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Autore Discussione: Pietro ICHINO. -  (Letto 23669 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 01, 2009, 02:47:37 pm »

Lettera sul lavoro


Modello Bergamo per il I Maggio


di Pietro Ichino


Caro direttore,

i lavoratori che oggi festeggiano il Primo Maggio stanno vivendo la crisi economica in modi molto diversi tra loro. Ci sono quelli — soprattutto dipendenti pubblici stabili, ma non soltanto — che dalla crisi traggono vantaggio: al riparo dalla tempesta, beneficiano della riduzione della rata del mutuo e di molti prezzi al consumo.

Poi ci sono quelli che invece questa crisi la soffrono, eccome. Centinaia di migliaia di titolari di contratti a termine, lavoratori «a progetto», «partite Iva» simulate, che hanno perso o stanno perdendo il posto senza un giorno di preavviso e senza una lira di indennità di disoccupazione. I dipen­denti di aziendine cui è stato tolto l'appalto di servizi. I lavoratori in Cassa integrazio­ne, che allo scadere della cinquantaduesi­ma settimana perdono il sussidio. Stanno col fiato sospeso anche i lavoratori di azien­de private per i quali fin qui il lavoro non è mancato, ma è pur sempre a rischio.

Per questi milioni di persone che nella crisi rischiano una piccola o grande cata­strofe personale e familiare, il governo si ingegna a prolungare di un poco la Cassa integrazione, oppure ad ampliare, nei limi­ti di un bilancio all’osso, il campo del tratta­mento di disoccupazione, invitando gli im­prenditori a stringere i denti e a rinviare il più possibile i licenziamenti. L'opposizio­ne propone l'allungamento e l'estensione di quei trattamenti a tutti. L'uno e l'altra sperano comunque che, più o meno raffor­zati per far fronte all'emergenza, questi am­mortizzatori bastino per passare la nottata: l'idea bipartisan è che, quando il vento tor­nerà a gonfiare le vele della nostra econo­mia, tutti potranno riprendere il lavoro che hanno dovuto temporaneamente sospen­dere, come i cuochi e gli scudieri del castel­lo della Bella Addormentata finalmente ri­svegliata dal bacio del principe.

Le cose, però, non andranno esattamen­te così. Il vento tornerà — magari anche im­petuosamente — a gonfiare le vele soltan­to di una parte delle nostre imprese. In al­cuni punti del tessuto produttivo sta già in­cominciando ad accadere: per esempio in settori in cui siamo leader mondiali, come quello del mobile, quello delle macchine utensili, o quello delle nuove tecnologie ferroviarie, dove i cinesi stanno investendo un sacco di soldi e si appresta a farlo anche l'America di Obama. La crisi, però, avrà an­che l'effetto di mutare i connotati della no­stra economia: un'altra parte delle nostre imprese resterà a secco. Il problema della protezione dei lavoratori è come guidarli e assisterli nell'itinerario che può condurli a trovare la nuova occupazione là dove si sta spostando la domanda di lavoro.

Spendere in trattamenti di integrazione salariale o di disoccupazione è giusto e ne­cessario, ma può persino avere qualche ef­fetto controproducente, di intorpidimento della ricerca della nuova occupazione. Per uscire bene dalla crisi occorre soprattutto attivare ingenti processi di mobilità intera­ziendale, offrendo ai lavoratori non solo so­stegno del reddito, ma soprattutto servizi di informazione, orientamento, formazio­ne professionale di alta qualità, mirata spe­cificamente agli sbocchi fin d'ora individua­bili, dove necessario anche assistenza e in­centivi alla mobilità geografica. Occorre, per questo, un ordinamento del lavoro in parte nuovo e un sistema di servizi nel mer­cato che consenta ai lavoratori di affronta­re serenamente il processo di aggiustamen­to industriale, non vedendo in esso un ri­schio di catastrofe economica personale, ma al contrario un'occasione in cui si inve­ste nel loro capitale umano, la premessa per una migliore valorizzazione del loro la­voro.

Protagonista di questa trasformazione deve essere la contrattazione fra imprese e sindacati. Il sistema di relazioni industriali deve accantonare per qualche tempo le po­lemiche di questi ultimi mesi e concentra­re tutte le energie e le risorse per dotarsi degli strumenti necessari nel mercato del lavoro. Come è accaduto a Bergamo, dove nei giorni scorsi Cgil, Cisl, Uil e associazio­ni imprenditoriali hanno firmato un accor­do locale che può essere per molti aspetti considerato un modello. Iniziative analo­ghe stanno maturando anche in altre zone del Centro-Nord. Questi accordi territoria­li chiedono spazio e — dove possibile — sostegno pubblico per sperimentare tecni­che e modelli di protezione del lavoro di­versi rispetto al passato. Una cultura indu­striale adatta ai tempi. Qualche cosa di molto diverso dalle politiche del lavoro pu­ramente passive che abbiamo conosciuto finora.


01 maggio 2009

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Maggio 01, 2009, 11:46:06 pm »

22 marzo 2009


Le conclusioni dell'indagine dell'Antitrust sugli ordini professionali


di Pietro Ichino

I DECRETI BERSANI HANNO PRODOTTO ALCUNI RISULTATI IMPORTANTI, MA HANNO ANCHE INCONTRATO GRANDI RESISTENZE IN CIASCUNA DELLE CATEGORIE INTERESSATE DI LIBERI PROFESSIONISTI

Intervista a cura di Enrico Marro, pubblicata sul Corriere della Sera del 22 marzo 2009


Secondo l’Antitrust la riforma Bersani degli ordini professionali non ha portato a una reale liberalizzazione del settore né a una effettiva concorrenza a vantaggio degli utenti. Eppure era stata presentata come una rivoluzione. Che cosa non ha funzionato?

Un aumento della libertà di concorrenza tra liberi professionisti c’è stato ed è ben percepibile. Certo, non tutto quello che la riforma si proponeva. Come era prevedibile, ciascuna categoria oppone resistenza. Resistono, soprattutto, alcune restrizioni indebite all’accesso ad attività professionali e una scarsa trasparenza dei mercati di queste attività. Ma, soprattutto, gli organi collegiali dei vari ordini restano espressione esclusiva degli interessi della categoria e non degli interessi della collettività.

Se una riforma entra in parlamento in un modo e ne esce annacquata al punto da non poter essere più efficace, non è meglio disconoscerla? Non è meglio rinunciarvi anziché creare aspettative che poi andranno deluse?
È vero, c’è un rischio di effetto boomerang: quando una riforma è inefficace essa può generare un atteggiamento di rassegnazione, la convinzione che la riforma sia impossibile. Sovente si ha la sensazione che i grandi “gattopardi” annidati negli apparati ministeriali lavorino sui decreti attuativi delle leggi-delega proprio con questo intendimento. Però non è vero che le riforme Bersani abbiano fatto soltanto un buco nell’acqua: alcuni primi risultati, anche se parziali, si sono visti.

Per esempio? In materia di tariffe: l’abolizione della tariffa minima costituisce una innovazione molto incisiva, di cui si sono già visti alcuni effetti positivi, anche se non tutti quelli che possono essere ottenuti. Occorre proseguire su quella strada con determinazione, perché la tariffa minima non aiuta i professionisti più deboli, mentre favorisce le rendite di posizione dei più forti. E gli organi collegiali degli ordini devono smettere di agire come se fossero dei “sindacati unici nazionali” della categoria, ad iscrizione obbligatoria: essi devono agire soprattutto nell’interesse della collettività. L’Antitrust chiede al governo un nuovo intervento legislativo per una vera riforma.

Condivide le cinque richieste dell’Autorità?
Le condivido totalmente per quel che riguarda il perfezionamento dell’abolizione delle tariffe minime, la liberalizzazione della pubblicità e la composizione degli organi collegiali degli ordini: è indispensabile che questi vengano integrati in modo che gli interessi della collettività siano rappresentati in misura prevalente rispetto agli interessi della categoria. Su lauree abilitanti e tirocinio il discorso è un po’ diverso da settore a settore.

Visto che la resistenza delle corporazioni alla riforma è così forte, non sarebbe meglio un intervento drastico come l’abolizione pura e semplice degli ordini?
In alcuni casi decisamente sì: per esempio nel caso dei giornalisti. In molti settori, comunque, si dovrebbero eliminare le barriere di accesso, e affidare all’organo collegiale soltanto il controllo sulla rigorosa applicazione di un codice deontologico e l’irrogazione delle sanzioni per chi lo viola.

da francodebenedetti.it
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« Risposta #17 inserito:: Maggio 01, 2009, 11:52:46 pm »

26 febbraio 2008

Perchè Ichino non è stato candidato da Berlusconi?


di Giuliano Cazzola

Quando si è saputo che Pietro Ichino era disposto a candidarsi nelle liste del Pd (si veda lo scambio di lettere sul Corriere della Sera tra il giurista milanese e Franco Debenedetti che lo sconsigliava di accettare) è successa l’iraddiddio (pardon: della dea Ragione, visto che essere laici è più politacally correct). Gli esponenti della Cosa Rossa hanno fatto a gara nel coprire di insulti il povero professore, avvalendosi – sono parole di Lanfranco Turci – di argomentazioni simili a quelle che sono costate la vita a Massimo D’Antona e a Marco Biagi e che costringono Pietro a vivere "blindato" da anni. Più cauti e civili i sindacalisti della Cgil (Paolo Nerozzi e Nicoletta Rocchi andranno a riequilibrare in Parlamento i picchi di riformismo in cui si esibisce Veltroni). Ma la musica è sempre la stessa: giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A tarda serata, dopo il lancio di un chilo di dispacci di agenzia carichi di contumelie nei confronti del giurista, è giunta la presa di posizione ufficiosa del Pd, all’insegna del veltroniano "ma anche" (che ha fatto la fortuna del comico Crozza). “Ichino è bravo – si diceva – e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue”. E Massimo D’Alema – su Il Sole-24Ore – ha chiuso il caso: Ichino “è intelligente – ha dichiarato – coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico”. In pratica, ragazzino lasciaci lavorare!

