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Autore Discussione: EZIO MAURO.  (Letto 105161 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:30:39 am »

L'EDITORIALE

Potere e diritto

di EZIO MAURO


DUNQUE il Padre Costituente era un Padre Deformante. La norma del cosiddetto processo breve scardina il diritto dei cittadini ad avere giustizia, il dovere dello Stato di amministrarla, l'interesse del Paese ad una regola di base della convivenza civile come l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Soprattutto, con l'esecutivo che usa come un'arma personale il legislativo per bloccare il giudiziario, quella norma vanifica il principio della separazione dei poteri, senza il quale, come diceva la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789, una società "non ha una costituzione".

Questo è il vero punto su cui istituzioni, partiti e cittadini devono riflettere. È ben chiaro che le regole del gioco di un sistema si cambiano tutti insieme. Ma a patto che nessuno, intanto, manometta per sua personale urgenza alcune regole fondamentali, prima ancora che il confronto abbia inizio. Chi lo fa, è inaffidabile per due ragioni: perché nessuna riforma condivisa inizia con un colpo di mano, e soprattutto perché nessuna stagione costituente può fondarsi su un salvacondotto.

Con questa legge di privilegio, Berlusconi ha in realtà già riformato da solo il sistema, a forza, sovraordinando il suo potere al diritto, mentre il concetto politico-giuridico di Stato punta ad una sintesi tra potere e diritto, eliminando la forza dall'ambito delle istituzioni. Siamo davvero di fronte ad un "brusco spostamento tra politica e giustizia".

La prima regola democratica è prenderne atto, ed essere conseguenti.

© Riproduzione riservata (22 gennaio 2010)
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:07:32 pm »

L'EDITORIALE

La Grande Deroga

di EZIO MAURO


CON TUTTO IL RISPETTO DOVUTO - fino a prova contraria - a Guido Bertolaso e con tutto il dispetto generato dalla nuovissima concezione della legalità a percentuale di Silvio Berlusconi ("se uno opera bene al 100 per cento e poi c'è l'uno per cento discutibile, quell'uno va messo da parte"), lo scandalo della Protezione civile non può essere liquidato con le promesse eroiche del super-commissario, pronto a "dare la vita" per convincere gli italiani che non li ha ingannati, e nemmeno con gli insulti rituali del premier ai magistrati: "Si vergognino, Bertolaso non si tocca".
 
Si tratta semplicemente di capire cosa sta succedendo nell'ombra gigantesca e secretata delle Grandi Opere e delle Grandi Emergenze, dove sembra affiorare - grazie all'annullamento di tutti i controlli e di ogni regola - un sistema di corruzione e di appalti pilotati compensato all'italiana con una girandola di favori personali ai funzionari statali: pagati ben volentieri e con larghezza di mezzi dalle imprese che ricevevano i lavori pubblici con scelte totalmente discrezionali, sottratte alla legge e a ogni sorveglianza. Tutto ciò impone un'operazione di trasparenza, davanti ai cittadini. Nell'interesse di Bertolaso, del governo e dei contribuenti, deve cadere il velo che occulta metodi e procedure della Protezione civile, coperti dallo stato permanente d'emergenza.

Un'emergenza che diventa eccezione, dicono i magistrati, e che ha generato un meccanismo di scambio perfetto, dove imprese private e funzionari pubblici maneggiano corruzione, appalti e favori, in una "gelatina" di Stato coperta dalla Grande Deroga berlusconiana.

I fatti, (raccolti nell'ordinanza da un gip che a Milano archiviò l'inchiesta sul Lodo Mondadori, salutato con entusiasmo da Berlusconi: "finalmente c'è un giudice a Berlino") sono semplici: tre pubblici ufficiali incaricati dalla Presidenza del Consiglio di gestire i cosiddetti Grandi Eventi dei mondiali di nuoto, del G8 alla Maddalena e dell'anniversario dell'Unità d'Italia, "hanno asservito" la loro funzione pubblica con risorse e poteri enormi "in modo totale e incondizionato" agli interessi di un imprenditore interessato. Almeno cinque grandi appalti sono stati pilotati e l'imprenditore ha ringraziato con 21 benefit regalati ai funzionari statali infedeli, ai loro amici e ai grand commis circostanti per rispondere ad ogni loro esigenza privata, dalle auto alle colf, alla ristrutturazione delle case, ai favori sessuali, ai viaggi, agli alberghi, alle assunzioni di figli e cognati.

Una "gelatina", appunto, "di ordinaria corruzione", una ragnatela che ha portato a quattro arresti, tra cui il presidente del Consiglio Superiore per i Lavori Pubblici, per corruzione continuata e a quaranta indagati, compreso Guido Bertolaso: l'ordinanza sottolinea "i rapporti diretti" dell'imprenditore beneficato dagli appalti pilotati con il Super-commissario, gli incontri "di persona" in previsione dei quali l'impresario "si attiva alla ricerca di denaro contante, tanto che gli investitori ritengono fondato supporre che detti incontri siano stati finalizzati alla consegna di somme di denaro a Bertolaso".

C'è solo da sperare che gli indagati dimostrino che le accuse non sono vere, non ribellandosi alla giustizia come Berlusconi consiglia a Bertolaso, ma aiutandola a chiarire in fretta. Intanto, purtroppo, sono vere le risate da sciacalli degli imprenditori che pregustano con certezza gli appalti statali per la tragedia dell'Aquila, e poche ore dopo la scossa raccontano al telefono: "Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro il letto".

Ma se questo è il quadro dell'inchiesta, qual è la cornice istituzionale che lo circonda? Si dovrebbe parlare di potere, più che di istituzioni, se si vuole capire. La Protezione civile, che Berlusconi sta trasformando in Spa, è infatti uno straordinario esperimento politico di Stato d'eccezione, con un ramo operativo del governo libero da ogni controllo e sciolto dalla legge. Questo vale naturalmente per le grandi sciagure, le calamità nazionali, le vere emergenze per cui è nata la Protezione. Ma poi, il governo ha esteso lo stesso sistema ai Grandi Eventi, dai giochi del Mediterraneo all'anno giubilare paolino, ai viaggi del Papa in provincia, ai mondiali di nuoto, all'esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, alla Vuitton Cup. Nel solo 2009 le opere d'emergenza sono state 78, dal 2002 addirittura 500, con una spesa di 10 miliardi di euro.

Questa emergenza continua, che si estende ovunque, è sottratta per legge al controllo della Corte dei Conti e a quello dell'Autorità per i lavori pubblici, e la Protezione civile può agire in deroga ad ogni disposizione vigente. Libertà totale: dalle leggi sulla trasparenza, sui requisiti dei contratti, sulla concorrenza, sugli appalti, sulla pubblicazione dei bandi, sugli avvisi, sugli inviti, sulle verifiche archeologiche, sulle varianti, sui termini, sulla selezione delle offerte, sull'adeguamento prezzi, sulla progettazione.

È un sistema che, portato fuori dai confini del pronto intervento d'emergenza per le sciagure nazionali, non ha alcun senso nell'equilibrio tra i poteri dell'amministrazione statale. Acquista però un senso politico e istituzionale fortissimo nel disegno di riordino gerarchico che Berlusconi persegue, e che chiama "riforma". Il Presidente del Consiglio ha dimostrato più volte di non accettare controlli e bilanciamenti tra i poteri, ritenendo se stesso, in pratica, una deroga vivente alla Costituzione repubblicana, in quanto investito di quel consenso popolare che lo scioglie da ogni regola e ogni consuetudine, sovraordinandolo rispetto al potere giudiziario e agli organi di garanzia. Le stesse leggi ad personam che stanno bloccando il Parlamento per sottrarre il Premier al suo giudice, sono nello stesso tempo un gesto disperato di fuga e la fondazione di un nuovo ordine, dove la legge non è più uguale per tutti, perché il potere supremo può salvarsi decretando per se stesso l'eccezione, e su questa eccezione fondare una nuova gerarchia istituzionale di fatto.

In questa visione che contiene la sfida suprema e necessitata del berlusconismo, Bertolaso e la Deroga permanente in cui vive e opera rappresentano un test istintivo e naturale, su vasta scala, impiantato su un meccanismo emergenziale fatto di emozioni, dolori e spettacolarità, perfetto per un'interpretazione politica carismatica e populista. Con la Protezione civile che diventa Spa, e sta per usufruire di una speciale immunità presente, futura e retroattiva, la Deroga va al governo: e il modello Bertolaso prefigura la dimensione finale del moderno populismo di destra, con la politica ridotta a pura ideologia interpretata dal leader magari insediato al Quirinale, la partecipazione popolare ridotta a vibrazione periodica di consenso, la forma di governo resettata sul puro tecnicismo elevato a massima potenza. Il governo come solutore di problemi (proprio mentre si rifugge dallo Stato), signore delle leggi in nome di un'emergenza permanente: che rende ogni intervento pubblico octroyée da uno Stato compassionevole e propagandistico, tra gli applausi dei cittadini divenuti spettatori di un discorso pubblico tramutato in format di Grandi Eventi.

Ecco perché l'inchiesta sulla Protezione Civile colpisce il cuore del berlusconismo. Il Cavaliere ha fretta, procede per immunità e scorciatoie, riduce la politica a prospettiva di pura forza che travolge anche ogni orizzonte di riforma costituzionale condivisa. La Grande Deroga è già un cambio materiale della Costituzione, in atto, mentre qualche autorevole esponente dell'opposizione chiede ancora ogni giorno in un'intervista quando si comincia con le riforme.

