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6661  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / Adriana CERRETELLI Esorcismi finanziari ma la politica è senza scudo inserito:: Giugno 18, 2016, 11:57:11 am
L’EDITORIALE

Esorcismi finanziari ma la politica è senza scudo

di Adriana Cerretelli - 17 giugno 2016

Non si vuole fare sorprendere, questa volta, l’Europa. E tanto meno soccombere a speculazione e isteria dei mercati. Per prevenire e al tempo stesso scoraggiare la grande paura di Brexit con la sua carica di destabilizzazioni al seguito, in queste ore e a tutti i livelli si stanno approntando gli strumenti dei più sofisticati esorcismi finanziari.

La mobilitazione è generale, coinvolge i Governi, con Bce e Fmi in prima linea. Ne hanno parlato ieri a Lussemburgo i ministri delle Finanze dell’Eurogruppo nell’ultimo incontro prima del referendum inglese del 23 giugno, per concordare gli ultimi dettagli delle operazioni. E ribadire l’invito a restare.

Con una ripresa fragile, la deflazione in agguato, le Borse in altalenante discesa, la vulnerabilità del settore bancario, bund e simili in territorio negativo, di sicuro nessuno può permettersi di rischiare lo scontro a mani nude con uno shock finanziario incontrollato.

Sullo shock politico, altrettanto inevitabile in caso di divorzio ma non altrettanto immediato, per ora si preferisce invece glissare: scaramanzia, malriposto senso del pudore, confusione di idee e di intenti, banale incapacità di reagire a breve, impotenza consapevole, difficile dirlo.

Forse la scarsa voglia di guardarsi allo specchio, di provare a penetrare le ragioni profonde della propria crisi di identità e delle spinte centrifughe che alimenta, non viene da una scelta di vigliaccheria e disimpegno collettivo ma nasce da un soprassalto di lucidità, di spietato cinismo.

In questo momento l’Europa sa di non essere in grado di riaggregarsi ma solo di disaggregarsi: sempre meno la fiducia reciproca, la solidarietà e i minimi comuni denominatori, sempre più le crepe nella stabilità politica dei suoi Governi, più populismo, nazionalismo e euroscetticismo nelle sue democrazie provate da una lunga crisi economica e sociale. Meglio dunque non scavare troppo tra gli istinti perversi generali, affidarsi alla corrente degli eventi e aspettare (anche le elezioni francesi, olandesi e tedesche dell’anno prossimo) per non rischiare, con un precipitoso esercizio di volontarismo a tavolino, di rompere il giocattolo invece di ripararlo. O di provocare tragici gesti inconsulti, come quello che ieri a Londra ha falciato la prima vittima politica di Brexit e dell’intolleranza che alimenta.

Questa inedia europea per certi aspetti virtuosa, in quanto figlia della brutale constatazione dei propri limiti, trova la sua giustificazione anche nella sorda guerra interistituzionale che da troppo tempo tormenta l’Unione. I suoi cittadini non riescono più a percepire l’Europa come il gigante buono che distribuisce pace e benessere. La vedono piuttosto come un Moloch invasivo e troppo esigente. Con un gran paradosso: i loro Governi hanno un atteggiamento identico verso le istituzioni comuni, che pure essi stessi si sono dati e alle quali hanno delegato poteri esclusivi e indipendenti.

È questa sconcertante identificazione di sentimenti tra base e vertici, l’ansia generale di riappropriarsi della sovranità fin qui ceduta e comunitarizzata, a paralizzare l’Unione sfaldandola a poco a poco. “Brexizzandola” a prescindere, indipendentemente dal destino di Brexit.

Gli esempi, quasi quotidiani, si sprecano. Il più eclatante è il rapporto tempestoso tra la Bce di Mario Draghi e la Germania, con il primo costretto a rintuzzare gli attacchi della seconda sventolando i Trattati e la propria indipendenza per statuto. Meno vistoso ma anche più insidioso il rapporto tra Governi e una Commissione Ue che negli anni, a differenza della Bce, ha ceduto terreno, trasformandosi da organo di iniziativa legislativa e di mediazione tra posizioni e interessi nazionali conflittuali in istituzione subalterna, notaio della deriva intergovernativa europea.

Quando prova a rialzare la testa, come spesso avviene con la squadra Juncker, viene subito richiamata all’ordine. Accadde l’estate scorsa nel pieno di Grexit. E ora con le critiche aperte alla sua gestione interpretativa, troppo libera e politicizzata a detta di tedeschi e olandesi, del patto di stabilità. Mano troppo morbida con Spagna e Portogallo che non rispettano le regole anti-deficit. Con l’Italia su flessibilità e debito, come pure il Belgio, accusa a voce alta il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Meglio sostituirla con un organo indipendente che applichi automaticamente le regole, minacciano da tempo i tedeschi.

Non è solo il consenso: anche le strutture europee vanno dunque lentamente sfarinandosi nella complice distrazione dei più. Per questo gli ammortizzatori finanziari anti-Brexit oggi sono indispensabili ma non bastano: in assenza di quelli politici si limiteranno a tamponare i contraccolpi dell’ennesima crisi mal gestita, che andrà da aggiungersi all’arsenale europeo prossimo alla saturazione.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-06-16/esorcismi-finanziari-ma-politica-e-senza-scudo-221249.shtml?uuid=ADRRodd
6662  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / JACOPO IACOBONI. Ovvero, che peccato, un giornalista capace diventato fazioso... inserito:: Giugno 18, 2016, 11:55:14 am
Il comunista Piero dai gesuiti a Marchionne
Di Fassino restano le profezie tutte sbagliate contro l’M5S e lo storico ‘abbiamo una banca’ riferito allo scandalo Unipol. Negli anni è stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno inconfessabile: il Quirinale – alla fine si è dovuto accontentare della poltrona di sindaco del capoluogo piemontese: dalle giovanili del Pci alla Fabbrica, storia di un uomo che vuole blindare il sistema Torino. Un sistema dominato dalla subalternità alle banche e da un patto cinico tra il rottamatore Renzi e l’ex studente dei gesuiti.

Di Jacopo Iacoboni, da MicroMega 2/2016

Le profezie che si autoavverano

A Torino la chiamano la «Seconda profezia di Fassino». In una seduta molto accesa del consiglio comunale, durante la quale si discuteva del consuntivo di bilancio del 2015 del Comune, davanti alle obiezioni insistenti di Chiara Appendino – la consigliera di minoranza che oggi lo sfida come candidata sindaco del Movimento 5 stelle – a un certo punto il sindaco democratico sbotta in uno dei suoi classici scatti e le fa: «Io mi sono seccato dei suoi giudizi presuntuosi, e anche fondati sull’ignoranza. Un giorno lei si segga su questa sedia e vediamo se sarà capace di fare tutto quello che oggi ha auspicato di saper fare». Lo disse roteando le mani a palme distese, gli occhiali da presbite nella mano destra, un gesto che fa spesso come a dire «via via, toglietevi di torno seccatori». Il momento avrebbe dovuto esser grave o almeno teso, in realtà quasi tutti scoppiarono a ridere; persino i consiglieri di maggioranza seduti nelle vicinanze del sindaco. Il quale poco dopo concesse, un po’ da sovrano assoluto come nelle costituzioni octroyées: «E comunque lo decideranno gli elettori». Il fatto è che la battuta calata dall’alto era troppo simile alla più sciagurata profezia politica della storia recente della sinistra italiana, che passerà alla storia, appunto, sotto il nome di «Prima profezia di Fassino». Era il 2009, l’ultimo segretario dei Ds era ospite della Repubblica quando, intervistato su Beppe Grillo che aveva chiesto di prendere la tessera del Pd in Sardegna, rispose: «Un partito non è un taxi sul quale si sale e si scende, è una cosa seria. Se Grillo vuol fare politica, fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende! Perché non lo fa?». Dopo, pare di poter dire, l’ha fatto.

Ma sarebbe solo una battuta, quella di Fassino. Se non fosse che è sintomatica della sordità di un’intera generazione di dirigenti dell’apparato comunista italiano, e di un atteggiamento e un tic ca-ratteriale del sindaco del Pd. Alla fine il sindaco uscente si ricandida per guidare Torino, cosa che lui deve vivere già di per sé come una sconfitta, vista la considerazione che il personaggio ha di sé, e dopo esser stato virtualmente candidabile a tutto – dalla Consulta fino al suo sogno a qualcuno confessato: il Quirinale – ed esser rimasto con un pugno di mosche in mano; ma Fassino una forma di alterigia la eredita da tutta la storia, comunista d’apparato e poi postcomunista, da cui proviene: quella totale convinzione che «il partito siamo noi», «la sinistra siamo noi» e che «ciò che è fuori di noi è comunque nulla», nulla salus extra nostra moenia. A volte la declina in modi che possono far sorridere, oppure anche aggressivi verso chi gli capita a tiro, ma è un atteggiamento di fondo, che con il renzismo, in maniera solo apparentemente paradossale, si è sposato infine benissimo (i due si sono alleati in maniera singolare, ma persino naturale, e ci torneremo).

Questo atteggiamento riemerge ciclicamente nella vicenda personale di Fassino, un fiume carsico, qualcosa che non riesce mai a tenere a bada e assomiglia da vicino a una forma di arroganza del potere. Fassino del resto ci è nato, se per potere intendiamo naturalmente la segreteria del Partito comunista, quando ancora era una cosa seria e a suo modo anche un po’ terribile, o ancora prima le scuole frequentate, i gesuiti a Torino, oppure dopo, da ragazzo e poi da giovane funzionario comunista, il rapporto con la fabbrica e con il mondo della grande azienda: ovviamente, la Fiat. Fu la vicinanza alla segreteria del partito, che coltivò fin da quand’era piccolino – e forse prima ancora la scuola dei gesuiti a Torino – che gli insegnarono qual era la sua collocazione naturale; quale che poi fosse, di volta in volta, quel potere, fino ad arrivare nei momenti più involutivi della sua carriera a una forma di accorta ma anche implacabile conservazione di un sistema di potere, qual è quello che lascia la sua gestione torinese.

Un comunista ‘contro il comunismo’?

Enrico Berlinguer aveva già messo gli occhi addosso a quel ragazzo e lo voleva alla guida della Fgci, poi lui rifiutò, come ha raccontato nella sua biografia Per passione, «aprendo così la strada» a Massimo D’Alema (Fassino, particolare interessante sulla sua psicologia, ha scritto una sua biografia quando aveva 54 anni). Il suo avvicinamento alla politica avviene nel ’64, con il gruppo di Aldo Agosti, la rivista Nuova Resistenza e poi il movimento studentesco, anche se Fassino – come i suoi compagni di scuola – sulla sua iscrizione al Pci si è riraccontato la storia a cui voleva credere: «Mi iscrissi al Pci dopo l’invasione di Praga, che il partito condannò. In questo senso ho detto che mi sono iscritto “contro il comunismo”: se quella condanna non fosse venuta, forse io non sarei arrivato». Insomma, se Veltroni non era mai stato comunista, Fassino fu comunista «contro il comunismo».

E se è vero che è di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 la foto che si porta più gelosamente dietro nei vari uffici che l’hanno ospitato, anche a Palazzo di città a Torino, bisogna pur dire che questa tendenza a riscrivere la propria storia lampeggia abbastanza spesso nella carriera di Fassino, assieme a quella parallela a cambiare opinione in base al mutare degli scenari. Il primo caso è abbastanza facile da illustrare: marcia dei quarantamila, Torino 1980. Il 26 settembre Berlinguer va a Torino e davanti ai cancelli a Mirafiori pronuncia la celebre frase sull’appoggio logistico del Pci una eventuale occupazione della Fabbrica. Il 27 ottobre cade il governo Cossiga e la Fiat trasforma i licenziamenti in cassa integrazione. Bene: se chiedete a Fassino, allora responsabile del Pci per le fabbriche, come andò quella trattativa, la sua risposta oggi è che «il Pci allora cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta», una linea che «non passò per via del clima che si era creato». Insomma, come se lui fosse da sempre stato il grande riformista disposto al saggio dialogo coi poteri e la grande industria, «nell’interesse dei lavoratori». Se fate la stessa domanda a Fausto Bertinotti, che allora era segretario della Cgil piemontese, la storia diventa tutta diversa: «Se l’hanno pensato nelle segrete stanze del Pci se lo sono detto tra di loro. Io non l’ho mai sentito».

Il secondo caso – i cambi d’idea anche repentini di Fassino – può essere illustrato con un salto in avanti che ci porta d’imperio ai giorni nostri. Di Fassino su Grillo abbiamo detto, non ha cambiato idea ma è stato profeta di sventura; ma bisognerà dire anche qualcosa di Fassino e Renzi, e di Fassino su Renzi. Nell’autunno del 2012, durante le primarie tra Bersani e l’allora sindaco di Firenze in vista della candidatura a premier alle politiche del 2013, Fassino si schierò senza esitazioni con Pierluigi Bersani, guarda caso il vincitore praticamente certo di quella primarie, avendo dietro di sé le coop, le regioni rosse e tutto l’apparato; Fassino, allora, andava dicendo cose assai tranchant sul rottamatore: «Renzi? Ha una grande capacità mediatica, ma penso che il paese abbia bisogno di una guida esperta e forte. Io sono per Bersani, che ha queste caratteristiche». Poi, nella primavera del 2013 – non un secolo dopo – in seguito alla «non vittoria» di Bersani, e a metà del guado della sofferta esperienza di Enrico Letta, Renzi era diventato d’incanto «l’uomo forte che rappresenta la capacità di novità». Lo disse al Foglio, che parve il luogo migliore per registrare la conversione di Fassino sulla strada del renzismo. Grande esultanza dei berlusconiani di quel giornale, che vedevano infine sdoganata la loro storia e trasferita sul piano della presentabilità sociale a sinistra.

Il voto di Torino nella prossima primavera rappresenta l’ultimo capitolo di questa conversione, e di un patto di ferro tra Renzi e Fassino che ha fatto a un certo punto sperare, al secondo, nientemeno di poter giungere al Colle; ma a Renzi Fassino serve solo per blindare il sistema Torino, e questo è: prendere o lasciare. Se vogliamo ricercare e raccontare i prodromi, o almeno i segni anticipatori, di questo patto nella storia personale dell’ex segretario dei Ds, sono appunto in questa costante esperienza fassiniana dalla parte dell’esercizio del potere; unita a quella componente di esprit sabaudo che, anziché nella vocazione gobettiana o bobbiana, s’incarna nell’attitudine militare o militaresca, dunque nell’abitudine mentale all’obbedienza da ragazzi, e al dare ordini da vecchi. Fassino lavora tanto. Sgobba, anche. Il che lo rende piuttosto diverso dai comunisti e postcomunisti romani. Non si può dire sia refrattario ai potenti. La formula è «attitudine al dialogo»: «Io mi sono occupato di Fiat per diciassette anni, e ho sempre seguito la massima: “Quando in fabbrica c’è un problema o lo risolvi tu o lo risolve il padrone”. Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni».

