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Autore Discussione: Guido ROSSI  (Letto 5723 volte)
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« inserito:: Novembre 06, 2009, 04:37:44 pm »

Il colloquio

«Crisi, otto parole per un inganno Sulle regole troppe promesse tradite»

Guido Rossi: dal mito del mercato all’etica degli affari, così Wall Street è tornata ai vecchi vizi


«Crisi e regole, siamo ancora a un anno fa». Guido Rossi sembra molto preoccupato di come si sta affrontan­do il dopo crisi. Anzi, parla di quelle parole-concetto, ne elenca otto, che hanno avviluppato il mondo della fi­nanza, prima provocandone la crisi, poi impedendo qualsiasi tipo di azio­ne riformatrice. «Ma sì, sento tanti pa­ragoni con il crac del 1929 eppure spesso si dimentica che quegli anni so­no gli stessi del Glass Steagall Act che separa attività commerciale e di inve­stimento nel credito e della nascita della Sec. Non solo — aggiunge il giu­rista padre della legislazione Antitrust italiana nonché ex presidente della Consob —. Quando arriva Roosevelt nel 1933, di gente in galera ne era fini­ta parecchia. Qui si rischia che a paga­re sia solo Madoff. Lo stesso che peral­tro ha costretto la Sec a confessare di aver seguito con assoluta incompeten­za il caso e ad ammettere di non esse­re stata in grado di intercettare il ma­­laffare ».

A parole, però, il mondo intero ri­chiede nuove regole, un nuovo asset­to sui controlli...
«A parole appunto. Anzi, direi che si è creata una sorta di magia delle pa­role che ha avvolto il mondo della fi­nanza e che sembra quasi impedire la possibilità di arrivare a modifiche de­gli attuali assetti. Se vuole le posso fa­re un elenco...».

Perché no? Cominciamo dalla pri­ma.
«Il mito del mercato. Dovremmo avere perlomeno l’onestà intellettuale di dire che abbiamo sbagliato tutto. Mentre solo Richard Posner (non a ca­so un giudice, autore del bellissimo 'A Failure of Capitalism') lo ha fatto».

Che il mercato non abbia funzio­nato è abbastanza evidente...
«Sì, ma pensi all’altro concetto 'il mercato è democrazia'. Mi basta solo un esempio per smontarlo: Milton Friedman nel 1975 va in Cile da Pino­chet consigliandogli di avviare una se­rie di privatizzazioni e di dare libero sfogo al mercato. Ebbene, entrambi sono scomparsi nel 2006, ma il Cile ha dovuto aspettare un bel po’ da quel 1975 prima di vedere la democrazia. Se vuole vado avanti».

Certamente, l’elenco mi pare pos­sa allungarsi...
«Pensi ancora alla trasformazione degli immobili in beni mobili. Delle cose tangibili come un edificio, una casa, sono state trasformate in beni immateriali per poter essere impac­­chettati, perdendo il legame con la so­stanza da loro rappresentata e impe­dendo di poterne riconoscere i ri­schi. Ancora, il concetto di autorego­lamentazione. Il contratto tra perso­ne e che quindi impegna chi ne è par­te ma che prende il posto di norme valide per tutti. E questo in nome del mercato come simbolo di libertà che si tramuta invece in simbolo di di­struzione ».

Sin qui però abbiamo guardato al passato. Ai possibili motivi della cri­si. Oggi cosa impedisce di procede­re con le riforme?
«Altre parole-concetto molto in vo­ga, per esempio: 'too big to fail'. Espressione stigmatizzata più volte dal Nobel Joseph Stiglitz che ha parla­to di azzardi del capitalismo. Azzardi che fanno sì che chi si è comportato in modo scorretto o comunque sba­gliando sia stato di fatto premiato con l’immissione di denaro pubblico e quantità di dollari incredibile. Un pre­mio giustificato con il fatto che il suo fallimento avrebbe potuto provocare il collasso del sistema finanziario. E così oggi Goldman Sachs, Citigroup e via dicendo tornano a fare soldi. E tan­ti. E usando strumenti, come i deriva­ti, che solo un anno fa erano visti co­me il diavolo e che invece sono torna­ti a farla da padrone sui mercati».

Eppure nel week end è fallita l’americana Cit che non era piccoli­na.
«E’ vero. Vedremo se si tratterà di un segnale positivo o meno. Perché, a quanto mi risulta, gli impegni presi nel libro bianco dagli Usa lo scorso 14 giugno sono rimasti lettera morta, dal­l’agenzia che doveva proteggere il con­sumatore fino a quella stanza di com­pensazione dei derivati unico sistema per tentare di depotenziarne gli effet­ti. Lo scetticismo è d’obbligo: non mi pare che i manager stiano soffrendo per carenza di bonus in questi mesi, anzi è ricominciata la gran distribuzio­ne di denaro a questi signori».

Un’altra parola magica?
«Sì, manager, il versante se permet­te peggiore. Come definire se non una presa in giro la storia del 'creare valo­re per gli azionisti'».

Addirittura una presa in giro?
«Ma certo. Diventando lo­ro stessi azionisti hanno ali­mentato la leva finanziaria perché a rischiare erano i de­positanti, nel caso delle ban­che, non i soci. La naturale di­visione tra proprietà e con­trollo è stata superata. E il mercato, anche qui, non ha funzionato. La concorrenza non è efficace nel mantenere i compensi sotto controllo tanto che, a seguito di un ri­corso ancora di Posner, sarà la Corte suprema degli Stati Uniti a esprimersi su questo versante. E sarà forse la pri­ma vera decisione sui bonus. Rispetto a formule vuote e anche pericolose».