Ma oggi, la Grande Deroga produce con tutta evidenza la gelatina di Stato della corruzione. E dunque diventa esemplare, dimostrando a chi non vuol capire che l'esercizio del potere fuori dai principi costituzionali che lo costringono dentro forme e limiti sfocia facilmente nell'arbitrio, nella disuguaglianza e nell'esclusione, in quell'abuso che è la vera cifra complessiva di questa destra al governo. Non solo: pregiudica quella "modernizzazione" che vive solo nella propaganda del governo ma di cui il Paese ha bisogno, negando il mercato e la concorrenza, come denuncia apertamente la Confindustria contestando la totale discrezionalità degli appalti, senza trasparenza. Riproduce un'Italia del malaffare che premia la corte e i peggiori, rimpicciolendo le opportunità dell'intero sistema.

Per queste ragioni, il governo oggi dovrebbe vergognarsi di porre la fiducia blindando il decreto che vuole far nascere la Protezione civile Spa. E l'opposizione dovrebbe sentire l'importanza della sfida, la sua portata, ed esserne all'altezza. Dopo che l'inchiesta squaderna la realtà dei Grandi Eventi, della finta emergenza, il parlamento dovrebbe diventare il luogo della trasparenza, non della militarizzazione di una decisione politica che rivela i suoi buchi neri. Questo per rispetto dei cittadini e dello stesso Bertolaso, che deve spiegare se è colluso come pensano i magistrati o se è incauto nello scegliere i suoi collaboratori, e incapace di sorvegliarne l'operato: da questo e solo da questo si capirà se deve dimettersi o può restare al suo posto, chiedendo scusa e cambiando metodo. Noi non diremo mai "diteci che non è vero", come ripetono in molti davanti alla realtà dell'inchiesta: diteci quel che è vero, piuttosto. Diteci la verità. 

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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 18, 2010, 02:52:19 pm »

EDITORIALE

I silenzi del premier

di EZIO MAURO


Sarebbe bene che il Presidente del Consiglio uscisse dall'imbarazzo del suo silenzio ogni giorno più grave per dire la verità sullo scandalo della Protezione Civile davanti al Parlamento e al Paese, assumendosi una responsabilità politica che a questo punto lo riguarda direttamente insieme con il dominus di Palazzo Chigi, Gianni Letta. Non c'è più soltanto la gelatina di Stato di una corruzione che scambia appalti con favori, lucrando sulle deroghe dalla legge e dai controlli previste per l'emergenza. Qui si profila un sistema che riduce lo Stato a partner delle imprese costruttrici, trasformando le sciagure nazionali in "torta" miliardaria e garantita. Con la presenza della camorra e con i soliti miserabili parassiti pubblici di contorno, funzionari, magistrati, dirigenti, grand commis e persino un giudice della Consulta.

Tutto ciò, purtroppo, riguarda anche il disastro dell'Aquila come rivelano le carte processuali. Un disastro scelto come teatro spettacolare del leaderismo carismatico e populista che interpreta le emozioni nazionali riscattandole nell'ideologia "del fare". Ecco cosa nasconde quel "fare". Un sistema di abusi di Stato, garantito direttamente da Palazzo Chigi, che genera extra legem la corruzione, se non ne fa parte, sulla pelle delle popolazioni colpite dalla sciagura. Oggi, in questo quadro, si capiscono le risate degli impresari, la notte del terremoto: sapevano che questo modo politico di "fare" li garantiva, nonostante l'improvvida smentita di Letta.

La deroga permanente della Protezione Civile rappresenta il prototipo di un modello di potere, di governo e di istituzioni che il premier prepara per se stesso: oggi quel modello precipita nella vergogna. L'uomo del "fare" non può più tacere. Lo scandalo Bertolaso è ormai lo scandalo Berlusconi.
 

© Riproduzione riservata (18 febbraio 2010)
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 22, 2010, 03:33:14 pm »

L'EDITORIALE

Ci basta la verità

di EZIO MAURO


L'INCHIESTA sulla Protezione Civile è l'irruzione della realtà - una gran brutta realtà - nell'universo magico del berlusconismo che racconta a se stesso e al Paese, dagli schermi asserviti della televisione unica, un'epopea populista di successi ininterrotti, all'insegna del "fare". Oggi si scopre che quel "fare" senza regole nasconde il malaffare. E il disvelamento è immediato, con i cittadini dell'Aquila che entrano a forza nel centro storico morto e sepolto, denunciando la mistificazione televisiva e costringendo il sindaco ad ammettere che "la Protezione Civile ci ha salutati e se n'è andata, e noi dopo dieci mesi siamo davanti a 4 milioni e mezzo di metri cubi di macerie".
Si capisce l'agitazione politica che domina il Presidente del Consiglio.

Prima ha insultato i magistrati ("vergognatevi"), poi ha taciuto per una settimana provando la carta propagandistica di una legge anticorruzione che è durata lo spazio di fanfara di un telegiornale, perché nemmeno nelle favole le volpi possono scrivere i regolamenti dei pollai. Infine ieri è tornato a parlare di complotto "che annulla i risultati miracolosi", ha attaccato l'opposizione e come sempre quando le difficoltà lo sovrastano ha denunciato "il superpartito di Repubblica" come il vero artefice di questo scandalo e di questa crisi.

Vorremmo tranquillizzarlo: un giornale non è un partito. Ma vorremmo anche spiegargli che in Occidente un giornale ha il dovere di illuminare la realtà, raccontandola, e di rappresentare la pubblica opinione che vuole conoscere e sapere, per giudicare. Noi continueremo a farlo. Berlusconi può aiutarci: dica quel che sa sugli appalti, i favori e la corruzione gelatinosa della Protezione Civile, sulla ragnatela che coinvolge Palazzo Chigi. Ancora una volta, la strada è semplice: dica la verità ai cittadini.

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« Risposta #49 inserito:: Marzo 07, 2010, 11:42:24 pm »

L'EDITORIALE

L'abuso di potere

di EZIO MAURO


POICHE' «la sostanza deve prevalere sulla forma», secondo il nuovo comandamento costituzionale berlusconiano recitato dal presidente del Senato Schifani, il governo della Repubblica ha sanato ieri con una legge di comodo gli errori commessi dal Pdl, che avevano portato all´estromissione di Formigoni dalle elezioni in Lombardia e della lista berlusconiana a Roma.
Questo gesto unilaterale compiuto dalla maggioranza a tutela di se stessa può sembrare una prova di forza. È invece la conferma di un´atrofia politica di base e di vertice, che somma un vizio finale alle colpe iniziali, rivelando il vero volto che nei sistemi democratici assume la forza quando è senza politica, e fuori dalle regole che la disciplinano e la governano: l´abuso di potere.

Non c´è alcun dubbio che una competizione elettorale senza il principale partito è anomala, e il problema riguarda tutti i concorrenti (non solo gli esclusi), perché riguarda il sistema intero e il diritto dei cittadini di poter esercitare compiutamente la loro scelta, con tutte le parti in campo. Ma se il problema interpella tutti, le responsabilità di questa anomalia - che in forme diverse si è verificata a Roma e a Milano, con firme false e termini per la presentazione delle liste non rispettati - sono di qualcuno che ha un nome preciso: il Pdl. Non c´entra nulla il "comunismo", questa volta, e nemmeno c´entrano le "toghe rosse". È lo sfascio della destra che produce il suo disastro, perché quando la locomotiva della leadership non funziona più, e non produce politica, tutti i vagoni si arrestano, o deragliano senza guida.

Ora chi chiede a tutti i concorrenti di farsi carico del problema nato in Lombardia e nel Lazio, con un gesto di responsabilità politica condivisa nei confronti dell´avversario e del sistema, non ha mai nemmeno pensato di assumersi preliminarmente le sue responsabilità, ammettendo gli errori commessi, chiamandoli per nome, prendendosi la colpa. Non è venuto in mente al leader di dichiarare che si attendono le pronunce delle Corti d´Appello e dei Tar chiamati a dirimere con urgenza i due casi, e deputati a farlo, nella normalità democratica e istituzionale, e nella separazione dei poteri.

Nulla di tutto questo. Soltanto lo scarico delle responsabilità sugli altri, la tentazione della piazza, la forzatura al Quirinale, l´altra notte, con il Presidente Napolitano, nel tentativo di varare un decreto che intervenisse direttamente sulla normativa elettorale, riaprendo i termini ad uso e consumo esclusivo del partito berlusconiano. Quando il Capo dello Stato si è reso indisponibile a questa ipotesi, la minaccia immediata di due Consigli dei ministri, convocati e sconvocati tra la notte di giovedì e la mattinata di ieri. Una giornata in affanno, per il Premier, anche per il fermo "no" che ogni sua ipotesi di forzatura trovava da parte dell´opposizione, da Bersani a Di Pietro a Casini. Infine, l´abuso notturno del decreto, mascherato dalla forma "interpretativa", che va a leggere a posteriori nella mente del ministro le intenzioni di quando dettò le norme elettorali di procedura, ritagliando a piacere una soluzione su misura per gli errori commessi dalla destra a Roma e a Milano.

Le norme elettorali sono materia condivisa e indisponibile per una sola parte in causa, soprattutto quando opera a palese vantaggio di se stessa, sotto gli occhi di tutti, e per rimediare a quegli stessi suoi errori che violando le regole l´hanno penalizzata nella corsa al voto. Intervenire da soli, ex post, con norme retroattive, a meno di un mese dalla scadenza elettorale, scrivendo decreti che ricalcano clamorosamente gli sbagli commessi per cancellarli, è un precedente senza precedenti, che peserà nel futuro della Repubblica, così come pesa oggi nel logoramento delle normative, nella relativizzazione delle procedure, nella discrezionalità degli abusi, sanati a vantaggio del più forte. In una parola, questo abuso pesa sulla democrazia quotidiana che fissa la misura di se stessa - a tutela di ognuno - in passaggi procedurali che valgono per tutti.

