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Autore Discussione: Gian Antonio STELLA -  (Letto 186136 volte)
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« inserito:: Settembre 25, 2007, 04:20:26 pm »

La replica

Tanto tempo buttato via

E ci vuole l'accetta, non la lima



Ringraziamo Gabriele Albonetti per il tono cortese della sua replica.

Gli diamo atto di essere uno dei pochi che a ridurre le spese del Palazzo ci stanno almeno provando. Ci rallegriamo per il fatto che non rettifichi neppure una delle nostre cifre, peraltro contenute nel bilancio ufficiale di Montecitorio. Prendiamo per buone le sue rassicurazioni circa il fatto che i lodevoli impegni assunti dalla Camera possano produrre effetti concreti nel futuro prossimo.

Ma ce lo lasci dire: in nemmeno un anno e mezzo, il tempo già trascorso dall'inizio di questa quindicesima legislatura, l'Assemblea costituente riuscì a stendere la carta fondamentale della Repubblica.

Allora forze politiche che pure si combattevano aspramente e che erano divise da alti steccati ideologici avvertirono l'urgenza e la necessità di risollevare il Paese dopo una sanguinosa guerra civile. E in tempi straordinariamente brevi scrissero il patto costituzionale. Lo stesso senso di urgenza non sembra sia avvertito oggi, quasi che la classe politica nel suo complesso non si renda conto fino in fondo di quanto sta accadendo.

Eppure proprio su questo giornale un esponente di primo piano della maggioranza ora al governo, come il presidente dei Ds Massimo D'Alema, aveva ammesso allarmato il 20 maggio: «È in atto una crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere il Paese con sentimenti come quelli che negli anni 90 segnarono la fine della prima Repubblica».

Da allora i segnali che la situazione si stia facendo sempre più seria e che il fossato fra il Paese reale e la politica (accusata di aver smarrito il senso dell'interesse generale e di non saper dare risposte adeguate) si vada approfondendo sempre di più, si sono moltiplicati. Nemmeno l'estate, cui forse qualcuno aveva affidato le speranze che la marea montante evaporasse sotto il solleone, ne ha attenuato l'impeto, mentre dal Palazzo non arrivavano che reazioni deboli. Contraddittorie.

Impalpabili. Un taglietto qua, un aggiustamento là. Si andava dalle alzate di spalle all'annuncio di provvedimenti che poi non riuscivano nemmeno a superare i veti politici degli enti locali, rimanendo sepolti (e lo sono ancora) nei cassetti del governo. Al punto che i pur lodevoli impegni assunti dal Parlamento sui vitalizi e altre marginali voci di spesa (impegni previsti come sempre «dalla prossima legislatura») sono stati spacciati addirittura come svolte epocali.

Ci si deve accontentare? No. Tanto più che la loro portata è ancora tutta da valutare. E il Parlamento che li dovrà digerire è lo stesso che il 17 maggio 2006, mentre il governo Prodi prestava giuramento, prendeva come prima decisione (prima!) della nuova legislatura quella di aumentare molto generosamente i contributi per i gruppi parlamentari.

Ha detto Fausto Bertinotti, cercando di menar vanto dei ritocchi: «Abbiamo lavorato di lima». Questo è il punto: la gravità della situazione, come è nella convinzione anche dei lettori che hanno scritto ieri al «Corriere» un diluvio di lettere, imporrebbe di lavorare di accetta.

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella
25 settembre 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 10, 2007, 10:12:00 am »

SCIENZA E SOLDI

Quando i fondi per la ricerca vanno a chi li merita

Alla Giornata nazionale contro il cancro gli appelli di Napolitano, Draghi e Veronesi


Si può vincere una guerra mandando al fronte i vecchi? Solo un vecchio di grande fascino come Umberto Veronesi poteva lanciare questa domanda, che domina oggi la Giornata per la ricerca sul cancro. La dedica ai giovani di questo appuntam ento annuale dell'A.i.r.c., infatti, non è affatto rituale.

Quella in corso contro i tumori, ha spiegato il grande oncologo, è una «una vera e propria guerra contro un nemico che uccide nel nostro Paese 150 mila persone». Un nemico contro il quale schieriamo pochissimi ricercatori. E di questi solo una manciata di giovani. Non lo denuncia solo il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi che ieri, al Quirinale, ha ricordato con scandalo come l'Italia investa da anni nella ricerca poco più dell'1% del Pil, quota bassissima e per di più sprecata con una distribuzione dei soldi talora così assurda («non sempre riflette la qualità dei risultati conseguiti») che non avrebbe senso investire di più senza «l'adozione di criteri di assegnazione fondati sul merito».

Lo dimostrano, inequivocabili, i numeri ufficiali. In linea con quelli generali dell'Università italiana. Se i professori ordinari in cattedra con meno di 35 anni sono 9 (nove!) su 18.651, cioè lo 0,05 (zero virgola zero cinque) per cento contro il 16% in Gran Bretagna, il 7,3% in America, l'11,6% in Francia (dove al contrario i docenti con più di 65 anni, che da noi sono il 30,3%, scendono rispettivamente all'1%, al 5,4% e all'1,3%), anche nella fascia dei ricercatori il panorama è sconfortante. Il 52,6% dei 21.639 addetti italiani ottiene il titolo di dottore di ricerca tra i 30 e i 34 anni, uno su tre accede alla carriera verso i 38 e l'età media è di 46. Per non parlare di realtà come il Cnr. Dove, come denunciava mesi fa il Corriere, 32 su 107 dei direttori (o facenti funzione) di istituto hanno più di 67 anni (uno passa l'ottantina), l'età più frequente è 68 anni e solo 14 stanno sotto i 55. Di più: una trentina sono allo stesso tempo docenti a tempo pieno in qualche ateneo e direttori a tempo pieno (prodigi dell'ubiquità) al Cnr. Di più ancora: oltre la metà occupano la posizione da più di dieci anni e diversi addirittura da più di venti. Il tutto in un contesto nerissimo. Su mille occupati, quelli che lavorano nella ricerca scientifica sono circa il 6% in Francia e in Germania, il 5% nel Regno Unito, il 6% nella media europea, il 9,5% negli Stati Uniti, il 10% in Giappone, il 7% nei Paesi dell'Ocse e il 2,8% in Italia.

In termini assoluti, stando ai dati del Ministero dell'Università e della Ricerca, abbiamo 70 mila persone impegnate sul fronte della ricerca in Italia contro le 160 mila in Francia, 240 mila in Germania, 150 mila in Gran Bretagna, un milione e 200 mila negli States, 650 mila in Giappone. C'è poi da meravigliarsi se, come ha denunciato giorni fa il direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis, «al Cnrs, il Cnr francese, quasi un terzo dei ricercatori sotto i 30 anni è italiano» perché «noi li formiamo e loro se ne vanno»? Costa almeno mezzo milione di euro formare, con almeno 21 anni di studio dalle elementari al perfezionamento, un dottore di ricerca. Un investimento massiccio. Sul quale uno Stato serio, consapevole di quanto sia vitale per il proprio futuro, dovrebbe scommettere. Macché. Spiega una ricerca di Giovanni Peri sulla base di dati della Eurostat Force Labor Survey, che «paragonando la percentuale di laureati italiani che lavorano all'estero con la percentuale di laureati stranieri che lavorano in Italia l'anomalia del caso italiano è evidente ». Germania, Francia o Regno Unito, per non dire degli Usa, «hanno ben più laureati stranieri nel loro Paese che laureati emigrati all'estero». Noi no: «La percentuale di laureati emigrati è 7 volte maggiore di quella di laureati stranieri presenti nel nostro Paese».