E adesso? Che cosa farà il professore? Rinuncerà all’arma potente dell’editoriale del Corriere della Sera per diventare un "profeta inascoltato"? Questa esperienza Ichino l’ha già archiviata più venti anni or sono (come deputato del Pci): era senz’altro più giovane e meno noto di adesso, ma si accorse ben presto che al suo pensiero innovativo nessuno dei suoi compagni prestava attenzione. Tanto che – e fu la sua fortuna – non venne rieletto. Sinceramente avremmo gradito che il Cavaliere - in un guizzo comunicativo – si fosse rivolto a Pietro Ichino – proprio nel giorno in cui subiva in solitudine la gogna delle Erinni e dei trinariciuti – offrendogli di capeggiare la lista del PdL in Lombardia e promettendogli di poter svolgere, a vittoria avvenuta, un ruolo di primo piano nel prossimo governo. “Caro professore – avrebbe dovuto affermare Berlusconi – perché si ostina ad essere trattato come un cane in chiesa? Le sue idee sono le nostre. Venga a prendere il posto che fu di Marco Biagi. In materia di lavoro avrà carta bianca”. Sicuramente – e purtroppo - Ichino avrebbe declinato l’invito, ma la mossa del leader del PdL avrebbe fatto discutere e preteso una risposta seria da parte dell’interessato. Ma se il Cavaliere non ha colto l’occasione una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche “dure” del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione. L’handicap del centro destra continua ad essere il solito: con scarse propensioni riformiste il PdL non riesce a penetrare nell’intellighenzia del Paese. Così finisce per diffidare degli intellettuali e dei tecnici, in nome di un primato della politica tutto da dimostrare. Ed è un atteggiamento sbagliato, perché niente è più credibile sul piano internazionale di un civil servant di indiscusso prestigio, la cui influenza non dipenda dai voti del suo partito ma dalle competenze che gli sono riconosciute. Nessun ministro dell’Economia sarebbe meglio di Mario Monti. Se Prodi non avesse potuto contare sulla credibilità di Tommaso Padoa Schioppa, i circoli internazionali avrebbero sbattuto la porta in faccia alla sua compagine senza attendere nemmeno un minuto. Alla pregevole azione del governo Berlusconi è mancato proprio l’ésprit de finesse della competenza. Si prenda, per tutti i casi, la legge di riforma costituzionale, ottima nell’ispirazione di fondo (tanto da tornare di attualità), ma scritta coi piedi sul piano della tecnica legislativa. Si consideri, al contrario, la legge Biagi, una delle pagine più alte della legislatura, un provvedimento che ha fatto il giro del mondo e che fa testo ovunque si studi il diritto del lavoro. Dietro ad essa c’era la cultura non solo di uno studioso eccellente, ma della sua scuola, tanto che Michele Tiraboschi è stato pronto a prendere il posto del maestro caduto e a portarne a termine l’opera. Ma se Biagi non fosse caduto sul campo dell’onore, la CdL avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo?
 
da francodebenedetti.it
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« Risposta #18 inserito:: Agosto 06, 2009, 03:51:10 pm »

Lettera sul lavoro

Innse, i riti stanchi e gli operai traditi

Le vicende di questo genere si sono susseguite sempre secondo lo stesso logoro schema


Caro Direttore, che brutto spettacolo quello dello sgombero della Innse di Lambrate, la gloriosa fabbrica della Lambretta alle porte di Milano, con le forze dell’ordine che per disposizione del giudice allontanano gli ultimi 49 lavoratori (dei 2.000 dei tempi d’oro) rimasti a difendere il posto con le unghie e coi denti! È mai possibile che, dopo mezzo secolo in cui vicende di questo genere si sono susseguite sempre secondo lo stesso logoro schema, ancora non abbiamo imparato ad affrontare le crisi industriali con metodi un po’ più moderni?
Oggi la Innse, domani forse la Ideal Standard di Brescia, ieri cento altri casi analoghi, primo per importanza quello dell’Alfa Romeo di Arese. E sempre lo stesso copione: con il titolare che vuole chiudere lo stabilimento o ridurre l’attività, i lavoratori che vedono la prospettiva del licenziamento come una catastrofe economica e professionale, i loro rappresentanti sindacali che denunciano il carattere speculativo della manovra e dimostrano dati alla mano gli orizzonti di riconversione ecologica e immancabile prosperità che si dischiuderebbero all’azienda se solo non fosse in mano a un imprenditore inetto e vorace.

Talora l’imprenditore è effettivamente incapace o inaffidabile; ma il problema si pone proprio perché non se ne trova uno migliore, pronto a rilevare l’azienda. Se l’imprenditore è incapace o inaffidabile, invitare i lavoratori a rimanergli attaccati a tutti i costi equivale a condurli in un vicolo cieco. Le crisi industriali vanno affrontate in modo totalmente diverso. Pensiamo a come potrebbero andare le cose se i lavoratori coinvolti non vedessero la sola possibilità di salvezza nell’aggrapparsi al vecchio posto di lavoro. Se, come accade nei Paesi del nord-Europa, la perdita del vecchio posto non significasse affatto una catastrofe personale e familiare, ma fosse accompagnata, al contrario, da un robusto sostegno del reddito e soprattutto da un investimento sulla professionalità del lavoratore capace di incrementare il suo appeal nel mercato del lavoro. In Italia questa prospettiva stenta a prendere piede, perché prevale l’idea che il mercato del lavoro funzioni malissimo, sia una trappola infernale per i lavoratori. Ma le cose non stanno così. In un articolo in corso di pubblicazione in un quaderno della rivista ItalianiEuropei.
Gabriella Lusvarghi — capo di una delle maggiori società italiane di outplacement— mostra convincentemente come, in tempi normali, qualsiasi lavoratore che abbia perso il posto possa essere ricollocato in modo appropriato nel giro di tre-sei mesi. Nel corso di una recessione grave come quella attuale questi tempi medi si allungano, ovviamente; ma anche nella congiuntura negativa il mercato del lavoro continua a produrre quotidianamente contratti in grande quantità. Solo in provincia di Milano, in un anno normale come il 2007, i nuovi contratti di lavoro sono stati 200mila. In un anno di crisi nera come il 2009 si stima che la riduzione sia intorno al 15 per cento: quest’anno a Milano le assunzioni risulteranno dunque pur sempre intorno alle 170mila.

Perché mai, in questo mercato, non dovrebbe essere possibile ricollocare appropriatamente gli ultimi 49 lavoratori della Innse? Perché non si tenta neppure di farlo, come se fosse un obiettivo irrealistico?
Pensiamo, per esempio, a un ordinamento e a un sindacato che, invece di proporsi di impedire i licenziamenti per ragioni economiche od organizzative, li subordinassero all’obbligo per l’imprenditore di attivare a sue spese un servizio efficiente di outplacement e di integrare il trattamento di disoccupazione dei lavoratori licenziati per il tempo necessario al reperimento della nuova occupazione: in questo modo si responsabilizzerebbe sul serio l’imprenditore riguardo al costo sociale delle sue scelte di ristrutturazione o di chiusura dell’azienda. E si attiverebbe un potente incentivo economico all’efficienza ed efficacia dei servizi di ricerca del nuovo posto e di riqualificazione mirata: se l’operazione sarà gestita bene, nel giro di sei mesi o un anno i lavoratori saranno tutti appropriatamente ricollocati e ampiamente indennizzati, con un costo accettabile per l’impresa.

Contro questa soluzione milita un’idea vecchia e molto inadeguata ai tempi: quella secondo cui le scelte di ristrutturazione o chiusura di un’azienda non dovrebbero essere lasciate all’imprenditore, perché spettano, in realtà, alla collettività. Di fatto, questa idea si traduce nell’antica prassi di ritardare il più possibile anche i licenziamenti inevitabili ricorrendo alla Cassa integrazione, così disincentivando i lavoratori dall’attivarsi per il reperimento della nuova occupazione e dando spazio alle loro illusioni circa la possibilità che il vecchio lavoro riprenda, anche quando le probabilità che questo accada sono ridotte a zero. Non sarebbe meglio per tutti rispettare la libertà dell’impresa, vincolando quest’ultima soltanto, ma seriamente, a farsi carico fino in fondo dei costi sociali delle sue scelte?

Pietro Ichino
05 agosto 2009
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da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 09, 2009, 11:46:42 am »

Diritto del lavoro: il progetto di riforma di Pietro Ichino

di Davide Colombo


ROMA - Per come si annuncia sembra una riforma destinata a piacere a tanti e non solo a sinistra. Sicuramente piacerà al ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che nel suo Libro Bianco sul Welfare indica come obiettivo della legislatura lo Statuto dei lavori. Ma non dovrebbe essere lontano anche dalle corde di Roberto Calderoli, che su provvedimenti di delegificazione pesante ha impostato il suo esordio, o di Renato Brunetta, fautore di deregolamentazioni che possono portare a una modernizzazione dei rapporti sociali. Il testo che presto presenterà il senatore del Pd Pietro Ichino punta infatti a riordinare in 64 articoli del Codice civile quella pletora di leggi che disciplinano i rapporti di lavoro (sono oltre un centinaio, varate dal 1923 a oggi, quelle che verrebbero abrogate), norme che si sono stratificate nelle duemila pagine che oggi si richiedono per una raccolta delle norme sul lavoro, e in cui tutti, imprenditori e lavoratori, sono destinati a perdersi senza l'ausilio d'un consulente.