Al Presidente del Consiglio non è nemmeno venuto in mente di consultare direttamente le opposizioni. Di chiedere un incontro congiunto con i suoi capi, di presentarsi dicendo semplicemente la verità, e cioè denunciando gli errori compiuti dal suo schieramento, assumendosene interamente la responsabilità come dovrebbe fare un vero leader, chiedendo se esiste la possibilità di un percorso condiviso di comune responsabilità per rendere la competizione completa e reale dovunque, nell´interesse primario dei cittadini elettori. Tutto questo, che dovrebbe essere un elementare dovere istituzionale e politico, è tuttavia inconcepibile per una leadership eroica e monumentale, che non ammette errori propri ma solo soprusi altrui, mentre prepara abusi quotidiani.

Quest´ultimo, con la falsa furbizia del decreto "interpretativo" (la legge da oggi si applica solo per gli avversari, mentre per noi stessi la si può "interpretare", accomodandola), completa culturalmente la lunga collana di leggi ad personam, che tutelano la sacralità intoccabile del leader, sottraendolo non solo alla giustizia ma all´uguaglianza con suoi concittadini. Anzi, è l´anello mancante, che collega la lunga serie di normative ad personam al sistema stesso, rendendolo in solido oggetto dell´arbitrio del potere: persino nelle regole più neutre, come quelle elettorali, scritte a garanzia soltanto e soprattutto della regolarità del momento supremo in cui si vota.

Nella concezione psicofisica del potere berlusconiano, la prova di forza rassicura il Premier, dandogli l´illusione di crearsi con le sue mani la sovranità stessa, fuori da ogni concerto con l´opposizione, da ogni limite di legge, da ogni controllo del Quirinale. Un´autorassicurazione che nasce dal prevalere della cosiddetta "democrazia sostanziale" rispetto a quella forma stessa della democrazia che sono le regole, la trasparenza e le procedure, vilipese a cavilli e burocrazia. Emerge dallo scontro, secondo il Premier, l´irriducibilità del potere supremo, che rompe ogni barriera di consuetudine e di norma se soltanto lo ostacolano, e non importa se la colpa è sua: anzi, da tutto ciò trae l´occasione di fondare un nuovo ordine di fatto, che basa sullo stato d´eccezione, fondamento vero della sovranità di destra.

Ma c´è, invece, qualcosa di crepuscolare e di notturno in questa leadership affannosa e affannata che usa la politica solo per derogare da norme che non sa interpretare nella regolarità istituzionale, mentre è costretta a piegarle su misura della sua necessità cogente e contingente, a misura di una miseria politica e istituzionale che forse non ha precedenti: e non può trovare complici. Le opposizioni, tutte, lo hanno capito. Molto semplicemente, un leader e uno schieramento che hanno bisogno di un abuso di potere in forma di decreto anche per poter continuare a fare politica, non possono avere un futuro.
 

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« Risposta #50 inserito:: Marzo 13, 2010, 11:00:36 am »

L'EDITORIALE

Una questione di democrazia

di EZIO MAURO

Non è l'aspetto penale (di cui nulla sappiamo) il punto più importante dell'inchiesta dei magistrati di Trani che indaga il presidente del Consiglio, il direttore del Tg1 e un commissario dell'Authority sulle Comunicazioni. L'ipotesi di concussione verrà vagliata dalla giustizia, e certamente il capo del governo avrà modo di difendersi e di far sentire le sue ragioni, o di far pesare le norme che bloccano di fatto ogni accertamento giudiziario sul suo conto, facendone un cittadino diverso da tutti gli altri, uguale soltanto all'immagine equestre che ha di se stesso.

Ma c'è una questione portata alla luce da questa inchiesta che non si può evitare e domina con la sua evidenza eloquente questa fase travagliata di agonia politica in cui si trova il berlusconismo. La questione è l'uso privato dello Stato, dei pubblici servizi creati per la collettività, della presidenza del Consiglio, persino delle Autorità di garanzia, che hanno nel loro statuto l'obbligo alla "lealtà e all'imparzialità", per non determinare "indebiti vantaggi" a qualcuno.

Siamo di fronte a una illegalità che si fa Stato, un abuso che diviene sistema, un disordine che diventa codice di comportamento e di garanzia per chi comanda.

Con la politica espulsa e immiserita a cornice retorica e richiamo ideologico, sostituita com'è nella pratica quotidiana dal comando, che deforma il potere perché cerca il dominio. Questi sono tratti di regime, perché il sovrano prova a mantenere il consenso attraverso la manipolazione dell'informazione di massa, inquinando le Autorità di controllo poste a tutela dei cittadini, con un'azione sistemica di minaccia e di controllo che avviene in forma occulta, all'ombra di un conflitto di interessi già gigantesco e ripugnante ad ogni democrazia. Il controllo padronale e politico sull'universo televisivo (unico caso al mondo per un leader politico) non basta più quando la politica latita e la realtà irrompe. Bisogna andare oltre, deformando là dove non si riesce a governare, calpestando là dove non basta il controllo.


Così il presidente del Consiglio, a capo di un Paese in perdita costante di velocità, passa le sue giornate tenendo a rapporto un commissario dell'Agcom per confessargli le sue paure non per la crisi economica internazionale, ma per due trasmissioni di Michele Santoro, dove la libera informazione avrebbe parlato del processo Mills e del caso Spatuzza, corruzione e mafia. I due parlano come soci, o come complici, o come servo e padrone, cercando qualche mezzo  -  naturalmente illecito perché la Rai non dipende né dall'uno né dall'altro  -  per cancellare Santoro: e l'uomo di garanzia propone al premier di trovare qualcuno che inventi un esposto (lui che come commissario dovrebbe ricevere le denunce e imparzialmente giudicarle) incaricandosi poi direttamente e volentieri di provvedere all'assistenza legale per il volenteroso.

Poi il premier parla direttamente con il direttore del Tg1, manifestando le sue preoccupazioni, e il "direttorissimo" (come lo chiama il primo ministro) il giorno dopo va in onda puntualissimo con un editoriale contro Spatuzza. Infine, lo statista trova il tempo addirittura per lamentarsi della presenza mia e di Scalfari a "Parla con me", una delle pochissime trasmissioni Rai che ha invitato "Repubblica": si contano sulle dita della mano di un mutilato, mentre il giornalismo di destra vive praticamente incollato alle poltrone bianche di "Porta a porta" e ad altri divani di Stato.

La fluida normalità di questi eventi, che sarebbero eccezionali e gravissimi in ogni Paese occidentale, rivela un metodo, porta a galla un "sistema". Citando Conrad, l'avevamo chiamata "struttura delta", un meccanismo che opera quotidianamente e in profondità nello spazio tra l'informazione e la politica, orientando passo per passo la prima nella lettura della seconda: in modo da ri-costruire la realtà espellendo i fatti sgraditi al potere o semplicemente rendendoli incomprensibili, per disegnare un paesaggio virtuoso in cui rifulgano le gesta del Principe.

Oggi si scopre che il premier è il vero capo operativo della "struttura delta" e non solo l'utilizzatore finale. Lui stesso dà gli ordini, inventa le manipolazioni della realtà, minaccia, evoca i nemici, suggerisce le liste di proscrizione, deforma il libero mercato televisivo, addita i bersagli. Che farà quest'uomo impaurito con i servizi segreti che dipendono formalmente dal suo ufficio, se usa in modo così automatico e disinvolto la dirigenza della Rai e le Autorità di garanzia, istituzionalmente estranee al suo comando? Come li sta usando, nell'ombra e nell'illegalità, contro gli stessi giornalisti che lo preoccupano e che vorrebbe cancellare, in una sorta di editto bulgaro permanente?

La sfortuna freudiana ha portato ieri Bondi a evocare una "cabina di regia" di giudici e sinistre, proprio mentre il Gran Regista forniva un'anteprima sontuosa del suo iperrealismo da partito unico, a reti unificate. La coazione gelliana a ripetere ha spinto Cicchitto a evocare il "network dell'odio", proprio quando il Capo del network dell'amore insulta avversari e magistrati, in una destra di governo ormai e sempre più ridotta alla ragione sociale della P2, che voleva occupare lo Stato, non governarlo. L'istinto ha condotto La Russa ad afferrare per il bavero un giornalista critico del leader, alzando le mani come la guardia pretoriana di un sovrano alla vigilia del golpe, proprio nel momento in cui un collaboratore si chinava in diretta televisiva sul premier suggerendogli la risposta giusta, in un fuori onda del potere impotente che certo finirà nei siparietti quotidiani di Raisat.

La verità è che ogni traccia di amministrazione è scomparsa, nell'orizzonte berlusconiano del 2010, ogni spazio di politica è prosciugato. Questo, è ora di dirlo, non è più un governo (salvo forse Tremonti, che bene o male si ricorda di guidare un dicastero), non è una coalizione, non è nemmeno un partito. Stiamo assistendo in diretta alla decomposizione di una leadership, a un potere in panne, nella sua pervasiva estensione immobile che non produce più nulla, nemmeno consenso, se è vero il declino dei sondaggi.

Era facile prevedere che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile, e le istituzioni pagheranno nei prossimi mesi un prezzo molto alto. Non abbiamo ancora visto il peggio. Ma non pensavamo a questo spettacolo quotidiano di un sovrano sempre più assoluto e sempre meno capace di autorità: costretto in pochi giorni a rimediare con un decreto di maggioranza a errori elettorali del suo partito, mentre è obbligato a bloccare il Parlamento con due leggi ad personam che lo sottraggono ai suoi giudici, sempre più ossessionato dalla minima quantità di libera informazione che ancora sopravvive in questo Paese.