L’esito finale di questo approccio è stato un rapporto diretto con Sergio Marchionne, con il quale capita che si vada anche a cena, sempre nello stesso ristorante, la saletta riservata al Vintage; ma insieme sono stati avvistati, non una volta sola, anche in piazza dei Mestieri, la sede della Compagnia delle Opere. La Fiat e Cl. A suo tempo vi fu, anche, un certo annusarsi – sia pure più a distanza – con Giovanni Agnelli. Quando nell’83 Fassino venne eletto capo della federazione del Pci a Torino, disse che «l’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: “Senta Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?”».

Dalle chiacchierate «molto simpatiche» col sovrano al canale con Sergio Marchionne il passo è stato persino più breve del previsto. Torino si è sempre governata presidiando i vertici di questo triangolo: il Pci, la Fiat, la procura. La borghesia intellettuale della città non ha fatto altro che fare il pendolo, alternativamente, dentro questo triangolo. Gli anni del terrorismo hanno costruito uno schema che poi nel tempo s’è modificato, ma non distrutto; diciamo che s’è aggiornato. Ma a Torino la Procura ha rappresentato un elemento di questo scenario, più che un fattore di rupture, reale o possibile, come a Milano – dagli anni di Tangentopoli a oggi.

L’uomo-sistema

E dire che la partenza familiare del sindaco conteneva premesse potenzialmente diverse. Il nonno materno, Cesare Grisa, socialista, e sindaco di Almese, il padre, Eugenio, capo partigiano. Il nonno paterno, Piero, ucciso dalla Brigate Nere. Anche Eugenio, suo padre, morì giovane, nel ’66, quando Fassino aveva solo 17 anni. Lo avvisano i suoi insegnanti gesuiti, e la condizione di orfano non può non aver pesato, psicologicamente, in questa biografia. C’è però un altro particolare curioso, in questa provenienza così antifascista e valsusina, di cui indirettamente bisognerà tenere conto: Fassino ha raccontato al Corriere: «Papà è stato il mio maestro di politica. Era amico di Craxi ma militava nella piccola corrente giolittiana». Bettino Craxi di cui proprio Fassino – da segretario dei Ds – avviò una sciagurata riabilitazione a sinistra. Ida Dominijanni a inizio 2006 scriveva: «Piero Fassino ha ribadito in questi giorni la sua rivalutazione del “politico della sinistra”, del “rivitalizzatore del Psi”, del primo leader ad aver intuito “il bisogno di modernizzazione economica e istituzionale” dell’Italia, dell’uomo di Stato che seppe decidere su Sigonella e sulla scala mobile; una mole di meriti che rende davvero imperscrutabile perché, come lo stesso Fassino ammette, il Pci-Pds-Ds-Pd abbia reso possibile farne il “capro espiatorio” di quel sistema di finanziamento illecito dei partiti sul quale “mancò allora una seria riflessione”».

Lo studente dei gesuiti, il diciassettenne orfano di papà, il funzionario comunista, il politico di manovra, il segretario diessino, il rivalutatore di Craxi, l’alleato di Bersani e subito dopo di Renzi, il costruttore di una rete di potere che è quella della Torino 2016, delineano un prisma che però si unifica in un tratto: più che quello del «grande riformista», quello dell’uomo-sistema, e una fortissima ambizione sabauda, sia pure celata dai panni del gregario, dell’«onesto Fassino», del «Piero che a Roma arriva a Botteghe Oscure all’alba», o del Piero che a Torino negli anni Settanta aveva il vezzo di mettere le sedie a posto dopo le assemblee del Pci. Pochi lo ricordano, ma in tutti questi anni Silvio Berlusconi, di cui è stato straraccontato il celebre «inciucio» con D’Alema sulle riforme e sulla tv, è stato a un congresso postcomunista soltanto quando il segretario era Fassino. Accadde a Firenze, nel 2007. Fassino presentava la mozione «Per il partito democratico». Antiche amicizie – quella sua e soprattutto di D’Alema, per esempio, con Fabio Mussi o con Gavino Angius – si rompevano, e chi c’era quel giorno incredibilmente ad applaudire il segretario Piero? Silvio Berlusconi. Gli piacque molto il discorso di Fassino, il partito retto da quel piemontese di Avigliana gli riservò un’accoglienza discretamente calorosa e il Cavaliere alla fine sottolineò la «volontà coraggiosa» di Fassino, il tratto ormai compiutamente socialdemocratico dell’ormai imminente Pd che si delineava, fino a concludere: «Se è questo, al 95 per cento sarei pronto a iscrivermi pure io». Lo incrociammo mentre stava risalendo in macchina e il Cavaliere fu ancora più prodigo: «Vede, questa gente non mi odia, anche il loro segretario mi ha conosciuto e non mi odia più, chi mi conosce non mi può odiare».

‘Abbiamo una banca’

Che fosse in atto una mutazione politica del mondo del comunismo italiano era evidente da un pezzo, che ce ne fosse un’altra, per dirla pasolinanamente, antropologica, e dal punto di vista sabaudo, anche umana, non era così palese; almeno non nelle proporzioni. Nessuno in quei giorni ricollegò quegli elogi di Berlusconi, o la revisione del craxismo, col fatto che «l’onesto Piero» s’era incagliato, neanche un paio di anni prima, nel caso dell’«abbiamo una banca». Il 31 dicembre del 2005 il Giornale pubblicò il testo di alcune telefonate di Fassino con Giovanni Consorte, il manager Unipol che stava dando la scalata a Bnl (non distante da una parallela, grottesca scalata dei furbetti del quartierino Ricucci e Coppola nientemeno che al Corriere della Sera), e fece sensazione che Fassino – che non commise nessun illecito, non fu neanche indagato e anzi, si costituì parte civile e ottenne ragione per la pubblicazione della telefonata da parte del quotidiano di Paolo Berlusconi – con quell’«abbiamo una banca» si mostrasse anche linguisticamente così succedaneo e, ora sì, gregario, a miti e tic di un rampante capitalismo da razza padana, o addirittura razza furbetta.

Dieci anni dopo i tempi dell’«unica merchant bank dove non si parla inglese» (la Palazzo Chigi attorno a Massimo D’Alema, nella celebre battuta di Guido Rossi), la sinistra dell’«abbiamo una banca» aggiungeva una variante tragicomica e altrettanto suicida, con quella battuta. La destra ovviamente la cavalcò e ci andò a nozze. Ma in quel che restava di una sinistra che avesse ancora a cuore il concetto di democrazia radicale, la cosa non poteva piacere né esser scusata. Barbara Spinelli, che per D’Alema aveva usato l’espressione di «disincanto etico», per Fassino scrisse che era un caso di «inebetita ignoranza». Da un certo punto di vista, grave più di un reato. Fassino fu sempre restio ad ammettere l’errore. Disse, al massimo: «Penso che ci sia molta cattiveria e ingenerosità nel modo in cui vengono utilizzate delle telefonate del tutto innocue. Io posso forse accettare di discutere dell’opportunità di quelle telefonate, ma non costituiscono certo né un reato né alcuna forma di illecito». Posso «forse».

Le banche non erano un pallino di un momento. Se c’è una partita sulla quale, saltando per un momento all’oggi, il sindaco uscente si gioca tutto è appunto l’asse che dal comune porta a Intesa San Paolo, passando per la sua fondazione, Compagnia di San Paolo. Il comune che Fassino e soprattutto, prima di lui, l’assessore al Bilancio della giunta precedente, Gianguido Passoni, lasciano in dote al futuro è gravato di una mole preoccupante di debiti, che oggi è a quota 2,9 miliardi. Un indebitamento che grava tantissimo sulle casse del comune, costringendolo a tagli dolorosi anche nelle politiche sociali e ipotecando qualsiasi politica. Fassino ha motivato questa scarsità di risorse con la situazione di crisi generale, i vincoli di bilancio, i tagli dei trasferimenti decisi (anche) dal governo Renzi, senza mai menzionare o ridiscutere la politica di investimenti in derivati fatta dalle giunte precedenti del Pd. Ma è interessante notare come si è attrezzato per fronteggiarla: da una parte, rigorismo massimo nei conti e taglio drastico anche in servizi essenziali – perfino un’antica eccellenza torinese, come i nidi scolastici, è ormai assediata dalla carenza di risorse e con un rapporto educatori-bambini che comincia a sfiorare l’uno a sei. In alcuni nidi storici della città, per l’impossibilità economica e normativa di gestire il turn-over degli insegnanti, si può arrivare alla situazione limite: classi di 18 bimbi con due sole educatrici, uno stato di cose insostenibile e potenzialmente pericoloso.

Dall’altra, c’è stato un asse sempre più stretto e ormai sempre più amicale – considerando che stiamo parlando di una città che ormai non arriva al milione di abitanti, quindi un piccolo salotto, un bellissimo centro, circondato da periferie impoverite e spaesate – col grande potere bancario della città, la Compagnia di San Paolo, primo azionista della prima banca italiana, e il più grande investitore sul territorio. Le cifre le dà l’attuale presidente, Luca Remmert, quando dice che la «Compagnia anche nell’ultimo anno è stato attore fondamentale del territorio con oltre 153 milioni di euro di stanziamenti per il 2016».
In pratica non c’è quasi attività nella ricerca, nella formazione, nella scuola, persino nella salute, che a Torino di fatto non sia finanziata dalla Compagnia, anziché dal comune, la cui spesa se ne va di fatto quasi esclusivamente per la pura gestione ordinaria. Ecco perché detenerne le chiavi significa controllare il futuro politico del comune, quale che sia il sindaco che uscirà vincitore dalle urne. E qui, inesorabilmente, il sistema torinese si è compattato, facendo scudo all’idea che potesse non vincere il partito-sistema.

Col pretesto che il consiglio della Compagnia andava in scadenza, e sostenendo che fosse impossibile rimandare le nomine (l’indicazione del presidente spetta per prassi al sindaco di Torino), Fassino ha iniziato una serie di pour parler il cui risultato, espresso a qualche importante interlocutore cittadino, era l’intenzione di nominare alla guida della Compagnia Francesco Profumo, rettore del Politecnico, grande amico di Fassino, e jolly del Pd in tutte le partite di potere sabaude (a un certo punto si era anche pensato di poter candidare lui, nel 2010, poi prevalse Fassino).

Piccolo particolare: Profumo era già presidente di Iren, la potente società municipalizzata dell’energia di Torino, Genova e dell’Emilia, una spa quotata in Borsa (nel 2014 ricavi per 2,9 miliardi) ma anche, per vincolo statutario, a controllo pubblico. I comuni, con Torino in testa, ne decidono i vertici, e Iren a sua volta ne finanzia molte attività, con sponsorizzazioni e progetti di marketing territoriale (12 milioni nel 2014). Ecco perché il controllo di Iren e della Compagnia e l’influenza su Intesa Sanpaolo sono così strategici. Detenere, con Profumo, anche le leve dell’investimento cittadino della Compagnia avrebbe delineato un conflitto d’interessi improponibile, ma l’idea era di sondare la cosa, e magari tentarci nel più assoluto silenzio. Una denuncia di Giorgio Airaudo, che corre con una lista alternativa al Pd, e potrebbe «riaprire la partita» costringendo Fassino a un ballottaggio difficile – denuncia alla quale si è associata Chiara Appendino, la candidata 5 stelle – e soprattutto un’inchiesta della Stampa, hanno poi costretto Fassino ad annunciare che Profumo se voleva salire in Compagnia avrebbe dovuto lasciare la guida di Iren.

Raccontano a Torino che un paio di giorni dopo, il sindaco fosse infuriato con Profumo, che gli aveva nascosto di essere, anche, candidato alla presidenza del Cnr. Mentre Profumo, che dopo l’inchiesta della Stampa s’è chiuso nel più totale silenzio, era arrabbiato perché Fassino non gli aveva detto niente di quell’uscita pubblica (che in effetti non era concordata) sul conflitto d’interessi del rettore. Quel giorno, a Torino, c’era con Remmert anche Giovanni Bazoli, che passeggiava ammirando le opere pittoriche della Quadreria all’educatorio Duchessa Isabella della Compagnia di San Paolo in piazza Bernini. E, un po’ distante, il segretario della Compagnia, Piero Gastaldo, legato a Sergio Chiamparino, desideroso di giocare anche lui una partita.

Il Partito della nazione in salsa sabauda

In generale, il sistema della fondazioni culturali rappresenta uno dei luoghi opachi dello spoils system della città: stipendi, superstipendi, criteri di nomine, tutto finisce quasi sempre appannaggio dello stesso giro di persone, più o meno dai tempi di Valentino Castellani: centoventi bocche che si spartiscono incarichi ben pagati, e non particolarmente faticosi. Chiara Appendino, la candidata dei 5 stelle, ha promesso: «Andremo a vedere tutto, il comune farà una conven-zione: per dare soldi alle fondazioni, loro dovranno rispettare criteri di trasparenza, bilancio, costi del personale. Oggi non esiste nulla, arbitrio puro. Inaccettabile, per dire, che un consigliere nominato prenda uno stipendio più alto dei manager comunali». In questi in-carichi di solito il 70 per cento va alla maggioranza (di centro-sinistra), ma un lauto 30 all’ormai palesemente finta opposizione di centro-destra. Finta perché questa volta Fassino – per fronteggiare il rischio di una perdita dei voti a causa della lista di Airaudo – ha spinto oltre ogni limite la sua disponibilità manovriera: si è alleato con una serie di liste che vanno da quella di «sinistra» (diciamo) dell’ex assessore al Bilancio, a quel che resta dell’Italia dei valori, fino al sostegno esplicito di Enzo Ghigo (l’ex proconsole di Berlusconi a Torino) e di Michele Vietti, l’amico di Angelino Alfano, crocevia degli studi avvocatizi della città. La versione torinese del Partito della nazione di Renzi.