Apri il giornale e leggi che è italiano Paolo De Coppi, lo scopritore delle staminali «amniotiche» (benedette come «etiche» dal Vaticano) che dopo essere stato ricercatore in Olanda e negli Stati Uniti è diventato a 35 anni primario di chirurgia pediatrica al Great Ormond Street Hospital di Londra. E poi che è italiana Valentina Greco, che a 34 anni è una delle ricercatrici di punta della Rockefeller University di New York, salita agli onori per avere pubblicato sulla rivista dell'Accademia americana delle scienze i risultati d'una ricerca sulla clonazione di topi con l'uso del nucleo di diversi tipi di cellule staminali. E poi ancora Ilaria Falciatori, che dopo aver lasciato la Sapienza di Roma ha fatto parte con un altro italiano andatosene ancora giovane in America, Pier Paolo Pandolfi, direttore del laboratorio di ricerca dello Sloan-Kettering Cancer Institute di New York, del gruppo scopritore un paio di mesi fa della «sorgente delle staminali». Tutta «crema» sciaguratamente lasciata sfuggire. E certo non recuperabile con progetti quali quello del '99 per il rientro dei «cervelli in fuga» vanificato dalle resistenze di troppi baroni universitari. Resistenze così rocciose (e svillaneggiate dal caso del 62enne «docente» di una fantomatica università mongola rimosso dalla cattedra solo grazie alla decisione di Fabio Mussi) che l'anno scorso, dei 460 giovani faticosamente riportati in Italia, solo una cinquantina erano riusciti a superare le forche caudine del Cun, il Consiglio universitario nazionale.

Come aggirare quelle forche? Come recuperare, quelle intelligenze? Come fermare l'emorragia? L'Airc ci prova, per quanto può, con varie iniziative. Una settantina di borse di studio da 20 mila euro l'anno per giovani con laurea di eccellenza mandati per tre anni in laboratori di prestigio. Un'altra decina di borse di studio per i più bravi perché possano fare un'esperienza all'estero. E poi un paio di progetti l'anno (totale in corso: dieci) battezzati «Start up»: se il giovane trova un grande centro italiano disposto a dargli uno spazio fisico e le attrezzature con cui lavorare, l'Airc per 5 anni gli paga una parte o tutto lo stipendio più il materiale di consumo più l'aiuto di 2 assistenti. Quelli che se la sentono di navigare da soli, infine, possono provare col «My firts A.i.r.c. grant»: presentano un progetto e vengono finanziati. Tutti soldi privati. Donati da banche, imprese, singole persone. E lo Stato? Qualcosa, se passa la Finanziaria (tocchiamo ferro...), forse si muove.

 Merito di un progetto fortissimamente voluto tra i primi dal professore-senatore Ignazio Marino che, scottato lui stesso dall'emigrazione forzata, ha messo a punto una serie di meccanismi per aprire almeno un pertugio ai giovani ricercatori. A quanti hanno meno di 40 anni e le carte in regola per rispondere al bando di concorso che verrà pubblicato entro il mese di novembre, sarà infatti destinato il 5% (dal prossimo anno il 10) dei fondi per la ricerca del Ministero della Salute. Sedici milioni di euro che, suddivisi in finanziamenti tra i 400 mila ed i 600 mila euro per ogni progetto, andranno non all'ente di ricerca ma al ricercatore stesso, che «potrà iniziare a lavorare portando con sé non solo le proprie idee e la propria competenza ma anche i fondi propri, rappresentando quindi un interesse maggiore per il centro di ricerca ». E chi deciderà, su questa distribuzione di denaro? Una commissione di «dieci membri tutti al di sotto dei 40 anni e metà dei quali provenienti da centri di ricerca stranieri». E i baroni? Fuori. Ma basterà, per vincere la guerra?

Gian Antonio Stella
10 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 15, 2007, 06:13:51 pm »

Costi della politica

Senato, si va in pensione a 53 anni

131.000 euro di reddito medio per i dipendenti

 
ROMA - I questori del Senato, decisi a tagliare i privilegi, stanno per proporre ai sindacati interni un immenso sacrificio: da gennaio tutti in pensione a 53 anni. Chiederete: è uno scherzo? Per niente: mentre il resto del Paese discute sul limite dei 61 anni (dal 2013) e la Germania ha già alzato l'asticella per arrivare a 67 anni, i dipendenti di Palazzo Madama possono ancora ritirarsi (in gran parte) quando sono sulla cinquantina, belli e aitanti.


Andando a prendere fino al 90% dell'ultima busta paga. E facendo marameo (fino a quando non verrà fatta una riforma seria) all'introduzione del sistema contributivo introdotto per tutti gli altri lavoratori italiani da oltre dodici anni. Il tema dell'innalzamento dell'età pensionabile, in realtà, è solo una delle questioni più spinose. E Dio sa se i senatori non preferirebbero evitare ogni possibile scontro, sia pure vellutato, con quel personale che così ossequiosamente li accudisce. La situazione, però, si è fatta insostenibile: la spesa per i dipendenti, compresi quelli a tempo determinato, è salita quest'anno a 158.407.000 euro. Il doppio (esattamente il 101% in più) rispetto al ‘97. Con un aumento reale, tolta l'inflazione, del 66,2%. Ci hanno detto e ripetuto in questi anni che siamo in tempi di vacche magre e che i cittadini tutti devono stringere la cinghia?


Bene: dal 1997 (quando erano 884 contro i 1.053 di oggi: più 169) gli addetti alla camera alta, dal magazziniere al segretario generale, hanno visto mediamente crescere la loro retribuzione netta del 46,58% in termini monetari e del 21,64% in termini reali, senza l'inflazione. Un trattamento deluxe, pari a circa il doppio del parallelo aumento registrato nello stesso decennio dagli stipendi degli altri dipendenti pubblici (più 12,5% reale) e quasi al quadruplo dei ritocchi (più 6,4%) strappati sempre dal 1997 al 2007 dai lavoratori delle industrie private. Neppure lo scandalo intorno ai costi esorbitanti della politica e dei Palazzi, esploso un anno fa dopo una serie di servizi del Corriere, è servito ad arginare l'onda lunga. Ricordate l'irritazione alla scoperta che un dipendente medio guadagnava nel 2006 la bellezza di 118 mila euro? Bene: adesso ne guadagna 131.124. Cioè 13.000 in più. Con un aumento dell'11%. Sei volte e mezzo l'inflazione. Risultato: perfino i dati sparati da L'Espresso a luglio, quelli che fecero strabuzzare gli occhi agli italiani nel leggere che il segretario generale Antonio Malaschini coi suoi 485 mila euro prendeva molto più del doppio del presidente della Repubblica, che uno stenografo arrivava a guadagnarne 254 mila e un barbiere 133 mila (pari a 36 mila più che il Lord Chamberlain della monarchia inglese William Peel) sono oggi vecchi. Da aggiornare in rialzo. E il bello è che, salvo una svolta, continueranno a crescere.

