia della «trattativa in carcere» risale alla fine degli Anni Novanta, quando un gruppo di mafiosi - quasi tutti condannati in via definitiva per le stragi del ’92 e del ’93 - cominciarono a farsi sentire prima attraverso gli avvocati o con espliciti riferimenti ai legali eletti in Parlamento. Protagonisti di quel primo approccio furono Pietro Aglieri, il boss che studia teologia, e l’allora procuratore nazionale antimafia, Piero Luigi Vigna, il magistrato che ha sempre creduto possibile arrivare alla resa di Cosa nostra.


Né pentiti né dissociati
I termini di quel primo contatto facevano riferimento al rifiuto, da parte di Cosa nostra, di ogni forma di pentitismo o dissociazione. In sostanza la tesi di Aglieri era (ed è ancora) che bisognava dare la possibilità, a chi accettava l’idea della sconfitta della mafia ad opera dello Stato, di arrendersi senza per questo dover accusare nessuno o confessare le proprie colpe. Come segnale di resa, la mafia si diceva disponibile a «deporre le armi», proprio in senso stretto, cioè consegnando il proprio armamento. In questa linea si riconoscevano boss importanti come Salvatore Biondino, l’uomo di fiducia di Riina arrestato in auto col capo (forse molto più importante di quanto sia finora emerso), Nitto Santapaola, boss di Catania; e poi ancora don Piddu Madonia capomafia di Vallelunga di Caltanissetta, Giuseppe Farinella delle Madonie, ed anche uno della famiglia Madonia di Palermo. Si parlò, inoltre, di un interessamento alla vicenda di Pippo Calò, ex capomandamento di Porta Nuova (Palermo), ma la notizia poi si sarebbe rivelata troppo vaga. Il fronte delle «colombe», però, si andava a scontrare con gli irriducibili di Totò Riina (soprattutto Bagarella e i Graviano di Brancaccio), convinti di poter ancora intimidire le istituzioni con lo stragismo. L’ultima che avevano pensato, come dimostrò il giudice Gabriele Chelazzi, era un «botto politico» con l’uccisione di un’alta carica dello Stato, Spadolini o Napolitano, al tempo presidenti delle Camere.

Il contatto saltò, anche perché nel giugno del 2000 finì tutto sui giornali. Ma continuò sottotraccia fino al 2002, passando per vari espedienti: prima la lettera famosa di Aglieri a Vigna e Grasso (allora procuratore a Palermo), poi la curiosità inedita di un mafioso calabrese, uno degli Imerti, che chiede la dissociazione. Fatto stranissimo che troverà spiegazione quando si saprà che il rappresentante della ’ndrangheta era stato in cella con Salvatore Biondino, numero due della trattativa, dopo Aglieri, e «delegato» da tutte le associazioni mafiose a portare avanti la strategia della dissociazione. Altra stranezza: nel novembre 2001 ancora Biondino chiede alla direzione del suo carcere di poter fare lo scopino, attività di solito ambita dai detenuti meno abbienti perché consente di guadagnare qualcosa. Ma Biondino non aveva certo bisogno di arrotondare con mestieri umili. E allora? Allora forse voleva fare lo scopino perché quell’attività gli consentiva di muoversi più liberamente e soprattutto di contattare detenuti chiusi lontano dalla sua cella. In sostanza, lo scopino poteva aggirare i rigori del «41 bis». Ma questa strategia fu intuita dall’allora capo dell’ispettorato del Dap, il magistrato Alfonso Sabella, che mette nero su bianco e scrive una nota con cui blocca la richiesta di Biondino. Era il 5 di novembre: lo stesso giorno Sabella viene destituito (direttore del Dap è da poco l’ex procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra) e prende il suo posto Salvatore Leopardi, che di Tinebra era stato sostituto.


L’ufficio di Pio Pompa
Ma non era la prima volta che Alfonso Sabella (sarà per questo che il suo nome è inserito tra quelli monitorati dall’ufficio del Sismi di Pio Pompa?) mandava all’aria i preparativi per un’assemblea in carcere. La discussione sulla fattibilità della trattativa era finita persino sul tavolo di Piero Fassino, allora - giugno 2000 - ministro della Giustizia. A favore - e alla luce del sole - Piero Luigi Vigna, ma non era una novità visto che anche pubblicamente il procuratore si era dichiarato possibilista. Ci fu una riunione con Vigna, con Gian Carlo Caselli (allora direttore del Dap, prima di Tinebra) e con Sabella. Il risultato di quell’incontro sancì la «non disponibilità» del governo di intraprendere qualsiasi forma di trattativa coi mafiosi. Gli argomenti a sfavore della dissociazione, illustrati a Fassino da Sabella, descrivevano nei dettagli come un eventuale cedimento alle richieste dei boss sarebbe stato tutto a favore della mafia, senza che lo Stato ne ricevesse una contropartita adeguata. In sostanza un regalo a Cosa nostra.