Nessuno di questi problemi, ormai, si risolve nelle regole. La deformazione è il nuovo volto della politica, l'abuso la sua costante. Si pone una questione di democrazia, fatta di sostanza e di forma, equilibrio tra i poteri, rispetto delle istituzioni, ma anche semplicemente di senso del limite costituzionale, di rispetto minimo dello Stato e della funzione che grazie al voto dei cittadini si esercita pro tempore. Questo e non altro  -  la cornice della Costituzione  -  porterà oggi in piazza a Roma migliaia di persone. È un sentimento utile a tutto il Paese, comunque voti. Un Paese che non merita questa riduzione miserabile della politica a calco vuoto di un sistema senza più un'anima, in un mix finale di protervia e di impotenza che dovrebbe preoccupare tutti: a sinistra e persino a destra.

 
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da repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 31, 2010, 05:54:08 pm »

IL COMMENTO

La partita da giocare

di EZIO MAURO

L'effetto simbolico del Lazio e del Piemonte che cambiano di segno politico fa pendere la bilancia elettorale dalla parte di Silvio Berlusconi, che era entrato indebolito nella cabina elettorale e ne è uscito rafforzato: tutto il resto è chiacchiera. In gran parte, il Cavaliere gode per la vittoria altrui a cui ha pagato un prezzo, consegnando alla Lega le chiavi di due grandi regioni settentrionali e dunque il governo diretto del territorio, con il passaggio dalla Padania immaginaria all'Italia reale. Ma intanto Bossi con la sua vittoria personale consegna tutto il Nord al Cavaliere, ad eccezione della Liguria, e dunque consente all'impero berlusconiano di allargarsi da est a ovest, senza veder mai tramontare il sole della destra.

Un'alleanza a ruoli invertiti nel Nord, con Bossi che diventa nei fatti il Lord Protettore di un berlusconismo declinante nella sua parabola, ma ancora capace di costruire vittorie. E un'alleanza sotterranea ma evidente a Roma con la Chiesa, che ha trasformato il Lazio in un totem, abbracciando il Gran Pagano pur di sconfiggere Emma Bonino, con i vescovi che scendono in campo nel 2010 italiano non per difendere un valore ma per dare un'indicazione esplicita di voto, come una qualsiasi lobby secolare, mondana e ultraterrena.

Al centro di questo sistema, un Cavaliere invecchiato e forse stanco, ipnotizzato dai suoi stessi malefici dopo un anno di scandali e rincorse giudiziarie, assorbito da sé oltre la normale patologia, circondato dai falsi movimenti di generali e colonnelli che preparano esplicitamente il dopo senza averne il talento e il coraggio. Un leader incapace da un anno di produrre alcunché - salvo le leggi ad personam per sfuggire ai suoi giudici - né politica né amministrazione, cioè governo. E tuttavia resta una differenza notevole, fortissima, tra il Berlusconi Premier e il Berlusconi campaigner, tra l'uomo di governo e la macchina elettorale. Quella macchina ancora una volta ha funzionato, tra vittimismi, accuse, attacchi, promesse, denunce, spostando a Roma i voti dalla lista Pdl che non c'era alla Polverini, come un alchimista. E anche questa è politica, quando riesce a convincere il Paese, e a riacchiapparlo nelle urne dopo averlo in parte perduto.

L'indebolimento a cui stiamo assistendo da un anno, dunque, non è tanto della leadership che ha una sua forza materiale e sta in qualche modo nella pancia del Paese, in un rapporto tra leader e popolo fatto di protezione reciproca, con il Capo che comanda ma chiede aiuto, quando ne ha bisogno perché si sente assediato dai disastri autofabbricati. L'indebolimento è della proposta politica e della sua capacità di guida, con il nucleo fondante di Forza Italia che ricorda la vecchia Dc declinante, negli anni in cui doveva cedere quote sempre più rilevanti di potere agli alleati con la convinzione di poter conservare il comando. Soltanto che qui la parabola non è ideologica ma biologica, nel senso che la politica e le sue scelte sono una variabile della biografia del leader, non dei valori di un partito o dei bisogni del Paese.

Sei regioni a destra, di cui quattro riconquistate, il segno del comando sul Nord, sono la cifra del successo di Berlusconi. Sotto questo risultato si allarga però la realtà di un declino che ha portato il Pdl al 26,7 per cento contro il 32,3 delle europee del 2009, il 33,3 delle politiche 2008 e il 31,4 delle regionali 2005, dove l'esito fu disastroso. E' la crepa che abbiamo segnalato un anno fa, alle elezioni europee, quando il Cavaliere ruzzolò dieci punti sotto le previsioni trionfalistiche della vigilia, grazie ai suoi scandali personali, quindi politici. Quella crepa dunque lavora, dopo un anno passato dal Premier ad inseguire un guaio dietro l'altro, con abusi di potere, forzature e prepotenze. Anzi, la crepa si allarga, tanto che senza l'energia politica - ma privata - della Lega, la consunzione di Berlusconi sarebbe evidente a tutti.

Paradossalmente, dunque, il Paese è contendibile, dopo un quindicennio di sovranità berlusconiana. Questo è un dato di fatto di grande importanza, confermato dal voto. Nelle 13 regioni dove si è votato, il fragile bipolarismo italiano vede il Pdl al 26,7, il Pd al 26,1, seguiti dalla Lega al 12,28, da Di Pietro al 7,2, da Casini al 5,5 per cento. Il Paese è contendibile, ma questo Pd non è oggi in grado di contenderlo. Ecco il problema. Bersani, che è arrivato da poco alla guida del partito, può contare le sette regioni conquistate contro le sei del Polo, per concludere che il Pd è tornato in gara. Ma non si può pensare di governare un Paese se si è esclusi dal Nord, se si precipita al 28 per cento nel Nordest e se si pensa di parlare ancora al Nordovest dai gloriosi cancelli di Mirafiori: senza sapere che nel nuovo piano Fiat tra pochissimi anni dietro quei cancelli ci saranno appena 2500 persone, perché il mercato del lavoro è cambiato, come la fisionomia di Torino, come la natura stessa del Piemonte, dove in tutta la provincia la Lega, urlando, ha sostituito il mormorio governativo della Democrazia cristiana: e il trapianto è riuscito.

L'astensione che penalizza il Cavaliere (ma non i partiti identitari, come la Lega e il movimento di Di Pietro) precipita anche addosso al Pd. Il che significa, molto semplicemente, che il principale partito d'opposizione non intercetta il malcontento dell'elettorato di maggioranza, e in più produce in proprio ragioni d'insoddisfazione. Dunque non funziona né l'opposizione, né la proposta di alternativa. D'altra parte il Pd si è esercitato principalmente, in questi mesi, nella costruzione di un "meccano" di alleanze, come se la politica fosse riassumibile dalla sola aritmetica, e come se l'identità e la natura di un partito non fossero più importanti di qualsiasi tattica. Gli elettori non sanno se il Pd è un partito laico, in un Paese in cui la Chiesa si muove come un soggetto politico; non sanno se è una forza di opposizione, con tutte le offerte di dialogo che alcuni suoi uomini specializzati rivolgono quotidianamente al Cavaliere, qualunque cosa accada; non sanno nemmeno se è di sinistra, in un Paese in cui la destra - e destra al cubo - mostra il suo vero volto in ogni scelta politica, istituzionale o sociale.

In più, c'è un problema di selezione delle élite, di politica dei quadri, di scelta dei candidati. Che senso ha candidare Loiero in Calabria, per poi fermarsi al 32 per cento? E che senso ha la guerra a Vendola, governatore uscente maledetto dal partito pochi mesi fa senza una ragione logica, e oggi salutato come il vincitore delle regionali da chi lo ha combattuto? La realtà è che il Pd ha un senso se è un partito nuovo non solo dal punto di vista delle eredità novecentesche, ma anche nella forma, nel metodo e nel carattere: un partito forte ma disarmato, nuovo in quanto scalabile, aperto perché contendibile, attento alle risorse, ai talenti e alle disponibilità democratiche che esistono in mezzo alla sua gente, senza che i dirigenti lo sappiano. Come esiste, tra gli elettori di sinistra e anche tra coloro che - sbagliando - si sono astenuti, un orizzonte italiano diverso da quello immobile e unico del berlusconismo. Un Paese che non è "anti", come viene raccontato dai cantori di comodo: è semplicemente diverso, perché conserva l'idea di una moderna democrazia costituzionale, di uno Stato di diritto, della legalità, della libertà, dell'uguaglianza. Un'Italia che per queste ragioni si oppone a Berlusconi, e chiede piena rappresentanza.

Rappresentare fino in fondo quest'Italia significa acquistare autonomia culturale e politica, indispensabili in questa nuova fase in cui le fanfare unificate dei regi telegiornali proclamano già l'avvio del "dialogo" per le riforme, che cominceranno proprio con la giustizia. Un'autonomia che consentirà di approfondire le contraddizioni dentro la destra (come la sconfitta di Brunetta e Castelli, o le dimissioni di Fitto da ministro), di vigilare sulla manomorta della Lega sulle banche attraverso le fondazioni, sui problemi che nasceranno dall'incrocio maldestro del nuovo federalismo col vecchio statalismo che non si lascia smontare.

C'è parecchio lavoro da fare, nell'interesse del Paese, per evitare che l'avventura berlusconiana si compia al Quirinale. Non ultimo, cercare un leader che possa sfidare il Cavaliere e vincere, come avvenne con Prodi: e cercarlo in libertà, anche fuori dai percorsi obbligati di età, di appartenenza e di nomenklatura. Forse, anche a sinistra è arrivata l'ora di un Papa straniero.

da repubblica.it
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 05, 2010, 11:00:54 am »

EDITORIALE

Lo scudo sbrecciato

di EZIO MAURO


C'E' DEL METODO nella follia che si abbatte sul governo con lo scandalo Scajola, costringe il ministro alle dimissioni, e colpisce con uno sfregio il tabernacolo del potere berlusconiano, di cui l'ex titolare delle Attività Produttive fa parte fin dall'inizio, sedici anni fa.