Cuore di questo disegno riformatore, se si vuole trovarne almeno uno in un testo che contiene l'estensione pressoché universalistica degli ammortizzatori sociali nella direzione della flexsecurity di impronta nord-europea ma anche una riforma del diritto sindacale capace di chiudere con il "regime transitorio" in corso da sessanta anni (si prevede anche un ritocco dell'articolo 39 della Costituzione), è racchiuso nel concetto di "copertura conoscitiva". Oltre alla "copertura finanziaria" e a quella "amministrativa", si aggiunge cioè uno sforzo fondamentale di comunicazione delle norme semplificate per farle vivere nella cultura di tutti gli interessati, riducendo al minimo il bisogno delle costose mediazioni dei consulenti.

La semplificazione è la via maestra per arrivare a uno Statuto dei lavori costruito come un sistema di protezioni a "cerchi concentrici", che parte dalle tutele fondamentali garantite a tutti (salute e sicurezza, assicurazioni antinfortunistica e pensionistica, retribuzione minima oraria, divieto di discriminazioni), per poi definire le protezioni specificamente necessarie per il lavoro dipendente e quelle parzialmente differenziate nei casi di rapporto di lavoro subordinato oppure nei rapporti di monocommittenza, fino ai casi dell'apprendistato o delle collaborazioni di pubblica utilità.

Vediamo qualche esempio della forza semplificatrice contenuta nel disegno di legge del professor Ichino, che verrà presentato per la prima volta in pubblico in occasione di un incontro Aspen che si terrà a Milano il 21 settembre. Per l'apprendistato si passa da un quadro normativo che oggi conta su 5 articoli del Codice più altri 33 articoli della legge 25/1955, cui si sono aggiunti i 7 lunghi articoli del decreto legislativo 276/2003 (solo questi ultimi constano di 1.859 parole) a una riscrittura del solo articolo 2130 del Codice (composto da 414 parole). Il part-time, oggi regolato da 13 articoli per 3803 parole (norme via via introdotte dal 2000 al 2007), verrebbe ridisciplinato in soli 3 commi del nuovo articolo 2108 del Codice (117 parole in tutto), mentre il lavoro intermittente passerebbe da un quadro regolatorio oggi composto da 8 articoli per 1443 parole a un solo capoverso (39 parole) del nuovo articolo 2097 del Codice.

Per la nuova cassa integrazione e l'assicurazione contro la disoccupazione che nascerebbero con l'abrogazione delle 34 leggi che oggi regolano la materia il disegno di legge ripropone lo scambio tra flessibilità per l'impresa e sicurezza per i lavoratori nel mercato che è alla base del progetto «per la transizione a un regime di flexsecurity» già presentato da Ichino con altri 35 senatori nel marzo scorso con il Ddl 1481. Il modello è quello danese: al lavoratore licenziato viene garantito il sostegno del reddito fino al massimo di 4 anni, dal 90 al 60% della retribuzione, ma soprattutto la prospettiva di una ricollocazione molto più rapida, incentivata proprio dal costo del trattamento di disoccupazione. Integrazione salariale e trattamento di disoccupazione sono dovuti a tutti i lavoratori dalle rispettive imprese, che per questo si assicurano presso l'Inps. Questa è certo la parte che più farà discutere del progetto, non solo in seno a maggioranza e opposizione, ma anche nel confronto tra le parti sociali. «Ciascuna delle soluzioni proposte – osserva Ichino – può essere modificata, aumentandone o diminuendone il contenuto protettivo; purché si tenga ferma la scelta della massima semplicità e comprensibilità del testo legislativo, indispensabili perché esso possa avere davvero applicazione universale».
   Disegno di legge sullo "Statuto del lavoro"
   Disegno di legge per il superamento del regime di diritto sindacale transitorio
   Il progetto per la semplificazione e l'ampliamento del campo di applicazione del diritto del lavoro

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da ilsole24ore.com
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« Risposta #20 inserito:: Maggio 04, 2010, 10:31:12 am »

LETTERA SUL LAVORO

Nuove regole per gli avvocati

Chi difende i clienti dai difensori?

Il problema cruciale è il conflitto di interessi che il legale incontra quando può scegliere tra diverse opzioni


Caro Direttore, mentre la riforma dell’avvocatura muove i primi passi in Parlamento e gli avvocati fanno — legittimamente— sentire il loro fiato sul collo ai politici, sarebbe bene che gli utenti incominciassero a fare altrettanto. Il disegno di legge in discussione al Senato, dedicato alla promozione degli interessi economici di chi già appartiene al ceto forense, non affronta neppure di striscio quello che a me sembra il problema cruciale: il conflitto di interessi in cui l'avvocato si trova ogni volta che gli si aprono davanti due o più strade per la difesa del cliente e la strada più vantaggiosa per quest'ultimo non è la più vantaggiosa per l'avvocato stesso. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è in grado di controllare efficacemente le scelte del difensore, come il paziente non è in grado di controllare le scelte del medico. Glielo impedisce la netta asimmetria informativa che caratterizza qualsiasi rapporto professionale: il professionista è colui che sa, il cliente è tale proprio perché nella materia specifica non sa. Per esempio, fra la transazione e il ricorso all’autorità giudiziaria, o a un arbitrato, la scelta dell’avvocato può essere dettata più dalle sue prospettive di guadagno che dall’interesse effettivo del cliente, il quale nella maggior parte dei casi non è in grado di valutare con piena cognizione i vantaggi dell’una o dell’altra scelta. Lo stesso accade nel rapporto tra medico e paziente, quando si tratta di scegliere tra diversi possibili mezzi diagnostici o protocolli terapeutici, di cui alcuni siano i più lucrosi per il terapeuta ma non i più appropriati nel caso specifico.

Mettiamoci nei panni di una persona che si è affidata a un avvocato e che si trova a nutrire un dubbio sull’adeguatezza o correttezza del suo operato. Oggi quella persona, se si rivolge a un altro avvocato per averne un parere e un consiglio, si sentirà rispondere che, a norma del codice deontologico forense, senza il consenso del primo legale la pratica non può neppure essere aperta, a meno che il rapporto con lui venga chiuso e la sua parcella interamente pagata: una norma che di fatto protegge l’avvocato incompetente o disonesto dalla «concorrenza» di quello competente e onesto. In questi casi il rapporto con il difensore può diventare, per il cliente, una trappola pericolosa. Anche perché litigare con il proprio avvocato è assai disagevole: a verificare la congruità dell’onorario per l’opera da lui svolta sarà un Consiglio dell’Ordine composto interamente da avvocati, comprensibilmente più propensi alla solidarietà con il collega-elettore che non alla sensibilità per le ragioni del cliente. È ben vero che nella grande maggioranza dei casi sono l’onestà e la correttezza dell’avvocato a garantire il cliente meglio di qualsiasi possibile forma di controllo dall’esterno del rapporto professionale. Ma anche l'avvocato più onesto e più competente può sbagliare ed essere tentato di non riconoscerlo; e anche nel ceto forense, come in tutti gli altri, qualche incompetente, qualche rapace e qualche disonesto c’è. Se la funzione essenziale dell’Ordine consiste nel garantire l’affidabilità dell’avvocato, la nuova legge destinata a disciplinare la materia non può eludere il problema del conflitto di interessi nel rapporto professionale.

Un modo per affrontarlo — sulla scorta delle esperienze che si offrono nel panorama internazionale—è innanzitutto quello di consentire a ciascun avvocato di rendere, con le dovute garanzie di riservatezza, una second opinion sul merito di qualsiasi pratica, nonché un parere sull’operato dell'altro avvocato che la segue, anche quando il rapporto tra quest’ultimo e il cliente è tuttora in corso. Ancor più efficace, poi, sarebbe l’attivazione da parte del Consiglio dell’Ordine, in ogni distretto, di un servizio gratuito, aperto a chiunque intenda controllare l’opera del proprio legale e svolto congiuntamente da un avvocato e da un magistrato competenti per materia, con garanzia di rigoroso segreto su tutto quanto viene loro sottoposto. A chiedere queste innovazioni non dovrebbero essere soltanto le associazioni degli utenti, ma prima ancora gli avvocati stessi (chi scrive è uno di loro): al prestigio della categoria non giova certo l'immagine di casta chiusa e avida, cui in passato hanno contribuito i comportamenti non irreprensibili di alcuni suoi membri, coperti di fatto da quella che poteva apparire come benevola indifferenza dei Consigli dell’Ordine.

Pietro Ichino

03 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_maggio_03/Nuove-regole-per-gli-avvocati-ichino_a762847c-56bd-11df-ae23-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Maggio 04, 2010, 10:22:41 pm »

LETTERA SUL LAVORO

Nuove regole per gli avvocati

Chi difende i clienti dai difensori?