Questa è insomma la Torino di Fassino, la Torino che Renzi non può permettersi di perdere perché in altre città rischia ancora di più, e perdere qui sarebbe una Caporetto definitiva; e queste alcune delle sue dinamiche non note allo sguardo più distratto, le tipiche dinamiche di un sistema di potere chiuso, che non riguarda però una bega cittadina, ma il controllo della prima banca italiana, sull’asse Torino-Milano, i conseguenti assetti di potere che ne possono derivare. Contestuale alla nomina in Compagnia ci sarà quella in Intesa San Paolo, dove l’idea è riconfermare Gian Maria Gros-Pietro.

In questo quadro le elezioni torinesi sono solo un elemento della fotografia, e neanche il principale. La scena è dominata dai soldi, ipotecata dalle nomine in scadenza di mandato, offuscata da un patto cinico tra il rottamatore e l’ex studente dei gesuiti, che ha scelto di farsene perno. Una sera di carnevale del 2002, in piazza Navona a Roma, Nanni Moretti pronunciò la sua invettiva politica più famosa, «con questi dirigenti non vinceremo mai!», e fece pure il gesto di indicarli. La frase, storicamente, fu appioppata a D’Alema, ma pochi sanno che in prima fila a Roma, quel giorno, in corrispondenza del dito di Moretti c’era proprio Piero Fassino.

(28 aprile 2016)

Da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-comunista-piero-dai-gesuiti-a-marchionne/
6663  Forum Pubblico / ITALIA VALORI e DISVALORI / Sul web se non paghi non leggi i quotidiani (costo almeno 1500 euro l'anno). inserito:: Giugno 18, 2016, 08:59:00 am
Costituzione della Repubblica italiana
Art. 21

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Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

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La libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero, connotato fondamentale di ogni sistema democratico, va qui intesa in riferimento sia alla libertà di esprimere le proprie opinioni (pluralismo ideologico) sia alla libertà di informazione (cioè di informare e di essere informati). Perciò viene preso in considerazione non soltanto l'uso della parola e dello scritto, ma anche “ogni altro mezzo di diffusione” (quindi la radio, la televisione, il cinema, le riproduzioni audiovisive, Internet…). Tuttavia, l'articolo detta norme specifiche solo sulla stampa e mira, in sostanza, ad eliminare i controlli di tipo poliziesco (autorizzazioni, censure…) introdotti dal fascismo. Ciò spiega anche la particolare attenzione rivolta alla problematica relativa ai casi di sequestro.
Di speciale interesse è il penultimo comma, il cui dettato è in funzione della trasparenza dei mezzi di finanziamento della stampa periodica; si tratta di una norma tesa a salvaguardare il diritto del cittadino-lettore di conoscere quali interessi (economici, politici o di qualsiasi altra natura) sostengono il giornale che egli acquista, posto che gli assetti proprietari delle testate giornalistiche influiscono, com'è ovvio, sugli orientamenti che le stesse assumono. La norma tende altresì ad impedire eventuali finanziamenti occulti con finalità illecite. In questo medesimo ambito normativo si collocano le disposizioni legislative tendenti ad evitare la concentrazione delle testate giornalistiche e a regolamentare la diffusione delle emittenti radio e televisive, nel senso di impedire che l'informazione venga controllata da poche centrali, garantendo viceversa, in condizioni paritarie e di trasparenza, spazio, libertà e autonomia ai soggetti che fanno informazione, sì da realizzare il necessario pluralismo nel sistema dei mezzi di comunicazione.
Va detto che una disciplina compiuta dell'editoria è intervenuta solo nel 1981, con l'istituzione dell'autorità garante, cui spetta il potere di dichiarare nulle le cessioni di testate giornalistiche qualora determinino una posizione dominante nel mercato editoriale.
Inoltre, per quanto riguarda il settore delle comunicazioni radio-televisive, soltanto con la Legge n. 249 del 1997 è stata istituita l'Autorità per le garanzie delle comunicazioni con il preciso compito di vigilare sul rispetto del divieto di posizioni dominanti, considerate di per sé ostacoli al pieno realizzarsi del pluralismo dell'informazione.

Da - https://www.comune.bologna.it/iperbole/coscost/Costituzione/commenti_articoli/art_21.pdf
6664  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / Michele SALVATI - Che ci sia o no la Brexit la partita dell’Italia è aperta inserito:: Giugno 18, 2016, 08:55:49 am
Scenario
Che ci sia o no la Brexit la partita dell’Italia è aperta
Roma deve continuare a chiedere più flessibilità e autonomia nazionale

Di Michele Salvati

Fra una settimana si terrà in Gran Bretagna il referendum sulla permanenza nell’Unione Europea o l’uscita dalla stessa: «Remain» o «Exit». Le istituzioni dell’Unione, i governi dei Paesi membri (e non solo questi), le istituzioni finanziarie pubbliche e private, le grandi imprese sono da tempo in agitazione: circola persino una leggenda metropolitana secondo la quale i numerosi funzionari britannici dell’Unione si appresterebbero a chiedere la nazionalità di Paesi che non sono a rischio di uscita. Al momento in cui scrivo i sondaggi non danno risposte chiare. E le conseguenze dei due possibili esiti sono difficilmente prevedibili. Più rassicuranti quelle del Remain, almeno nel breve periodo perché nel lungo tutto si fa incerto. Più preoccupanti quelle dell’Exit. L’onda d’urto non sarà facile da smorzare in un mondo finanziarizzato e interconnesso, anche se credo poco ai calcoli che presumono di quantificare le perdite in termini di crescita che conseguirebbero alla Brexit: nel breve-medio periodo saranno probabilmente serie per la Gran Bretagna; per l’Europa e nel lungo periodo è difficile dire.

Mi pongo solo una domanda. A seconda dell’esito del referendum, dovrebbe il nostro governo modificare la posizione che ha assunto nei confronti dell’Unione e degli Stati che maggiormente influenzano le decisioni europee, la Germania in primis? (Riassumo questa posizione in tre punti: (a) ottenere la massima flessibilità e autonomia nazionale di politica economica compatibile con i trattati e gli accordi che l’Italia ha sottoscritto. Si tratta di una richiesta accettabile se basata su (b) riforme strutturali che aumentino la competitività dell’economia e l’efficienza delle istituzioni pubbliche in tempi prevedibili: è solo se l’Italia si avvicinerà agli standard dei Paesi più forti che essa potrà reclamare un maggior peso nelle decisioni europee. (c) Insistere su politiche dell’Unione — se necessario attraverso riforme degli stessi trattati — che mantengano la rotta dell’«ever closer Union», di un’Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori). La risposta alla domanda di più sopra è un No convinto: la posizione italiana dev’essere mantenuta, quale che sia il risultato del referendum britannico. Anzi, dev’essere rafforzata: alle parole di riforma interna — il punto (b) — devono accompagnarsi fatti di riforma e conseguenze benefiche in tempi non biblici, che attenuino lo scetticismo dei Paesi della Ue e degli stessi cittadini italiani. Quanto al punto (c) — diverse politiche dell’Unione, senza escludere riforme degli stessi trattati — vedremo subito appresso.

Mantenere ed anzi rafforzare la posizione italiana presenterebbe però prospettive e difficoltà assai diverse a seconda dei due esiti del referendum britannico. Nel caso del «Remain» la situazione non sarebbe molto diversa da quella attuale, solo un po’ peggio. Come ci ha ricordato Paul De Grauwe (Lavoce.info, 26 febbraio), il potere frenante della Gran Bretagna nei confronti di una gestione più comunitaria dell’Unione non si annullerebbe certo per effetto di una risicata maggioranza di «Remain»: di riforma dei Trattati si cesserebbe di parlare e l’Unione resterebbe altrettanto o più intergovernativa di adesso. Diverse sono le prospettive e le difficoltà in caso di Brexit. Ammesso che le turbolenze economiche e politiche si limitino al breve periodo e non generino effetti domino, si potrebbe pensare che l’assenza della grande frenatrice consenta ai Paesi restanti, soprattutto quelli dell’Eurogruppo, decisi passi in avanti sulla strada di un’Unione sempre più stretta, mediante significative cessioni di sovranità ad un Parlamento e ad una Commissione rafforzati in materie sensibili come la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, la politica estera e la difesa, le politiche sociali. Anche tra Paesi che a parole sostengono una maggiore integrazione e si dicono disposti a forti cessioni di sovranità nazionale, anche tra Germania e Francia — necessariamente il cuore di questa Ue rafforzata — le differenze sono molto forti ed emergerebbero chiaramente una volta che il comodo alibi della Gran Bretagna non fosse più utilizzabile. Una partita da giocare, certo, e molto più interessante di quella che conseguirebbe a un risicato «Remain»: ma il sogno di un’Europa unita, che con una voce sola si confronta in nome dei suoi valori e interessi con le grandi potenze mondiali, temo che rimarrà ancora tale per molto tempo.

Concludendo. Dei tre punti in cui più sopra ho riassunto la posizione del nostro governo, nel caso che la Gran Bretagna resti nell’Unione risulterebbe indebolito il terzo, quello della riforma dell’Unione in direzione più comunitaria. Gli altri due (la domanda di maggiore flessibilità e la necessità di riforme strutturali) risultano intatti, anzi rafforzati. Restare nell’Unione, per un Paese con il nostro debito pubblico e le nostre debolezze strutturali, è comunque meglio che esserne fuori, in balia dei mercati finanziari… e delle nostre classi politiche.

15 giugno 2016 (modifica il 15 giugno 2016 | 19:10)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_giugno_16/che-ci-sia-o-no-brexit-7c9dc0c6-331b-11e6-a482-ab4404438124.shtml
6665  Forum Pubblico / "ggiannig" la FUTURA EDITORIA, il BLOG. I SEMI, I FIORI e L'ULIVASTRO di Arlecchino. / Re: Arlecchino. Da FB ... Alla gogna i Diffusori di Odio. inserito:: Giugno 18, 2016, 08:52:53 am
Dell'antipolitica ce ne possiamo infischiare sono parolai senza progetto capaci solo di criticare e offendere l'avversario di turno.

Il vero pericolo da combattere, democraticamente ma decisamente, sono, tra questi, gli specialisti nella diffusione dell'odio. Odio di ogni tipo: razzista, ideologico, religioso, sportivo, mafioso.

Hanno impestato la nostra società tra il menefreghismo dei pavidi e il ritardo colpevole dei complici.

da - FB del 17/06/2016
6666  Forum Pubblico / MONDO DEL LAVORO, CAPITALISMO, SOCIALISMO, LIBERISMO. / Giuseppe Bianchimani Neoliberismo: il capro espiatorio che fa comodo a tutti inserito:: Giugno 17, 2016, 08:39:12 am
Economia & Lobby
Neoliberismo: il capro espiatorio che fa comodo a tutti

Di Giuseppe Bianchimani
 9 giugno 2016

Contro ogni dato, statistica o curva d’incidenza, le cause del virus Ebola sono state individuate da Laura Boldrini nella “spinta al privato della Sanità mondiale “. L’11 settembre. Come dichiarò l’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi: “Quello che è successo a New York ci ricorda che non potrà più imporsi come dottrina una certa forma di pensiero unico che difende il liberismo sfrenato”. Questi sono solo due dei molteplici commenti che si possono ravvisare sul web, leggere tra le righe di giornale o apprendere in un dibattito televisivo. La scelta non ha come scopo attaccare i due personaggi in questione, bensì sfruttare la loro posizione autorevole per dare credito ad una tesi che si sta via via concretizzando: Vi è un male? La colpa è del neo-liberismo!

Penso che il problema principale sia definire che cosa si intende per neo-liberismo, poiché questa parola sembra dire tutto e niente. La mia idea è quella di chiarire quali sono le posizioni in merito per ciò che concerne la letteratura economica e quindi chiedersi: vi è effettivamente tra gli economisti teorici o tra i responsabili della politica economica una comunità ascrivibile al pensiero neo-liberista? E se la risposta dovesse essere affermativa, quali sono le implicazioni che ne discendono? Molti sostengono, che le cause della crisi risalgono al grande processo di deregolamentazione in materia finanziaria attuato dalla fine degli anni ottanta.

Questa iniziativa fu in gran parte dovuta e/o teorizzata da una classe di economisti, provenienti per lo più dall’università di Chicago, con a capo Milton Friedman, passati poi alla storia con il nome di neo-liberisti o Chicago boys. Secondo questa tesi, se oggi ci troviamo a sperimentare un periodo di scarsa crescita a livello globale (alcuni direbbero secular stagnation), un livello di diseguaglianze esacerbato ed una pesante incertezza diffusa nei mercati finanziari, circa la sostenibilità dei debiti pubblici, lo si può ricondurre per intero al neo-liberismo! Magari fosse così facile. Basterebbe invertire il mainstream dominante. La concezione comune è che in teoria economica vi siano due schieramenti, diametralmente opposti: i keynesiani da una parte ed i liberali dall’altra.

Uno scontro in cui i primi riconducono le cause della determinazione del reddito (ciò che si definisce comunemente Pil) a fattori di “domanda aggregata”, mentre i secondi sostengono che bisognerebbe attuare politiche di stimolo per “l’offerta aggregata”. In realtà queste sovrastrutture sono state abbandonate da tempo, in particolare dagli anni settanta in poi, con ciò che oggi viene definita la teoria dell’equilibrio. Riportando un caro esempio (si veda Monacelli), la macroeconomia moderna oggi non è composta né da “domandisti” né da “offertisti”; ma semplicemente da “equilibristi”. Ciò non vuol dire che vi sia una omologazione concettuale circa lo studio dei fenomeni socio-economici, al contrario vi è una sintesi di elementi dell’una e dell’altra corrente.

I modelli che fanno riferimento a questa impostazione teorica vengono definiti Dsge (per i più curiosi si veda Jordi Galì), un acronimo che sta per dynamic stochastic general equilibrium. Sostanzialmente, i Dsge cercano di spiegare fenomeni quali la crescita economica, fluttuazioni del ciclo economico (es. recessioni) e gli effetti della politica monetaria e fiscale, sulla base di modelli fondati da principi di equilibrio, ovvero l’interazione tra domanda ed offerta aggregata attraverso il sistema dei prezzi. Questa tipologia di modelli è ampiamente accettata, sia da economisti più vicini ad idee “conservatrici”, che da coloro che si sentono più prossimi alle idee “democratiche”.