Dopo che Repubblica aveva dato la notizia dell'inchiesta sulla casa del ministro pagata da un costruttore, il mondo berlusconiano ha tentato di far valere per alcuni giorni anche per Scajola lo specialissimo scudo di dissimulazione, banalizzazione, vittimizzazione che il Premier impiega abitualmente per difendere se stesso, quando spunta un'ipotesi di reato. Ma questa volta si è capito che lo scudo del potere è sbrecciato: di fronte all'evidenza dei fatti, alle testimonianze convergenti, all'incapacità di mettere in campo obiezioni concrete e fondate, la strategia del vittimismo, della "campagna mediatica", del "fango" non ha retto. Il ministro ha dovuto dimettersi davanti alla pubblica opinione prima ancora che davanti ai rilievi dei magistrati e alle domande del Parlamento, dimostrando che Berlusconi alla fine sa proteggere soltanto se stesso, e che i cittadini attraverso i giornali possono far valere le buone ragioni di chi chiede conto al potere dei suoi comportamenti.

Si capisce perfettamente che il presidente del Consiglio, con l'immagine del governo deturpata dalle dimissioni obbligate del ministro, si lamenti dei giornali e del loro ruolo, come fa ogni volta che uno scandalo lo sovrasta. "C'è fin troppa libertà di stampa", ha detto ieri, e non si capisce se è una denuncia o un programma. Effettivamente, la libertà di stampa che il Premier vorrebbe ridurre con la legge sulle intercettazioni ha portato alla luce lo scandalo, ha costretto il ministro a infilare una serie di contraddizioni e di spiegazioni impossibili, ha prodotto documenti e testimonianze di altri attori di questa vicenda, e infine ha indotto Scajola a firmare le sue dimissioni, per la seconda volta in pochi anni: a conferma, almeno statisticamente, dell'imperizia del Cavaliere nella scelta dei suoi collaboratori.

Ma il metodo è altrove, oltre la coazione a ripetere di Scajola, oltre la tentazione a coprire gli scandali del Cavaliere. Questa storia, infatti, promette di essere soltanto all'inizio, pronta ad allargarsi pericolosamente. Vediamo. Il ministro è accusato di essersi fatto comprare (per due terzi) una casa da un costruttore che è nel giro degli appalti di Stato, è al centro del turbine vorticoso della Protezione Civile, è pronto a trasformarsi - dicono le carte dei magistrati - in sbrigafaccende per i potenti che ruotano intorno a Palazzo Chigi. Scajola nega di aver avuto soldi da questo Anemone, ammette che qualcuno a sua insaputa potrebbe aver pagato in parte quell'appartamento a suo nome, parla di intimidazioni nei suoi confronti, fa intendere manovre politiche ai suoi danni, per farlo fuori. Ma non rivela nessun elemento che possa dar corpo ad una operazione orchestrata ai suoi danni, né fa i nomi dei manovratori che - forse nel suo partito - agirebbero contro di lui.

Resta in campo dunque soltanto l'ipotesi di una casa pagata coi soldi di un costruttore: tanto che sotto il peso di questa unica ipotesi, il ministro si deve dimettere. Ma un minuto dopo l'evidenza di questo peso giudiziario e politico, nasce una domanda obbligatoria, a cui Scajola - e non solo lui - deve rispondere anche dopo le dimissioni: perché un costruttore sborsa 900 mila euro per comperare la casa a un ministro? Qual è la ragione, quale la logica, quale il tornaconto? In sostanza: cosa ha fatto quel ministro, cosa ha fatto il governo di cui fa parte, per ottenere quella ricompensa? A quale obbligo di riconoscenza rispondeva il costruttore, per sdebitarsi così generosamente (e imprudentemente) con uno degli uomini più in vista, oggi come ieri, del governo Berlusconi?

Questa è una domanda che non può restare senza risposta. Le dimissioni risolvono un imbarazzo istituzionale ma non sciolgono il nodo di quel favore, la ragione politica, governativa, quindi pubblica, che sta dietro quell'operazione di mutuo soccorso di cui la pubblica opinione conosce soltanto un elemento, i 900 mila euro del costruttore per la casa del ministro. Ma in cambio di che cosa? Di quale favore evidentemente non confessabile, se ha un prezzo così alto e così intimo? Di quale promessa economicamente rilevante, se l'anticipo è di queste dimensioni? Di quale meccanismo di scambio collaudato e sicuro, se lo si olia con 900 mila euro?

Il punto politico è proprio qui, dove comincia il metodo. Scajola sembra essere soltanto uno degli attori di questa vicenda in cui si incontrano il governo, gli appalti, la Protezione Civile, la propaganda, l'emergenza, i grand commis profittatori, i magistrati compiacenti, i costruttori beneficati e benefattori. Un insieme che è stato chiamato la "cricca" impropriamente, perché non è il cast di un film dei Vanzina: è un vero e proprio "sistema" politico-affaristico, con gli appalti di Stato che in nome dell'emergenza sfuggono a ogni regola e a tutti i controlli, movimentano miliardi e producono un ritorno in favori d'ogni genere, dai massaggi alle ristrutturazioni delle case, dagli appartamenti pagati ai conti degli alberghi, alle prostitute, alle assunzioni dei parenti.

Nelle carte dell'inchiesta sulla Protezione Civile, questo sistema è descritto nei dettagli, disegnato con ritratti precisi ed espliciti. Anche se oggi si prova a dimenticarlo, quel "sistema" è venuto in parte alla luce, è sotto gli occhi di chi vuol vederlo, e qualcuno dovrà renderne conto. Proviamo a inserire Scajola e gli ottanta assegni dentro il perimetro di quel sistema e tutto diventa coerente, e comprensibile. Il ministro, probabilmente, non si riteneva immune personalmente, come il suo Capo: ma pensava e sapeva di far parte del "sistema", perché conosceva i meccanismi di funzionamento, il nome e il cognome dei beneficati, le garanzie reciproche di sicurezza che legano gli appalti e i favori, all'ombra del governo.

Che ha da dire il governo, su questo? L'onorevole presidente del Consiglio? Chi spiega ai cittadini perché, e in cambio di che cosa, quel costruttore doveva comprare una casa al ministro? La domanda resta in campo, senza risposta fino ad oggi. La responsabilità penale è certamente personale: ma quella politica è più ampia, e il governo Berlusconi deve risponderne insieme con Scajola.

(05 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/05/news/lo_scudo_sbrecciato-3823585/
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« Risposta #53 inserito:: Giugno 03, 2010, 04:30:26 pm »

EDITORIALE

La menzogna

di EZIO MAURO

C'è qualcosa che lega insieme l'attacco di Berlusconi a Repubblica, durante l'ultima puntata di Ballarò, (dopo che Massimo Giannini gli aveva ricordato le sue dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali), le accuse all'Ipsos perché Nando Pagnoncelli aveva semplicemente illustrato il suo calo di consensi nei sondaggi, e la legge che vuole imbavagliare la stampa: è l'uso della menzogna come arte di governo, per la paura  -  anzi il terrore  -  che il Premier prova per la verità.

In due occasioni il Presidente del Consiglio (2004 e 2008) aveva pubblicamente spiegato che bisogna considerare "giustificabile" l'elusione o l'evasione quando le tasse sono troppo alte (come in Italia), perché in questo caso l'evasione "è in sintonia con l'intimo sentimento di moralità" del contribuente. L'altra sera ha preferito dimenticarsene, negando platealmente la realtà, pur di rientrare in qualche modo dentro la cornice di emergenza economico-finanziaria disegnata dal suo ministro dell'Economia, che ormai lo commissaria persino in tivù.

L'accusa all'Ipsos e a Pagnoncelli è la conferma di una visione totalmente ideologica del Paese e della politica, dove non c'è spazio per l'irruzione della verità e i sondaggi che non certificano l'immutabilità perenne del consenso e del comando sono automaticamente "fasulli": semplicemente perché non coincidono con l'immagine che il leader ha di sé, e che lo specchio magico dei suoi telegiornali gli restituisce ogni giorno, rassicurandolo nel controllo della realtà.

Il rifiuto di ogni contraddittorio, confermato da quel telefono riagganciato in diretta televisiva dopo il diktat sovrano, è la prova di un arroccamento più impaurito che arrogante, con il Premier ormai incapace di discutere e di accettare un confronto. Si capisce perfettamente, dopo l'ultimo reality show berlusconiano, la legge bavaglio: impediamo ai giornali di raccontare la realtà, così un'unica verità di Stato verrà distribuita ai cittadini del più felice Paese del mondo. Ma le bugie hanno le gambe corte, e il tempo dell'inganno è scaduto.

(03 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/03/news/mauro_3_giugno-4531219/?ref=HRER1-1
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« Risposta #54 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:03:50 pm »

EDITORIALE

Il perché di una pagina bianca

di EZIO MAURO


Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili  -  nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia  -  e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.

La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all'ostruzionismo irragionevole l'attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell'interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L'Aquila.

Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.

Ciò che resta, finché potrà durare, è l'atto d'imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini  -  quello di sapere  -  cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.
Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.