Il problema cruciale è il conflitto di interessi che il legale incontra quando può scegliere tra diverse opzioni


Caro Direttore, mentre la riforma dell’avvocatura muove i primi passi in Parlamento e gli avvocati fanno — legittimamente— sentire il loro fiato sul collo ai politici, sarebbe bene che gli utenti incominciassero a fare altrettanto. Il disegno di legge in discussione al Senato, dedicato alla promozione degli interessi economici di chi già appartiene al ceto forense, non affronta neppure di striscio quello che a me sembra il problema cruciale: il conflitto di interessi in cui l'avvocato si trova ogni volta che gli si aprono davanti due o più strade per la difesa del cliente e la strada più vantaggiosa per quest'ultimo non è la più vantaggiosa per l'avvocato stesso. Nella maggior parte dei casi, il cliente non è in grado di controllare efficacemente le scelte del difensore, come il paziente non è in grado di controllare le scelte del medico. Glielo impedisce la netta asimmetria informativa che caratterizza qualsiasi rapporto professionale: il professionista è colui che sa, il cliente è tale proprio perché nella materia specifica non sa. Per esempio, fra la transazione e il ricorso all’autorità giudiziaria, o a un arbitrato, la scelta dell’avvocato può essere dettata più dalle sue prospettive di guadagno che dall’interesse effettivo del cliente, il quale nella maggior parte dei casi non è in grado di valutare con piena cognizione i vantaggi dell’una o dell’altra scelta. Lo stesso accade nel rapporto tra medico e paziente, quando si tratta di scegliere tra diversi possibili mezzi diagnostici o protocolli terapeutici, di cui alcuni siano i più lucrosi per il terapeuta ma non i più appropriati nel caso specifico.

Mettiamoci nei panni di una persona che si è affidata a un avvocato e che si trova a nutrire un dubbio sull’adeguatezza o correttezza del suo operato. Oggi quella persona, se si rivolge a un altro avvocato per averne un parere e un consiglio, si sentirà rispondere che, a norma del codice deontologico forense, senza il consenso del primo legale la pratica non può neppure essere aperta, a meno che il rapporto con lui venga chiuso e la sua parcella interamente pagata: una norma che di fatto protegge l’avvocato incompetente o disonesto dalla «concorrenza» di quello competente e onesto. In questi casi il rapporto con il difensore può diventare, per il cliente, una trappola pericolosa. Anche perché litigare con il proprio avvocato è assai disagevole: a verificare la congruità dell’onorario per l’opera da lui svolta sarà un Consiglio dell’Ordine composto interamente da avvocati, comprensibilmente più propensi alla solidarietà con il collega-elettore che non alla sensibilità per le ragioni del cliente. È ben vero che nella grande maggioranza dei casi sono l’onestà e la correttezza dell’avvocato a garantire il cliente meglio di qualsiasi possibile forma di controllo dall’esterno del rapporto professionale. Ma anche l'avvocato più onesto e più competente può sbagliare ed essere tentato di non riconoscerlo; e anche nel ceto forense, come in tutti gli altri, qualche incompetente, qualche rapace e qualche disonesto c’è. Se la funzione essenziale dell’Ordine consiste nel garantire l’affidabilità dell’avvocato, la nuova legge destinata a disciplinare la materia non può eludere il problema del conflitto di interessi nel rapporto professionale.

Un modo per affrontarlo — sulla scorta delle esperienze che si offrono nel panorama internazionale—è innanzitutto quello di consentire a ciascun avvocato di rendere, con le dovute garanzie di riservatezza, una second opinion sul merito di qualsiasi pratica, nonché un parere sull’operato dell'altro avvocato che la segue, anche quando il rapporto tra quest’ultimo e il cliente è tuttora in corso. Ancor più efficace, poi, sarebbe l’attivazione da parte del Consiglio dell’Ordine, in ogni distretto, di un servizio gratuito, aperto a chiunque intenda controllare l’opera del proprio legale e svolto congiuntamente da un avvocato e da un magistrato competenti per materia, con garanzia di rigoroso segreto su tutto quanto viene loro sottoposto. A chiedere queste innovazioni non dovrebbero essere soltanto le associazioni degli utenti, ma prima ancora gli avvocati stessi (chi scrive è uno di loro): al prestigio della categoria non giova certo l'immagine di casta chiusa e avida, cui in passato hanno contribuito i comportamenti non irreprensibili di alcuni suoi membri, coperti di fatto da quella che poteva apparire come benevola indifferenza dei Consigli dell’Ordine.

Pietro Ichino

03 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_maggio_03/Nuove-regole-per-gli-avvocati-ichino_a762847c-56bd-11df-ae23-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Giugno 14, 2010, 09:54:26 am »

Lettera sul lavoro

L’accordo possibile per lo stabilimento è un messaggio per gli investitori esteri

L'immagine del sindacato italiano che questa vicenda dà al mondo è quella di un sindacato profondamente diviso


Caro Direttore, quale che sia il risultato finale della partita che si sta giocando in queste ore alla Fiat di Pomigliano d'Arco, essa costituisce l'ennesima conferma della grave inadeguatezza del sistema italiano delle relazioni industriali rispetto alle sfide dell'economia globale. L'immagine del sindacato italiano che questa vicenda dà al mondo è la stessa che diede due anni fa l'inconcludente trattativa con Air France-KLM per il futuro di Alitalia: quella di un sindacato profondamente diviso, ma anche incapace di darsi le regole necessarie per evitare che la divisione generi paralisi.

In un sistema ispirato al principio del pluralismo sindacale, deve considerarsi normale che nella valutazione di un piano industriale a forte contenuto innovativo le associazioni sindacali si dividano. Il problema è che il nostro sistema non ha saputo dotarsi degli strumenti indispensabili per dirimere la questione. Accade così che, se non si arriva a un accordo che coinvolga tutti quanti, l'innovazione rispetto allo standard definito dal contratto collettivo nazionale è poco praticabile: i lavoratori dissenzienti potranno sempre ottenerne dal giudice la disapplicazione nei propri confronti; e i sindacati dissenzienti - anche quando rappresentino soltanto l'uno per cento dei lavoratori interessati - potranno sempre proclamare uno sciopero contro l'accordo, cui potrà aderire quell'uno per cento, ma anche il cinquanta o il cento per cento dei lavoratori, ivi compresi quelli aderenti ai sindacati che l'accordo l'hanno firmato.

Il risultato è che l'imprenditore se ne va altrove con il suo piano industriale innovativo e con la domanda di lavoro che esso porta con sé (è quello che - comprensibilmente - minaccia di fare Marchionne a Pomigliano, se l'accordo non sarà firmato da tutti). Questo gravissimo difetto del nostro sistema delle relazioni industriali non è - beninteso - la sola causa della scarsa attrattività dell’Italia per le imprese multinazionali; ma molti osservatori qualificati lo considerano come una delle cause principali, insieme alla complessità, ipertrofia e incomprensibilità del nostro diritto del lavoro, per gli stranieri e non solo per loro. Nel momento in cui ci proponiamo di curare il «male oscuro» che da due decenni impedisce al nostro Paese di crescere, faremmo bene ad affrontare e risolvere questo problema al più presto.

Pietro Ichino

14 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_giugno_14/ichino-investitori-esteri_71dfe48a-7778-11df-9d1c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Giugno 22, 2010, 05:14:37 pm »

APPUNTI DI UN GIURISTA SU POMIGLIANO

di Pietro Ichino* 18.06.2010

La protesta della Fiat di Pomigliano. Da Autoblog.it

 

Le due clausole dell’accordo che la Fiom-Cgil denuncia come contrarie alla legge, e per alcuni aspetti anche alla Costituzione, sono queste: una in materia di malattia, che esclude il pagamento della retribuzione per le giornate di astensione dal lavoro in cui si verifichino aumenti anomali dei tassi di assenza in corrispondenza con eventi esterni di natura diversa da epidemie (per esempio: la partita di calcio giocata al mercoledì); l’altra in materia di sciopero, che vieta la proclamazione di – e la partecipazione dei singoli lavoratori a – scioperi volti a “rendere inesigibile” l’attuazione dell’accordo stesso (per esempio: uno sciopero dello straordinario, che renda inesigibili le 80 ore annue di “straordinario obbligatorio” previsto in funzione della variabilità delle esigenze produttive).
A me sembra che possano esserci altri motivi di ragionevole rifiuto dell’accordo, come la pesantezza dei ritmi di lavoro o i turni notturni, ma che le clausole sui tassi anomali di assenze e la clausola di tregua sindacale siano, invece, non soltanto pienamente legittime, ma anche molto sensate, sia dal punto di vista dell’interesse dell’impresa, sia da quello dell’interesse dei lavoratori.

RETRIBUZIONE IN CASO DI MALATTIA

Sulla materia del trattamento economico del lavoratore assente per malattia, a carico del datore di lavoro, la sola norma legislativa generale oggi in vigore è l’articolo 2110 del Codice civile, che attribuisce alla contrattazione collettiva il compito di stabilire entità e limiti della retribuzione dovuta all’infermo. Fino ai rinnovi contrattuali del 1972, quasi tutti i contratti collettivi prevedevano che il trattamento retributivo decorresse dal quarto giorno di assenza: i primi tre giorni – detti “di carenza” – costituivano dunque un periodo di franchigia, nel quale il lavoratore non era retribuito. Dal 1972 quasi tutti i contratti collettivi hanno previsto invece la retribuzione anche per i primi tre giorni; ma in numerose occasioni si sono registrate disposizioni collettive che, al fine di incentivare la riduzione delle assenze per malattia, hanno limitato il relativo trattamento, istituendo dei “premi di presenza”, oppure voci retributive escluse dal trattamento stesso.
In questo ampio spazio che la legge attribuisce alla contrattazione collettiva rientra sicuramente anche la possibile reintroduzione di uno o più giorni “di carenza”, collegati o no a determinate circostanze oggettive. E’ quanto dispone la clausola n. 8 dell’accordo, che prevede il non pagamento della retribuzione nel caso in cui si verifichino dei tassi anomali di assenza dal lavoro “in occasione di particolari eventi non riconducibili a forme epidemiologiche”. La disposizione è strutturata in funzione di contrasto a forme di assenteismo abusivo che si sono registrate con notevole frequenza, in occasione della trasmissione televisiva di importanti partite di calcio, oppure della proclamazione di scioperi.
Tutti i numerosi giuslavoristi con cui ho avuto occasione di discuterne in questi giorni concordano sul punto che questa disposizione non contrasta con alcuna disposizione di legge. Certo, essa configura una deroga – seppur marginale – rispetto al contratto collettivo nazionale per il settore metalmeccanico, il quale non prevede eccezioni al pagamento dell’intera retribuzione nei primi tre giorni di malattia. Ma è pacifico in giurisprudenza e in dottrina che il contratto collettivo nazionale può essere validamente derogato da un contratto aziendale. Il problema riguarda soltanto il campo di applicazione di quest’ultimo: l’applicazione è estesa a tutti i dipendenti dell’azienda soltanto se esso è stipulato unitariamente da tutte le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto nazionale stesso (ed è questo il motivo per cui la Fiat chiede che l’accordo aziendale sia firmato, appunto, da tutte).