E quali sarebbero queste formule vuote e pericolose?
«Che ne dice della respon­sabilità sociale delle impre­se? »

Anche l’etica degli affari non va be­ne?
«Ma certo. L’etica degli affari come la responsabilità sociale dell’impresa portano a far credere che le aziende debbano adempiere, cosa della quale peraltro ne hanno anche poca voglia, a funzioni che sono invece del potere pubblico. E’ l’indice del fatto che lo Stato viene meno alle sue prerogative e funzioni e se ciò accade è la demo­crazia a soffrirne e a venire meno».

Ma alla fine come se ne esce?
«Ci vorrebbe, e siamo all’ottava pa­rola magica, un’Autorità sovranazio­nale, mondiale. Ne parlai già alle Na­zioni Unite nel 2000. Ma l’idea non è nuova. E’ il vecchio laico sogno kantia­no di uno jus cosmopoliticum. Come pure la conseguenza delle analisi di John Maynard Keynes. Anche se mi preme dire che sulle autorità interna­zionali sono ben lontano dalle tesi di Benedetto XVI che mi pare riprenda invece le convinzioni del giurista tede­sco Carl Schmitt e quindi di un Impe­ro cristiano dei re Germanici».

Ma si riuscirà a fare questa autori­tà mondiale?
«Mi permetta di essere pessimista. E’ un evento politico non così sempli­ce. Difficile da raggiungere anche solo a livello europeo».

Daniele Manca

06 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 01, 2013, 12:03:59 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 30, 2011, 06:12:20 pm »

La Merkel non rovini l'Europa di Kohl

di Guido Rossi

27 novembre 2011

Se è vero che la soluzione della crisi del capitalismo finanziario dipende in gran parte dalla tenuta dell'euro e perciò da una maggiore integrazione europea v'è da chiedersi quale sarebbe stato il risultato, e pertanto gli effetti sui mercati, se al posto di Angela Merkel il cancelliere presente alla riunione di giovedì scorso a Strasburgo fosse stato Helmut Kohl. Fu appunto Kohl, il più duraturo cancelliere tedesco in carica dopo Otto Von Bismarck, che dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 procedette alla riunificazione tedesca come passo essenziale per l'integrazione nell'Unione Europea. Ed è ora ancora Kohl che lo scorso 19 luglio criticò aspramente, dopo anni di silenzio, la sua pupilla Angela Merkel con una dichiarazione durissima: «Sta rovinando la mia Europa».

I mercati hanno considerato il mini summit di Strasburgo dove il cancelliere tedesco era presente insieme a Sarkozy e al nuovo capo del governo italiano Monti, un vero fallimento. Fallimento che non solo ha devastato le borse e i rendimenti dei titoli di Stato sotto pressione come quelli italiani, ma ha cominciato ad attaccare i titoli francesi e ha anche portato alla quasi mancanza di compratori, se non fosse intervenuta la Banca centrale tedesca, all'ultima asta dei bund. È peraltro la stessa Angela Merkel che a Strasburgo ha bloccato qualunque soluzione ipotizzata per risolvere la crisi, impedendo ulteriori interventi mirati della Bce sui titoli degli Stati membri e negando ogni possibile emissione di eurobonds. Eppure è sempre la stessa Angela Merkel che una settimana prima, al Congresso a Lipsia del suo partito, la Cdu, rivendicava il ruolo dell'Europa per la pace nel mondo.

Il cancelliere citava i suoi predecessori Adenauer e Kohl, paladini di una integrazione europea nello stesso evidente interesse della Germania. Si è trattato ovviamente di dichiarazioni generiche e vuote che corrispondono esattamente al contrario del suo comportamento, proprio mentre all'interno della stessa Cdu si rivendica anche la possibilità di lasciare agli Stati membri la possibilità di uscire volontariamente dall'euro. Aldilà delle parole, i comportamenti del cancelliere sembrano essere dettati da Jens Weidmann, il capo della Bundesbank, il quale in una recente intervista al Financial Times ha dichiarato che l'aiuto alla finanza degli Stati membri è assolutamente illegale e che l'opera della Bce come prestatore di ultima istanza per il debito dei Paesi membri è contro la lettera dei Trattati e finirebbe per ridurre la pressione per le riforme di austerity volute dalla Germania per gli altri. Una Germania che addirittura, per farsi forte del suo scetticismo verso l'Europa che l'ha così possentemente risollevata, ricorre a cavilli legali con la grande soddisfazione del leader della Cdu al Parlamento tedesco, V. Kauder, che ha dichiarato trionfante: «Improvvisamente l'Europa sta parlando tedesco».

Eppure in questo momento è solo la Bce che può togliere il panico dai mercati e garantire che il debito sovrano degli Stati membri non provochi il loro default.

La conclusione è una sola e cioè che nessuna politica economica, intesa a risolvere le disuguaglianze provocate dalla crisi e a prospettare una vita migliore nei Paesi ora sottoposti a quella speculazione, che presto si rivolgerà anche alla stessa Germania, può attuarsi senza un immediato intervento della Bce che diventi un passo essenziale per una maggiore integrazione politica dell'Unione Europea.

Vero è che i due Paesi che in questo momento hanno la maggiore responsabilità per decidere se creare un'Europa istituzionalmente più forte e democraticamente progredita oppure affossarla insieme con la sua moneta unica sono Francia e Germania. La loro millenaria avversità, che nella reciproca invidia collegata a un inconscio mimetismo, ha condizionato la storia non solo europea, ma quella mondiale, si ripresenta ora nella gestione degli affari europei.

