Tuttosoldi
17/06/2013 -
Le cantine Ferrari tra export e innovazione
I Lunelli: “Le bollicine Ferrari vogliono brindare con i Brics”
I quattro cugini: in Italia siamo leader, la sfida è crescere ancora del 30% nei mercati stranieri
Luca Ubaldeschi
inviato a Trento
Una chiara distinzione dei ruoli e il rispetto dei patti di famiglia». Rispondono così Camilla, Alessandro, Matteo e Marcello Lunelli alla richiesta di spiegare la formula attraverso la quale i componenti di una famiglia possano convivere in armonia nella gestione dell’azienda di cui sono proprietari. Sono la terza generazione della famiglia che nel 1952 rilevò le Cantine Ferrari, un simbolo del brindisi tricolore: allora l’azienda vendeva 8800 bottiglie, oggi sono diventate 4,2 milioni, è leader in Italia, è presente in 50 Paesi e ha portato nel perimetro del gruppo un marchio di acque minerali (Surgiva), uno di grappa (Segnana) e due tenute in Umbria e Toscana per la produzione di vini rossi.
Seduti intorno al tavolo della sala riunioni nella sede alle porte di Trento - fra i vigneti che si arrampicano sulle montagne e le cantine in cui invecchiano circa 20 milioni di bottiglie di spumante metodo classico -, i cugini Lunelli raccontano come hanno declinato le due regole base. A partire dai ruoli: Camilla è responsabile di comunicazione e rapporti esterni; il fratello Alessandro segue l’ufficio tecnico; Matteo è il presidente; Marcello, l’enologo della famiglia. Quanto ai «patti di famiglia», sono una carta costituzionale interna, con regole ben definite: porte chiuse in azienda a mariti e mogli, mentre per gli eredi che vorranno continuare la tradizione è previsto un percorso con tappe obbligate su corso di studi, conoscenza delle lingue, esperienze professionali all’estero in altri settori.
Come è avvenuto per voi l’ingresso in azienda? Era stato deciso tutto con largo anticipo?
Matteo: «No, non era scontato. Io, a esempio, lavoravo per una banca d’affari all’estero. Sono stati i nostri padri, anche di fronte a un mercato in evoluzione, a darci fiducia e offrirci la possibilità di raccogliere il loro testimone. L’unica eccezione è stato Marcello».
Marcello: «È vero, a 13 anni mi hanno chiesto se volevo studiare agraria. Ho accettato, mi è piaciuto e da lì ho continuato sulla strada che mi ha portato a diventare enologo».
Ma nella gestione quotidiana dell’azienda, il rapporto di parentela aiuta o limita?
Camilla: «Siamo convinti che l’essere un’azienda così identificata con la famiglia sia un vantaggio competitivo. E’ garanzia dei valori che ci hanno fatto crescere, come la qualità e il legame con il territorio. Le regole di cui dicevamo prima, poi, ci aiutano anche nel rapporto con gli altri componenti della famiglia che sono azionisti, ma non attivi in azienda».
Matteo: «E poi, mica per questo siamo una realtà chiusa. Anzi. Abbiamo allargato il consiglio a esterni come Lino Benassi e Innocenzo Cipolletta e uno degli obiettivi è cercare di attrarre talenti in azienda, anche pensando alla sfida dei mercati esteri».
Alessandro: «Il fattore-famiglia è importante anche per la tranquillità che ci garantisce nel sostenere mosse di lungo periodo, come puntare con più decisione sull’export, ben sapendo che non ci sarà un ritorno immediato o investire sul nostro nuovo vigneto biologico, che richiederà 20 anni per dare risultati».
Crescere sui mercati stranieri è un concetto che torna spesso nei vostri discorsi. Quale traguardo vi siete posti?
Matteo: «La seconda generazione dei Lunelli ha fatto di Ferrari il brindisi degli italiani. Noi vorremmo arrivare a vendere all’estero 1 milione di bottiglie all’anno rispetto alle 600 mila di oggi. Negli ultimi anni cresciamo del 20 - 30%. I nostri primi mercati sono Giappone e Germania, poi Usa, Svizzera, Inghilterra. La sfida per noi oggi si chiama Russia, Cina, Brasile e - perché no? - magari Nigeria».
Camilla: «Gli stranieri amano il made in Italy e noi cerchiamo sinergie con la moda, il design e l’arte, le eccellenze universalmente apprezzate.
Non a caso siamo soci fondatori di Altagamma, l’associazione dei marchi più noti del made in Italy».
Per conquistare nuovi mercati, bisogna diversificare la produzione secondo i gusti degli stranieri?
Alessandro: «No, è più importante avere un proprio stile, un’identità riconosciuta e farsi conoscere attraverso quella. D’altronde, non si può piacere a tutti».
Marcello: «Nel nostro mondo, innovare non vuol dire stravolgere, ma avanzare nel solco della tradizione senza cedere alle lusinghe del mercato. Non dimentichiamo la lezione dei nostri amici d’Oltralpe, con lo champagne fanno così».
L’estero cresce, ma il mercato italiano soffre la crisi dei consumi. Come si è manifestata per voi e quali interventi riterreste necessari?
Matteo: «Fortunatamente le bollicine hanno retto meglio di altri vini. Sono un prodotto moderno, giovane, si abbina facilmente. Certo, è forte la crisi di un canale importante, quello di bar e ristoranti. Nel 2012 c’è stato un calo del 10%, quest’anno speriamo di chiudere in pari. Fortunatamente, abbiamo la solidità necessaria per guardare al futuro con serenità. Quanto alle contromisure, beh, sarebbe facile dire che non ci vorrebbe l’aumento dell’Iva. Ma non chiedo interventi particolari per il settore, vorrei piuttosto che l’Italia costruisse un sistema-Paese capace di sfruttare l’enorme patrimonio di bellezza per attrarre sempre più turisti da quei Paesi che saranno i grandi consumatori del futuro».
Alessandro: «Su un livello più legato al prodotto, invece, opportunità di crescita verranno dal riuscire a destagionalizzare il consumo. E’ qualcosa che sta già succedendo».
A proposito di prodotto. Se la scelta è quella di non creare nuovi vini, su che cosa lavorate per essere innovativi?
Marcello: «Innovazione per noi vuol dire rispettare un protocollo di agricoltura sostenibile, vuol dire bandire la chimica e avere uve non solo di alta qualità, ma anche coltivate con tecniche che tutelino la salute del contadino e in vigne magari attraversate da piste ciclabili. Vigne in cui seminiamo piante erbacee le cui foglie diventeranno concime e in cui diffusori spargono feromoni che creano confusione sessuale agli insetti che attaccano la vite per impedirne la riproduzione. Un bel salto rispetto ai pesticidi».
Camilla: «E’ anche un discorso di responsabilità sociale verso il territorio e le famiglie della zona che ci danno le loro uve. Pensi alla nostra Doc, la Trento: è stata la prima in Italia dedicata al metodo classico. All’inizio eravamo noi, oggi siamo 40 aziende. Un sistema che cresce, con vantaggi per tutto il territorio».
twitter: @lucaubaldeschi
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