È sorprendente inoltre sottolineare (come osservato da Gregory Mankiw qualche anno fa) che i consiglieri economici dei presidenti Usa e delle banche centrali sono quasi sempre reclutati tra le file dei “neokeynesiani”, cioè tra coloro che credono nell’efficacia della politica monetaria e fiscale (si pensi alle figure di Draghi, Bernanke oppure Olivier Blanchard, non proprio dei paladini del “liberismo sfrenato”). Come potrebbe essere altrimenti? I veri “mercatisti” non avrebbero salvato le banche, non le avrebbero parzialmente nazionalizzate e non avrebbero promosso gli stimoli fiscali.

Allora perché vi è tanto fervore ed accanimento verso il neo-liberismo? Probabilmente perché, e su questo la storia ha tanto da insegnare, l’utilizzo di un capro espiatorio fa sempre comodo per evitare ragionamenti più complessi. Con ciò non voglio asserire che le politiche economiche degli anni ottanta non abbiano influito sulla determinazione della crisi finanziaria, ma è oltremodo controproducente ragionare con delle categorie ormai desuete. Sembra quasi diventata un’ossessione, eppure oggi che cosa si intende per neo-liberismo? Forse è una domanda su cui in molti dovremmo riflettere.

Di Giuseppe Bianchimani | 9 giugno 2016

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/09/neoliberismo-il-capro-espiatorio-che-fa-comodo-a-tutti/2806635/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-06-09
6667  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EZIO MAURO. Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia... inserito:: Giugno 17, 2016, 08:11:50 am
Referendum, Zagrebelsky: "Il mio No per evitare una democrazia svuotata"
Per l'ex presidente della Consulta la riforma del Senato sommata all'Italicum "realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie"


Di EZIO MAURO
26 maggio 2016

PROFESSOR Zagrebelsky, dunque più che a un referendum saremmo davanti a un golpe, come sostiene il fronte del "no" alla riforma che lei guida insieme a altri dieci ex presidenti della Consulta, e a molti costituzionalisti? Non lo avete mai sostenuto nemmeno davanti agli abusi di potere di Berlusconi e alle sue leggi ad personam: cos'è successo?
"Nel "fronte del no" convergono preoccupazioni diverse, come è naturale. Vorrei però che si lasciassero da parte le parole a effetto. L'atmosfera è già troppo surriscaldata. Contesto la parola golpe, non l'allarme. Come si fa a non vedere che il potere va concentrandosi e allontanandosi dai cittadini comuni? Non basta per preoccuparsi?".

Sono qui per sentire lei, e aiutare i lettori a capire. Dove vede questo disegno di esproprio del potere?
"Non penso a una "Spectre", per intenderci. Vedo un progressivo svuotamento della democrazia a vantaggio di ristrette oligarchie. Per ora le forme della democrazia reggono, ma si svuotano. Si parla di post-democrazia e, se subentra l'autoritarismo, di "democratura". Ripeto: non c'è da preoccuparsi?".

Tutto questo per il referendum sulla riforma del Senato?
"Il Senato è un dettaglio, o un'esca. Meglio se lo avessero abolito del tutto. È all'insieme che bisogna guardare. Rispetto ai mali che tutti denunciamo (rappresentanti che non rappresentano, partiti asfittici e verticistici e, dall'altro lato, cittadini esclusi e impotenti) che significa la riforma costituzionale unita a quella elettorale? A me pare di vedere il sogno di ogni oligarchia: l'umiliazione della politica a favore di un misto di interessi che trovano i loro equilibri non nei Parlamenti, ma nelle tecnocrazie burocratiche. La conseguenza è che viviamo in un continuo presente. Il motto è "non ci sono alternative", e così il pensiero è messo fuori gioco".

Lei ha avuto responsabilità istituzionali, è stato presidente della Consulta: non ha mai sollevato questo allarme coi vertici dello Stato?
"Con "i vertici" ho poche occasioni d'incontro. Ma ne ricordo uno, al Quirinale col presidente Napolitano. Gli parlai dell'alternativa che si prospetta sempre, quando le condizioni sociali si fanno strette e il malessere aumenta, tra chiusure autoritarie e aperture democratiche: o la ricerca di nuove strade o l'insistenza su quelle vecchie che pesano sui gruppi sociali più deboli".
Ad esempio?
"Pensi al modo abituale di tirare avanti esponendosi ai creditori. Il debitore finisce per cadere totalmente nelle loro mani. Nel diritto antico potevi finire schiavo. Oggi puoi essere spogliato. Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c'è l'esempio della Grecia che parla chiaro. Lo stato sociale è allo stremo e si sono chiesti in garanzia spiagge, isole e porti, se non anche il Partenone".

Io sono più preoccupato per questi problemi che per la riforma del Senato: il welfare state, quella che abbiamo chiamato l'economia sociale di mercato, la democrazia del lavoro fanno parte della civiltà europea, non le pare?
"Anche per me questa è la vera posta in gioco. Guardi però che tutto nel nostro discorso si tiene, dal welfare al referendum. Sennò non si capirebbe, di fronte all'enormità dei problemi che abbiamo, tanto accanimento nei confronti del povero Senato. Il "sì" spianerebbe una strada; il "no" farebbe resistenza".

Insomma, dalla crisi si può uscire con meno o più democrazia?
"Sì. La prima strada porta alla rottura dei vincoli sociali, diciamo pure alla distruzione della società, condannando i più deboli all'impotenza e all'irrilevanza. La seconda passa per un grande discorso democratico, franco, sincero, che non nasconda le difficoltà e chiami tutti a uno sforzo di responsabilità, ciascuno secondo le proprie possibilità, mobilitando le energie civili del Paese e recuperando sovranità".

Anche lei pensa che l'Europa sia un nemico, come dicono ogni giorno gli opposti populismi?
"Per nulla. Ma l'Europa è una scelta, non un guinzaglio. L'articolo 11 della Costituzione prevede la possibilità che l'Italia limiti la sua sovranità a favore di organismi internazionali, ma a condizione che ciò serva alla pace e alla giustizia tra le Nazioni. Che cosa vuol dire? Che non è un'abdicazione incondizionata alla finanza, entità immateriale con conseguenze molto concrete, ma una partecipazione consapevole e paritaria a istituzioni democratiche sovranazionali. L'Europa dovrebbe significare più, non meno democrazia".

Sta dicendo che l'Europa è un destino democratico da scegliere ogni giorno, non un vincolo di cui si smarrisce la legittimità?
"È l'opposto della semplificazione brutale dei nazionalisti. Anzi, un recupero dello spirito di Ventotene, un "plebiscito d'ogni giorno" dei popoli, non dei mercati. Invece si è pensato che unendo i mercati la politica avrebbe seguito. Ma gli interessi economici spesso sono ostili alla politica, e la riducono a intendenza. Speriamo che non sia troppo tardi".

Ma secondo lei la politica accetta consapevolmente questa diminuzione di ruolo e di peso, o decide il rapporto di forza?
"C'è un pensiero unico in campo, tra l'altro responsabile della crisi. Perfino un riformista come Keynes è considerato un eretico. La politica, dicevo, si è ridotta a una dimensione puramente esecutiva, con interventi tampone, incapace di un pensiero autonomo e prospettico. L'implosione è sempre in agguato".

Professore, non è troppo pessimista?
"Non parlerei di pessimismo, ma di prudenza, una virtù che nel governo delle società non è mai troppa. A parte tutto, la riforma è scritta malissimo, illeggibile, talora incomprensibile".

Sta facendo un problema di forma?
"Di sostanza, prego, perché una costituzione democratica ha innanzitutto l'obbligo della chiarezza. Il linguaggio dei riformatori rivela due difetti: semplificazione e radicalità, brutalità e ingenuità".

Si può essere brutali e ingenui al tempo stesso?
"Certo. Prenda lo slogan: la sera delle elezioni si saprà chi ha vinto. Non le sembra che riveli una mentalità al tempo stesso sbrigativa e ingenua? In quel giorno ci saranno vincitori e vinti e vae victis! ".

Ma lo slogan non indica anche un rimedio alla palude, all'eterna tentazione del consociativismo?
"A patto di non considerare la vittoria come un'unzione sacra che permette di insultare chi non è d'accordo: sindacati, professori, magistrati, pubblici amministratori, con l'idea che siano avversari da spegnere. Un governante saggio non dovrebbe crearsi il nemico perché, appena le cose incominceranno ad andare male, sarà chiamato a pagare un conto salato".

Ma nel Paese dell'eterno democristiano, non è meglio un legame diretto tra il voto e il governo?
"Perché "diretto" sarebbe "non democristiano"? A me pare che proprio l'idea del vincitore e dello sconfitto alimenti una vocazione tipica da noi: il timore d'essere lasciati nel campo della sconfitta. Così, c'è stata e c'è una vocazione potente a salire sul carro del vincitore. E questa non è forse la forma peggiore del consociativismo, addirittura preventiva?".

Lei teme l'abuso del vincitore?
"Si è parlato della Costituzione vigente come il frutto ormai superato della "paura del tiranno". Il tiranno, nel senso del fascismo, oggi non c'è più. Ma il vento che tira in Europa e nel mondo non ci rende avvertiti di altri, nuovi pericoli? Tanto più che le istituzioni che saranno sottoposte a referendum varranno per il futuro e non sappiamo chi potrà avvalersene".

Ma ci sono costituzionalisti, come il professor Cassese, che non vedono nella riforma un rafforzamento dell'esecutivo: è così?
"Nessuno può essere certo delle sue previsioni, ma il gioco combinato della "velocità" nella politica e dell'elezione come investitura trasformerà chi vince in arbitro indiscusso del sistema. Già ora il Capo del governo è anche Capo del suo partito, e la minoranza interna è schiacciata sotto il ricatto permanente del voto anticipato".

Anche De Mita per un breve periodo fu segretario della Dc e capo del governo: perché nessuno lo paragonò a un tiranno?
"Semplice: perché c'erano i partiti e una legge elettorale proporzionale con le preferenze. Oggi i partiti sono dei monoliti, col solo compito di sostenere il Capo. E, di nuovo, tutto si tiene: con la legge elettorale vigente in Parlamento siederanno i fedelissimi".

Lei ritiene Renzi capace di tutto questo?
"Non voglio personalizzare. Tra l'altro oggi c'è Renzi, domani può venire chiunque. I governi passano, le istituzioni restano".

Ma la società non vuole un superamento del bicameralismo perfetto?
"Lo voglio anch'io, ma non in questo modo. Ridurre procedure e costi è positivo. Ma tutto ciò non va cavalcato in termini antiparlamentari, perché saremmo all'antipolitica. Di un parlamento vitale si ha sempre bisogno. Anzi avremmo bisogno che rappresentasse il meglio del Paese, come si diceva una volta: ridotto nel numero e più competente".

Le ricordano sempre che Ingrao si schierò a favore di una sola Camera: cosa risponde?
"L'idea di Ingrao era la "centralità del Parlamento". Voleva una Camera sola per promuovere la politica in Parlamento, non per umiliarli entrambi".

E' questa la vera ragione del suo "no"?
"E' fondamentalmente questa, unita a ragioni specifiche. Il Senato è ridotto, ma non abolito. Il bicameralismo rimane per una serie di materie che possono innescare seri conflitti. È previsto che siano risolti dalla trattativa tra i due presidenti. Ma è lecito patteggiare sul rispetto delle regole? Le incongruenze tecniche sono molte. Non invidio chi dovrà scrivere la nuova legge elettorale del Senato. Non si capisce da chi saranno scelti i nuovi senatori: se sono "designati" dagli elettori non possono essere "eletti" dai Consigli regionali. Sa cosa le dico? Non mi dispiace non insegnare più il diritto costituzionale il prossimo anno, perché non saprei come spiegare ai miei studenti non una materia, ma un guazzabuglio".

Più facile spiegare la fiducia al governo da parte di una sola Camera, non crede?
"Questo è giusto, e utile. Non sono affatto contrario a un governo che governi. Ma dentro un sistema che respiri democraticamente a pieni polmoni".

Dal governo non può venire niente di buono?
"Perché? Sono buone le unioni civili, l'autonomia dai vescovi, la prudenza sulla Libia, il rifiuto della politica del "a casa nostra" verso i migranti. Vede che non ho pregiudizi? Ma non mi piace che una discussione sulla Costituzione si trasformi in un plebiscito sul governo. La Costituzione non è a favore né contro qualcuno, non si vince in questa materia e non si perde. Nessuno si gioca tutto sulla Carta, tutti ci giochiamo qualcosa e forse molto".

Professore, non l'ho mai sentita richiamare i grillini, come fa con il Pd, ad una responsabilità comune sul destino del sistema: come mai?
"Potrei dirle che l'antipolitica è figlia della cattiva politica. Ma è giunta l'ora che i Cinque Stelle si emancipino dalle idee elitistiche e accettino la logica parlamentare. La vera arte politica sta nel creare le condizioni dello stare insieme. Il che non vuol dire rinunciare alle proprie ragioni, ma cercare di diffonderle oltre i propri confini. Dire questo non significa nostalgia del vecchio ordine, ma desiderio di buona politica".

A proposito di vecchio, cosa risponde a chi usa questo termine come un insulto contro di voi?
"Anche noi siamo stati giovani, senza averne merito, e anche loro diventeranno vecchi, senza colpe per questo. Ma, non era la destra che polemizzava coi vecchi?".

Sì, ricorda gli attacchi a Spadolini, Rita Levi Montalcini sbeffeggiata in Senato: dunque?
"C'è traccia di futurismo nella rottamazione. I giovani hanno sempre ragione, i vecchi devono tacere. Sono battute, dice qualcuno. Ma vede: così si smarrisce
il sentimento del passaggio generazionale, la trasmissione dell'esperienza. Si vuole rompere la tradizione in nome di un presunto Anno Zero. Certo, l'eccesso di tradizione spegne. Ma tagliare ogni radice per il peso della memoria espone al vento. Vivi nell'oggi e improvvisa".