Strani personaggi
Il clamore mediatico poi avrebbe definitivamente affossato l’iniziativa. Ma, anche questa volta, senza che si interrompesse il filo sotterraneo, portato avanti col sistema dei colloqui investigativi affidati un po’ ad investigatori, un po’ a personaggi dei servizi con compiti sfuggenti. Un filo che resta teso almeno fino all’autunno del 2005, anno in cui ci riprovano ancora a fare l’assemblea. E’ un momento di grande iperattività pseudoinvestigativa nelle carceri: si registrano persino tentativi di orientare le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Sicuramente uno di quelli avvicinati da «strani personaggi», che in carcere avrebbero dovuto avere altri ruoli, è il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, invitato a cambiare le proprie dichiarazioni richieste nell’ambito di alcuni processi politici.

Ma il tentativo di forzare e fare l’assemblea è di ottobre 2005, quando alcuni mafiosi (sicuramente Aglieri e Biondino, ancora loro) vengono momentaneamente trasferiti al carcere dell’Aquila. Lì si dovranno aprire le celle e dar vita al confronto tra i boss, per definire i particolari di questa «resa». Ma qualcosa non va per il verso giusto. E’ pensabile che dalla direzione del carcere si sia richiesta l’autorizzazione necessaria a modificare il decreto ministeriale che vieta ai detenuti mafiosi di avere contatti. Finora il confronto è avvenuto registrando le rispettive posizioni dei leader e farle conoscere «a giro». I boss, però, vogliono la possibilità di parlare direttamente, anche perchè c’è da prendere decisioni per conto di chi sta fuori dalle sbarre. Provenzano, per esempio, nel 2005 ancora latitante, sa dell’iniziativa? E cosa pensa della vicenda? Bisogna, dunque, infrangere le norme del «41 bis». Ma si sta parlando di reati e allora, forse, è meglio ritentare la strada del coinvolgimento politico del governo a cui chiedere copertura. Ma il ministro, il leghista Roberto Castelli, non se la sente di fare da solo e interpella, oltre al favorevole Vigna, il procuratore di Palermo, Piero Grasso, che boccia nettamente la proposta elencando tutti gli argomenti a sfavore, preponderanti rispetto ad eventuali pro.

La posizione di Grasso - oggi particolarmente protetto perchè da quel «no» si fa scaturire una particolare avversione di Cosa nostra nei suoi confronti - è nota: la mafia, tutta, senza distinzioni tra falchi e presunte colombe, non è un’organizzazione di partigiani che può deporre le armi riconoscendo la propria sconfitta nei confronti dello Stato. Si tratta di criminali che hanno una sola via per ottenere clemenza: quella collaborazione che possa consentire di fare nuovi passi avanti sulla via della lotta alla mafia. Insomma, le garanzie proposte dai boss sembrano deboli e, soprattutto, interessate. E non può bastare la generica affermazione di «diversità» che uno come Pietro Aglieri fa passare, affermando in modo informale: «Io non ho mai ammazzato bambini, né donne né magistrati». Un modo per prendere le distanze dagli irriducibili, ma da mafioso che «non vuol farsi infame». Dicesse tutto quello che sa, è la risposta delle istituzioni.

E allora, tutto finito? Assemblea impossibile? Certo, per un po’ il filo si è ingarbugliato, anche perché i boss sono stati tutti trasferiti e c’è stato un rimescolamento, attutito da una gestione meno rigorosa del «41 bis» revocato ad un buon numero di detenuti. Ma il filo non si è spezzato. Si indaga, per esempio, sull’annosa vicenda della «collocazione» scelta per Provenzano dopo la cattura. C’era chi voleva spedirlo in un certo carcere dove, guarda caso, albergavano alcuni leader della trattativa. Solo un blitz di altri funzionari del Dap ha imposto il carcere di Terni che offriva tutte le garanzie necessarie, anche per la sopravvivenza di un detenuto così importante. E non è finita lì. Successivamente si sono verificati alcuni tentativi per creare le condizioni utili ad un trasferimento di don Binnu. Una prima volta è stata fatta girare la notizia, rivelatasi completamente falsa, di un’accoglienza ostile, a Terni, sottolineata dal commento attribuito ad uno dei figli di Riina («Provenzano sbirro»). E’ stato accertato che il giovane Riina non ha mai pronunciato quelle frasi. Poi è arrivata la storiella della crostata per il compleanno di don Binnu, presentata come una concessione benevola della direzione del carcere di Terni. Anche questa è una notizia falsa, perché il «detenuto Provenzano» ha per legge la possibilità di accedere allo stesso vitto degli agenti di custodia. Quindi nessuna benevolenza. Ma perché, allora, tutto questo can can? Forse qualcuno voleva che Provenzano cambiasse carcere. Il gioco è stato scoperto e così il trasferimento è avvenuto, ma non come volevano i fautori della «dissociazione dolce». Il boss ora sverna in un carcere del Nord, per l’assemblea bisognerà aspettare ancora.

da lastampa.it
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