Le regole dicono infatti che se i questori del Senato non spediranno una disdetta ai sindacati dei dipendenti (una decina e piuttosto combattivi) entro il prossimo 31 dicembre, il contratto si intenderà automaticamente rinnovato per altri tre anni. E per capire come sia fatto, quel contratto d'oro zecchino, è sufficiente spiegare un dettaglio: ventidue anni dopo il referendum del 9 giugno 1985 sull'abolizione della scala mobile per tutti gli altri italiani, i lavoratori di Palazzo Madama possono ancora contare su una scala mobile tutta loro. In base alla quale il loro stipendio cresce ogni anno dello 0,75% oltre al recupero dell'inflazione programmata. Questa era stata fissata al 2%? L'aumento è del 2,75%. Con un regalino ulteriore. Nel caso l'aumento del costo della vita sia superiore a quello programmato, questo aumento viene tutto recuperato (inflazione reale al 3%? Aumento del 3,75) ma nel caso sia inferiore, vale la quota programmata: inflazione reale all'1%? Aumento del 2,75. Chiamiamola col suo nome: è un'indecenza. Offensiva nei confronti di tutti i cittadini italiani. A partire da quelli pronti a sottoscrivere la tesi di Franco Marini e Fausto Bertinotti, che dopo la deflagrazione del dossier stipendi spiegarono come il Parlamento dovesse avere un personale di eccellenza. Cittadini disposti a pagare profumatamente i funzionari indispensabili al funzionamento dello Stato. Ma non a riconoscere certi privilegi.

 Come il diritto degli addetti alla Camera alta ad accumulare cinque giorni di ferie l'anno perché gli siano liquidati alla fine in base all'ultimo stipendio. O il regalino annuale di 2 milioni di euro distribuiti a pioggia come premio. O la progressione delle retribuzioni che, come avrebbe denunciato in una drammatica e segretissima lettera a Marini il questore Gianni Nieddu, possono impennarsi dall'assunzione alla pensione del 368%: tre volte quelle dei professori universitari, che non sono nemmeno gli statali meno pagati. Financo il rimborso dei taxi e dei permessi per entrare nel centro storico di Roma: 50 mila euro. C'è poi da stupirsi se, con regole così, il personale costa oggi uno sproposito? Pesava, dieci anni fa, per il 37,1 per cento sul costo complessivo del Senato. Oggi è salito di oltre sei punti: 43,2 per cento. Per un totale di 236 milioni di euro. Compresi, come si diceva, i soldi che finiscono ai pensionati. I quali sono oggi 656, costeranno nel 2007 ben 77 milioni e mezzo di euro e incassano mediamente 118 mila euro a testa. Quanto la cosa sia esplosiva lo dice il confronto col 1997: in dieci anni la spesa pensionistica di palazzo Madama è cresciuta dell'80,7%. Tolta l'inflazione, del 49,4%. Un'impennata mostruosa. Dovuta anche, come dicevamo, al fatto che i dipendenti assunti dopo il 1998 possono andare in pensione a 53 anni (purché la somma dell'età, dei contributi, minimo 30 anni, e dell'anzianità di servizio, minimo 21 anni, faccia almeno 109) e con l'eventuale ricongiungimento contributivo interamente a carico del Senato. Cioè quattro anni prima di chi ha la salute minata da lavori usuranti quali i minatori, i palombari, gli operai chimici che si calano nelle autoclavi, i fuochisti che lavorano agli altoforni. Cinque in meno di splendidi sex symbol del cinema come Fanny Ardandt o Richard Gere. Eppure in gran parte, se assunti prima del 1998, possono andare in pensione anche prima. Il tutto dodici anni dopo la riforma che porta il nome di Lamberto Dini. Alla faccia di chi si scanna sullo scalone, lo scalino, i quarant'anni di contributi…

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella
15 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 19, 2007, 07:15:26 pm »

La nuova sfida del Cavaliere

La seconda discesa in campo contro i politici «parrucconi»


Silvio «Pa-Peròn» Berlusconi, come lo battezzò Cossiga, ha estratto dal cilindro una nuova sorpresa: il Partito del Popolo Italiano delle Libertà. Diranno gli scettici che, dati ufficiali alla mano, è il 157˚. In coda a creature lillipuziane quali il «Patto Cristiano Esteso» o il «Movimento Ultima Speranza». Ma lui ne è sicuro: diventerà il punto di riferimento di decine di milioni di italiani. Così grande che Forza Italia vi si «scioglierà dentro». Così ecumenico che spera «aderiscano tutti, nessuno escluso ». Così adatto ai tempi, spiega nella prefazione a un libro di «Magna Carta», da stare «nel solco dei valori del cristianesimo, del liberalismo, del socialismo democratico, della laicità». Un partito-tutto. Contro i partiti e i partitini. Ma soprattutto contro «i parrucconi della politica ».

Certo, c’è chi avrà buon gioco a ridacchiare sulla eccentricità di un pelato che, sia pure sottoposto alla messa a dimora di folte chiome luccicanti, dichiara guerra ai parrucconi. Per non dire del brevilineo che muove battaglia ai nani. Ma nel lanciare la sua nuova sfida, indifferente a questi dettagli, il Cavaliere mostra una volta di più di avere una caratteristica forse unica nel panorama della politica italiana: il coraggio spericolato di giocarsela. Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e perfino Umberto Bossi, dopo l’ennesima spallata annunciata e poi fallita al Senato, sembravano avergli rubato finalmente la palla? Lui se l’è ripresa di forza, è uscito dall’area in cui pareva asserragliato e si è catapultato all’attacco con una di quelle «ripartenze» da lasciare a bocca aperta anche il «suo» Arrigo Sacchi. Se arriverà in porta è da vedere. Rispetto alla prima «discesa in campo», ha una zavorra finanziaria in meno, dato che i conti aziendali vanno bene e i manager non gli suggeriscono più come Franco Tatò di «portare i libri in tribunale » (parole di Marcello Dell’Utri), ma alcune zavorre politiche in più. Che almeno sulla carta potrebbe appesantire molto la sua corsa. Spiegava allora agli italiani di non «avere intenzione di mettere in piedi una forza politica di vecchio tipo», di volere «un partito liberale di massa» che coinvolgesse uomini «nuovi alla politica, campioni nelle proprie professioni, i migliori», di essere deciso a rimanere estraneo alla «vecchia politica degli agguati e dei trabocchetti, delle congiure e delle manovre di Palazzo». Offriva il ministero degli interni all’«eroe di Mani Pulite», Antonio Di Pietro.