Il sogno di Sarkozy, di fare dell'Eliseo la Casa Bianca dell'Europa, contrasta non poco con l'egoismo politico ed economico tedesco.
Le controverse relazioni culturali e politiche tra i due Paesi sono state esaminate con lucidità nello straordinario libretto del grande filosofo tedesco Peter Sloterdijk Theorie der Nachkriegszeiten (2008). Le contraddizioni ivi studiate e che partono dall'importazione francese del romanticismo tedesco, col libro carico di conseguenze, pubblicato nel 1813 da Germaine de Staël De l'Allemagne, e proseguono subito dopo con l'importazione dell'arte della guerra napoleonica nel libro di Clausewitz Vom Kriege, hanno fin da allora mostrato un fascino patologico reciproco fra le due nazioni e una sconfinata gelosia di primato. Solo due uomini di Stato della caratura di Charles de Gaulle e Konrad Adenauer avevano cercato - attraverso la messa di riconciliazione nella Cattedrale di Reims - di risolvere il perenne schizofrenico rapporto dando vita a un trattato di amicizia franco-tedesco sottoscritto nel gennaio del 1963.

Il distacco tra le due nazioni è tuttavia sempre rimasto, per l'incapacità di formulare una politica comune europea. E così l'Unione Europea rischia di sfaldarsi, sia perché il popolo francese, bocciando il progetto di Costituzione non sembra averci mai profondamente creduto, sia soprattutto perché in Germania, dopo la sicura vocazione europeista di Adenauer e di Helmut Kohl, la signora Merkel, nonostante le sue ingannevoli dichiarazioni, sembra decisa a rovinare la loro Europa e a tornare indietro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-11-27/merkel-rovini-europa-kohl-081045.shtml?uuid=AaS9A3OE
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 15, 2012, 11:27:13 am »

Europa e lavoro, le due priorità

di Guido Rossi

31 dicembre 2011

L'andamento continuamente altalenante dei tassi di interesse sui BoT e lo spread fra BTp e Bund, che lotta invano per scendere sotto i 500 punti con tassi di interesse a 10 anni intorno al 7%, con le banche europee rifinanziate dalla Bce al tasso dell'1%, con le Borse in perdita secca e il disagio di chi deve chiedere un mutuo bancario, inducono a riflettere su almeno due problemi, diversi ma collegati.

Il primo è l'interrogativo che già dieci anni fa si poneva in un importante saggio l'economista Luigi Pasinetti: «È legittimo pagare l'interesse sul debito?» La tassativa risposta, che trova le radici nei suoi precedenti scritti, sta nella priorità del lavoro sul capitale, come ha insegnato il pensiero dei maggiori esponenti dell'economia classica, da Adam Smith a David Ricardo e, pur con le dovute differenze, Karl Marx e Piero Sraffa. Insomma, "il lavoro" inteso nell'ampio senso di attività umana, come capacità di imparare e applicare la conoscenza ai processi di produzione e di consumo, è alla base della "ricchezza delle nazioni".

L'interesse "naturale", in sistemi economici nella continua evoluzione basata sul progresso della conoscenza, che deriva dall'abilità degli esseri umani di apprendere nuove tecnologie e adempiere a vecchi compiti in modi migliori e più efficienti, dipende dalla produttività del lavoro: e in particolare delle imprese al centro delle economie moderne. Ho già sottolineato quanto fondamentali siano per lo sviluppo la cura dell'educazione, la scuola e la ricerca.

È inoltre evidente che il rapporto debito/credito, espresso in denaro, deve tenere conto, per determinare il "giusto" tasso di interesse, del deprezzamento della moneta e quindi di due componenti: una reale (la produttività del lavoro) e l'altra nominale (il tasso d'inflazione monetaria). Questo aggiustamento non cambia la sostanza del problema. Non è un caso poi che «la priorità del lavoro sul capitale» sia anche alla base della dottrina della Chiesa Cattolica, dalla famosa dichiarazione di San Tommaso d'Aquino «nummus non parit nummos» (il denaro non genera denari) all'Enciclica Labor Exercens ed alla più recente Caritas in Veritate, passando attraverso la Rerum Novarum.

Il capitalismo dei mercati finanziari ha rovesciato completamente la priorità e, considerando la moneta e persino il debito come strumenti di ricchezza, ha causato l'attuale crisi, producendo disoccupazione, povertà, diseguaglianza e profonde ingiustizie sociali. Il capitale stesso ha poi perso la sua identità e funzione, tant'è che la formula rovesciata e invocata, nonché variamente motivata, è: «La priorità della speculazione sul lavoro». Speculazione alimentata attualmente da quello che già J.M. Keynes definiva «il desiderio morboso della liquidità». Vengo ora alla seconda riflessione, che riguarda l'Europa e l'Italia in questo momento particolare.

Gli Stati fondatori della Cee ebbero uno scopo primario: l'integrazione economica come primo passo per l'integrazione politica, cioè la creazione di un mercato comune basato sulla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali e avente come linea direttiva la libera concorrenza. La mancata integrazione politica, soffocata dalla esigenza di ridurre il deficit e di limitare l'inflazione, ha portato a una politica di rigore e di austerità che ha indotto gli Stati membri a esasperare le asimmetrie e le diseguaglianze ed a fare dimenticare il principio di solidarietà sul quale l'Europa pur voleva basarsi. E si è creata una "nuova povertà" all'interno dei singoli Stati membri, favorita dalle politiche di austerità, dalle quali è nata solo disoccupazione e nessuna crescita.