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26 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/26/news/referendum_riforme_zagrebelsky-140616373/?ref=HREC1-2
6668  Forum Pubblico / AUTRICI e OPINIONISTE. / MONICA RUBINO. Comunali, da Airaudo a Fassina la 'sinistra sinistra' non sfonda inserito:: Giugno 17, 2016, 08:09:35 am
Comunali, da Airaudo a Fassina la 'sinistra sinistra' non sfonda
A Torino, Milano, e Roma le liste rosse anti-Pd non raggiungono i risultati sperati. Con l'eccezione di Bologna.
Incerta la strategia sui ballottaggi. A Roma l'ex viceministro delle Finanze: "Né Raggi né Giachetti, voteremo scheda bianca"

Di MONICA RUBINO

ROMA - Da Giorgio Airaudo a Torino a Stefano Fassina a Roma. Da Basilio Rizzo a Milano a Federico Martelloni a Bologna. La "sinistra sinistra" alternativa al Pd non buca lo schermo e non raggiunge i risultati sperati. Tutti si aspettavano qualcosa in più. Nessuno, a parte Martelloni, è riuscito a superare il 5%, una soglia "simbolica" che avrebbe reso il senso di una buona partenza. Non vale nemmeno più la militanza nei sindacati, come nel caso di Airaudo, ex segretario Fiom nella città della Fiat: “Sono anni ormai - afferma il candidato torinese di Sinistra italiana - che i voti dei sindacati non si ribaltano sui partiti. Personalmente sono un po' deluso, mi aspettavo qualcosa in più dei 14mila voti presi (pari al 3, 70%, ndr). Certo è un inizio, ma è un po' zoppicante. A Torino c'è stata una forte astensione e una buona parte degli astenuti sono voti persi dal Pd che noi non siamo riusciti a intercettare. Ci siamo battuti da soli a mani nude - conclude - ma lo spazio a sinistra c'è, la domanda è forte ma bisogna costruire una proposta credibile e unitaria sul piano nazionale". Alla domanda se SI al ballottaggio sosterrà o meno il sindaco Pd uscente Piero Fassino, Airaudo non risponde: "Non posso dirlo adesso. Nel pomeriggio terremo una conferenza stampa in cui spiegheremo a tutti la nostra strategia".

Sulla stessa linea anche Fassina, candidato sindaco a Roma, che si è fermato al 4,4%: "Una richiesta di discontinuità c'è ma non siamo riusciti a dirottare verso la nostra proposta il dissenso a Renzi, che invece si è spostato sul M5s". Rimane assolutamente convinto del progetto di Sinistra italiana e sull'ipotesi di appoggiare o meno il candidato del Pd Roberto Giachetti l'orientamento sembra quello di non sostenere né Raggi né Giachetti: "La mia indicazione è di votare scheda bianca, mi sembra la scelta più coerente", afferma l'ex viceministro dell'Economia. Anche se ultima parola spetterà all'assemblea del partito, prevista per domani pomeriggio.

LO SPECIALE ELEZIONI COMUNALI 2016

Per Basilio Rizzo, che con la sua lista Milano in Comune ha raggiunto il 3,56% dei consensi, "la sinistra c'è". Il presidente del Consiglio comunale del capoluogo lombardo, rappresentante di Prc e civatiani, si dichiara soddisfatto del quarto posto: "Una parte significativa dell'elettorato milanese non si è riconosciuta nelle candidature gemelle dei manager". Quanto al ballottaggio, Rizzo aggiunge che il candidato del Pd Giuseppe Sala "il nostro voto dovrà meritarselo. Al ballottaggio si devono proporre programmi che possano rispondere alle aspettative di una larga fetta della popolazione. Noi staremo ad ascoltare le proposte: non siamo a priori contro il governare".

A Bologna Coalizione civica, la lista a sinistra del Pd appoggiata da una parte di Sel dopo la rottura dei vendoliani con la giunta di Virginio Merola, non farà "accordi o accordicchi" con i dem in vista del ballottaggio fra il sindaco uscente e la leghista Lucia Borgonzoni. A dirlo è il candidato sindaco Federico Martelloni, più che soddisfatto del 7% raggiunto. Il professore di diritto del lavoro all'Alma Mater non si sbilancia sul secondo turno: "Ne discuteremo, il nostro non è un elettorato sul mercato politico, i nostri 12.000 voti non sono un pacchetto che spostiamo". Se è indubbio che "una distanza siderale ci separa dal populismo di destra della Lega Nord - continua il giuslavorista- non abbiamo nulla a che fare con il Pd di Renzi e di Merola, con il partito della nazione". Non si lavorerà dunque ad un accordo e "non daremo indicazioni di voto", continua Martelloni. Ma "discuteremo di cosa fare - aggiunge - come i nostri fratelli di Barcellona (il riferimento è a Podemos, ndr), perchè non ci sono uomini solo al comando". Toccherà al consiglio direttivo, alle assemblee e alle realtà consolidatesi nei quartieri durante la campagna elettorale prendere la decisione finale.

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07 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/da_airaudo_a_fassina_la_sinistra_sinistra_non_sfonda-141480156/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_07-06-2016
6669  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / MARCELLO SORGI. La democrazia anomala dei frammenti inserito:: Giugno 17, 2016, 08:07:20 am
La democrazia anomala dei frammenti

07/06/2016
Marcello Sorgi

Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79. 

E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.

Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.

Al momento la svolta - se di svolta si può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.

A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.

La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile - s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.

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6670  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / UGO MAGRI Referendum tutti contro Renzi inserito:: Giugno 17, 2016, 08:00:20 am
Referendum tutti contro Renzi

08/06/2016
Ugo Magri

Visto attraverso gli occhiali del referendum costituzionale di ottobre, questo voto per i sindaci non promette nulla di buono. Perché domenica scorsa quasi due terzi del corpo elettorale hanno premiato i partiti del «no», dalla Lega a Forza Italia a M5S, mentre quelli favorevoli (Pd e relativi «cespugli») sono rimasti sotto il 40 per cento. Se l’Italia fosse ancora quella di trent’anni fa, quando le masse seguivano pedissequamente la volontà dei rispettivi partiti, dovremmo prepararci a un autunno di veri sconquassi: bocciatura al referendum della riforma Boschi e conseguente caos sulla legge elettorale, aggravato dalla crisi politica che le dimissioni del premier renderebbero inevitabili. Faremmo bene ad allacciarci da subito le cinture.

Si può obiettare che no, fortunatamente non è più come una volta, ormai la gente è matura e sa scegliere di testa propria. 

Dunque sarebbe sbagliato prevedere l’esito del referendum in base alla semplice somma algebrica dei partiti a favore e contro. Inoltre, ecco l’altra obiezione, un conto sono queste Comunali, dove in gioco è il futuro delle città; altra cosa sarà il giudizio sulla nuova Costituzione, che chiamerà in causa la fine del bicameralismo e la riduzione dei parlamentari, oltre al rapporto tra Stato-Regioni. Mescolare due piani così diversi tra loro sarebbe come confondere le mele con le pere. 

Eppure, fatti i necessari distinguo, rimane la sensazione che il voto di domenica non sia di ottimo auspicio per il «sì». In quanto tradisce un’insofferenza magari fisiologica, però presente un po’ dappertutto, a Napoli e a Bologna, a Roma e a Milano. Fotografa un clima di stanchezza che non aiuta chi ha l’onere di governare. Al confronto con le Europee 2014, quando il Pd aveva grandi praterie politiche davanti a sé, stavolta non è stata (non sarà nemmeno ai ballottaggi) una cavalcata solitaria del premier, il quale ha avuto l’onestà di riconoscerlo pubblicamente. Viceversa, la ventata populista mette le ali alla Raggi e rende competitiva la sua collega Appendino. Perfino il centrodestra dà cenni di risveglio, perlomeno là dove si presenta unito come a Milano. Non è merito di Berlusconi o Salvini, i quali anzi hanno fatto di tutto per perdere; dipende semmai dal contesto generale, dal «mood» collettivo un po’ più favorevole a chi rema contro.

Su questo malumore le opposizioni proveranno a far leva in ottobre. Punteranno sui sentimenti negativi, nella speranza che il ritorno dalle vacanze li moltiplichi per mille. La loro propaganda potrebbe dimostrarsi al dunque più efficace della narrazione renziana, avviata con largo anticipo. Ecco perché il voto di domenica allunga parecchie ombre sul verdetto di ottobre. Ed ecco come mai i fautori del «sì» non possono stare sereni.

Ma c’è uno strano paradosso che potrebbe scombinare ogni calcolo. Il paradosso si riassume in una semplice domanda: se Renzi si va indebolendo per effetto del contesto generale, e se questa sua debolezza rimette in corsa gli avversari, quale vantaggio possono avere le opposizioni a impantanare il sistema? Cosa ci guadagnerebbero a bocciare una riforma che permetterà a chi vince di governare per 5 anni senza pasticci e senza «inciuci»? Tanto Grillo quanto Berlusconi sono davanti a un bivio: possono puntare al pareggio mettendo la mina referendaria sotto la futura Costituzione; o mostrare fiducia in se stessi e tentare di vincere l’intera posta, accettando le nuove regole del gioco. Qualche piccolo segnale fa ritenere che una riflessione sia in corso, specie tra i Cinquestelle. O almeno tra quanti, di loro, provano a guardare lontano.

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6671  Forum Pubblico / GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. / EUGENIO SCALFARI. Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re" inserito:: Giugno 17, 2016, 07:51:55 am
Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re"
Il ricordo del fondatore di Repubblica, che all'epoca aveva 22 anni. "Ero liberale e crociano.
E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano"

Di SIMONETTA FIORI
29 maggio 2016

"Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano".
Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d'Italia ma anche la sua storia personale, l'ingresso nell'età adulta che l'avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s'abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.

Così il futuro fondatore di "Repubblica" scelse la monacchia.
"Croce era convinto che l'istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l'Italia era 'il giardino del Vaticano'".

Temevate l'egemonia scudocrociata?
"Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l'ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare".

Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
"No, più semplicemente si era esaurita l'intimità adolescenziale. Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi".

È per questo che poi avresti trovato un'intesa con papa Francesco?
"Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l'ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. "Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia", mi ha detto sorridente. "Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri". "Beh, il minimo che potesse capitare"".

Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
"Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi".

Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
"Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica".

Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
"In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C'era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare".

Hai mai creduto all'ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
"Mah, il sospetto fu smentito con prove".

Un "miracolo della ragione", così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
"Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell'inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista".

Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
"Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti".

Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com'era l'Italia del dopoguerra?
"Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l'apertura di case da gioco. L'organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. "Sei matto?". Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant".

Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant'anni?
"Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti".

Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
"Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte - la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli - ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci".

Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l'altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
"La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l'indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell'Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte".

Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici - Segni e Leone - o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l'attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
"A Pertini mi legava un'amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l'abitudine di fare la prima colazione insieme. E l'amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi "sassolini dalla scarpa". Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. "Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta". E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile".

E il rapporto con Giorgio Napolitano?
"Nel corso della sua presidenza l'ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c'è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d'accordo su tutto: sull'attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi".

Direttore, un'ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome di "Repubblica" per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent'anni prima?
"Ma no, me l'ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo".

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29 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/29/news/referendum_1946_scalfari-140836071/?ref=HRER2-2
6672  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / ROBERTO SAVIANO Comunali, Napoli: l'errore del voto di scambio e gli zapatisti.. inserito:: Giugno 17, 2016, 07:49:53 am
Comunali, Napoli: l'errore del voto di scambio e gli zapatisti in salsa campana
L’analisi.
Ora il premier deve indicare i punti decisivi per cambiare il territorio e per selezionare una vera classe dirigente

Di ROBERTO SAVIANO
07 giugno 2016

Napoli. Il Pd che a Napoli non arriva al ballottaggio è un sintomo, certo, ma di un malessere ancora più grande, che non si può confinare soltanto qui. Intanto non è vero che altrove se la passi meglio: basta guardare la mappa del voto in Italia - da Torino a Milano fino a Roma. Lo specifico del Sud, però, è indicativo: perché dove ha vinto il Pd non lo ha fatto muovendo l'opinione ma legandosi alle clientele - manovrando pacchetti di voti. E allora che cosa è successo? Che Renzi e il governo, al Sud, hanno sbagliato tutto: ignorando e rubricando gli allarmi suonati in questi anni.

Durante le primarie, il Pd si era mostrato assolutamente incapace di capire il voto di scambio. Ha poi peggiorato la propria posizione presentandosi con Ala. Cioè alleandosi - con tanto di Verdini presente in campagna elettorale - alla peggiore formazione politica del territorio. Flirtando con ambienti ambigui, eredi del cascame berlusconiano, che peraltro in termini di consenso hanno fatto perdere più di quanto hanno apportato. Anche questa alleanza è sintomo della noncuranza del presidente per il Mezzogiorno d'Italia: Ala è utile a Roma e sull'altare di questa alleanza strategica si può ben sacrificare la terza città d'Italia.
Perché allora Renzi, a Napoli, non ha deciso di rinnovare il Pd? Si è invece nascosto dietro dichiarazioni di massima e promesse fragilissime. Pensando di recuperare il tempo perduto e gli sbagli fatti intensificando negli ultimi tempi la sua presenza: l'ennesima scorciatoia, l'ultimo tentativo di risolvere con un eccesso di immagine i deficit strutturali della sua segreteria, tanti pezzi di un puzzle da dare in pasto ai media ma che rispecchiano una realtà irrimediabilmente frammentata.

Ma non si tratta solo di questo: perché il voto meridionale è anche una ulteriore conferma della furbizia tattica (non strategica) di Matteo Renzi. In fondo - l'hanno già osservato in molti - sembra quasi che il premier volesse perdere. Voleva perdere perché non aveva altro modo di commissariare - come ha annunciato di voler fare solo ieri - il suo Pd. Il problema della impresentabilità non è nuovo: pensiamo alla vicenda di Stefano Graziano, il segretario regionale del Pd coinvolto in una inchiesta dell'antimafia che ipotizza suoi legami diretti con un soggetto ritenuto organico ai clan. E perché allora Renzi arriva a commissariare in tutta fretta soltanto ora? Perché non lo ha fatto quando la campagna elettorale è cominciata con la pantomima delle primarie che pochi volevano e hanno poi condotto a una frattura interna insanabile?

Lo fa adesso perché, come segretario del partito, implicitamente rompe le righe prima del ballottaggio. Se questo Pd finirà per sostenere Lettieri, in fondo la responsabilità non sarà imputabile a Renzi: il voto tracimerà "naturalmente" verso il centrodestra e per nascondere il flusso si dirà che ormai si tratta di un'emorragia di truppe. Saranno i capibastone, i traffichini dei voti comprati a poco prezzo a muoversi liberamente nella prateria aperta dal ballottaggio, ognuno provando a vendere il capitale accumulato al primo turno: pacchetti di preferenze neanche lontanamente sfiorati da quel voto di opinione che il Pd ha in tutti i modi, e coscientemente, scoraggiato. Così oggi Renzi commissaria il partito perché teme che Napoli e il Mezzogiorno possano diventare un serbatoio immenso di resistenza alla sua riforma costituzionale: sa bene che gente come de Magistris e Emiliano si sente ormai stretta nei propri avamposti.