(11 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/11/news/mauro_pagina_bianca-4742413/?ref=HREA-1
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« Risposta #55 inserito:: Giugno 24, 2010, 08:58:23 am »

L'EDITORIALE

Esercizio di responsabilità

di EZIO MAURO

All'improvviso, tutto il Paese ha guardato al referendum di una fabbrica del Sud come a un moderno giudizio di Dio. Dunque gli "invisibili" esistono, contano e pesano, quando prendono la parola, sia pure in condizioni estreme: e l'operaio e l'officina tornano a sorpresa ad essere un soggetto e un luogo politico, in questa Italia 2010, che pure credeva di aver cambiato per sempre il palinsesto. Avevamo dimenticato i produttori, soverchiati dai consumatori, come attori sociali e culturali. Avevamo inseguito le meteore dell'immateriale, avevamo nascosto addirittura il vecchio concetto di lavoro dietro le nuove rappresentazioni dei saperi, delle competenze, della professionalità. E invece quando l'impresa vuol fare i conti con la globalizzazione, deve farli anche con il lavoro, e addirittura con i lavoratori.

Quel giudizio di Dio è stato al contrario un esercizio di responsabilità. Ha vinto il "sì", e nettamente, perché davanti alla possibilità di un investimento industriale che risale al contrario il percorso tipico della società globale (cercare lo sviluppo fuori dai confini del vecchio Stato-nazione, per scaricare invece i problemi che ne nascono sulla rete statale e nazionale) l'istinto di sopravvivenza ha portato la maggioranza dei lavoratori ad approvare il piano Fiat, com'era inevitabile. Ma la forte percentuale di "no" significa che lo scambio tra lavoro e diritti inquieta e non convince le persone coinvolte, che chiedono di tenere il dossier spalancato, per continuare a discutere e negoziare. C'è un problema aperto a Pomigliano, il giorno dopo.

Ora la Fiat fa capire che il risultato la delude, anche perché non la copre politicamente dal rischio di una valanga di ricorsi sui diritti che l'accordo mette in gioco. Il piano "A", cioè lo spostamento a Pomigliano della nuova Panda dallo stabilimento polacco di Tychy, garantendo con le nuove regole dell'accordo separato un investimento da 700 milioni di euro, per l'azienda è in forse. Si pensa al cosiddetto piano "C", che prevede di chiudere Pomigliano e riaprirlo, con una newco, cioè una nuova società che riassuma tutti i lavoratori con il contratto firmato nell'intesa separata.
Diciamo subito che dopo aver caricato di tante attese e di significati epocali questo referendum, le parti dovrebbero sentirsi tutte vincolate al quadro d'intesa che è stato sottoposto al voto. Il risultato obbliga tutti. "Lavoreremo con i sindacati che si sono assunti la responsabilità dell'accordo", dice la Fiat per individuare e attuare insieme "le condizioni di governabilità necessarie per realizzare i progetti futuri". Questo significa escludere la Fiom, che ha detto no e non ha firmato l'intesa, da ogni negoziato e da ogni verifica per l'attuazione dell'accordo? È praticamente impossibile, se si pensa che un lavoratore su tre ha condiviso quella posizione. La gestione del nuovo patto diventerebbe impraticabile nella quotidianità e nella materialità della fabbrica.

L'unica strada ragionevole, a questo punto, è l'apertura di un confronto che abbia alla base il risultato non equivoco del referendum, e cioè l'accettazione di un piano che è passato al vaglio del voto. Tenendo conto che ci sono modifiche possibili, capaci di salvare le ragioni imprenditoriali di produttività, di efficienza e di garanzia dell'investimento e di includere nell'intesa quel terzo di lavoratori che ha seguito la Fiom nel suo "no".

La Fiat fino ad oggi ha messo in campo ragioni di competitività, di compatibilità, di opportunità offerte altrove dal mercato globale. Deve valutare se intende restare su quel terreno che ha contraddistinto l'era di Marchionne, oppure se vuole fare politica, usando Pomigliano come test di una redifinizione non tanto dei rapporti tra produzione e capitale, ma tra lavoratori e impresa, attraverso il ruolo e lo spazio del sindacato. Chi ha parlato con i vertici del Lingotto in questi giorni, ha avvertito una presa di distanza dagli opposti ideologismi in campo, nel governo e nella Fiom. Si tratta adesso di considerare il risultato del referendum, i suoi "sì" e i suoi "no" anche alla luce della ridotta quota di libertà che avevano i lavoratori davanti a un'urna che poteva decretare la cancellazione della loro fabbrica e del loro futuro. Da qui può nascere una tutela delle necessità dell'azienda, coniugata con uno sforzo di responsabilità. E' vero che Marchionne vive nel Dopo Cristo, e questo gli ha consentito di ribaltare una società fallita, ma è anche vero che lui e i suoi uomini non possono ignorare che l'Italia non è per la Fiat un Paese qualsiasi, anche considerando quanto lo Stato ha fatto per Torino.

Nello stesso tempo, un esercizio di responsabilità è necessario anche per la Fiom. Nel "sì" come nel "no" operaio c'è la coscienza del limite a cui è arrivato il confronto di Pomigliano, e il referendum può essere l'occasione di un percorso sindacale di emancipazione partendo proprio dalla compressione dei diritti, che i lavoratori hanno toccato con mano. Ma la forza contrattuale nasce dalla dignità del lavoro e dalla responsabilità che ne consegue: anche per il sindacato. Com'è possibile che la Fiom abbia coperto abusi e distorsioni nel processo produttivo fino a quando Marchionne non li ha usati come denuncia nel confronto di questi giorni?

Sono in campo dopo Pomigliano questioni gigantesche che possono dare al sindacato uno spazio nuovo, e persino formare una nuova coscienza operaia, come si diceva una volta. Perché i vasi comunicanti della globalizzazione che spingono le produzioni verso i mercati emergenti per un dumping favorevole di diritti e di salari, potrebbero funzionare anche in una diversa direzione, estendendo a quei Paesi più poveri la democrazia dei diritti che l'Occidente ha conquistato in più di un secolo, e che fino a ieri considerava acquisiti, parte della sua civiltà materiale e morale, forma stessa del suo modo d'essere. Non pensarlo, non testimoniarlo, significa semplicemente non avere fede nella democrazia, considerarla un concetto relativo, che vale solo alla latitudine occidentale, e non ha valore universale.

Tutto questo dovrebbe valere soprattutto per la politica. Ma quale politica? Pomigliano ha dimostrato clamorosamente che i lavoratori hanno scarsa o nulla rappresentanza, in un'Italia in cui il Presidente del Consiglio corre ad arringare la Federalberghi, si fa applaudire dagli artigiani, abbraccia la Confcommercio. Purtroppo, in questa vicenda il governo ha giocato il ruolo peggiore, gregario e velleitario insieme, all'insegna della pura ideologia: che resiste soltanto in Italia, tra i Paesi europei, e che certo non è uno strumento di risoluzione dei conflitti. I ministri interessati, si sono gettati sull'osso di Pomigliano per un puro ideologismo, cercando riparo nella forza della Fiat per usarla là dove vorrebbero arrivare ma non possono, da soli, e cioè al regolamento finale dei conti con la Fiom e poi con la Cgil. Spaventa vedere un pezzo di governo impegnato nel cuore di una vertenza di portata nazionale esclusivamente per regolare i conti del Novecento, che non è capace di chiudere per via politica, vista la sua mancanza di disegno, di autonomia, di autorità.
E' questo intervento autoritario e parassitario che ha dato un segno di "classe" all'affare Pomigliano, stupefacente negli anni Duemila. Quei ministri che urlavano al nuovo ordine quando credevano di avere una valanga di voti (altrui) in tasca, ieri mattina erano preoccupati di rimanere con il cerino in mano, se la Fiat si ritirava, e battevano in ritirata, come qualche leader sindacale.

Nel piano Fiat di Pomigliano avevano visto e celebrato soprattutto l'attacco al diritto di sciopero, costituzionalmente garantito, per usarlo come testa d'ariete contro la Costituzione, di cui già volevano cambiare l'articolo 41 per cancellare quei "fini sociali" verso i quali va indirizzata l'attività economica secondo la Carta: ignorando che si tratta delle finalità che riguardano il funzionamento del mercato in condizioni corrette di concorrenza, in un sistema di economia di mercato aperto.
Questa ideologia di classe  -  che tiene insieme l'idea di una democrazia senza libertà d'informazione e l'idea di una Costituzione senza lavoro  -  non capisce che senza sicurezza materiale non c'è libertà politica, e questo è il senso dell'articolo 1 della Cosituzione, che eleva il lavoro a fondamento della Repubblica. Non solo. Se si scambiano diritti contro lavoro, salta la distinzione stessa tra politica ed economia, cioè viene meno la sovranità democratica e istituzionale della politica, cui tocca fissare la cornice giuridica e sociale che rende legittima l'azione economica e la sua crescita. Salta il tavolo di compensazione dei conflitti, che tiene insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione: fino ad oggi. Salta, infine, il nesso della modernità occidentale così come la conosciamo, il nesso tra capitalismo, Stato sociale, opinione pubblica e democrazia. Il governo ci pensi, provi a salvarsi, e faccia la parte che gli spetta per dare un esito al referendum di Pomigliano.

(24 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/24/news/pomigliano_ezio_mauro-5104806/?ref=HRER1-1
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« Risposta #56 inserito:: Luglio 01, 2010, 04:56:42 pm »

La verità fa paura

Berlusconi attacca di nuovo gli organi d'informazione.

Siamo davanti a un premier che usa i vertici internazionali per regolare i conti domestici.

Teme la pubblica opinione.

Ma noi continueremo a fare il nostro mestiere. Perché i cittadini vogliono sapere, per poter giudicare

di EZIO MAURO


IL tycoon delle televisioni ha paura dei giornali. Da San Paolo, dov'è in visita di Stato, il Presidente del Consiglio ieri ha trovato modo di attaccare gli organi d'informazione (quelli che non controlla e che non possiede, naturalmente, abituato com'è alla totale obbedienza televisiva), denunciando "una disinformazione totale e inconcepibile, da molti mesi a questa parte". Poi ha lanciato una proposta inedita: "Bisogna fare uno sciopero dei lettori e insegnare ai giornali italiani a non prenderli in giro".