L'Europa ha così dimenticato la priorità del lavoro e, voltate le spalle all'economia classica, è caduta vittima della speculazione finanziaria, dei mercati opachi e anonimi, a danno dei diritti dei cittadini. E questa è anche la ragione per cui la politica economica europea è alla fine dettata sia da chi, impropriamente come la Germania, è più avanti degli altri nella organizzata priorità del lavoro, sicché egoisticamente delle altrui diseguaglianze non si interessa, sia dalla Bce che, ricordiamolo ancora, contrariamente alla Fed americana, non ha tra i suoi scopi fondamentali quello di combattere la disoccupazione. Problema che non la riguarda proprio.

L'uscita dalla crisi, passa attraverso due sentieri che devono convergere per configurare la base di una nuova cultura diretta a illuminare l'attività non solo della politica, ma anche dell'impresa e di tutti i cittadini. I sentieri sono la priorità del lavoro, che è la vera ricchezza delle nazioni, e la realizzazione di una Europa non solo economica, ma politica, che sia solidale indiscriminatamente con tutti i suoi cittadini, secondo l'accorato recente intervento di Helmut Schmidt.

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da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-12-31/europa-lavoro-priorita-081029.shtml?uuid=AaPguSZE
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« Risposta #3 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:28:01 pm »

È nel diritto alla cultura la nuova lotta di classe

di Guido Rossi, dal Sole 24 Ore, 29 gennaio 2012


Gira su internet la seguente frase, datata nel 55 A.C., attribuita a Marco Tullio Cicerone: «Il bilancio nazionale deve essere portato in pareggio. Il debito pubblico deve essere ridotto; l'arroganza delle autorità deve essere moderata e controllata. (...) Gli uomini devono imparare di nuovo a lavorare, invece che vivere di pubblica assistenza».

La frase, che sembra dettata dalla signora Angela Merkel e dai Governi europei, in verità non è affatto di Cicerone. La citazione, tratta da una biografia romanzata, scritta nel 1965 da Taylor Caldwell, A Pillar of Iron, è un falso, come aveva già dimostrato il professor Collins fin dal 1971; ciò nonostante, essa è stata abbondantemente abusata persino dall'Ocse e dal Fondo monetario internazionale, alla ricerca di autorevoli precedenti a giustificazione della loro politica monetaria.
Le politiche europee che si sono ispirate ai principi del falso Cicerone hanno poi provocato una serie di proteste che caratterizzano un po' ovunque la vita sociale dei Paesi globalizzati. Così è anche per le ultime "liberalizzazioni" del Governo italiano. Eppure queste dovrebbero favorire la concorrenza e dunque alla fine giovare all'interesse degli autotrasportatori, dei tassisti, dei farmacisti, dei pescatori, degli agricoltori e degli avvocati, dirette a eliminare strutture arcaiche alle quali nessuno aveva mai posto mano.

Queste strutture avevano trovato un loro scadente equilibrio, certo non giusto né trasparente, ma appena è stato rotto, ha provocato la rivolta.
S'è è fatto così l'esempio dell'autotrasporto, che vede a capo del circuito economico nel quale è inserito società di spedizione multinazionali, per lo più straniere, che controllano reti commerciali e software e collegano la produzione e la destinazione finale delle merci, mentre gli autotrasportatori non sono che l'ultimo sfortunato anello della catena. E già liberalizzato quanto basta. Diverso discorso si potrebbe affrontare per le altre liberalizzazioni, ma lo schema più o meno si ripete.
Le rivolte che ne sono state la conseguenza si accomunano alle molte altre in giro per un mondo nel quale la disoccupazione aumenta e le prospettive di lavoro sembrano azzerarsi, sicché esse paiono una scomposta e flebile reviviscenza della tradizionale "lotta di classe".

Ma così non è. La lotta, a tutti i livelli, fra ricchi e poveri, fra capitalisti e proletari, non è più quella. E soprattutto la grande ricchezza non è più il surplus prodotto dallo sfruttamento di lavoro nella produzione di merci, anche se esso tuttora esiste. Né diverso sarebbe il discorso sui beni naturali come il petrolio, il cui prezzo altalenante fra gli interessi dei paesi produttori e le corporations occidentali sarebbe ridicolo vederlo riferito ai costi di produzione. Una prima conclusione che si può trarre è che il grande cambiamento che ha reso possibile la globalizzazione e questi fenomeni che ne fanno parte integrante è l'importanza che ha assunto quello che già Karl Marx, pur senza averne previsto la straordinaria capacità di trasformazione del capitalismo, aveva chiamato «l'interesse generale», inteso come la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza alle applicazioni pratiche delle tecnologie.

In verità, già ben prima, uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, il nostro Giambattista Vico, aveva scoperto l'esistenza di un senso comune in tutto il genere umano collegato alla sapienza insita nell'ingenium. Ed è così che oggi la vera fonte di ricchezza sta nella privatizzazione di una parte rilevante dell'"interesse generale" o dell'"ingenium" vichiano. È così infatti che l'aumento della produttività e dell'efficienza attraverso il determinante ruolo che nella trasformazione dell'economia mondiale ha avuto la conoscenza collettiva costituisce il grande successo del capitalismo globale. Ma questo successo ha altresì prodotto una disoccupazione di carattere strutturale, che ha reso dovunque una moltitudine di lavoratori inutili e superflui.

Il risultato di questo successo è che ai capitalisti di antica tradizione si sono sostituiti i manager i quali, in base a meriti e competenze sempre più incerte e discutibili, si appropriano del surplus della produzione, vengono pagati con lauti bonus, stock options e liquidazioni forsennate; al contrario degli antichi capitalisti non rischiano, ma addirittura si arricchiscono anche quando le imprese sono in perdita.