LA CLAUSOLA DI RESPONSABILITÀ

La disposizione n. 13 della bozza, denominata “clausola di responsabilità”, commina la decadenza dai diritti previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro per l’organizzazione sindacale firmataria dell’accordo aziendale che proclami uno sciopero (o altra forma di agitazione) volto a “rendere inesigibili” le condizioni di lavoro previste nell’accordo stesso. Si tratta, in sostanza, di un patto di tregua sindacale, che è oggi considerato pacificamente valido e vincolante per il sindacato che lo stipula. La Fiom-Cgil contesta tuttavia la parte della disposizione che qualifica come illegittimo anche il comportamento dei singoli lavoratori i quali aderiscano a uno sciopero (o altra forma di agitazione) proclamato in violazione del patto di tregua. A me sembra che, se la proclamazione dello sciopero è illegittima per violazione di un patto di tregua validamente sottoscritto dal sindacato proclamante, debba considerarsi illegittima anche l’adesione del lavoratore a quello sciopero: mi sembra pertanto che anche quest’ultima parte della disposizione proposta debba considerarsi pienamente valida.
Osservo, peraltro, che la pretesa inefficacia della clausola di tregua nei confronti dei singoli lavoratori priverebbe i lavoratori stessi e il sindacato che li rappresenta della principale “moneta di scambio” di cui essi dispongono al tavolo delle trattative. Non è un caso che in nessun altro ordinamento europeo si applichi una regola che esenti i singoli lavoratori da responsabilità per l’adesione a uno sciopero illegittimo.
La tesi contraria – sostenuta da una parte dei giuslavoristi italiani ma priva di qualsiasi fondamento testuale nella legge vigente – secondo cui il diritto di sciopero costituirebbe una prerogativa del singolo lavoratore, di cui il sindacato non potrebbe disporre con il patto di tregua, è smentita dalla legge che regola lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (L. n. 146/1990), dove si attribuisce alle organizzazioni sindacali il potere di negoziare i codici di regolamentazione settore per settore, con effetti direttamente vincolanti anche per i singoli lavoratori. Quella tesi è comunque funzionale a un modello di relazioni industriali – quello della cosiddetta “conflittualità permanente” – che in Italia sopravvive, a dispetto di quella legge, nel solo settore dei trasporti, ma è ormai quasi completamente superato in tutti i settori manifatturieri.    

LA PRIORITÀ? ATTRARRE GLI INVESTIMENTI

Lo scenario in cui questo dibattito si colloca è quello di un’Italia affamata di investimenti, indispensabili per tornare a crescere; e penultima in Europa (davanti alla sola Grecia) per capacità di attirarli: vedi la tabella che segue. Questa “fame” è fortemente accentuata nel Mezzogiorno, dove il bisogno di crescita economica è assai maggiore che nel resto del Paese e le condizioni del mercato del lavoro assai peggiori.
L’Italia ha un solo modo per ricominciare a crescere e per tirar fuori le proprie regioni meridionali dal sottosviluppo che le caratterizza: riuscire a ingaggiare il meglio dell’imprenditoria mondiale e a intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali in misura molto superiore all’attuale. Per questo non occorrono soltanto amministrazioni pubbliche più efficienti, infrastrutture meno difettose e servizi alle imprese meno cari, ma occorre anche un sistema di relazioni industriali nel quale i patti di tregua garantiscono la tregua per davvero, come tutto il resto d’Europa; e sindacati disposti a negoziare con gli imprenditori le misure (legittime) idonee a contrastare efficacemente abusi radicati come quello del “mettersi in malattia” per assistere alla partita.
Per questo la vicenda di Pomigliano è di importanza cruciale per tutto il Paese: basti pensare a quale messaggio verrebbe dato alle imprese multinazionali di tutto il mondo, se la vicenda dovesse concludersi con il rigetto, da parte del nostro sistema di relazioni industriali, di un investimento di 700 milioni motivato con l’intangibilità della prassi della conflittualità permanente e con il rifiuto di disposizioni – in sé legittime e del tutto ragionevoli – volte a contrastare l’assenteismo abusivo.


FLUSSI DI INVESTIMENTI ESTERI NEI PRINCIPALI PAESI EUROPEI
                    
VAI a leggerli su:
 
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001784.html
« Ultima modifica: Giugno 22, 2010, 05:28:07 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #24 inserito:: Luglio 19, 2010, 04:29:17 pm »

19/7/2010

Sulla manovra metodi e modi del Pd
   
PIETRO ICHINO*

Caro Direttore,
su «La Stampa» di venerdì Luca Ricolfi, dopo avere illustrato molto convincentemente meriti e (prevalenti) difetti della manovra finanziaria approvata dalla maggioranza in Senato il giorno prima, ha accennato a quella che gli è apparsa una «imbarazzante inerzia» dell’opposizione in questo passaggio politico. Se riferita ad altre vicende e altre materie, non avrei avuto nulla da obiettare a questa notazione; ma poiché ho partecipato personalmente, come senatore, a questa prima fase della discussione della manovra in Parlamento, posso testimoniare che qui l’opposizione si è fatta sentire vigorosamente con i propri interventi e le proprie proposte di emendamento lungo tutte le cento ore di discussione molto tesa in commissione e in aula; fuori del Palazzo lo ha fatto con i modesti mezzi di comunicazione di cui i partiti di minoranza dispongono; e, in particolare, il Pd lo ha fatto, sia dentro sia fuori del Palazzo, su di una linea in larga parte coincidente con quella esposta dallo stesso Ricolfi nel suo editoriale.

Così stando le cose, se un opinionista equilibrato e informatissimo come è Ricolfi ha percepito i partiti di opposizione e il Pd in particolare come inerti e afasici anche in questo passaggio politico, le spiegazioni possibili mi sembrano soltanto due. La prima è che lo strapotere televisivo del presidente del Consiglio abbia determinato una sostanziale distorsione dell’informazione sulla vicenda della manovra finanziaria, facendo apparire inerti e afasiche forze politiche che – almeno in questa occasione – non lo sono state affatto. La seconda è che, indipendentemente dallo strapotere televisivo del premier, il meccanismo mediatico faccia sì che venga data notizia soltanto di un’opposizione «dura e pura», «senza se e senza ma», che si manifesta con rifiuti totali e indistinti, magari rafforzati da qualche rissa in Parlamento; quando invece, come ha fatto il Pd sulla manovra di Tremonti, l’opposizione propone ragionamenti, distingue ciò che è condivisibile da ciò che va rifiutato nelle scelte della maggioranza, facendosi carico dei vincoli oggettivi che nel contesto attuale si impongono a qualsiasi governo, allora la cosa non fa notizia; quindi, fuori del Palazzo, finisce coll’essere invisibile. In altre e più semplici parole: se Enrico Morando – invece che guidare in questa battaglia i senatori del Pd con la stessa onestà intellettuale, lo stesso rifiuto della faziosità e lo stesso rigore concettuale con cui Ricolfi fa il suo mestiere di opinionista – avesse urlato insulti e inscenato un tentativo di aggressione al capogruppo di maggioranza in Commissione, o al ministro Tremonti in aula, tv e giornali avrebbero dato a questo fatto un rilievo infinitamente maggiore rispetto a quello (nullo) che è stato dato alle decine di suoi interventi pesantemente e incisivamente – ma non faziosamente – critici sulla manovra, svolti nei giorni scorsi. Forse entrambe le spiegazioni colgono un aspetto importante della realtà. In ogni caso, Ricolfi tenga conto del fatto che, se nei giorni scorsi fosse stato lui al posto di Enrico Morando a condurre la battaglia in Senato dai banchi dell’opposizione, anche i suoi interventi sarebbero stati ignorati dai media. Quindi, anche la sua opposizione sarebbe apparsa afasica e inerte.