Siamo dunque davanti ad un Premier che usa i vertici internazionali per regolare i conti domestici con il potere d'informazione, che non è ancora interamente oggetto del suo dominio, e che lo spaventa perché introduce elementi di verità e di critica nel paesaggio televisivo: dentro il quale il leader coltiva il senso comune nazionale, canale di egemonia e di consenso. In Occidente, non si è mai visto un Capo di governo impegnato ad eccitare una impossibile rivolta populista per far tacere le (poche) voci critiche che rompono il coro.

Tutto ciò è ancora più grave se si pensa che l'uomo politico in questione è anche editore, perché non ha mai voluto dismettere il controllo proprietario pieno ed effettivo sulle reti televisive di sua proprietà e sui suoi giornali, variamente appaltati. Che spettacolo, per i brasiliani e gli italiani.

Siamo davanti ad un Presidente del Consiglio che teme la pubblica opinione. E a un editore che teme i giornali.
Possiamo assicurarli entrambi (spaventati dalla verità, e dalla libertà) che continueremo a fare il nostro mestiere: perché i cittadini vogliono sapere, per poter giudicare. E non prendono ordini dal Premier su cosa bisogna leggere, nell'Italia berlusconiana.

(29 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/29/news/ezio_mauro_berlusconi_stampa-5236016/?ref=HRER1-1
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« Risposta #57 inserito:: Luglio 06, 2010, 09:18:55 am »

L'EDITORIALE

Il piano inclinato

di EZIO MAURO

È la legge di gravità che ha costretto infine Aldo Brancher a dimettersi ieri da ministro.
Persino in Italia, non si può rimanere sospesi nel nulla governativo senza deleghe, senza ragioni politiche, senza giustificazioni istituzionali, appesi soltanto ad un'urgenza privata di salvaguardia dalla giustizia, per scappare al proprio giudice e all'uguaglianza costituzionale dei cittadini di fronte alla legge, secondo lo sperimentato modello Berlusconi.

 Per questa ragione il Premier è nudo, dopo le dimissioni di Brancher, davanti al sopruso tentato e non consumato. Il sistema - quell'insieme di regole, soggetti, diritti e doveri che reggono la Repubblica democratica - si può forzare fino a un certo punto, non oltre. Il Cavaliere ha toccato con mano questo confine: la sconfitta è pesante proprio perché è la prova di un'impotenza e la conferma che l'arbitrio ha un limite. Quel limite democratico che passa tra la tenuta delle istituzioni responsabili e la reazione della pubblica opinione.

 È un Cavaliere dimezzato quello che nomina Brancher ministro e poi lo ritira, svilendo il governo nelle porte girevoli di un triste vaudeville. Una specie di animale politico ferito perché la prepotenza istituzionale era stata finora la sua vera arma per uscire dalle difficoltà, quando si trovava nell'angolo.

Ora rimane l'angolo, le difficoltà si ingigantiscono sotto gli occhi di tutti, ma la prepotenza non funziona più. Il ruggito del "ghe pensi mi" viene ingigantito dai telegiornali, ma sembra venire dal cimitero degli elefanti, quasi una richiesta d'aiuto. Così l'annuncio roboante di pochi giorni fa, a reti unificate, si rovescia nel preannuncio di una ritirata impaurita, da governo balneare democristiano.

Che cosa resta di questo avventurismo da fine corsa? Le impronte digitali, prima di tutto, sugli annali della Repubblica.
Sono le impronte tipiche di Berlusconi e testimoniano due cose: prima fra tutte, la concezione privata dello Stato, e l'uso del governo e dei ministeri come un qualsiasi appannaggio personale, di cui il Capo può disporre comunque a vantaggio di chiunque, meglio se si tratta di suoi ex dipendenti aziendali.

Ma è ancora più grave, perché rivelatrice, la seconda lezione che si deve trarre dal caso Berlusconi-Brancher.
Ed è il rapporto inconfessabile che lega il nostro Presidente del Consiglio ad alcuni uomini - ieri Previti, oggi Brancher, ieri, oggi e domani Dell'Utri - che conoscono e partecipano il segreto oscuro delle origini. Fra questi personaggi e il Cavaliere il rapporto sotto pressione diventa drammatico e costringente da entrambe le parti. Un rapporto servo-padrone ma con i ruoli che si scambiano, perché è via via sempre più palese che entrambi agiscono in una dipendenza reciproca che li obbliga terribilmente, di cui non possono liberarsi: semplicemente perché ognuno sa ciò che l'altro conosce, e non c'è salvezza fuori da questo legame costrittivo, per sempre.

È una logica da setta ben più che da partito, da gruppo chiuso e non da formazione liberale, è la negazione della trasparenza e della pubblicità che dovrebbe governare la politica, anche nei momenti più difficili, anche nei conflitti. E il vero gran sacerdote, Fedele Confalonieri, ha svelato addirittura la liturgia e il rito ambrosiano separato che regola il cerchio più ristretto del berlusconismo, nel leggendario racconto all'epoca dell'arresto di Brancher per Tangentopoli: quando rivelò che lui e Berlusconi, futuro Presidente del Consiglio italiano, ogni domenica mattina si facevano condurre dall'autista attorno a San Vittore, dove giravano in Mercedes "per entrare in comunicazione spirituale con Brancher detenuto".

Bisogna domandarsi, a questo punto, qual è il grado di libertà personale e politica di un Capo di governo che sente questo tipo di obbligazioni e per rispondervi è costretto a ingannare il Capo dello Stato (che non ci sta) e a compiere atti politicamente autolesionisti per un'evidente urgenza a cui non può permettersi di sfuggire. Un premier che nomina un ministro per un incarico che non c'è e che tiene vuoto l'incarico di un altro ministro che non c'è più, costretto a dimettersi per lo scandalo - tutto ancora aperto - della Protezione Civile.

 La questione, con ogni evidenza, non è giudiziaria, è tutta politica. Brancher, come gli auguriamo, può anche risultare innocente in tribunale, ma resta colpevole la commistione tra i suoi guai privati e il salvacondotto pubblico costruito insieme con il Cavaliere.
La marcia indietro obbligata conferma che non ci sono più coperchi ad Arcore per le troppe pentole fabbricate da diavoli di serie B: e testimonia una debolezza politica ormai evidente nel leader, dopo la condanna di Dell'Utri, la rivolta costituzionale di Fini, gli avvertimenti istituzionali di Napolitano, l'incertezza della manovra, lo scandalo Bertolaso, l'affare Scajola, la forza separata di Tremonti, la febbre della Lega.

L'immagine che riassume tutto è il piano inclinato: sul quale rotola un governo che non governa da mesi, una leadership imponente ma immobile nel suo affanno -salvo colpi di coda-, come una balena spiaggiata. E al fondo della confusione, rotola un ministro ormai abbandonato che va a dimettersi addirittura in quel tribunale a cui voleva sfuggire, con la nomina fantasma del Cavaliere.

(06 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/06/news/editoriale_brancher-5415948/?ref=HREA-1
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« Risposta #58 inserito:: Luglio 15, 2010, 10:48:47 pm »

IL COMMENTO

Il vascello fantasma

di EZIO MAURO

Per sopravvivere, il vascello fantasma del governo Berlusconi getta i corpi in mare. Sono i corpi dei feriti dagli scandali, politici o affaristici, consumati alla corte del Premier e spesso nel suo interesse, e sacrificati quando sale l'onda dell'opinione pubblica e della vergogna istituzionale. Prima Scajola, poi Brancher, oggi Cosentino. Due ministri e un sottosegretario. Il Cavaliere che se ne disfa, sommerso dal malaffare che lo circonda, è in realtà l'uomo che li ha scelti, li ha nominati, se n'è servito fino in fondo. Lo scandalo riguarda lui, e la sua responsabilità.

Per quindici anni, davanti ad ogni crisi, Berlusconi reagiva attaccando, cercando uno scontro e una forzatura, alzando la posta, in modo da creare nel fuoco dell'emergenza soluzioni prepotenti, da cui il suo comando uscisse rafforzato, non importa se abusivamente. Oggi deve rassegnarsi all'impotenza, incassando una sconfitta dopo l'altra e certificando così che gli scandali non sono difendibili.

In più, su Brancher come su Cosentino il Premier perde una partita con l'opposizione del Pd, ma soprattutto con l'antagonista interno Fini. Si scopre che anche nel mondo monolitico del berlusconismo è possibile dire no, fare discorsi di normale legalità e di ovvio rispetto istituzionale, e si può vincere politicamente, al di là dei numeri.
In questo quadro diventa ancora più grave la vergogna delle intercettazioni. È umiliante vedere un intero governo impegnato a boicottare il controllo di legalità e la libertà di informazione quando si squaderna ogni giorno di più lo scandalo P3, che riporta a "Cesare" e ai suoi interessi, con la cupola che cerca di corrompere la Consulta per il Lodo Alfano. "Cesare" a questo punto vada in Parlamento, e parli della P3 e dei suoi uomini disseminati in quel mondo parallelo, tra Stato e affari, come all'epoca della P2. Con la differenza che allora c'era l'intercapedine della politica, oggi è saltata, e quel mondo è direttamente al potere: ma oggi come allora, "comandano per rubare, rubano per comandare".