È così che la classe media, la borghesia, che era il collante d'equilibrio delle società del capitalismo industriale, va via via sparendo e il suo lavoro, come hanno dimostrato anche da noi le recenti indagini dell'Istat, ha un reddito reale che viene eroso dall'inflazione.

Ma le rivolte e lo sconfortante pessimismo non servono. Ciò che pare essenziale per la borghesia proletarizzata è il recupero della conoscenza collettiva da parte di tutti e soprattutto da parte dei giovani. Pare che questa nuova dimensione, al di fuori dei falsi Ciceroni, sia stata finalmente capita anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama con l'imponente programma di aiuti per accedere all'istruzione dei giovani e all'educazione degli adulti. Sarà forse così anche possibile ridurre, e quando necessario, eliminare, la deriva finanziaria che si è inserita nel gioco perverso della privatizzazione della conoscenza collettiva. Ancora una volta la vera e non la falsa cultura costituiscono la via d'uscita dalla crisi.

(30 gennaio 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/e-nel-diritto-alla-cultura-la-nuova-lotta-di-classe/
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 21, 2012, 04:06:17 pm »

La prima emergenza è l’illegalità

di Guido Rossi, da Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2012


Il dare, con disprezzo a volte, con alterigia sempre, la responsabilità dei nostri mali ad altri è il più radicato costume nazionale.

Ma certamente non è colpa né della Grecia né della Spagna, o di altri ancora, se la fase di crescita del Paese parte solo a parole, mentre la disoccupazione, giovanile e non, aumenta e le imprese soffocate dalla mancanza del credito falliscono, e la situazione delle famiglie nonché della povertà esistente e incombente è fin troppo nota per doverla ancora sottolineare.
Il nostro male peggiore, che si è radicato nella vita economica, nella vita sociale, in quella culturale e in quella politica, fino a minare le fonti principali della ricchezza e del benessere del Paese, nonché i principi stessi della democrazia e della sovranità popolare ha un nome: illegalità. L'illegalità che in Italia non è solo rappresentata da atti contrari o proibiti dalla legge, ma sovente anche da consuetudini di vita rese possibili dalla mancanza di leggi efficaci, poiché per troppo tempo il nostro legislatore si è preoccupato di rendere legali interessi privati illeciti, e si è disinteressato di adeguare il nostro ordinamento ai principi di una democrazia costituzionale, e ai Trattati internazionali che pur a volte sono stati sottoscritti.

Non sono queste, certo, osservazioni personali che riguardano i più recenti scandali di corruzione anche nell'ambito dei partiti politici e della sanità, quanto piuttosto il rapporto, diviso in due parti, del 23 marzo 2012 del Consiglio di Europa adottato dal Groupe d'Etats contre la corruption (GRECO).
La prima parte del rapporto, con una spietata requisitoria, riguarda l'accusa all'Italia per la pessima legislazione sulla corruzione rispetto a quella degli altri Paesi europei e in particolare per non aver ancora ratificato né la Convenzione sulla corruzione del 27 gennaio 1999, né il Protocollo aggiuntivo del 15 maggio 2003. La conclusione finale, che è composta da ben nove raccomandazioni, ha come prima di esse proprio quella della ratifica della Convenzione, e non ultimo l'invito a esaminare nel profondo la fattispecie della concussione e di provvedere adeguatamente.

La Commissione invita le autorità italiane ad autorizzare il più presto possibile la pubblicazione del Rapporto, a tradurlo nella lingua nazionale e a rendere pubblica questa traduzione. La seconda parte della requisitoria riguarda la trasparenza dei finanziamenti ai partiti e le stesse raccomandazioni di questa seconda parte fanno pensare con raccapriccio a quella che sopra ho chiamato, quasi fosse un ossimoro, "illegalità per mancanza di legge". I partiti politici italiani, a cui l'articolo 49 della Costituzione pur ha dato lo straordinario compito di "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" sono libere associazioni, sprovviste di uno Statuto giuridico di rilievo, pur maneggiando senza controlli una quantità ragguardevole di denaro pubblico, che non sarebbe certo indifferente al pareggio del bilancio dello Stato. L'invito a provvedere velocemente, a colmare queste gravi lacune, non ha certo sorprendentemente avuto la stessa efficacia della famosa irrituale lettera della Bce, che ha condizionato la politica del nuovo Governo.

L'illegalità di cui ho parlato, come male cronico del Paese, si articola in un triangolo spietato con ai vertici la corruzione, l'evasione fiscale e il riciclaggio. Voci più autorevoli della mia sono già intervenute su questo argomento, anche di fronte alla Commissione Giustizia della Camera. Per esperienza personale ho incontrato imprenditori che lamentavano la concorrenza di altri imprenditori, imbattibili per i fondi di cui disponevano riciclando denaro della criminalità organizzata. Una nuova forma di concorrenza? Tecnicamente né "sleale", né "antitrust", si tratta piuttosto di concorrenza "da illegalità".

Ma che dire? Se è vero che fin quando non si risolve questo costume all'illegalità e si "cacciano le farfalle sotto l'Arco di Tito" son certe due cose: la prima che gli investimenti esteri ad aiutare la crescita del Paese sono con buona ragione latitanti e la seconda è che stanno aumentando dall'Italia, come è stato ampiamente dimostrato, le fughe di capitali, senza parlare di quelle dei cervelli, perché anche i centri di eccellenza straordinari, che pur l'Italia possiede, vengono soffocati dai tagli che, invece di colpire la politica, si riversano sulla sanità pubblica e sull'istruzione. Senza pensare che quando questi centri di eccellenza saranno definitivamente asfissiati e smantellati, anche la crescita e la rinascita economica, purtroppo necessariamente indirizzate altrove, non saranno più in grado di ricostituirli.
Ma la responsabilità sarà sempre degli altri.