*senatore Pd

***

Caro Ichino,
hai perfettamente ragione, le cose vanno proprio come dici tu, però c'è forse anche un altro aspetto da considerare.
Il Partito democratico esprime spesso posizioni molto ragionevoli nelle commissioni, in Parlamento, più in generale nei luoghi in cui si discutono i dettagli delle leggi: penso alla riforma Brunetta-Ichino della pubblica amministrazione, alle proposte sulla manovra economica, al dialogo in corso sull’università. Poi però nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nelle interviste a giornali e tv tutto il lato «costruttivo» del quotidiano lavoro di opposizione evapora, per cedere il posto ad analisi semplicistiche, slogan aggressivi, falsificazioni delle cifre, manipolazioni della realtà. E’ come se l’opposizione del Pd, incalzata da Di Pietro e dalla propria stessa base, si vergognasse di mostrare a tutti il suo volto dialogante e ragionevole.
Detto in altri termini: i media hanno molte colpe, ma forse è anche il tuo partito che - nelle occasioni pubbliche - preferisce scaldare i cuori dei suoi simpatizzanti piuttosto che parlare alle loro menti. Secondo me è un errore, ed è una delle ragioni per cui l'immagine della sinistra che arriva nelle case non è quella della sinistra che fa il suo lavoro - spesso un ottimo lavoro - nelle aule del parlamento.
Con ammirazione e stima

Luca Ricolfi

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7610&ID_sezione=&sezione=

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16/7/2010

La fine di una stagione
   
LUCA RICOLFI

Come ampiamente previsto, ieri la manovra economica ha ottenuto la fiducia in Senato e, salvo sorprese molto improbabili, entro fine mese otterrà la fiducia anche alla Camera.

È una buona manovra?

Dipende dai punti di vista. Sul piano macroeconomico era una manovra necessaria, e se una critica si può avanzare è semmai che è stata troppo leggera: si poteva tagliare di più la spesa pubblica corrente, e fare qualcosa di incisivo per la crescita, ad esempio più investimenti in istruzione e meno tasse sui produttori.

Se però andiamo ai dettagli della manovra, e in particolare alla distribuzione dei risparmi di spesa, il bilancio si fa decisamente negativo. Dico questo non dal mio personale punto di vista, che è di nessuna rilevanza, bensì dal punto di vista del governo stesso, o meglio della cultura politica di cui il centro-destra ha provato in questi anni a farsi interprete. Secondo questa visione, la missione centrale di questo governo era di introdurre nel Paese massicce dosi di meritocrazia, di premialità, di responsabilità, di equità, a partire dalla scuola, dall’università, dai bilanci degli enti locali.

Ebbene, rispetto a questo ideale, per cui non pochi ministri si sono coraggiosamente battuti in questi anni, le manovre degli ultimi anni rappresentano un mortificante salto all’indietro.

Nelle università i tagli sono stati sostanzialmente lineari, senza alcun riguardo alle enormi differenze di efficienza fra i diversi atenei e le diverse facoltà. Nella scuola, la promessa di destinare il 30% delle risorse risparmiate con i tagli della prima manovra (estate 2008) ad un premio per gli insegnanti più meritevoli è stata sospesa per salvare gli scatti stipendiali automatici del corpo insegnante. Quanto alle Regioni, il governo si è ben guardato dallo specificare in che modo i tagli dovranno risparmiare le Regioni più virtuose (l’art. 14 è un capolavoro di vaghezza). Per non parlare dei ripiani più o meno parziali dei debiti degli enti locali, che hanno visto via via graziati Catania, Palermo, Roma. O della possibilità, concessa solo alle Regioni a statuto speciale (notoriamente più sprecone delle altre), e in particolare alla Sicilia, di prorogare i contratti a tempo determinato. E infine, dulcis in fundo: la dilazione del pagamento delle multe per le quote latte, un favore a un manipolo di allevatori del Nord che mortifica tutti i produttori onesti, che hanno rispettato le quote.

Si può obiettare, naturalmente, che la politica è l’arte del possibile, e che per presentarsi in Europa con i conti in ordine e salvare la pace sociale il governo ha dovuto fare qualche concessione alle lobby e alle forze politico-sindacali che lo tengono sotto scacco. Può darsi, ma il punto è che così facendo il governo ha purtroppo contribuito con le proprie stesse mani a segnare la fine di una stagione, anzi di quella che doveva essere la «sua» stagione. I segnali iniqui e antimeritocratici contenuti nelle tre grandi manovre che si sono succedute in questi primi due anni e mezzo sono così intensi che ben difficilmente il governo potrà, su questo terreno, riguadagnare la credibilità perduta. Se è bastato il fronte delle Regioni a impedire tagli selettivi, sarà ben difficile che quel che non è stato possibile oggi - premiare i territori virtuosi - divenga possibile domani in conferenza Stato-Regioni, o con i decreti attuativi del federalismo. Se la decisione già presa di premiare gli insegnanti migliori ha dovuto essere sospesa per salvare gli automatismi di carriera, non si vede quando mai sarà possibile introdurre un po’ di meritocrazia nella scuola. E se poche decine di allevatori sponsorizzati dalla Lega sono stati sufficienti a introdurre una norma iniqua come quella sulle quote latte, non si vede come sarà possibile agire domani, quando si dovranno colpire interessi ben più estesi e organizzati.

Ma forse la verità che sta dietro tutte queste vicende è che - nonostante i benefici di un’opposizione imbarazzante nella sua pochezza - il governo è debole, molto più debole che qualche mese fa. Così debole che basta la fronda dei finiani a costringerlo a una raffica di dimissioni (Scajola, Brancher, Cosentino), che ancora poche settimane fa venivano sdegnosamente escluse. Così debole che ogni alzata d’ingegno della Lega, dalla difesa delle Province alla tutela corporativa degli allevatori, è in grado di condizionare la politica economica. Così debole che non riesce a introdurre tagli veramente selettivi nelle università, nelle Regioni, negli enti locali. Così debole da prendere in seria considerazione sia l’ipotesi di allargare la maggioranza all’Udc, sia l’ipotesi di riportare il Paese al voto nonostante una maggioranza parlamentare senza precedenti.

Chi è abituato a ragionare in termini ideologici o di schieramento potrà rallegrarsi che il governo Berlusconi sia entrato in una fase di stallo, se non di crisi aperta. Chi sogna il «grande centro» o governi di «responsabilità nazionale» potrà pensare che l’ora delle terze forze è finalmente arrivata. Io sono molto più scettico e penso invece che la triste parabola del governo Berlusconi confermi solo che il rebus italiano non ha soluzioni, come la quadratura del cerchio. Il centrodestra non ha la forza per fare le riforme che mille volte ha promesso al Paese, prime fra tutte la riduzione delle tasse, il federalismo, la riforma meritocratica della Pubblica amministrazione. Un governo più largo, di responsabilità nazionale, avrebbe forse la forza di parlare al Paese ma sarebbe paralizzato dalle divisioni interne e dai veti incrociati. Quanto alla sinistra, basta il ricordo del governo Prodi per toglierci ogni illusione. Così quel che ci resta è solo una montagna di parole, e la stanchezza di constatare che sono sempre le stesse.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7602&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #25 inserito:: Agosto 12, 2010, 04:48:20 pm »

L'INTERVISTA

Ichino: "Il diritto di sciopero va limitato da accordi sindacali"

Il giuslavorista e senatore Pd: "La nostra cultura del diritto del lavoro è arretrata, ancor più della legge".

"Giusto un contratto per il settore auto: le norme per i metalmeccanici sono le stesse dal 1972"

di PAOLO GRISERI


Pietro Ichino, senatore del Pd, è uno dei principali esperti italiani di diritto del lavoro.
Professor Ichino, si aspettava che la Fiat di Marchionne potesse essere condannata per comportamento antisindacale?
"Sono cose che accadono anche nelle migliori famiglie. Del resto, la Fiat avrebbe potuto anche vincere la causa: il giudice ha ritenuto, in via provvisoria, il licenziamento ingiustificato solo perché ha considerato che l'istruttoria sommaria non avesse dimostrato il dolo dei lavoratori, cioè la loro volontà di ostruire il flusso dei carrelli automatici. Con questo, lo stesso giudice implicitamente avverte che, se invece nel giudizio di merito quella volontà risultasse dimostrata, il licenziamento potrebbe essere convalidato".

Il Lingotto chiede ai sindacati la certezza che il ciclo produttivo si possa svolgere senza interruzioni. È possibile in una democrazia occidentale avere questa certezza?
"Certo che sì: proprio a questo serve la clausola di tregua sindacale, che in quasi tutti gli altri Paesi occidentali vincola non soltanto il sindacato stipulante, ma anche i singoli lavoratori cui il contratto si applica. Se Italia questa regola non vale, non è perché lo stabilisca la legge, ma perché nella nostra cultura giuslavoristica prevale ancora un'idea vecchia. Molti giuslavoristi, comunque, non la condividono più".

Quale idea?
"Quella secondo cui il contratto collettivo non può disporre del diritto del singolo lavoratore di aderire in qualsiasi momento a qualsiasi sciopero, anche se proclamato da un mini-sindacato. È l'idea della "conflittualità permanente", i cui fasti si sono celebrati negli anni '70, e che oggi in Italia è praticata ancora soltanto nel settore dei trasporti e in quello metalmeccanico. Dobbiamo chiederci se ci conviene continuare a difendere questa peculiarità del sistema italiano di relazioni industriali. La sfida di Marchionne ha il merito di farci toccare con mano quanto questa idea possa essere costosa per gli stessi lavoratori".

In questi giorni i tecnici di Federmeccanica stanno preparando un'ipotesi di contratto nazionale del solo settore auto. La considera una strada praticabile?
"Mi sembra una scelta non solo praticabile, ma anche auspicabile, oggi il contratto nazionale dei metalmeccanici si applica ad aziende diversissime, dal settore aerospaziale, alle fonderie e alle case di software. E, nella sua parte normativa, quel contratto è rimasto fermo al 1972".