Chiedeva agli aspiranti candidati forzisti di sottoscrivere le seguenti parole: «Dichiaro 1) di non avere carichi pendenti 2) di non aver ricevuto avvisi di garanzia 3) di non essere stato e di non essere sottoposto a misure di prevenzione e di non essere a conoscenza dell’esistenza a mio carico di procedimenti in corso...». Sono passati, da allora, quasi quattordici anni. Tre più di quelli passati da Nikita Krusciov alla guida del Pcus, due più di quelli trascorsi da Helmut Kohl alla testa della Germania, due più di quelli vissuti da Franklin Delano Roosevelt alla Casa Bianca. Per carità, nessun parallelo. Ma tre lustri sono un’era geologica, in politica. Lasciano il segno. E se Forza Italia è rimasto un partito legato al «centralismo carismatico », come spiegò un giorno Cesare Previti, è difficile sostenere che non sia rimasto infettato da quelli che un tempo il Cavaliere considerava virus della «vecchia politica». Quella che gli faceva dire: «Torno a Roma. Torno nella cloaca». Basti ricordare come, dopo l’iniziale richiesta di immacolatezza, siano stati via via imbarcati uomini come Gianstefano Frigerio, vecchia volpe dicì milanese che, condannato a vari anni di carcere in diversi processi di Tangentopoli, fu eletto tra gli azzurri in Puglia dopo un lifting anagrafico con cui si era dato il nome d’arte di Carlo Frigerio. O Alfredo Vito, il famigerato «Mister Centomila Preferenze» cui Paolo Cirino Pomicino ricorda 22 condanne per corruzione. O ancora Gaspare Giudice, del quale i magistrati di Palermo chiesero invano l’arresto considerandolo «a disposizione» del presunto boss di Caccamo, Giuseppe Panzeca. Certo, lui si considera ancora, come disse un giorno, «Biancaneve in un mondo che non è una fiaba». E non ha perso occasione, in questi anni, di sfogarsi contro i riti della rappresentanza che, «tra convegni, congressi e funerali » lo facevano stare male perché gli pareva di «pestare l’acqua nel mortaio».

Contro i «faniguttun », gli sfaccendati (avversari, ma anche compagni di strada) che «non hannomai lavorato in vita loro» e che «non possono permettersi le barche e le case che esibiscono, dunque non c’è che una spiegazione: rubano». Contro i «politicanti » che arrivò ad attaccare 14 volte in un solo comizio nell’anniversario della «vittoria mutilata» del 1994. Ma come cavalcare, oggi, l’ondata di indignazione popolare contro i costi della politica se c’era la «sua» maggioranza al Senato quando i costi sono cresciuti del 39% oltre l’inflazione e c’era lui a Palazzo Chigi quando il governo spendeva 65 milioni di euro in un anno in voli di Stato, pari a 2.241 biglietti andata e ritorno al giorno Milano-Londra con RyanAir? Come chiamare la gente a imbarcarsi su una nuova «nave di sognatori» (così chiamò un giorno Forza Italia) per dare «nuovo futuro della politica italiana» se a 71 anni suonati è già stato alla guida del governo poco meno di De Gasperi o Andreotti ma già oltre un anno più di Amintore Fanfani, due più di Bettino Craxi, tre più di Mariano Rumor? Insomma: come rinnovare la sua nuova immagine di uomo «nuovo»? Questa è la grande scommessa. Qui deve venir fuori il «mago delle emozioni». Che va a giocarsela da solo, direttamente col «suo» popolo. Certo di conoscerlo come non lo conosce nessuno. E di poterlo convincere: se il cielo non sempre è stato blu, è stata solo colpa degli altri.

Gian Antonio Stella
19 novembre 2007

da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 25, 2008, 04:52:51 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 24, 2007, 05:04:25 pm »

Destini politici Guerra dentro la ex Cdl

La favola finita male del Re e dei due eredi

Fini e Casini da una parte, Berlusconi dall'altra: dalle cartoline tropicali alla minaccia delle fogne



La favola dei principi zucca e della fata Smemorina pare avere un finale diverso dal previsto. Ricordate cosa disse Silvio Berlusconi tanti anni fa, parlando degli alleati? «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano zucche e li ho trasformati in principi». Conclusione sognata: «E vissero tutti felici e contenti». Macché...

Oddio, avendo cominciato a lavorare «quando gli altri giocavano con le figurine », il Cavaliere faceva un po' di confusione tra topi, gatti e ortaggi. Ma una cosa l'aveva chiara: Fini e Casini li aveva creati lui. Promuovendoli e insieme ingessandoli nel ruolo di principi ai quali lui solo, con un tocco di bacchetta magica, avrebbe potuto consentire un giorno l'ascesa al trono. Quando, maestà? Quando avesse deciso lui. «Ho capito», rise acido Pierferdy all'ennesimo e sorridente rifiuto del Cavaliere di prendere in considerazione anche l'ipotesi di un passaggio di consegne, «finirò per andare fuori tempo massimo io...».
Bisogna ripercorrere una storia lunga quasi tre lustri per capire quanto sia lacerante, a destra, lo scambio di coltellate di ieri. Di qua i principi ribelli a firmare per la prima volta un documento comune contro il Re del Popolo: «La gravità della situazione italiana impone di elaborare progetti che nulla hanno a che fare con l'improvvisazione propagandistica né con estemporanee sortite populistiche ». Di là l'istrionico monarca a rispondere sprezzante: «Vorrà dire che io mi tengo gli elettori e loro i progetti».

Certo, in 14 anni di percorso comune (lui davanti, gli altri dietro) non erano mancati i momenti di reciproca insofferenza. Basti ricordare certe battute di Berlusconi sui compagni di strada, Bossi compreso: «Io ho fatto un mare di battaglie in vita mia mentre i miei alleati hanno fatto solo politica». Come poteva, al di là dell'assioma astratto dell'eguaglianza, accettare l'idea di trattare con loro da pari a pari? Lo ammetteva lui stesso: «Ho un complesso di superiorità che devo tenere a freno». «Il suo principio è uno solo: qui comando io», spiegò Stefano Podestà, che nel primo governo azzurro era stato ministro dell'Università. Le sue collere verso gli alleati che non lo assecondavano, improvvise e furibonde come uragani tropicali, restano leggendarie. Fin dagli anni più lontani. Contro Casini che voleva dire la sua sul governo: «Chi dice che tra i cattolici del Polo e Pannella ci siano state divergenze sui valori mente spudoratamente. Al tavolo delle trattative non ho mai sentito parlare né di valori cattolici né di principi ». Contro Fini che si era irrigidito nella Bicamerale: «È sleale e ingrato: se non ci fossi stato io lui non sarebbe qui».