 

(15 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/15/news/mauro_vascello_fantasma-5594928/?ref=HREA-1
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« Risposta #59 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:21:42 am »

L'EDITORIALE

La centrale del fango

di EZIO MAURO


PROMEMORIA per l'estate. Mentre Berlusconi parla di "calunnie" e "campagne furibonde" contro il governo, c'è in realtà un metodo nel lavoro e nella ragione sociale della cosiddetta P3, che è venuto alla luce con chiarezza e non ha bisogno di passaggi giudiziari per avere una sua evidente rilevanza politica. È fatto di affari privati legati al comando pubblico, di istituzioni statali usate a fini personali, di relazioni privilegiate intorno a uomini potenti (Denis Verdini lo è, almeno fino ad oggi, e Marcello Dell'Utri altrettanto), di personaggi influenti arruolati per premere su personalità decisive - soprattutto nella giustizia - e infine di faccendieri svelti di mano e pronti a tutto, anche a essere bollati dal Premier come "pensionati sfigati" quando la rete è scoperta. Ma per riuscire, il metodo ha bisogno di qualcosa in più: infangare, delegittimare, distruggere.

La macchina del fango che secondo i magistrati è stata messa in atto contro il candidato del Pdl alla guida della Campania, Stefano Caldoro, è agghiacciante e su "Repubblica" l'ha svelata Roberto Saviano. Si tratta della fabbricazione di un dossier pieno di allusioni sessuali, per creare un caso Marrazzo-bis in Campania, buttare fuori dalla corsa da Governatore Caldoro e favorire Nicola Cosentino.

Ancora più agghiacciante è che questa fabbrica del fango capace di distruggere una persona nasca dentro il Pdl, contro un candidato del Pdl, a vantaggio di un altro uomo del Pdl.

Nelle intercettazioni si parla apertamente di un "rapporto" su Caldoro, si evocano "i trans", si accenna ai "pentiti", si trasmettono "dossier" con "date e luoghi", si fa uscire il tutto su siti regionali e alla fine il capo locale del partito si complimenta per l'operazione.

Ma c'è di più: chi fa capire a Caldoro che deve tremare ("ci sono carte che parlano di te in un certo modo") è addirittura il coordinatore nazionale del Pdl, Denis Verdini, che lo convoca a Montecitorio, si apparta con lui nel corridoio della "Corea" e gli dice apertamente che sta per informare della vicenda Berlusconi. In realtà, come ha spiegato Saviano, Verdini "sa tutto" del dossier perché gli uomini che ci lavorano sono gli stessi che riceve ripetutamente a casa sua per "aggiustare" la sentenza della Consulta sul Lodo Alfano, a beneficio esclusivo di "Cesare". E attraverso Verdini, naturalmente anche "Cesare" sa "cosa sta facendo la banda del fango". E lascia fare, anche se Caldoro è un suo pupillo, "perché Cosentino è più potente, più utile e sa molte cose", e il Premier vuole capire se la diffamazione di Caldoro può oscurare le accuse di mafia che hanno costretto il sottosegretario a dimettersi. Il fango costruito dalla P3 dentro il Pdl lavora indisturbato, Caldoro rischia di essere distrutto, Verdini tiene informato il Premier che assiste silenzioso ad un'operazione di selezione delle élite basata su dossier, carte false, ricatti. Tutto questo avviene in un Paese democratico, in mezzo all'Europa, in pieno 2010, dentro un partito che si chiama "Popolo delle libertà" ma che il leader, intimamente, preferisce chiamare "Partito dell'Amore".

I giornali conoscono questa vicenda, ma non risultano denunce indignate, editoriali. Gli intellettuali tacciono: siamo in piena estate. E invece è obbligatorio porsi una prima domanda, elementare: se questi sono i metodi usati con i compagni di partito, con gli "amici", che succederà con i "nemici", o sarebbe meglio dire con i critici, i dissidenti? O forse è meglio domandarsi che cosa sta già succedendo. Perché nessuno sa fin dove arrivi la rete di ricatti,  di minacce e di intimidazioni che questo potere può stendere sulla società politica, sul sistema istituzionale, sul mondo dell'informazione. Possibile che tutte quelle firme così preoccupate dalla privacy da accettare allegramente una mutilazione del controllo di legalità e della libertà di informazione (quando poi, come si è visto, la proposta di "Repubblica" del 2008 era la più adatta a tutelare la riservatezza dei cittadini) non abbiano nulla da dire su questo caso esemplare di privacy violentemente deturpata, con metodo e intenzione, come un normale strumento di azione politica?

In realtà se non siamo ciechi o conniventi, dunque complici, dobbiamo ammettere che quel metodo lo abbiamo già visto all'opera, in Italia, e con successo. Lo ha usato e teorizzato proprio il Presidente del Consiglio, nel momento più infuocato dello scandalo sul "ciarpame politico" che gli ha arroventato la scorsa estate. Proviamo a ricordare. Il giornale di proprietà della famiglia del Premier cambia improvvisamente direzione nel mese di agosto, e il direttore uscente scrive che se ne va a malincuore dopo aver fatto tutte le battaglie meno una: rovistare "nel letto di editori e direttori di altri giornali". Evidentemente era quel che si voleva. E infatti il 27 agosto quel giornale opportunamente reindirizzato pubblica un falso documento giudiziario che accusa di omosessualità il direttore del quotidiano dei vescovi, Dino Boffo, colpevole soltanto di aver ospitato le critiche al Premier della Chiesa di base.

Boffo viene killerato mediaticamente, la Santa Sede ne approfitta per regolare i conti con la Cei, aggiungendo miseria vaticana a vergogna italiana, e tutto avviene senza che la maggioranza dei giornali sveli l'operazione in tutta la sua ferocia politica, semplicemente indicando il movente, illuminando il mandante, invece di soffermarsi sull'irrilevanza del killer, che infatti dovrà poi chiedere scusa. La barbarie si compie, anche nei suoi effetti pedagogici, perché l'invito ai giornalisti di girare al largo dalle vicende del Premier è esplicito. Il metodo è al lavoro: è già toccato a Veronica Lario, la moglie che ha osato ribellarsi e che si è vista denudata sui giornali della cantoria berlusconiana, messa alla berlina a seno nudo, accusata di avere un amante. Tocca subito dopo a Fini, che muove i primi passi nel dissenso e viene ammonito sul foglio di famiglia a mettersi in regola con l'opinione dominante, pena il riemergere "di vecchi scandali a luci rosse".

Si cerca cioè, in poche parole, di coartare la libertà politica e personale della terza carica dello Stato: semplicemente, se fosse stato ricattabile, sarebbe stato ricattato, l'intimidazione preventiva era l'ultimo avvertimento, ecco il Paese in cui viviamo.

Poi finisce nel tritacarne il giudice Mesiano, colpevole di aver scritto una sentenza civile favorevole alla Cir e contraria a Fininvest, e quindi messo allo zimbello dalle telecamere di proprietà del Premier, deriso, fatto passare poco meno che per matto: salvo le scuse, a operazione conclusa. Ma non è finita. Mentre sui suoi giornali si inseguono gli attacchi a Tremonti, a Casini, a "Repubblica", il Premier è personalmente impegnato ad acquisire e visionare il video che ucciderà la carriera politica di Piero Marrazzo: un video che finisce nelle sue mani senza che nessuno gliene chieda conto, in modo che "Cesare" possa avvertire il governatore (di sinistra), tenendolo in pugno invece di spingerlo a svelare e sventare il ricatto. Lo stesso copione, miserabile, avviene con i nastri della telefonata tra Fassino e Consorte che il Premier riceve direttamente dall'imprenditore Favata ad Arcore, insieme con suo fratello, sorridendo compiaciuto:  "Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo"? E infatti, il valore d'uso politico di quei nastri è così urgentemente prezioso che il giornale di proprietà della famiglia del Premier li pubblicherà sette  giorni dopo il "regalo".

Ora, è impossibile non vedere che qualcosa di terribile lega questo metodo insistito e ripetuto, queste vicende che replicano lo stesso copione da parte di un potere che non riconosce limiti controllando insieme servizi e polizie statali, e strutture private (o associazioni segrete come la P3) di fabbricazione autonoma dei dossier: terribile per la democrazia, oltre che per i destini personali dei soggetti coinvolti, con l'unica colpa di essere ex alleati ribelli, partner autonomi, avversari politici, giornalisti critici. Cioè persone che intendono sottrarsi al dominio pieno e incontrollato e ci provano, facendo il loro mestiere come accade nei Paesi normali. Dove i leader, carismatici o no, si difendono e attaccano quando è il caso, ma non hanno giornali di proprietà della loro famiglia o variamente appaltati per uccidere mediaticamente gli avversari con dossier che arrivano da chissà dove, e colpiscono la persona per zittire la funzione. E non controllano l'universo televisivo, usando le telecamere per regolare i conti privati del Premier, dopo aver ogni sera ricostruito con i suoi colori di comodo il paesaggio italiano di fondo. Come ha scritto nel pieno di queste vicende Giuseppe D'Avanzo, nell'ottobre scorso, è un "rito di degradazione, un sistema di dominio, una tecnica di intimidazione che minaccia l'indipendenza delle persone, l'autonomia del loro pensiero e delle loro parole, la libertà di chi dissente e di chi si oppone".

Quanti attori del discorso pubblico, concludeva quell'articolo, sono oggi in questa condizione di sottomissione? Quanti possono esserlo domani? Il problema riguarda con ogni evidenza la "democrazia reale", perché un Paese moderno e democratico non può essere governato dentro una rete di ricatti e di intimidazioni, azionati o tollerati da un potere debole, più spaventato che spaventoso. Se questa è l'estate italiana che ci aspetta, bisogna dire fin d'ora che il Paese - nella sua pubblica opinione, nelle sue autorità di garanzia, negli spazi autonomi della politica di destra o di sinistra - dovrà ribellarsi ai dossier e alle minacce, rigettandoli e denunciandoli, insieme coi loro autori, i beneficiari e i mandanti. Dimostrando così che la libertà è più forte della paura.

(23 luglio 2010) © Riproduzione riservata
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