Per chiudere questa sorta di rassegna, che oltre a una predica inutile pare una geremiade, vale la pena di ricordare al Governo e al Parlamento e a tutta la classe politica, che per evitare il pericoloso triangolo dell'illegalità vi è almeno un provvedimento più urgente di ogni altro, e di tutto il "cacciare le farfalle sotto l'Arco di Tito", ovvero ripristinare come reato societario il falso in bilancio, che non solo secondo nostrane voci autorevoli, ma anche secondo l'Ocse, è il vero ed efficace strumento per combattere corruzione, evasione e riciclaggio. Mi pare allora necessario ricordare in chiusura il titolo di un importante libro di uno dei maggiori giuristi viventi, il tedesco Winfried Hassemer, Perché punire è necessario, appena tradotto in Italia dal Mulino.

La sanzione di vergogna, ahimé in Italia non ha mai funzionato. Non c'è allora più tempo da aspettare.

(15 aprile 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-prima-emergenza-e-lillegalita/
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 23, 2012, 05:43:06 pm »

L'euro non è reliquia barbara

di Guido Rossi

22 aprile 2012


È sempre stato estremamente stimolante apprezzare le lucide analisi sulla crisi economica di uno dei maggiori economisti viventi, Paul Krugman, il quale non ha poi mancato oltre che di sottolinearne con sapienza le cause, di indicarne spesso anche le vie d'uscita. L'ultimo articolo di venerdì su Repubblica, dal titolo "L'Europa può salvarsi solo se si libera dell'euro" presenta due argomentazioni. La prima, sull'attuale politica di austerity europea, precisa e indiscutibile; la seconda sul prospettato salvifico abbandono dell'euro, decisamente sbagliata, anche e soprattutto nei riferimenti storici. I suicidi dei disperati europei senza lavoro o degli imprenditori che vedono fallire insieme la propria azienda e la propria vita, sono fenomeni che hanno colpito in modo straziante anche Paul Krugman e l'opinione americana, memore della Grande Depressione. Le conclusioni di Krugman legano questi impietosi suicidi alla determinazione dei leader europei «a far commettere un suicidio economico all'intero continente». A questo porta senza ombra di dubbio la politica di austerity, imposta agli altri Paesi, soprattutto dalla Germania, e dal Leviatano burocratico-tecnocratico del capitalismo finanziario mondiale. E intanto, sulla pessima tenuta dei titoli del debito pubblico italiano, le grandi banche d'affari americane si arricchiscono abbondantemente, come ha dimostrato ieri Il Sole 24 Ore. E così la depressione invade tutti i Paesi europei.

E anche il nostro Paese vede la situazione generale in continuo peggioramento, mentre le consolatorie dichiarazioni ufficiali si riducono a promesse non mantenibili né di crescita, e neppure di sicuri pareggi di bilancio, indifferenti all'aumento della disoccupazione, al fallimento delle imprese, e alla distruzione dello stato sociale. Tutto ciò purtroppo viene nascosto dalla dichiarazione che non siamo ancora come la Grecia, addirittura con una caduta di stile, di diplomazia e di vergogna enumerandone con precisione i casi di suicidio. Insomma, i programmi di austerità e il loro continuo irrigidimento portano, come ormai è evidente, a peggiorare lo stato di depressione, dal quale sarà sempre più difficile uscire per l'Europa intera.
Né qui vale, tuttavia, l'alternativa proposta da Krugman. Questi, richiamandosi agli anni '30, fa riferimento al requisito basilare di allora per la ripresa, cioè all'uscita dal sistema aureo (Gold standard), la cui "equivalente mossa" sarebbe oggi l'uscita dall'euro e il ripristino delle valute nazionali. Già altri hanno sostenuto con dovizia di argomentazioni che l'abbandono dell'euro provocherebbe una sorta di disastro finale nelle economie occidentali e nella finanza mondiale. Ma val la pena allora di sottolineare che il gold standard era la riserva aurea delle banche centrali, agganciata al valore convertibile delle singole monete, e che solo il suo abbandono impedì che le politiche monetarie destabilizzassero l'economia orientata solo alla ricerca del mantenimento delle riserve. Si creò così finalmente stabilità dei prezzi, bassi interessi, e largo credito alle imprese, stimolando la crescita attraverso la creazione di nuova domanda. Già peraltro il grande John Maynard Keynes, in un famoso articolo del 1923 e ancora dieci anni dopo, qualificava il simbolico e convenzionale valore del gold standard come una "reliquia barbara".

Ebbene, caro Krugman, l'euro non è una reliquia barbara e il suo paragone è sbagliato. È invece la moneta unica di un'Europa che si salva solo se continua nel suo processo di unificazione, affiancando all'euro una politica fiscale e monetaria unitaria e una forte spinta verso una vera Europa federale. Si potrà allora dotare la Banca centrale europea di veri poteri di una banca centrale, favorire l'emissione degli eurobond, il cui progetto ha molti sostenitori ed è già stato ampiamente illustrato nei particolari e fors'anche stimolare la domanda con meno riguardo a pur controllati processi inflazionistici.