Per non dire delle scenate nella seconda fase del suo quinquennio a Palazzo Chigi. Una volta sbottò: «Uno come me, che ha un patrimonio di 20 mila miliardi, deve perdere tempo con voi! Vorrà dire che, quando mi sarà passata, visto che sono una persona gentile, vi scriverò qualche cartolina dalle Bahamas!». Un'altra, all'ennesimo tentativo dell'Udc di smarcarsi da certe scelte, investì Bruno Tabacci come un tornado: «Voi ex democristiani mi avete rotto il ca... (censura). Basta con la vecchia politica. Conosco i vostri metodi da irresponsabili. Fate favori di qua e di là e poi raccogliete voti, ma io vi denuncio, non ve la caverete a buon mercato, vi faccio a pezzi. Io le televisioni le so usare e le userò. Chiaro? Mi avete rotto i co... (censura)».Fino all'ultima sfuriata, rivelata dal Giornale (e svogliatamente smentita) contro quel Fini che gli aveva rinfacciato l'errore di aver garantito mille volte la spallata e di averla fallita: «Dalle fogne li ho fatti uscire e nelle fogne li faccio tornare». Le reazioni dei due alleati erano state altrettanto dure. Certo, non quanto quelle di Bossi che nei momenti di polemica più aspra era arrivato a dire che Berlusconi era «un brutto mafioso che guadagna i soldi con l'eroina e la cocaina », però... Però Casini, alla vigilia del voto del 1996, arrivò a dire che «a correre con Berlusconi per Palazzo Chigi ci andremmo a impiccare in una polemica sul conflitto d'interessi». E Fini si era battuto per andare subito alle elezioni, quell'anno, nella convinzione di poter subentrare all'uomo che lo aveva sdoganato. Mai, però, i rapporti erano stati pessimi, anche sul piano umano, quanto oggi. Mai.


Sullo sfondo, anzi, riemergeva sempre la voglia, il bisogno, la necessità di smussare, tamponare, ricucire. E l'antica promessa del Cavaliere di cedere un giorno lo scettro all'erede che lui avrebbe designato. Prima il segretario dell'allora Ccd: «Caro Pierferdinando, perché non fai tu il segretario di Forza Italia?».
Poi il leader di An. Testimonianza di Gustavo Selva: «Silvio mi ha confidato: non ho alcuna gelosia per Gianfranco, proprio nessuna. Lavoro per farne il mio erede». Obiettivo ribadito mesi fa dopo il progressivo smarcamento dell'Udc: «Se andiamo a fare il partito delle libertà, Fini è il più prestigioso e autorevole per guidarlo». Sì, maestà, ma quando? Sempre lì, a quella domanda, si finiva. Finché i due «principi zucche» si sono stufati. Prima Casini: «Non aspetto che qualcuno mi batta la spada sulla testa e mi dica "sei l'erede". Io sono un uomo libero». Poi Fini: «Berlusconi non è mica il re!». Ed ecco la rottura.
La ribellione aperta. Il regicidio politico. Tutte cose che in qualche modo, oltre che dai politologi più accorti, erano state previste anche da Roberto Benigni. Il quale aveva spiegato: «Il fatto è che Berlusconi, sentendosi un po' Gesù (a Torino dov'è la Sindone girava chiedendo: "Dov'è il mio asciugamano?") non trova un erede col quale costruire una frase come quella di Gesù con Pietro: "Pietro, su questa pietra costruirò la mia chiesa". Ci ha provato con Fini, ma quando ha detto: "Fini, su questa fine..." ci ha rinunciato. Poi con Casini: "Casini, su questo casino..." e ha rinunciato anche con lui». E poi, perché mai doveva cedere la corona se il suo medico Umberto Scapagnini gli ha assicurato che è immortale? Gian

Gian Antonio Stella
24 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 06, 2008, 11:41:15 pm »

La mega struttura e il buco milionario

Il «call center spazzatura»

E la Corte dei conti condannò il governatore


Sapete quanta diossina hanno liberato ieri, nel cielo (ex) azzurro di Napoli, i 65 cassonetti di pattume bruciati nelle rivolte di piazza? Poco meno di 9 mila microgrammi. Pari a quanta ne butta fuori l'inceneritore di Marghera in 546 giorni a pieno ritmo. E quante polveri nocive si sono levate, da quei cassonetti? Quante ne espelle il termovalorizzatore di Brescia in 441 giorni. Lo dicono i dati dell'Istituto superiore di sanità basati su numeri del governo svedese. Dati ripresi anche da un ambientalista al di sopra d'ogni sospetto quale il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci.

Certo, lo sa benissimo anche lui che l'ideale sarebbe fare a meno degli inceneritori grazie a una virtuosa riduzione dei consumi, a una raccolta differenziata capillare, al recupero di tutto ciò che è riciclabile, all'uso di nuove tecnologie come quel «dissociatore molecolare» che Alfonso Pecoraro Scanio descrive con l'entusiasmo che Giovanni da Pian del Carpine metteva nel descrivere la residenza del Gran Khan Guyuk. Quello è il punto di arrivo. Ma intanto? Cosa fare, della esondazione di «munnezza» che sta allagando Napoli e le sue disperate periferie? Come rimuovere il bubbone di oggi così da poter approntare le cure di domani? Cosa fare di quelle 95 mila tonnellate di spazzatura che traboccano sulle strade e delle 7 milioni di fetide «ecoballe» («testate» all'inceneritore di Terni, lo hanno bloccato per mesi rivelandosi gonfie di sostanze radioattive) oggi accatastate in oscene piramidi così ingombranti da avere paralizzato l'attività perfino dell'impianto Cdr di Caivano? Il piano Bertolaso Sempre lì si torna: al piano di Guido Bertolaso. Che aveva proposto di guadagnare un anno di tempo scaricando tutto ciò che si poteva nella grande cava dismessa di argilla di Serre, in provincia di Salerno, e usare quel tempo per concludere i lavori al termovalorizzatore di Acerra e insieme avviare sul serio la raccolta differenziata così da permettere ai nuovi impianti di bruciare «ecoballe» vere.

Progetto saltato per l'ennesima ribellione di piazza e sostituito, con la benedizione dello stesso Pecoraro, con la sventurata creazione a pochi chilometri di una discarica nuova, ottenuta a costi esorbitanti abbattendo centinaia di querce secolari. Misteri ambientalisti. E adesso? C'è chi dice che non c'è scampo, piaccia o non piaccia, alla riapertura della orrenda cloaca di Pianura. Chi non vede alternative a caricare decine di treni per la Germania o la Roma nia. Chi suggerisce, come Walter Ganapini, già protagonista di quel «miracolo» che vide Milano risolvere l'annoso problema delle discariche e passare in quattro settimane dal 3 al 33% di raccolta differenziata, di tamponare l'emergenza usando siti dello stato soggetti a servitù militari. Ciò che è certo, è che quelle cataste di spazzatura stanno causando non solo a Napoli ma a tutto il Paese un danno di immagine inaccettabile. Che si aggiunge al danno fatale: l'inquinamento della terra, delle falde, dei pascoli che non solo, come ha ricordato Roberto Saviano, ha fatto impennare del 24% i malati di tumore nelle aree a rischio. Ma ha fatto abbattere migliaia di pecore, mucche, bufale perché il loro latte, come denuncia Realacci, «doveva essere trattato come un liquido tossico da smaltire».