Quali sono gli attuali diritti dei lavoratori che una nuova normativa contrattuale nelle fabbriche potrebbe modificare e quali invece quelli che, a suo parere, sono intoccabili?
"Di regola, il contratto collettivo può disporre di tutto ma non di diritti o standard di trattamento garantiti ai lavoratori da una legge".

Nel caso dell'accordo di Pomigliano questi diritti sono stati toccati?
"No. Si può rifiutare quell'accordo perché non lo si ritiene abbastanza vantaggioso per i lavoratori, ma non perché esso violi la legge, né nella parte sulle punte di assenza per malattia, né nella parte sulla tregua sindacale".

Ma deroga al contratto nazionale del settore.
"Questo è il problema: nel nostro sistema attuale non sono chiari i requisiti e le condizioni per la validità della contrattazione al livello aziendale di deroghe rispetto al contratto nazionale. Questo è un grave difetto del sistema, che dobbiamo correggere al più presto, se non vogliamo che le divisioni tra i sindacati paralizzino la sperimentazione di piani industriali innovativi".

(12 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/08/12/news/intervista_ichino-6234092/?ref=HRER2-1
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 23, 2010, 05:57:27 pm »

L'intervento / la sfida sui 3 operai

Melfi, perché questa volta Fiat sbaglia

Il nodo è il rischio di paralisi del progetto per il veto di un sindacato minoritario

   
Caro direttore,

è davvero difficile capire il comportamento della Fiat a Melfi. Questo scontro sulla reintegrazione dei tre lavoratori licenziati pone al centro del dibattito una scelta nella quale l'azienda ha probabilmente torto, perché l'ordinanza cautelare del giudice deve essere rispettata integralmente, anche se la si ritiene sbagliata. Lo scontro di Melfi distoglie invece l'attenzione dell'opinione pubblica dalle questioni assai più importanti sollevate - con piena ragione, queste - dall'amministratore delegato della Fiat, quando ha proposto al nostro Paese il suo colossale piano industriale.

Nella vertenza esplosa in seno allo stabilimento lucano l'azienda può forse avere ragione sul merito della questione: non si può affatto escludere - neppure il tribunale di Melfi, nella sua ordinanza del 9 agosto scorso, lo esclude - che effettivamente i tre sindacalisti durante lo sciopero del 7 luglio abbiano operato deliberatamente per ottenere il blocco dei carrelli automatici, in modo da paralizzare l'attività dello stabilimento, nonostante che la maggioranza dei lavoratori avesse rifiutato di aderire all'agitazione. Ma già la scelta del licenziamento, in un caso in cui avrebbe potuto adottarsi anche una sospensione disciplinare, ha l'effetto di radicalizzare lo scontro; ora non si comprende davvero la necessità dell'ulteriore inasprimento conseguente alla scelta di ottemperare in modo cavilloso all'ordine provvisorio del giudice (la direzione aziendale non impedisce ai tre licenziati l'ingresso in azienda, né l'esercizio da parte loro dell'attività sindacale, ma li esonera dalla prestazione lavorativa). Le stesse Cisl e Uil, che in questa vicenda appoggiano il piano industriale di Marchionne, sono messe in difficoltà da questa scelta dell'azienda.

Vero è che la Fiat probabilmente annette all'episodio del blocco dei carrelli verificatosi durante lo sciopero del 7 aprile un significato di portata più generale, vedendo in esso la prima manifestazione di una guerriglia con cui la Fiom - pur minoritaria tra i dipendenti Fiat - potrebbe proporsi di impedire l'attuazione dell'accordo sul piano industriale, approvato dalla coalizione sindacale maggioritaria. E questo è proprio il nodo cruciale della questione che Marchionne ha il merito di aver posto apertamente all'Italia: non è pensabile che una multinazionale investa miliardi su di un piano industriale se questo è esposto al rischio di essere paralizzato dal veto di un sindacato minoritario. E non soltanto dal veto della Fiom, che qui rappresenta pur sempre un quinto dei lavoratori interessati, ma anche da quello del mini-sindacato o del comitato di base che ne rappresenti, in ipotesi, l'1 per cento. Non si può dimenticare che i Cobas alla Fiat di Pomigliano hanno proclamato lo «sciopero permanente dello straordinario» fino al 2014 e che, secondo il nostro diritto sindacale attuale (caso unico in Europa) qualsiasi dipendente potrà in qualsiasi momento aderire a questo sciopero, perché il patto di tregua contenuto nell'accordo per il nuovo piano industriale non vincola i singoli lavoratori: con questo si toglie ogni certezza di efficacia a una delle clausole che costituiscono la chiave di volta della nuova organizzazione del lavoro prevista dal piano.

Se a questo aggiungiamo la guerriglia giudiziaria che, nel nostro ordinamento attuale, può essere scatenata anche contro altre clausole di importanza cruciale per il piano industriale (in quanto stipulate in deroga rispetto al contratto collettivo nazionale) si comprendono le ragioni di Marchionne, quando ci chiede di adeguare il nostro sistema di relazioni industriali rispetto agli standard dell'Occidente industrializzato. La sua richiesta esplicita e ruvida scandalizza chi, nella vecchia sinistra politica e in quella sindacale, è rimasto legato a un'idea del diritto di sciopero ispirata al modello della conflittualità permanente «anni '70». Invece l'amministratore delegato della Fiat ci fa un servizio prezioso: le altre multinazionali non perdono tempo a discutere di queste cose quando decidono di starsene alla larga dal nostro Paese. Se rifiutiamo di prendere sul serio quello che Marchionne ci propone, e che è normale in quasi tutti gli altri Paesi industrializzati, chiudiamo gli occhi su una delle cause principali (non l'unica, certo, ma sicuramente una delle più importanti) dell'incapacità dell'Italia di attirare gli investimenti stranieri: in Europa solo la Grecia fa peggio di noi, su questo piano. E dimentichiamo che correggere questo nostro difetto e aprirci agli investimenti delle multinazionali costituisce la leva più efficace di cui oggi possiamo disporre per ricominciare a crescere, dopo un quarto di secolo di stagnazione, fare crescere la domanda di lavoro e le retribuzioni.

Pietro Ichino

23 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/economia/10_agosto_23/una-radicalizzazione-che-oscura-il-piano-marchionne-ichino_77194904-ae79-11df-92e9-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 15, 2010, 06:01:20 pm »

La provocazione di Ichino: «L'alternativa al modello Marchionne è la camorra»

Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2010 alle ore 14:10.

   
«Marchionne ci fa un servizio prezioso». Questo il parere di Pietro Ichino, giuslavorista senatore del Pd, intervenuto a "24 Mattino" su Radio 24 dopo le contestazioni emerse alla festa del Pd. Parlando del caso Fiat e di Pomigliano, il giuslavorista ha detto: «Marchionne pone una questione: le nostre regole in materia di relazioni sindacali e lo stesso ordinamento del lavoro non corrispondono agli standard dell'occidente avanzato e costituiscono un ostacolo per l'Italia di aprirsi agli investimenti delle multinazionali».

«Marchionne dunque ci fa un servizio prezioso perché le multinazionali stanno alla larga dell'Italia senza dirci qual è il problema, lui invece ci avverte: ci dice che qui ci sono attriti da risolvere e che non attengono ai diritti fondamentali, come dicono la vecchia sinistra o la Fiom». Sul caso Pomigliano Ichino aggiunge: «Sul piano sindacale la maggioranza dei lavoratori ha accettato la nuova organizzazione del lavoro proposta da Marchionne. Credo che abbiano fatto bene i loro conti. E a chi (Fausto Bertinotti, ndr) parla di modalità concentrazionarie, bisogna valutare le alternative dei lavoratori di Pomigliano. Le alternative sono quelle descritte da Saviano in "Gomorra", il lavoro nei sottoscala controllati dalla camorra a 800 euro al mese senza contributi e alcun minimo diritto sindacale. Questa è la realtà del mercato del lavoro nella periferia di Napoli. La deroga peggiore al contratto collettivo tollerata da decenni é quella governata dalla camorra, altroché le deroghe che chiede Marchionne».

Quanto alla contestazione subita due giorni fa alla festa del Pd a Milano. Ichino, da anni sotto scorta perché minacciato dalle nuove Br, ha aggiunto: «È la stessa tecnica usata per Marco Biagi, porta a ignorare le idee altrui e in definitiva la realtà. In questo tentativo di non farmi parlare ci vedo una tecnica del demonizzare chi dissente. È il tentativo di creare un cordone sanitario perché delle tue idee non si deve discutere. Il nesso tra questa aberrazione politica e l'aberrazione terroristica è molto labile, non voglio mescolare i due discorsi. Certo che la vecchia sinistra in Italia non ha abbandonato il vecchio costume per cui su determinate questioni non si deve discutere. Per esempio parlare della derogabilità o rigida inderogabilità del contratto nazionale in Italia non è ammesso, è un tabù».

Ichino poi ha affrontato il tema dei salari in Italia: «La prima risposta che deve dare la politica è detassare i redditi di lavoro fino a mille euro e spostare il carico dell'Irpef sui redditi medi e alti. Questo è un punto drammatico, una questione che non viene affrontata dalla politica».

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-09-15/provocazione-ichino-alternativa-modello-141033.shtml?uuid=AYEgZAQC
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 22, 2011, 12:40:59 pm »

Riforme

Il lavoro e i veti che non aiutano

Non è affatto impensabile, per tutti i nuovi rapporti di lavoro, coniugare flessibilità maggiore con sicurezza professionale


Caro Direttore,
nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro che si è aperto dopo l'intervista del ministro Elsa Fornero al Corriere del 18 dicembre, si osserva una straordinaria divaricazione tra la sostanza politico-economica della questione, che viene per lo più sottaciuta, e gli argomenti sui quali ci si accapiglia. Il primo tema caldo sollevato a sproposito è stato quello del rischio che l'introduzione di una nuova disciplina del lavoro in un periodo di recessione economica scateni un'ondata di licenziamenti.