Purtroppo per il Pd, la noncuranza del segretario nei confronti di questioni cruciali ha finito per presentargli il conto. Non regge più, alla prova delle urne, neanche lo spauracchio agitato nel corso degli ultimi due anni: se vai contro Renzi, se vai contro questo governo e questo Pd, dai spazio al populismo. È esattamente il contrario. Per come si sono messe le cose oggi, sono stati proprio il comportamento di Renzi e del suo governo a spianare la strada al populismo. Cosa pensava di ottenere il segretario del Pd candidando a Napoli una delle figure più incolori del centrosinistra finito ingloriosamente cinque anni fa? Valeria Valente ha accettato questa corsa a perdere in cambio della ricandidatura alle prossime politiche: altre ragioni non ci sono. Ma il segretario del Pd cosa pensava di ottenere? E cosa pensava di ottenere quando ha costretto la periferia ad ingoiare l'amaro boccone della alleanza con Ala? Sono questi gli errori che hanno aperto la strada al populismo.

De Magistris è adesso pronto a vincere un nuovo ballottaggio catalizzando forze che vanno dall'ex rettore democristiano dell'Università di Salerno, Raimondo Pasquino, alle avanguardie di Hamas a Napoli - sembra incredibile, ma un tema centrale della campagna elettorale napoletana è stata la questione israelo-palestinese. Forze che sembrano già pronte ad andare ciascuna per la propria strada non appena il sindaco, se rieletto, si concentrerà nella campagna elettorale per il no al referendum di ottobre. Il vero paradosso di questi anni è che de Magistris, quando subì la sospensione causa legge Severino, era in crisi piena di consenso: aveva perso per strada tutte le personalità autorevoli che aveva voluto nella sua prima giunta e le promesse mancate già cominciavano a pesare. Quel meccanismo imperfetto però ha finito per costituire la sua più grande fortuna. Gli ha indicato la strada a disposizione di ogni politico spregiudicato dei nostri giorni: essere al governo e all'opposizione allo stesso tempo. De Magistris ha così costruito la sua campagna elettorale praticamente contro se stesso: il sindaco rivoluzionario contro i poteri di lunga data - come a governare fino a ieri non fosse invece stato lui. Tutto ciò che di buono poteva attribuirsi - l'incremento del turismo - lo ha ascritto a sé. Tutto ciò che era opaco lo ha riferito a Roma. Nel suo comizio ha addirittura utilizzato l'immaginario preunitario: "Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro". A tutti è sembrata un'ingenuità. Invece de Magistris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica. Tra gli elettori, anche quelli più disincantati, è passato con una efficacia formidabile un unico messaggio: "Non ruba".

De Magistris non aspettava altro e ha meticolosamente programmato una campagna elettorale furba, populista, culmine di una prima sindacatura chiusa con una enorme quantità di deleghe personalmente detenute dal Sindaco, che davvero così delinea una situazione di stampo venezuelano. Per non parlare del consenso che gli arriva dalle associazioni: a Napoli c'è una tale miseria nel terzo settore che tanti, pur di avere un po' di prebende, cercano di avvicinarsi al sindaco "in fondo onesto", il sindaco che giura che governerà dalla strada, che realizzerà lo zapatismo in salsa napoletana: la sua "rivoluzione bolivarista"". Programma che genera inquietudine, ma anche tenerezza, nei giorni in cui il Venezuela degli ultimi bolivaristi affronta una delle crisi più severe della sua storia.

Eppure è così che de Magistris ha vinto al primo turno: doppiando gli avversari. E ha vinto a mani basse di fronte al suo avversario vero. E cioè quel Renzi terrorizzato dall'immischiarsi in vicende criminali e complesse, quel Renzi che ha relegato la rinascita politica del territorio alla sola battaglia morale - peraltro persa, poiché molto di facciata: il Pd a Caserta ha stravinto al primo turno ma guardate chi lo rappresenta.

Eppure i segnali, per il segretario democratico, erano arrivati da più parti. Gli erano stati più volte esposti gli errori madornali commessi dal Pd al Sud. Gli era stato spiegato come una classe dirigente incolta e inadatta rischiasse di far implodere il partito. Niente. Quando la lotta alla corruzione diventa una religione ecco che si sta apparecchiando la soluzione migliore perché tutto rimanga così come è.

E adesso? Lo confesso. Io non so darmi una risposta: non so che cosa si possa fare concretamente. Certo: sbandierare ideali da battaglia farebbe finalmente accorrere giovani, e meno giovani, risvegliando passioni sopite e grandi progetti. Ma non è questa la strada. Bisogna porsi domande autentiche perché alle domande autentiche non si può che rispondere con la verità. Bisogna iniziare a essere umili: realizzare che bisogna ripartire piano, un passo alla volta, con progetti concreti piuttosto che con grandi propagande. Senza grancassa. Non cedere a chi sostiene che raccontare le contraddizioni significhi diffamare. Bisogna ricostruire. Bisogna convogliare il meglio del Paese e non continuare a dividere il mondo tra "i propri uomini" e tutti gli altri.
Sì, il Sud è al collasso, tranne piccole felici eccezioni. È inutile fingere di non vedere. Il suo collasso si vede nella rabbia rivolta verso chiunque abbia un po' di visibilità. Ecco perché Renzi dovrebbe fare mea culpa sugli errori che sta commettendo al Sud. Basta con la politica dell'apparire: senza una trasformazione reale la bolla della "narrazione" tanto cara al premier finirà per scoppiare. E non ci si può nascondere dietro un dito sostenendo che il cambiamento è rallentato da tempi troppo lunghi.

Il segretario del Pd dica ai napoletani che adesso non si può votare per Lettieri. Dica che è stato un errore allearsi con Ala. Prenda posizione. Sappia indicare pochi e decisivi punti su cui cambiare il territorio. A cominciare dai criteri per la selezione di una vera classe dirigente e lasciando perdere le mogli, i figli e i fratelli di chi ha fallito. Lo faccia - e lo faccia presto. Sì, fate presto: se potete

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07 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/comunali_napoli_l_errore_del_voto_di_scambio_e_gli_zapatisti_in_salsa_campana-141458641/?ref=HRER2-1
6673  Forum Pubblico / CENTRO PROGRESSISTA e SINISTRA RIFORMISTA, ESSENZIALI ALL'ITALIA DEL FUTURO. / LA COMUNITA' De iSEMPLICI - Cassazione, in dichiarazione congiunta possibile... inserito:: Giugno 16, 2016, 12:41:03 pm
Salve Ggianni,
ti segnaliamo questo nuovo intervento pubblicato sul sito:
Cassazione, in dichiarazione congiunta possibile compensare debito Irpef con credito coniuge incapiente?
   

Nella dichiarazione congiunta è possibile compensare il debito Irpef con il credito del coniuge non a carico anche quando tale credito risulta inutilizzabile dal coniuge in quanto incapiente. Lo ha stabilito una opinabile sentenza della Cassazione depositata il 29 aprile scorso che ha ribaltato la decisione della Commissione tributaria regionale Si tratta di una pronuncia di non poco conto se si pensa agli effetti che potrà avere se il principio dovesse essere confermato e accettato dall'Agenzia delle Entrate. In ballo c'è una parte dell'ammontare di deduzioni e detrazioni non godute per incapienza stimato in circa 10 miliardi.

Negli ultimi anni, anche a causa della crisi economica che ha determinato un impoverimento generale, il problema di quanti non riescono in tutto o in parte ad usufruire delle detrazioni/deduzioni spettanti per incapienza ha assunto dimensioni via via crescenti. Tra questi soggetti c’è un particolare sottogruppo, formato dai coniugi non a carico che non posseggono redditi elevati, in genere pensioni e/o immobili. Questi in particolare lamentano il fatto di non potere detrarre/dedurre oneri, ad esempio le spese mediche, dall’imposta dovuta dal marito dichiarando congiuntamente.
E proprio in soccorso dei coniugi non a carico con spese detraibili o deducibili non utilizzabili per mancanza d'imposta da azzerare arriva la Cassazione che con la sentenza del 12 giugno 2015 (depositata il 29 aprile 2016) che ribalta di fatto una interpretazione consolidata che finora escludeva tale possibilità di compensazione.

La sentenza al punto 3 dei “motivi della decisione” afferma: “Dal sistema esposto, si evince che la unificazione delle posizioni dei coniugi si verifica esclusivamente sul piano della imposizione fiscale complessiva, ed unicamente con riferimento alle componenti che consentono la riduzione della stessa, come detrazioni, ritenute, crediti d’imposta, che, originariamente propri di ciascun coniuge, vengono in tal modo applicate non già alle singole posizioni, ma sull’ammontare complessivo delle imposte calcolate sui redditi dei dichiaranti. Ha pertanto errato la Ctr (Commissione Tributaria) nel ritenere illegittima la compensazione tra il debito Irpef e il credito Irpef del coniuge”.

Per quanto riguarda le ritenute e i crediti la sentenza è in linea con i principi generali della nostra Irpef in quanto imposta individuale. Poiché, nel caso di ritenute e crediti,si tratta di importi vantati nei confronti dell’erario da uno o dall’altro dei coniugi e come tali possono essere messi in comune nell’ambito del dare/avere della coppia. Quello che mette in crisi l’impianto normativo dell’Irpef è l’aver inserito insieme alle ritenute e i crediti anche le detrazioni. Come imposta personale l’Irpef si determina sui redditi dell’individuo, al netto delle deduzioni. L’imposta si calcola sulla base degli scaglioni di reddito applicando le aliquote previste, e da questa si scomputano le detrazioni d’imposta, anch’esse personali, in quanto legate strettamente alla condizione dell’individuo (tipo di lavoro, soggetti a suo carico fiscale, spese da lui sostenute). Le detrazioni così come sono definite nella legge azzerano l’imposta e non originano, pertanto credito.

Di certo la sentenza apre uno scenario interpretativo completamente nuovo nelle modalità di fare la dichiarazione Irpef congiunta. In prima battuta quello che non si capisce è perché insieme alle detrazioni, alle ritenute e ai crediti non sono state considerate anche le deduzioni dall’imponibile che hanno natura analoga alle detrazioni tanto che originariamente gran parte degli attuali oneri detraibili erano oneri deducibili. Nei fatti la sentenza rischia di generare ulteriore confusione su un'imposta la cui complessità normativa non ha ormai più limiti. E potrebbe creare disorientamento e false aspettative tra i contribuenti, soprattutto tra quelli più deboli. Forse sarebbe stato più opportuno nella sentenza dare maggiori spiegazioni del perché sono state inserite anche le detrazioni nel cumulo delle imposte dovute dai coniugi. Letta così a qualcuno potrebbe venire il sospetto che sia una svista dei giudici.

Da Fisco Equo
6674  Forum Pubblico / LA CULTURA, I GIOVANI, La SOCIETA', L'AMBIENTE, LA COMUNICAZIONE ETICA, IL MONDO del LAVORO. / ANTONIO SCURATI. Quella fatale passione per il volo inserito:: Giugno 16, 2016, 12:38:17 pm
Quella fatale passione per il volo

14/06/2016
ANTONIO SCURATI

Il volo libero. Chi di noi non ha sognato, almeno una volta nella vita, di potersi librare in volo? 
 
E allora perché gli emoticon a commento della notizia riguardante la morte di Dario Zanon, schiantatosi durante un volo con la tuta alare, esprimono rabbia più che tristezza? Perché quelle faccine arrabbiate e non tristi? 
 
Dario Zanon, padovano di San Giorgio in Bosco, era un giovane uomo, caduto nel fiore degli anni (33 anni segnavano nel mondo antico il compimento della vita attiva – vedi Cristo e Alessandro Magno – ma nel nostro indicano l’ingresso in quella adulta). E per questo va ai suoi parenti e amici, alla madre, alla fidanzata, ai due fratelli, il nostro sincero cordoglio. Zanon amava lanciarsi nel vuoto dall’alto dei picchi alpini dotato solo di una tuta che riesce ad ampliare la superficie del corpo umano conferendogli un profilo alare e di un paracadute per l’atterraggio. Niente altro. E questo suscita in noi la pura ammirazione.
 
Però sì, c’è un «però». Le circostanze di questa morte, e di tante altre simili a essa – le statistiche registrano un morto ogni tre giorni causato dalla fatale passione per il volo – non possono non suscitare un pensiero, non solo sulla sua evitabilità, ma addirittura sulla sua gratuità. Forse qui, in questo pensiero disturbante, va cercata la ragione di quegli emoticon arrabbiati.
 
La vertigine del rischio mortale, l’audacia d’imprese ai limiti dell’umano – e l’uomo non è fatto per volare – hanno accompagnato l’umanità fin dalle sue origini. Di quelle origini, anzi, prima il mito, poi l’epica, e infine la storia, hanno tramandato quasi solo quelle imprese. Ma la differenza tra quelle imprese, narrate dal mito, dall’epica, dalla storia e queste, affidate alla pagina effimera della cronaca, riguarda proprio la nozione, sempre più obliata, di «umanità». Nell’eroe mitico, epico o storico, che sfidava le leggi della natura, i confini del mondo conosciuto, le anguste estensioni della nostra specie fatta di animali fisicamente inetti alla lotta per la sopravvivenza, c’era sempre un’ipotesi migliorativa, uno slancio progressivo, una perorazione appassionata a favore dell’intera umanità. L’eroe che sfidava la morte, conquistando una vetta, esplorando l’Antartico, o arrembando il cielo, lo faceva sempre, in qualche misura, in nome di tutti noi umani, nel nome di questo «animale povero» che calca goffamente la terra su due sole zampe, privo di zanne e di artigli, esposto a ogni sorta di minaccia mortale.
 
I pionieri del volo tra fine Ottocento e inizio Novecento dimostrano questo assioma al massimo grado. Non è un caso se i profeti del volo a motore nei primi decenni del ventesimo secolo furono anche i cantori della religione della Patria, aedi, spesso deliranti, di quel culto della Nazione cui si associò tanta parte della speranza in un futuro migliore da parte delle masse politicizzate al loro apparire sulla ribalta della storia. In Icaro, insomma, c’è sempre stato un po’ di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini.
 