Lo scaricabarile


 Cosa sarà deciso? Soprattutto: chi prenderà queste decisioni? E sarà disposto a raccogliere davvero la sfida dichiarando guerra frontale alla camorra? Boh... Lo scaricabarile di questi giorni tra Antonio Bassolino e il governo, Rosa Russo Iervolino e Alfonso Pecoraro Scanio, assolutamente convinti che la colpa non sia affatto loro (o perlomeno vada spartita con tutti) e che dunque ogni richiesta di dimissioni sia pretestuosa, la dice lunga. Tutti colpevoli? Nessun colpevole. La Corte dei conti però, almeno in un caso, è convinta che un colpevole ci sia. E lo ha individuato nel governatore campano. Fu lui, infatti, nel ruolo di Commissario, a dare vita alla Pan (Protezione, ambiente e natura: sic) creata nel 2002, con un capitale di 255 mila euro poi trasferito gratuitamente alla Provincia di Napoli e all'Arpac (l'agenzia regionale di protezione ambientale), per dare un servizio informativo sull'emergenza ambientale ma rivelatasi un carrozzone clientelare. Venti mila dipendenti Non l'unico carrozzone, sia chiaro. Come ha scritto sul Corriere del Mezzogiorno Simona Brandolini, con la scusa dell'emergenza i dipendenti dei 18 consorzi di bacino sono via via aumentati fino a diventare ventimila: «Uno ogni 300 abitanti. La Lombardia produce più immondizia della Campania ma per ogni netturbino lombardo risultano esserci 25 netturbini campani ».

Di più: «Quelli che devono raccogliere la "sfraucimma" (cioè il materiale di risulta dei cantieri) sono allergici alla polvere, quelli che devono selezionare il cartone non possono sollevare più di due chili causa un mal di schiena ben certificato». Per non dire di quanti hanno denunciato il Commissariato perché «non lavorando, si sono giocati lo stipendio a tressette». Tornando al Pan, la sentenza della Corte dei conti dice che assunse senza motivo 100 lavoratori socialmente utili. In realtà, stando al bilancio della società, al 31 dicembre 2006 gli Lsu erano 180. Su un totale di 208 lavoratori. Che facevano? In 34, come abbiamo raccontato, «lavoravano » a un call center dove ricevevano mediamente una telefonata a testa alla settimana. Gli altri seguivano non meglio precisati progetti degli enti locali, in particolare della Provincia di Napoli, il cui presidente è quel Riccardo Di Palma che del commissariato per l'emergenza (dettaglio stigmatizzato della commissione parlamentare presieduta da Paolo Russo, anche per i 400 mila euro di compensi) era consulente.

Risultati? L'anno scorso ha incassato 4,3 milioni di euro di fondi pubblici (insufficienti perfino a pagare gli stipendi: 5,6 milioni) chiudendo con un buco di 1,2. L'anno prima, nel 2005, ne aveva persi il doppio: 2,3. Un disastro tale che due mesi fa, quando stava per arrivare la sentenza di primo grado (in appello si vedrà: auguri) la società è stata cancellata. Meglio, è stata fusa in un'altra, l'Arpac multiservizi, controllata dall'Arpac, l'Agenzia regionale di protezione ambientale. Troppo tardi, però, per evitare la stangata dei giudici contabili. Che chiedono a Bassolino di risarcire 3,2 milioni di euro.

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella
06 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 10, 2008, 07:36:30 pm »

Da Dickens a De Sade

'A nuttata che non passa

L'incubo della munnezza


'A nuttata che non passa «D a quanti anni non viene qui un sindaco, un assessore? Da quanti anni non si lavano, queste vie? Da quanti anni non si spazzano? Tutto il letame delle bestie e delle persone e delle case, tutto è qui e nessuno ce lo toglie». Non sono parole di un teppista ribelle napoletano ai microfoni delle tivù ma di Matilde Serao, la scrittrice che Carducci salutava come «la più forte prosatrice d'Italia». Parole di 120 anni fa.

Ed è questo che, oltre ai fetori nauseabondi che salgono dai cassonetti, toglie il fiato a tantissimi napoletani sgomenti: possibile che "'a nuttata" non debba passare mai? Possibile che tanta intelligenza, tanta cultura, tanta bellezza, tanta buona volontà spese con generosità nei decenni da un mucchio di cittadini, imprenditori, artigiani, politici, intellettuali per restituire dignità, decoro e onore alla loro città, debbano essere annientate da questo incubo della 'munnezza? Quanto tempo ci vorrà, ancora, per tornare a rimuovere tutti quei maledetti stereotipi che sono stati rianimati? Certo, anche in questo caso non mancano le responsabilità di settentrionali che a lungo hanno usato le discariche della camorra per buttarci i loro veleni. Ed è insopportabile il tono di certi razzisti nostrani. Ma stavolta no, anche i più accorati difensori del buon nome partenopeo sanno che non possono prendersela come Edoardo Scarfoglio solo con certi «imbecilli e scellerati fratelli del Nord pronti ad accodarsi ad ogni mascalzone che getta bava e fango contro di noi». Né come Carlo Alianello con la piemontesizzazione che fece ricadere «sul Napoletano il sonno grave, carico di tanti secoli, il sonno di Aligi».

Né coi cronisti critici come quando Domenico Rea sbuffò su Giorgio Bocca: «Ho scritto venti libri su Napoli, migliaia di articoli, sono napoletano da 5.000 anni: resto sempre molto sorpreso quando arriva un giornalista dal Nord che in pochi giorni o in pochi mesi pretende di scoprire quel che io non ho visto in 72 anni». No, stavolta l'incubo è riconoscere nelle cronache di oggi quelle, immutabili, di ieri. Come appunto quelle della Serao: «Case crollanti, vicoli ciechi, ricovero di ogni sporcizia: tutto è restato come era, talmente sporco da fare schifo, senza mai uno spazzino che vi appaia, senza mai una guardia che ci faccia capolino. (...) Un intrico quasi verminoso di vicoletti e vicolucci, nerastri, ove mai la luce meridiana discende, ove mai il sole penetra. Ove per terra la mota è accumulata da anni, ove le immondizie sono a grandi mucchi, in ogni angolo, ove tutto è oscuro e lubrico».