Il capo del governo Mario Monti è stato chiarissimo, fin dal discorso programmatico del 17 novembre, sul punto che la riforma non deve toccare i rapporti di lavoro già costituiti, bensì soltanto quelli destinati a costituirsi da qui in avanti. Nella congiuntura attuale, dunque, la riforma potrà influire soltanto sul flusso delle assunzioni, non certo su quello dei licenziamenti.
Un altro tema caldo, anzi caldissimo, sollevato a sproposito per chiudere il discorso prima ancora che si apra, è quello dell'intangibilità dell'articolo 18 dello Statuto, come chiave di volta della protezione della libertà e della dignità dei lavoratori. Ora, la questione che il ministro del Lavoro ha posto nella sua intervista al Corriere è proprio quella del come voltar pagina rispetto a una situazione che vede le nuove generazioni per lo più escluse da quella protezione. E tutti i progetti di riforma oggi sul tavolo prevedono che per questo aspetto - cioè in particolare quello della tutela antidiscriminatoria - il campo di applicazione dell'articolo 18 venga esteso a tutta la vasta area di lavoro sostanzialmente dipendente che ne è attualmente esclusa.

Molto più serie sono le questioni sollevate da chi, come Cesare Damiano, nell'intervista al Corriere di ieri, entra nel merito del problema. Le obiezioni dell'ex-ministro del Lavoro alla prospettiva enunciata da Mario Monti di imitare in Italia il modello scandinavo sono essenzialmente tre: i Paesi scandinavi sono molto più piccoli del nostro; il loro mercato del lavoro è dotato di servizi molto più efficienti dei nostri; essi infine dispongono di molte più risorse economiche per il sostegno del reddito dei lavoratori che perdono il posto. A ben vedere, è sostanzialmente lo stesso discorso che su queste pagine ha proposto Mario Fezzi, avvocato della Cgil, il 30 novembre scorso. Entrambi questi interventi, molto ragionevolmente, lasciano intendere il vero nodo politico: affrontiamo e risolviamo prima la questione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, e la questione di come estenderla davvero a tutti i lavoratori; risolta quella, un accordo sulle regole della flessibilità del lavoro non faticheremo a trovarlo.

Esaminiamo dunque una per una le questioni di merito sollevate. Sulle dimensioni geopolitiche, in realtà, il problema non dovrebbe porsi. La Svezia ha la stessa popolazione - e lo stesso identico reddito pro capite - della Lombardia; all'incirca lo stesso può dirsi della Danimarca in riferimento a Regioni come il Piemonte, il Veneto o l'Emilia Romagna; le altre per la maggior parte sono più piccole. E dal 2001 le nostre Regioni hanno piena competenza legislativa e amministrativa in materia di servizi al mercato del lavoro. Certo, i nostri servizi pubblici in questo campo sono gravemente inefficienti. Ma non è che in Italia manchi il know-how specifico: abbiamo anche noi le agenzie che sanno offrire servizi eccellenti di outplacement (assistenza intensiva per la ricollocazione) e di riqualificazione professionale mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. Il problema è che sono agenzie private, le quali chiedono di essere pagate a prezzi di mercato. Nulla impedisce, però, di pensare che le Regioni incomincino a spendere meglio i fiumi di denaro che oggi sperperano in questo campo, ivi compresi i cospicui contributi del Fondo sociale europeo oggi poco e malissimo utilizzati, per rimborsare il costo standard di mercato di questi servizi alle imprese che se ne avvalgano per ricollocare i propri lavoratori.

Resta il problema del sostegno del reddito ai lavoratori stessi. Qui non sarebbe difficile riconvertire una parte dell'enorme spesa oggi sostenuta dall'Inps per la cassa integrazione «a zero ore» attivata a fondo perduto per congelare le crisi occupazionali aziendali, destinandola invece a estendere a tutti i settori il trattamento di disoccupazione speciale oggi riservato ai lavoratori dell'industria: 80 per cento per il primo anno successivo alla perdita del posto. Per arrivare ai livelli danesi di entità e durata del sostegno del reddito al lavoratore disoccupato occorre aggiungere un trattamento complementare; questo oggi può essere chiesto alle imprese stesse, in cambio di una flessibilità di livello danese. In questo modo non è affatto impensabile, per tutti i nuovi rapporti di lavoro, coniugare una flessibilità delle nostre strutture produttive molto maggiore con una sicurezza economica e professionale dei lavoratori di livello scandinavo. E a questo punto i veti politico-sindacali sono destinati a cadere, o quanto meno a stemperarsi.

Pietro Ichino

22 dicembre 2011 | 8:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_22/ichino-lavoro-veti_a3d585e2-2c69-11e1-a06d-72efe21acfe6.shtml
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 20, 2012, 06:24:27 pm »

RESTA UNA ROULETTE

di Andrea Ichino e Paolo Pinotti 20.03.2012

Ringraziamo Nicola Persico per aver portato nuova linfa al confronto di opinioni tra economisti e magistrati originato dai nostri articoli, confronto che, per inciso, forse non avrebbe avuto luogo senza gli articoli stessi.

UN ESEMPIO CHIRURGICO

Può essere utile, per chiarire il nostro pensiero alla luce dei commenti di Nicola Persico, considerare il caso di una malattia che, allo stato attuale delle conoscenze mediche, possa essere curata solo con un intervento chirurgico eseguibile in diverse varianti tutte molto incerte. I pazienti arrivano al pronto soccorso e casualmente trovano in servizio uno dei tanti chirurghi di un ospedale. I chirurghi sono tutti bravissimi, ma hanno legittime opinioni diverse su quale sia la variante migliore di intervento a seconda delle peculiarità specifiche del malato. I cittadini, quindi, senza alcuna “colpa” dei medici, si trovano esposti a una lotteria, riguardo ai risultati dell’operazione, che in parte deriva dall’incertezza stessa della tecnica chirurgica e in parte deriva anche dai legittimi orientamenti del medici. È perfettamente possibile che la variante A preferita dal medico X generi mediamente esiti più infausti, ma, in caso di successo, dia risultati migliori. Viceversa, con la variante B preferita dal medico Y.
In questo contesto, ipotizziamo che venga scoperta una terapia farmacologica che riduce notevolmente la variabilità degli esiti terapeutici, anche senza assicurare guarigione certa. La terapia farmacologica riduce solamente l’incertezza a cui sono esposti i cittadini che devono ricorrere al pronto soccorso. Per quale motivo l’ospedale non dovrebbe prendere in considerazione la terapia alternativa, che implicherebbe di non affidare più ai chirurghi il trattamento dei casi corrispondenti?

CONCILIAZIONE E TRASPARENZA

I nostri articoli non erano finalizzati a stabilire quanto della variabilità dei tempi e degli esiti osservati nei tribunali considerati sia dovuta a “errore” del giudice. Questa è la domanda studiata nel saggio americano citato da Nicola Persico, ma non è quella che a noi interessa. (1) Anche se la variabilità fosse interamente dovuta a validissimi motivi (cause pregresse nel caso dei tempi, legittimi orientamenti nei casi degli esiti), il nostro punto rimarrebbe valido: l’attuale assegnazione casuale dei processi ai giudici, per ottemperare all’articolo 25 della Costituzione, genera una lotteria per i cittadini anche senza colpe per i magistrati. La lotteria è inevitabile per molti processi in cui l’accertamento giudiziale è insostituibile, ma almeno per quelli dovuti a giustificato motivo oggettivo esiste una “terapia” alternativa che assicura al cittadino meno incertezza.
E questo a maggior ragione nei casi di licenziamento per motivo economico e organizzativo, nei quali i giudici non devono interpretare “uno stesso fatto” come ritiene Persico. Devono invece esprimere una valutazione sul futuro, ossia sulla probabilità che il posto di lavoro in futuro generi una perdita e su quanto grande la perdita sia. E, alla luce di queste valutazioni, devono decidere se la perdita attesa (data dalla probabilità di perdita moltiplicata per la sua entità) sia sufficientemente alta da potersi considerare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Per inciso, val la pena di ricordare anche che, nell’attuale disciplina, il lavoratore (sfortunato) per il quale il licenziamento venga considerato legittimo per motivo economico-organizzativo (e quindi senza nessuna sua colpa) si ritrova con un pugno di mosche in mano. Con il metodo del risarcimento, potrebbe in ogni caso godere di una somma di denaro che lo aiuterebbe a transitare ad altra occupazione. Anche solo per questo motivo, non sembra preferibile la “terapia alternativa”?
Riguardo ai casi conciliati, il nostro articolo dice chiaramente che: “sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte”. Ci sembra un ragionamento basato su un’ipotesi plausibile, da verificare ovviamente se fossero disponibili dati precisi sugli esiti delle transazioni conciliative. Anche in questo caso servono dati e trasparenza per una ricerca che sarebbe utilissima.
Infine colpisce, sempre a proposito di trasparenza totale, come sia interpretata negli Stati Uniti: lo studio americano riporta addirittura la performance dei differenti giudici con il loro nome.

(1) Fischman, Joshua B., “Inconsistency, Indeterminacy, and Error in Adjudication” (February 27, 2012). Virginia Public Law and Legal Theory Research Paper No. 2011-36. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1884651
 
da - http://www.lavoce.info/articoli/pagina1002949.html
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