A confronto di ciò, non si può fare a meno di pensare al carattere «domenicale», puramente sportivo, meramente dilettevole, di questa nuova dilagante passione per la vertigine del volo libero, per il rischio mortale. Piangendo le vittime di quella passione, non si può evitare di interrogarsi su questo bizzarro e sintomatico dilettantismo della morte.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/14/cultura/opinioni/editoriali/quella-fatale-passione-per-il-volo-cXygvb0KIF8UKBuJ0ZAAXJ/pagina.html
6675  Forum Pubblico / Gli ITALIANI e la SOCIETA' INFESTATA da SFASCISTI, PREDONI e MAFIE. / Riccardo Bonacina Renzi: Sogno un’Italia che abbia i valori che il Terzo ... inserito:: Giugno 16, 2016, 12:35:31 pm
Renzi: Sogno un’Italia che abbia i valori che il Terzo settore esprime

Di Riccardo Bonacina
14 giugno 2016

Dialogo con Renzi sulla Riforma del Terzo settore e su come la nuova legge potrà contribuire al cambiamento del Paese. «Vogliamo che l’Italia assomigli al Terzo Settore, che abbia dei valori, che si svegli la mattina con positività, che non si rassegni al cinismo e alla paura, alla preoccupazione dell’altro»

Venerdì 10 giugno, a Lucca, il premier Renzi è voluto tornare a confrontarsi con una affollatissima platea di volontari a cui due anni fa aveva annunciato la Riforma del Terzo settore.

Qui la trascrizione integrale dell’intervista a Matteo Renzi in occasione dell’incontro organizzato dal Centro Nazionale del Volontariato e introdotto da Edo Patriarca.

Io credo che l’Italia abbia un futuro se riscopre i suoi valori. Che non vuol dire rinchiudersi sulla difensiva, che non vuol dire giocare con il catenaccio, ma vuol dire avere la consapevolezza che se ci sono 4,5 milioni di volontari in Italia, questo è una ricchezza che vale di più di un punto percentuale di crescita del Pil.

La prima domanda è anche un po’ personale perché riguarda la tua storia e la tua persona. Io ho scritto che questa riforma realizza almeno tre sogni del Terzo Settore italiano: il primo sogno è avere, come dice sempre Luigi Bobba, un pavimento civilistico, cioè a tutt’oggi questo mondo nel Codice civile italiano non è riconosciuto, il Codice Rocco, un codice del 1942 che non è che amasse tantissimo le formazioni sociali… Anzi fare un’associazione, una fondazione oggi è più complicato che fare un’impresa. Anche per questo delle trecentomila istituzioni non profit censite dall’Istat, duecentomila hanno scelto di essere non riconosciute. “No grazie non ne voglio sapere di forme riconosciute preferiamo la cosa più light possibile”. Allora dare un pavimento civilistico è un grande sogno, una grande battaglia, una battaglia che era in corso da più di ventina d’anni: cambiare il titolo I del libro II del Codice civile. È poi importantissima la semplificazione della legislazione, è importante un riordino fiscale: tutto questo l’abbiamo chiesto per anni. Il secondo sogno è l’impresa sociale, anche per la cooperazione sociale che oggi è la forma dell’impresa sociale: che possa avere questa sfida di fare di più, di crescere, di conquistare terreno nell’economia di questo Paese e quindi allargare il terreno dell’economia sociale. La terza grande sfida è quella del servizio civile universale. A me però ha colpito che quando sei sbarcato in Giappone per il G7 il 26 maggio ha aperto la conferenza stampa dicendo “so che a voi giornalisti la cosa non vi appassiona più di tanto però io oggi voglio dirvi che sono emozionato e commosso perché durante il viaggio hanno approvato in via definitiva la legge riforma del Terzo Settore impresa sociale e servizio civile”. Quindi anche per te in qualche modo questa Riforma che poco spazio ha sui media è la realizzazione di un sogno...

Matteo Renzi: Effettivamente i giornalisti poi non erano particolarmente emozionati perché della frase “Sono emozionato e commosso dell’approvazione della legge riforma Terzo Settore” non vi è stata traccia il giorno dopo sui giornali. La vedo così, lo dico a Riccardo, lo dico ad Edo e lo dico a tutti voi. Per me l’approvazione della legge delega sul Terzo Settore non risolve i veri nodi che sono al centro, perché, lo avete spiegato molto bene, nella tua domanda e nella tua introduzione, la partita si gioca adesso, paradossalmente. È un segnale di grande impatto, di grande forza, ci permette di giocare una partita diversa ma, la partita, inizia ora.

Allora perché io ho detto che sono emozionato e commosso? Per due elementi: il primo è di natura personale e il secondo è di natura politica. Permettetemi di essere molto franco dal punto di vista personale. Al netto del piacere di essere qui e rivedersi a Lucca dopo due anni e quindi poter dire missione compiuta, io tutte le volte che vado al G7 o al G20 mi faccio sempre la domanda: “Ma tu qui che ci stai a fare?”. Alla fine io sono comunque un boy scout di Rignano e al di là di tutte le discussioni che vengono fatte, le polemiche, le riflessioni sulle le lobby, questa è casa mia, se posso dire, questa è la mia tribù, vengo da qui. Sono protempore affidato al Governo del Paese, ma il punto centrale è che io considero questa casa mia. Perché quando leggevo Vita e pensavo agli obiettivi del millennio e alla lotta contro la povertà non avrei mai immaginato che al G7 ci sarei andato io a sostenere quelle battaglie a nome dell’Italia. L’elemento dell’emozione e della commozione è esattamente questo: casualmente, del tutto casualmente, proprio la partecipazione al G7 che era fissata in contemporanea all’approvazione della legge è arrivata contestuale. Mi è come scorso un film davanti, le prime discussioni che abbiamo fatto… Riccardo ti ricordi che le abbiamo fatte a Milano nella sede del tuo giornale? C’è qualche amico che non c’è più e probabilmente Francone (ndr. Franco Bomprezzi) dall’alto in modo burbero magari ci giudica e ci guarda. Abbiamo discusso a lungo con molti e molti di voi e poi alla fine questa cosa è arrivata. Allora l’elemento personale è che per me la politica è una cosa molto seria, molto bella, io sono per ridurre i politici lo dico sempre ma non per ridurre la politica. Per me la politica è davvero, come diceva san Tommaso e poi un altro, che spero venga fatto santo, che si chiamava Giorgio La Pira, la forma più alta di carità organizzata. E proprio per questo l’idea che simbolicamente nel momento in cui andavo a rappresentare l’Italia al tavolo dei grandi potessi arrivare con una promessa mantenuta al mondo, dal quale anch’io provengo, era un elemento di grande emozione personale.

Vi è però un elemento politico che è più importante di questo perché, parliamoci cinicamente, questo primo intervento rientra nella categoria del “chi se ne frega” dal punto di vista delle persone. Si ok. Siamo contenti per te che eri contento ma andiamo alla sostanza. Permettimi Riccardo due minuti di un racconto di quella che io ritengo la realtà dell’Italia dei prossimi anni. Due anni fa quando siamo arrivati qui, noi ci siamo presi l’impegno di fare la legge sul Terzo Settore ma io credo che molti di voi ci guardassero con lo sguardo perplesso e torvo perché avevamo fatto un elenco di promesse impressionanti. Io sono uscito dal Quirinale e ho detto “entro il mese di marzo presenteremo la proposta di riforma sulla legge elettorale. Entro il mese di maggio – o forse era il contrario marzo maggio – la proposta di riforma sul mercato del lavoro e sulla pubblica amministrazione. Entro il mese di giugno la riforma della giustizia. In campo mettiamo poi anche la riforma costituzionale”.

La stragrande maggioranza delle persone che guardava quella conferenza stampa probabilmente avrà pensato di trovarsi di fronte a un pazzo scatenato. Come potevamo mettere in fila quelle proposte di riforma che da anni, decenni, il parlamento non riusciva ad attuare? Attenzione io non sto cercando qui la captatio benevolentiae. Fortunatamente a Lucca non si vota quindi non siamo in fase di discussione elettorale. Però possiamo dire, in tutta onestà, è accaduta una cosa: queste riforme sono state realizzate e questo ci permette di togliere dal tavolo gli argomenti che hanno fatto grande o piccola la discussione politica degli ultimi 20 anni. Cosa voglio dirti Riccardo, abbiamo sparecchiato il tavolo dai problemi del passato. Risolvendoli, secondo noi; affrontandoli in modo negativo secondo gli altri. Ma il dato vero è che l’Italia può finalmente cominciare il futuro.

E che cosa c’entra il Terzo Settore? Questo è il punto di visione che io vorrei lascarvi e affidare alla vostra discussione più che alla mia. I l punto centrale qual è? Io la vedo così: nei prossimi 20 anni avverrà un cambiamento epocale superiore a quello che internet ha prodotto negli ultimi 20 anni. La globalizzazione l’interconnessione, l’innovazione spinta, cambieranno faccia al modo di fare economia, impresa. La fabbrica 4.0, i robot e l’intelligenza artificiale. In Giappone non soltanto ci hanno portato nella macchina senza autista; ma ci hanno portato a vedere i modelli organizzativi futuri, ci hanno fatto discutere sui modelli in cui una parte di giapponesi inizia a pensare alle proprie badanti fatte da robot che è una cosa che se noi ci raccontiamo facciamo anche fatica ad immaginare. Non ultimo il fatto nella loro cultura l’intelligenza artificiale e la robotica sono considerate in modo diverso rispetto alla nostra cultura: lì sono già un dato di fatto, una realtà. Cosa voglio dirvi? Io credo che l’Italia abbia un futuro se riscopre i suoi valori. Che non vuol dire rinchiudersi sulla difensiva, che non vuol dire giocare con il catenaccio, ma vuol dire avere la consapevolezza che se ci sono 4,5 milioni di volontari in Italia, questo è una ricchezza che vale di più di un punto percentuale di crescita del Pil.

C’è un tessuto di associazionismo che rende forte la coesione e il senso di comunità. Questo aiuta di più un sindaco o un ministro a governare i territori e se vogliamo affrontare davvero la questione delle periferie, delle periferia delle nostre città, ma anche talvolta della periferia della nostra vita quotidiana lo puoi fare non con uno sguardo securitario e liberticida.

O con uno sguardo educativo e culturale allo stesso tempo. E finisco. Se mi dicessero “qual è la cosa più importante che ha fatto l’Italia in questi ultimi due anni?”. Qualcuno potrebbe dire niente. Qualcuno potrebbe dire la riforma costituzionale. Che è chiaramente la riforma più importante perché dà o non dà governabilità ed elimina gli inciuci. Qualcuno potrebbe dire il Jobs Act, qualcuno potrebbe dire la riforma del Terzo Settore. Qualcuno la legge sull’autismo, la legge sui diritti civili, che vede opinioni diverse ancora. La legge sul Dopo di noi che dovrà essere approvata tra pochi giorni perché è un altro impegno importante. Queste leggi vanno avanti. Ma se dovessi dire la mia, io direi che la cosa più importante è stata la nostra posizione sulla nostra battaglia europea dove ad un certo punto dopo gli attentati di Parigi e Bruxelles son partiti tutti ad urlare “blindiamo le frontiere! Chiudiamoli fuori!”. Soltanto l’Italia ha alzato il ditino e ha chiesto “scusate ma questi pericolosi killer e terroristi dove sono nati?” Perché tu puoi anche costruire i muri ma poi finisce come dice Calvino “chi costruisce un muro rimane intrappolato”. Il problema vero è che queste donne e uomini che hanno portato il terrore in Europa sono nati nelle periferie di Parigi, di Bruxelles, il boia dell’Isis, Jihad John, ucciso dagli americani a novembre, era un ragazzo nato e cresciuto nelle scuole inglese. È dentro la nostra periferia, è la periferia europea che si è smarrito il senso di comunità. È lì che si è perso il senso della relazione, che si è totalmente dimenticato il senso del noi. Allora la proposta italiana più importante di questi due anni, prima ancora delle riforme fatte, - e sapete che io alle riforme tengo molto , non fosse altro perché hanno dato quella flessibilità economica che ci consente di abbassare le tasse - la riforma più importante caro Riccardo è stato dire “un euro in sicurezza per un euro in cultura”. Un euro messo nella polizia di periferia e un euro messo per riaprire una scuola, per riaprire un centro culturale. Vuoi mettere le telecamere? Servono e sono fondamentali le telecamere come pure i lampioni. Ma accanto alle telecamere e ai lampioni dai anche un aiuto a riaprire un teatro; a fare una sperimentazione cinematografica con i nuovi mezzi tecnologici, questo crea cultura di comunità. Se questo è vero – ho davvero chiuso – la riforma del Terzo Settore non è il contentino dato ai volontari perché già che eravamo a fare tutte le altre riforme giù giù abbiamo voluto fare anche questa. La legge sul Terzo Settore, con tutte le difficoltà della delega che dovrà essere approfondita, in modo rapido ed efficiente, dice che noi vogliamo che l’Italia assomigli al Terzo Settore, che abbia dei valori, che si svegli la mattina con positività, che non si rassegni al cinismo e alla paura, alla preoccupazione dell’altro, che sappia gustare la bellezza del confronto e del dialogo e che sappia anche essere giustamente critica e capace di stimolare e di spronare la classe politica e la classe dirigente. Noi vogliamo un’Italia che non consideri il Terzo Settore come quella roba lì, che serve ai volontari per passare un po’ di tempo. Vogliamo un’Italia che sappia ripensare se stessa contribuendo a ripensare l’Europa su quel modello. Ecco perché l’emozione e la commozione, c’è un elemento personale, non lo nego, ma c’è anche caro Riccardo una visione, una strategia. Io spero che alla fine anche quelli che sono ostili e hanno tutti i diritti di essere ostili, riconoscano che questa azione di governo porta con sé la visione di essere insieme. Nei primi due anni noi abbiamo dovuto mettere a posto le cose del passato, ma le cose del passato non bastano. Da qui ai prossimi 20 anni i nostri figli vivranno in un mondo totalmente diverso da quello in cui stiamo vivendo noi: totalmente diverso. Cosa resta? Restano i valori, resta il senso del noi, resta il senso di comunità, resta il senso di coesione, resta chi ha il coraggio di costruire legami e non di costruire muri questo è il motivo per cui io credo profondamente nella legge del terzo settore.