Un passato che non passa mai. Una melma nel quale hanno intinto il pennino decine di viaggiatori, scrittori, polemisti. Ammassando via via, in buona o in mala fede, cataste di stereotipi ardue da rimuovere quanto le cataste di immondizia. Come i sospiri sul letto di morte del Cavour: «Nous sommes tous Italiens; mais il ya encore les Napolitains...». O lo scetticismo di Roberto D'Azeglio, senatore del regno e fratello del più famoso Massimo: «C' est un cadavre qu'on nous colle», è un cadavere che ci incollano addosso. O la sconfortata diagnosi della commissione parlamentare sulla miseria condotta da Stefano Jacini che, a proposito di tante abitazioni del Napoletano, scriveva di «nauseabonda sozzura» Montesquieu, che nel 1729 già irrideva alla giustizia partenopea («Non c'è un Palazzo di Giustizia in cui il chiasso dei litiganti e loro accoliti superi quello dei Tribunali di Napoli. Lì si vede la Lite calzata e vestita. I soli scrivani formano un piccolo esercito, schierato in battaglia») raccontava di un popolo «ridotto all'estrema miseria» e di «50 o 60 mila uomini, chiamati Lazzi» così poveri da vivere di ortaggi e da lasciarsi «facilmente sobillare». «Gli uomini più miserabili della terra», li chiamava. Spiegando: «Si può ben dire che la plebe napoletana è molto più plebe delle altre». Per non dire di tanti altri stranieri intrisi di pregiudizi.

Come l'inglese William Hazlitt che, in aggiunta alle descrizioni di sporcizia, letame e pidocchi, spiegava nel 1825 che «il bandito napoletano» è naturaliter criminale: «Toglie la vita alla sua vittima con scarso rimorso, poiché (di vita) ne ha a sufficienza in se stesso, anzi, da vendere. Il suo polso continua a battere tiepido e vigoroso; mentre il sangue di un più mite nativo del freddo Nord raggela alla vista del cadavere irrigidito». O Il tedesco Heinrich von Treitschke il quale, come scrive Mario Costa Cardol nel libro "Ingovernabili da Torino", attribuiva la caduta del regno napoletano «non tanto all'ardore guerresco delle poche migliaia di garibaldini in camicia rossa, quanto alla smisurata corruzione del Mezzogiorno». E se Stendhal ("la città più bella dell' universo") riuscì a vedere "dietro" tutto questo, scoprendo con Goethe ("il tempo è trascorso tutto nella contemplazione di cose magnifiche") una Napoli straordinaria, non fu così per altri. Come il marchese de Sade che denunciava come via Toledo fosse «una delle più belle che sia dato vedere» però «fetida e sudicia» e davanti a tanta bellezza esclamava: «In quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?»

O come Charles Dickens, nella lettera all'amico Forster: «Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l'ingrasso dei pidocchi; goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri!». O ancora come Mark Twain: «La gente è sudicia nelle abitudini quotidiane e ciò rende sporche le strade e produce viste e odori sgradevoli. Non vi è popolazione che odi il colera quanto i napoletani. Ma hanno le loro buone ragioni. Il colera di solito sconfigge il napoletano, perché, voi capite, prima che il medico possa scavare nel sudiciume e raggiungere il male, l'uomo è morto». Giudizi sferzanti, feroci, razzisti. Dispensati allora, da quei viaggiatori, anche su tante altre città italiane. Basti ricordare le cose terribili che Dickens scrisse su Livorno ("ricettacolo di malandrini"), Piacenza ("I suoi abitanti sono imbroglioni e devoti, come dappertutto in Italia") o Ferrara, bollata come "torva". Altri tempi. Ma è questo il punto, che angoscia tutti i napoletani che amano davvero la loro città: quando passerà, anche a Napoli, 'a nuttata?

Gian Antonio Stella
10 gennaio 2008

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« Risposta #7 inserito:: Gennaio 12, 2008, 03:07:17 pm »

Taccuino partenopeo

La città di monnezza e bellezza sopravviverà a chi la giudica

Questo è un luogo dalle mille frequentazioni.

Cultura e tradizione la terranno a galla


A leggere la pagina del Corriere dove Gian Antonio Stella ripesca e riporta frasi e opinioni su Napoli di Montesquieu, Dickens, Twain, Hazlitt, sembra quasi che i viaggiatori che vennero a Napoli vennero per scoprire la Monnezza e non la Bellezza. Ma è vero il contrario. Scoprirono una luce che aprì loro una nuova visione del mondo, scoprirono opere d’arte meravigliose che aprirono loro una nuova visione dell’Antichità Classica, sentirono al San Carlo la musica di Pergolesi, di Paisiello, di Cimarosa, scoprirono una civiltà che cambiò il loro gusto e la loro idea della vita, scoprirono tante cose oltre la monnezza. E poi non erano così scemi da scrivere interi volumi sulla monnezza. La letteratura del Grand Tour, come fu detta, ci parla di ben altro, perché quello era un viaggio di formazione, un viaggio di cultura. Senza contare che nei loro Paesi, nei Paesi di quei viaggiatori, di monnezza ce ne stava abbastanza per non meravigliarsi della monnezza napoletana. La Londra di Dickens, lo scrive lui, era sporca di nebbia fuliggine e carbone, e i bambini uscivano neri dalle miniere dov’erano condannati a lavorare. I nobili di Versailles non brillavano per igiene, spesso emanavano odori sgradevoli e nelle loro parrucche c’erano i pidocchi. Perciò, per favore, ridimensioniamo, anche se della monnezza di Napoli io e la maggioranza dei napoletani siamo nemici accaniti.

Non ci piace la monnezza, né la nostra né quella che ci hanno mandato le fabbriche di lassù. Così mi è venuta la voglia di offrire, dopo quello di Stella, ai lettori del Corriere un altro «menu », meno deprimente, di pensierini tratti da un mio taccuino di qualche anno fa. «A proposito dei viaggiatori che visitarono Napoli nel corso dei secoli per ammirarla o denigrarla, c’è da dire che non sono stati solo loro a misurare la città col loro metro, ma anche Napoli li ha misurati col suo. E ancora oggi è così. Loro gli occasionali visitatori vengono, guardano, criticano, approvano, disprezzano, emettono giudizi e covano pregiudizi. "Sterco di migratori" ha scritto con bell’immagine il mio amico De Luca. Uno sterco che di solito concima il terreno su cui cade. Questo andirivieni di celebrità ha contribuito a confermare Napoli nella sua reputazione di città puttanesca, dalle molte frequentazioni, ad attribuirle tono e nonchalance cosmopolita, e anche quello scetticismo, quell’aria di chi le ha viste e sentite tutte per stupirsi ancora di qualcosa, che è proprio delle città capitali. Senza stupirsi, con questo spirito cosmopolita, Napoli misura estimatori e spregiatori. Perché ognuno, parlando di Napoli, con le sue stesse parole ha involontariamente dato conto di sé, ha detto chi è rispetto a questa pietra di paragone rivelatrice di grandi spiriti, come Goethe e Stendhal, di menti da lei ottenebrate o illuminate, di anime leggere o pesanti, e così via.

Un confronto in fondo temibile con un’entità vasta e sfuggente, sconcertante e complessa, dotata di qualche potere attinto dalle sue forze infere. Un confronto che divide sempre gli ospiti di passaggio in due categorie, in due tipi di natura e umanità differente: quelli istintivamente aperti a lei e quelli istintivamente chiusi a lei, al genio del luogo. E così Napoli diventa una macchina della verità, cui senza saperlo anch’essi ai nostri occhi si sottopongono ». «Occhio di straniero occhio dì sparviero ». Ma è preferibile quest’altro proverbio, di Machado: «L’occhio che tu vedi non è/ occhio perché tu lo veda/ È occhio perché ti vede». «Molti vanno a Napoli come se non sapessero dove vanno, pretendendo di vedere e riportare cose che si sa benissimo che non ci sono, oppure con l’intento di veder confermate e magari ingigantite quelle che si sa benissimo che ci sono. Come se, mettiamo, uno andasse nella civilissima India per trovare le cose che si trovano nella civilissima Svizzera, e poi giudicasse l’India col metro svizzero.