Ma di questo pare che ai leader europei, schiavi della logica del capitalismo finanziario, poco importi, tant'è che il tanto esaltato fiscal compact firmato a marzo trova le risposte alla depressione europea solo nell'austerità fiscale: basta che i mercati finanziari speculino e guadagnino. E' dunque l'ora di cambiare rotta senza alterigia e non solo a parole.
Quella sopra indicata è allora, piaccia o non piaccia anche ai politici e agli intellettuali americani, l'unica strada per fare uscire l'Europa dalla crisi; un'Europa che coesa in una politica non solo monetaria, fiscale e culturale unitaria, potrà essere seriamente concorrenziale con gli Stati Uniti d'America, soprattutto nell'eliminazione delle disuguaglianze sociali e nella qualità della vita, finalità contrarie alle logiche del capitalismo finanziario

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« Risposta #6 inserito:: Febbraio 01, 2013, 11:54:50 pm »

Lo scudo dell'Europa che ci serve

di Guido Rossi

27 gennaio 2013


Lo scandalo che ha coinvolto il Monte dei Paschi di Siena, le sue operazioni rischiose, le scalate a prezzi eccessivi e l'occultamento delle perdite attraverso il ricorso a contratti derivati, è da qualche giorno diventato uno dei principali argomenti della campagna elettorale nostrana.

Le sistematiche accuse, dirette ad acchiappar voti, e l'arrogante enfasi su dettagli più o meno veri della vicenda conducono a un severo giudizio sulla qualità del dibattito e sulla preparazione di una certa avventizia classe politica candidata a governare il Paese.

Al di là delle responsabilità che la vicenda andrà evidenziando, e sulla quale sono chiamate a giudicare la magistratura e le autorità di vigilanza, sembra, come spesso è accaduto negli ultimi tempi, che una totale amnesia abbia nuovamente colpito la natura essenziale del l'avvenimento, impedendo il formarsi di una valutazione meno da cortile.

Il fenomeno dei derivati, esploso nella più antica banca italiana, non è una caratteristica peculiare della provincia senese, bensì ha carattere globale, poiché investe l'intero capitalismo finanziario. Ne ha dato indirettamente prova nella giornata di ieri il Presidente Obama, quando ha dichiarato che «il libero mercato è la più grande forza per il progresso economico... tuttavia funziona meglio per tutti se ci sono regole brillanti e di buon senso per prevenire comportamenti irresponsabili». Non a caso queste parole ha dichiarato, in occasione della nomina alla presidenza della Sec (l'ente a controllo dei mercati finanziari) di Mary Jo White, che ha lavorato quasi un decennio come procuratore a Manhattan, occupandosi di numerosi casi di corruzione e frodi finanziarie. Questa nomina è un preciso avvertimento a Wall Street.

Il vero problema sta dunque altrove, se è vero che il valore dei derivati che circolano nella finanza globale, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, si aggirerebbe intorno a dieci volte il prodotto interno lordo del l'intero pianeta.

E quando si parla di derivati non solo ci si riferisce a strumenti finanziari sovente opachi e speculativi, e facilmente "invisibili" alla trasparenza dei bilanci (tant'è che non figuravano né nel bilancio dello Stato greco, né in quello della banca senese), ma ci si riferisce purtroppo anche a quello che scorrettamente viene indicato il loro mercato globale. Non si tratta infatti di un mercato, ma di quello che Fernand Braudel, grande teorico del capitalismo, chiamava i "contromercati", senza regole, senza sanzioni e senza autorità di controllo.

È fuor di dubbio che anche se l'insieme delle banche italiane paiono avere contratto un minor numero di strumenti finanziari derivati rispetto alle altre banche dei principali paesi dell'economia occidentale, considerata la fragilità supina della nostra politica economica, è necessario, per la futura stabilità monetaria e finanziaria un super regolatore globale. Ciò è indispensabile per la incredibile mobilità dei capitali, la loro contraddittoria tecnologia di movimenti, laddove le regolamentazioni rimangono nazionali e dunque incapaci di apportare soluzioni efficaci per risolvere la crisi.

Un tentativo lento ma deciso potrebbe iniziare dai presupposti fondamentali di un'Unione Europea, non solo monetaria, ma economica e politica. Un'integrazione sovranazionale almeno come modello per la creazione di un vero e controllato mercato finanziario che colpisca anche i contromercati, invece di esserne succubi esaltatori, potrebbe venire certamente da tutte le iniziative europee in corso e da una più allargata e legittimata funzione della Bce.

Insomma, la soluzione della crisi finanziaria non può che partire da una regolamentazione del mercato finanziario globale, risultato questo che potrebbe essere raggiunto attraverso un'intesa fra un'Europa chiaramente su questo unita e la politica del secondo mandato del Presidente Obama, che pare aver preso decisamente le distanze dagli "irresponsabili comportamenti dell'industria finanziaria americana".

Un grave ostacolo contrario a questo ipotetico programma politico è purtroppo venuto mercoledì scorso dal lungo intervento ai Comuni di David Cameron, il quale ha anticipato che, se eletto nel 2015, cercherà di rinegoziare i termini della partecipazione inglese nell'Unione Europea, e quindi entro la fine del 2017 sottoporrà al popolo inglese un referendum che decida "in or out" (dentro o fuori dall'Europa). Come ha commentato Timothy Garton Ash, sul Guardian del 23 gennaio scorso, adesso sappiamo che per altri cinque anni l'Europa sarà intorbidita da una totale confusione interna. Evidentemente le campagne elettorali, a breve ma anche a lunga distanza, possono causare dei brutti scherzi.