Grazie per aver ricordato oggi Franco Bomprezzi. Tu continui a parlare di sfida culturale. Anche due anni fa, il 12 aprile proprio qui, quando sorprendendoci lanciasti l’idea di Riforma del Terzo Settore lanciasti anche una sfida dicendo: “ma voi siete pronti ad essere motore della sfida educativa e culturale che questo Paese ha di fronte nei prossimi anni?”. Patriarca oggi dice forse il Terzo Settore è abbastanza pronto. Ma la macchina pubblica, l’amministrazione, lo Stato sarà pronto per mettere in atto una riforma che libera energie, che semplifica i cambiamenti che abbiamo di fronte come Terzo Settore? Le sfide le ha di fronte anche la macchina pubblica e le sue articolazioni territoriali…

Matteo Renzi: Non so rispondere a questa domanda. Lo dico con molta franchezza. Non so. Quello che è cruciale è che la pubblica amministrazione cambi.

Fatemelo dire, magari tra di voi ci sono donne ed uomini che lavorano nella pubblica amministrazione. Io ho incontrato una qualità in molti servitori dello Stato che è straordinaria. Quindi l’idea riduttiva e banale, quella di dire che nel pubblico non ci sono professionalità di livello non è vera. È profondamente sbagliata ed ingiusta questa idea. Ci sono straordinarie donne e uomini che lavorano servendo la cosa pubblica e servendo lo Stato. C’è piuttosto un modello organizzativo e burocratico del Paese che tende a bloccare tutto. Questo è il problema. Si tende a dare delle garanzie di non commettere errori più che a far rischiare il cambiamento.

La legge sul Terzo Settore è un grande incoraggiamento perché il Terzo Settore prenda grande consapevolezza di quello che è ma anche consapevolezza di quello che dovrà essere. Di che ruolo dovrà giocare ce lo siamo detti due anni fa e ce lo ripetiamo oggi. Noi dobbiamo modificare l’approccio, una parte di questo approccio lo modifichiamo in modo semplice con le norme. Il 15 giugno c’è una serie di norme che vanno in votazione e al governo in fase di ultima lettura sui decreti legislativi della legge sulla pubblica amministrazione.

Una, alla quale io tengo molto si chiama SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Sostanzialmente è la possibilità di ridurre i procedimenti di via libera quando qualcuno ha da fare qualcosa. Stiamo cambiando la conferenza dei servizi, chi di voi conosce la conferenza dei servizi si rende conto che modificare le regole di gioco della conferenza dei servizi è una priorità assoluta. Stiamo cercando di modificare la struttura interna, stiamo lavorando sulla scuola, sulla formazione, dobbiamo dire che chi lavora nel pubblico non deve aver paura di essere valutato perché ci sono quelli più bravi e meno bravi e contemporaneamente dire che ci sono dei servitori dello Stato che sono straordinari e anche qualcuno che fa il furbo e quel qualcuno che fa il furbo nel pubblico deve sapere che noi lo mandiamo a casa. Perché se tu vai, timbri il cartellino e poi te ne vai a fare la spesa, non stai semplicemente rubando lo stipendio, stai rubando la speranza e il futuro innanzitutto a quelli che lavorano con te. Allora a fronte di queste misure che noi prendiamo, c’è però un nodo da sciogliere e il nodo da sciogliere è la consapevolezza dell’Italia come Paese. E se vogliamo stare in equilibrio dobbiamo correre. È questo il senso profondo dell’invito al cambiamento che noi stiamo facendo, il Paese non lo cambia chi urla e contesa. Il paese non lo cambia chi urla e chi fischia. Lo cambia chi rischia, chi si mette in gioco chi fa delle proposte, chi ha delle idee. Lo cambia chi la mattina sapendo che può sbagliare però ci prova. E in questo senso la cultura del fallimento va recuperata. Noi siamo stati un Paese che per anni se uno falliva non poteva neanche più votare. In America se un ragazzino prova a creare una start-up e fallisce, il giorno dopo, la società di venture capital gli dà più volentieri i soldi.

Perché dall’errore, dal fallimento, ha imparato qualcosa. Allora questa è anche la storia di questi due anni Riccardo. Io avrei voluto tornare già nel 2015 qui con la legge e non ci siamo riusciti. Non ce l’abbiamo fatta nemmeno il per festival del volontariato nel 2016. Ci abbiamo messo un anno in più. Però ci abbiamo provato, però c’erano 896 ragazzi che facevano servizio civile ed oggi, invece, sono 35mila e saranno almeno 42mila quest’anno. È l’idea del passo dopo passo del provare a mettersi in gioco, del cambiare un pezzettino alla volta. Certo chi dice che va tutto male può sempre giocarsi la carta dello scontento. Ma lo scontento porta alla rassegnazione. Io sto girando l’Italia azienda per azienda: sono stato alla Sofidel qualche ora fa, sarò domani nelle aziende in provincia di Caserta e poi in quelle di Reggio Emilia, perché voglio raccontare agli italiani e ai media che mi seguono che c’è un sacco di gente che la mattina, pur lamentandosi, le cose le manda avanti. E sono spesso fatte da realtà, da innovatori e anche da lavoratori e lavoratrici che ci credono, che sono innamorati dell’Italia e della possibilità che ha l’Italia di cambiare.

Allora rispetto alla domanda “sei sicuro che la pubblica amministrazione sarà in grado di cogliere tutto il valore del cambiamento della riforma del Terzo Settore?” Non lo so. Non lo so. Sono sicuro che se voi farete quello che volete fare e che potete fare questa riforma produrrà degli effetti non nell’arco di due mesi. Ma sprigionerà il suo effetto nell’arco di 20 anni.

Esattamente quegli anni in cui l’Italia sarà ad un bivio – e finisco su questo - c’è chi pensa che l’Italia non abbia futuro. Sono i teorici del declino, sono i teorici del va tutto male, qualcuno mi ha detto sono i teorici di Gino Bartali. No. Perché Gino Bartali diceva è tutto sbagliato, è tutto da rifare ma quando Gino Bartali diceva questo, poi prendeva la bicicletta, inseriva nella canna della bici i documenti falsi per andare a salvare gli ebrei e si faceva Firenze e Assisi, fra i frati e quel grande uomo che era il Cardinale della Costa, e dicendogli è tutto sbagliato, è tutto da rifare, portava il suo pezzettino, il suo contributo. Bartali non era rassegnato. Ecco la filosofia secondo me deve essere questa. Dare una speranza a chi ci prova. E nella pubblica amministrazione dare un’opportunità a chi vuole fare meglio di prima. Noi avremo un processo di digitalizzazione che cambierà totalmente il sistema della pubblica amministrazione. I nostri telefonini diventeranno il terminale degli uffici della pubblica amministrazione. Potrete pagare le tasse con il telefonino. Certo, come diceva Woody Allen “sempre tasse sono”.

Il meccanismo di cambiamento porterà ad avere un approccio totalmente diverso. Ma se il terzo settore spiega quello che vuol fare e dispiega la propria forza, la pubblica amministrazione sarà costretta a seguirvi, sarà costretta a fare meglio di voi. Quando la gente vede che qualcuno sta facendo qualcosa, partono e cercano di fare meglio ed è questa la cosa che ha fatto grande l’Italia nei secoli e che farà dell’Italia non il Paese del declino ma il paese che nel grande fenomeno della globalizzazione potrà giocare un ruolo straordinario.

Il mondo chiede qualità e bellezza. Quindi chiede Italia. E l’Italia è anche e soprattutto i valori che il Terzo Settore esprime. Quindi la risposta è: non lo so. Però ho cercato di articolartela in modo meno dubbioso di un semplice non lo so.

    La legge sul Terzo Settore è un grande incoraggiamento perché il Terzo Settore prenda grande consapevolezza di quello che è ma anche consapevolezza di quello che dovrà essere

Guardando avanti c’è la partita dei decreti attuativi. Un secondo tempo importante quanto il primo che si è chiuso il 25 maggio. I decreti che io spero veloci e coraggiosi. Ma c’è un tema importante, è quello delle risorse necessarie affinché possa sprigionarsi tutto ciò che c’è di buono nella legge delega; per esempio mi soffermo sul servizio civile che è un tema importantissimo, sono già previsti nel 2017 190 milioni - che è già un gran passo avanti rispetto a qualche anno fa e anche a due anni fa. Ma se quest’anno si vuole sfondare la quota dei 50mila occorrerebbe qualcosa in più, magari facendo un bando straordinario su migrazioni, su periferie, inoltre l’anno prossimo sono i 60 anni dell’Unione europea. Anche sul servizio civile europeo l’Italia potrebbe lanciare una proposta a livello europeo in un ruolo di leadership…

Matteo Renzi: Non prendo impegni su soldi e date stavolta. Non perché abbia paura. Vi dico la verità io sono in una fase in cui ho deciso di darmi una moratoria delle promesse. Tutte le volte che prendo un impegno è un modo per costringere poi il governo ad arrivare a raggiungere l’obiettivo. E devo dire che fino a questo momento è andata bene. Nel senso che abbiamo preso l’impegno degli 80 euro ed è andato, Imu e tasi e prima casa è andato, legge elettorale, il jobs act, non vi faccio l’elenco. La legge sul Terzo settore, il servizio civile, le cose che ci siamo detti. Sono andato da Fazio a dare un numero sul servizio civile e immediatamente dopo Bobba è passato all’incasso della ragioneria generale dello Stato la mattina dopo. Domenica sera alla 20.00 la trasmissione, e Bobba era fuori gli uffici della ragioneria generale dello Stato alle otto della mattina.

Qual è il punto? Tutte le volte che c’è un impegno, anziché dire “bello che il Governo si impegni su un obiettivo”, viene immediatamente visto come promessa elettorale, e siccome in Italia si vota sempre…

Sostanzialmente io la vedo così: vi racconto qual è la visione da qui al 2018 senza prendere impegni sui soldi ma raccontandovi il film. Noi abbiamo un passaggio chiave che è quello del referendum costituzionale. Lì per me si gioca la partita tra un sistema di governabilità e un sistema di ingovernabilità. Poi c’è tutto l’aspetto della riduzione dei costi della politica, le questioni che più appassionano l’opinione pubblica generale.

Partendo dal presupposto che la cosa vada, che cosa accade negli ultimi due anni e mezzo di legislatura? Abbiamo un appuntamento cruciale che è quello del 25 marzo 2017. A Roma si riuniranno i 28 paesi dell’Unione europea per rilanciare il percorso dell’Unione europea.

Ne ho parlato l’altro giorno con la Merkel ed Hollande. Comunque vada il referendum su Brexit, l’appuntamento chiave per il rilancio dell’Unione europea sarà a Roma nel marzo del 2017.

La tua considerazione sul servizio civile europeo e sui valori da portare in Europa è molto azzeccata e puntuale. Quello sarà un appuntamento importante. Poi ci sarà l’appuntamento del G7 e ci saranno più appuntamenti sul G7 con vari temi. Il G7 a livello di capo di governo sarà alla fine di maggio, solo che vogliamo farlo in una cornice che dia attenzione e all’attualità. Lì recupereremo la proposta di un euro in cultura un euro in sicurezza come la proposta fondamentale da fare ai grandi Paesi.

Educazione pubblica e privata per l’ Africa per esempio. Coinvolgere le migliori realtà del mondo educativo. Ma quell’appuntamento sarà un grande appuntamento. In quell’anno si tratterà di costruire una prospettiva, una piattaforma sui singoli temi della legge delega che sia in grado di far tornare l’Italia orgogliosa del proprio ruolo educativo e culturale e in qualche modo anche del proprio valore di capitale umano e di coesione umana.

Finisco proprio su questo: noi siamo in un luogo straordinario. Lucca è una delle città più belle d’Italia. Quante città abbiamo in Italia che tengono insieme aspetti culturali, realtà del volontariato, l’educazione, imprese sociali, quanti di questi luoghi in Italia possono aiutarci costruire un luogo diverso. Quanti di questi valori possono essere la risposta a questo mondo di paura dove vanno ad alzare i muri al confine dell’est europeo gli stessi che noi abbiamo salvato dall’isolamento nel momento in cui è venuta giù la guerra fredda. Quanta bellezza possiamo tirar fuori? La conclusione del mio ragionamento è la seguente: cari italiani e care italiane che con gli stivali date una mano durante le emergenze di protezione civile, che con la vostra tenerezza andate incontro ai ragazzini in difficoltà nelle periferie, che entrate nei carceri minorili - di cui noi siamo fieri perché abbiamo la recidiva più basse d’Europa, ma la recidiva per noi è ancora troppo alta- , che andate incontro agli altri nelle occasioni di disagio, di difficoltà. Cara italiani e care italiane che credete in questo mondo, dateci una mano a far passare i nostri valori non come residuali ma come centrali in questo Paese. Quando io vado al Consiglio europeo e li guardo diritto negli occhi e dico loro “io posso perdere un punto nei sondaggi, un punto di consenso. Ma se c’è una donna che sta affogando, se c’è un bambino che sta affogando, un uomo che sta affogando. Non me ne frega niente delle vostre paure, noi italiani siamo quelli che andiamo e cerchiamo di salvarli. Noi italiani siamo quelli che ci mettiamo la faccia e tutto il resto e cerchiamo di dargli una mano”. Poi facciamo in Migration Compact, poi cerchiamo di aiutarli a casa loro e creare le condizioni di lavoro sulla cooperazione internazionale, indecorosamente tagliata e finalmente restituita a una minima speranza con la legge approvata in questa legislatura. Ma care italiani e italiane che fate volontario smettiamola di credere ad un’Italia come al paese in cui le cose non vanno mai bene. Abbiamo un sacco di problemi, vogliamo affrontarli, ma questo è un Paese che ha dei straordinari valori educativi, culturali e associativi. E questi valori fanno dell’Italia un punto di riferimento nell’Italia e nel mondo. Non per merito del governo ma per merito degli italiani, anche di quelli che non se ne accorgono, che magari fanno volontariato a livello personale e non si rendono conto che quell’azione di volontariato sta cambiando la percezione dell’Italia in Europa e nel mondo. Grazie buon lavoro a tutti.

    Abbiamo un sacco di problemi, vogliamo affrontarli, ma questo è un Paese che ha dei straordinari valori educativi, culturali e associativi. E questi valori fanno dell’Italia un punto di riferimento nell’Italia e nel mondo. Non per merito del governo ma per merito degli italiani, anche di quelli che non se ne accorgono, che magari fanno volontariato a livello personale e non si rendono conto che quell’azione di volontariato sta cambiando la percezione dell’Italia in Europa e nel mondo

Da - http://www.vita.it/it/interview/2016/06/14/renzi-sogno-unitalia-che-abbia-i-valori-che-il-terzo-settore-esprime/61/
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