Sia le dichiarazioni di Obama, che ha sottolineato l'importanza di un Regno Unito forte in un'Unione Europea forte, per un rapporto indirettamente in linea con l'ipotesi che ho sopra indicato, sia quelle nello stesso senso che provengono dalla Cina e dall'India, meticolosamente riportate dal Guardian, inducono a precise considerazioni conclusive.

L'Europa si appalesa ancora una volta come il nostro destino. La conseguenza dovrebbe essere quella che invece di cadere in degradanti e antiche accuse e insinuazioni elettorali, l'intera classe dirigente italiana offrisse un livello di approfondimento dei programmi di più elevato contenuto, per proseguire la straordinaria avventura europea, elemento fondante del diritto cosmopolitico kantiano al quale vado da tempo riferendomi e più che mai necessario oggi per salvarci dalla finanza globale. Un'altra considerazione è che le agende politiche non possono, allo stato degli atti e nonostante le più o meno sofisticate previsioni, peraltro sempre instabili nel medio o lungo periodo, pensare a un'Europa fatta esclusivamente a misura e salvataggio delle istituzioni finanziarie bancarie globali, come suggerisce la kermesse di Davos. E neppure potremmo acquietarci in qualche modesta soluzione tecnocratica, econometrica e algoritmica intanto che l'Europa già posposta, per i noti problemi di debito pubblico, alle calende greche, debba ora soggiacere anche alle calende inglesi.

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« Risposta #7 inserito:: Marzo 01, 2013, 12:01:22 am »

L'impero trascendente e l'impero finanziario

di Guido Rossi

24 febbraio 2013


In una giornata di straordinaria importanza per le elezioni nazionali, l'ultimo Angelus di Papa Ratzinger porta a ulteriori e ampie meditazioni, che riguardano non solo l'influenza del Vaticano sulla politica italiana, ma anche il futuro della stessa Chiesa cattolica. Sulle dimissioni di Papa Ratzinger e sulla futura convivenza di Sua Santità dimissionaria con il nuovo Papa che sarà eletto, molto è già stato scritto, forse senza tener conto della straordinaria figura di teologo e filosofo di Joseph Ratzinger. Già a partire dalla metà degli anni 80, e successivamente nel dibattito con l'altro filosofo tedesco, Jürgen Habermas, Ratzinger teorizzava il ruolo pubblico della religione nelle società secolarizzate e nelle democrazie pluraliste.

Tuttavia dalla sua nomina a Vescovo di Roma la situazione mondiale è radicalmente cambiata, poiché i centri del potere sono passati dai ristretti confini degli Stati al dominio globalizzato del capitalismo tecnocratico finanziario.
La filosofia socratica di Platone e Aristotele che aveva influenzato il grande condottiero Alessandro Magno, riuscì a fargli superare la stretta e chiusa visione della città - stato antica, per proiettarsi verso una nuova idea, cioè l'idea dell'Impero, vale a dire di uno Stato universale, senza limiti né geografici, né etnici, né di altro genere. Questa idea dell'impero universale ebbe altre imitazioni, che avevano come base non l'espressione politica di un popolo, o di una casta, o di una razza, bensì l'espressione politica di un'unica civiltà universale, con un solo logos, dove le differenze rimanevano ma si negavano in un'unica identità.

Il progetto dell'impero universale di Alessandro Magno fallì, per essere poi ripreso su una base unitaria religiosa e trascendente, adottata sia da San Paolo e dalla Cristianità, sia dall'Islam. Ciò che è rimasto, fino ai nostri giorni, non è però il Sacro Romano Impero, o il potere secolare del Papa, ma la Chiesa universale. È l'impero di coloro che sono sostenuti da una fondamentale identità nella fede in un solo Dio, sicché questa trascendente uguaglianza sovrasta, accogliendole in unica sintesi e mescolanza tutte le etnie, le razze e le disuguaglianze, senza riuscire a creare uno Stato imperiale effettivo, ma un "corpo mistico" della Chiesa universale, rappresentato in terra dal Papa, Vescovo di Roma.

Dalla elezione del 2005 di Papa Ratzinger, si è imperiosamente consolidato il dominio del mondo da parte del globalismo economico, finanziario, fino a diventare padrone effettivo della politica dei singoli Stati. È così che, aiutato da uno straordinario sviluppo tecnologico, tale globalismo ha riproposto un nuovo unico impero finanziario mondiale, senza valori fondamentali, il quale sta distruggendo via via le basi del sottofondo filosofico degli ultimi secoli, e si è violentemente contratto in modo ancora non del tutto trasparente con l'altro impero, cioè quello del trascendente della Chiesa. Quest'ultimo è rimasto a sua volta inquinato dal potere esclusivo della finanza e delle sue lobbies, come hanno di recente dimostrato sia gli scandali bancari, sia le lotte di potere all'interno della gerarchia ecclesiastica.

L'impero del trascendente, difficilmente può contrastare un impero universale che lo minaccia per la prima volta nella storia, basato sul tecnocratico e globalizzato capitalismo finanziario. Già Papa Ratzinger, annunciando le sue dimissioni, faceva riferimento all'universalismo della velocità, che corrisponde appunto al nuovo impero mondano, del tutto indifferente ai valori del trascendente da lui guidato, il quale non si è rivelato in grado né di combatterlo, né di evitarlo, né di assorbirlo. Questo e non altra, pare ad un laico l'umana sofferenza di un Papa, che nell'impossibilità di continuare la sua funzione, si è dimesso. Le parole odierne dell'ultimo Angelus potranno ancora fornire qualche chiarimento, ma dirà la storia quale dei due imperi è destinato a sopravvivere.
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