Che viaggiatore sarebbe costui? Un viaggiatore dev’essere sempre curioso e disponibile, e dev’essere senza bagaglio, senza un’idea fissa di come dovrebbe essere il mondo ficcata nella testa». «Svevi, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci, Francesi, e infine Americani: gli occupanti. Napoli è stata un crocevia di incontri internazionali, in questo senso è una città cosmopolita. E se tra i tanti occupanti mettessimo anche gli italiani? Questo lo pensano ancora molti soci anziani dei Circoli Nautici, e non solo loro. Tra i tanti occupanti gli italiani sono stati i peggiori? Sì, sono stati i peggiori, dicono. Non c’è disgrazia peggiore che essere occupati dagli italiani. E sognano i Borboni. Dicono che erano meglio i Borboni». «Che fa Napoli? È viva, è morta, passerà la nottata? Ha sette vite, come le lucertole. Ma è possibile viverci? Si vive male, ma è "avventurosa", e la preferisco alle vostre ordinate piccole città, tutte malinconia e discoteca. Ma affonda o non affonda? Non lo so. So che le grandi navi affondano lentamente. Hanno molte sacche d’aria nella chiglia. E molte sacche di cultura, tradizione, civiltà, ha Napoli che la tengono a galla, e la terranno chissà per quanto. Ma se dovesse affondare attenti al risucchio! Quando una grande nave affonda attira con sé nel naufragio tutto quel che galleggia intorno per un largo raggio».

Ultimo pensierino, dopo aver visto ancora una volta Porta a Porta. Fuori è notte, nel buio si vedono fiamme, si sentono botti, ombre nere che corrono allo scontro, c’è la monnezza, gente disperata che grida in piedi rivolta a Bruno Vespa (in quel momento è lui il tramite col Palazzo), gente che si sente abbandonata, che dice che il cancro l’aggredisce, che ha decimato la famiglia, dice che ha paura; dice che le campagne sono inquinate. Dentro ci sono le luci dello studio televisivo, gli ospiti seduti, ben vestiti, con lucide cravatte intonate. Quella folla che è fuori in piedi nel buio li guarda, si aspetta una parola. Essi intanto litigano educatamente, dicono col loro linguaggio le proprie opinioni, ma si sente che c’è qualcosa di stonato, perché la tragedia di quelli là fuori al buio è troppo grande, non può raggiungerli se loro stanno a discutere nel solito modo. Come si può comunicare con quelli là fuori se non si sente nello studio la puzza della discarica, la presenza nell’aria della diossina, se nessuno ha paura per sé e per i propri cari? L’Italia crede di poter tenere così Napoli, a distanza, di poterla guardare come da uno studio televisivo. Tutto questo mi ricorda un racconto di Poe, «La mascherata della Morte Rossa». Fuori c’è la peste che miete vittime con la sua falce tagliente, dentro ci sono gli abitanti del Castello, i ponti levatoi sono alzati, nessuno può entrare, nessuno deve portare il contagio. Intanto c’è un ballo in maschera, tutti ballano... Ma chi è quella maschera rossa che avanza tra i ballerini: tutti la guardano, tutti s’aspettano qualcosa, la maschera cade, ed è la Morte Rossa, la Peste, che è entrata nel castello. Attenti, non lasciamo Napoli in questo momento, non scriviamo sui giornali le solite accuse, che sono tutte vere, ma non «azzuppiamoci il pane», per favore. Se la morte entra nel Castello nessuno si salverà.
Raffaele La Capria

 
È bellissimo riconoscere parola dopo parola quanto amore porti, un uomo come Raffaele La Capria, verso la sua città, magica e dannata, dannata e magica. Ma devo dire, con dispiacere, di non essere d’accordo con lui. Certo, avrei potuto citare anch’io un sacco di altri viaggiatori stregati da Napoli. Questi non sono però momenti in cui cercare consolazioni: sono momenti in cui è meglio chiedersi perché certe cose, nei secoli, non sono cambiate da come le descrissero non solo viaggiatori distratti e prevenuti ma anche napoletani devoti alla propria terra come Matilde Serao o più recentemente Antonio Ghirelli, il quale ha raccontato senza veli pietosi passaggi storici come quello della peste del 1656 quando troppi approfittano della tragedia con «furti, truffe, intrighi, falsificazioni di ogni genere». Certo, la Londra di Dickens era orribile: ma è cambiata. Le altre città italiane da lui descritte erano spaventose: ma sono cambiate. Ed è bene parlare di queste cose proprio per amore. Napoli è come la donna amata: se non l’amassimo perdutamente, che ci importerebbe di vederla sprofondare?

Gian Antonio Stella


12 gennaio 2008

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« Risposta #8 inserito:: Gennaio 17, 2008, 03:18:30 pm »

Il ritratto

Poltrone e torroncini

Le «armi» di lady Sandra

Love story da Long Island a Ceppaloni

 
«Nella buona e nella cattiva sorte»: non poteva che andare così, la love story di Clemente & Alessandrina, sancita quando lui diede a lei il primo bacio sulla spiaggia newyorkese di Oyster Bay, Long Island. Insieme al catechismo, insieme nella gioventù cattolica, insieme all'altare, insieme nella scalata al potere, insieme nei guai giudiziari. Roba da fotoromanzi d'altri tempi. Quelli in cui lui dice a lei: «Salvati! Sono perduto!» E lei: «Mai! Piuttosto morta!» Certo, non è la loro l'unica coppia della politica italiana. Basti ricordare Palmiro Togliatti e Nilde Jotti (contro i quali i parroci affiggevano perfidi manifestini: «Non solo Togliatti ci ha l'amante / ma la ricopre di pellicce e brillanti») oppure sul fronte opposto Raffaele Jervolino e Maria de Unterrichter, ministro lui e sottosegretario lei. O ancora, in tempi recenti, Piero Fassino e Anna Serafini. Clemente e Alessandrina («Così mi chiamo: il segretario comunale era fissato coi diminutivi e registrava tutte le neonate così: Franceschina, Carmelina, Assuntina...») hanno però qualcosa di speciale. Lui ammise un giorno: «Io non sono Clinton e Sandra non è Hillary». Per anni, però, dopo averla svezzata portandosela dietro ai congressi democristiani («Stavo seduta in prima fila per un'intera settimana») ha cercato d'imporla nel «suo» mondo. Prima piazzandola su poltrone come quella di commissario straordinario della Croce rossa regionale o di amministratore dell'Azienda di soggiorno di Capri. Poi tentando di farla eleggere alla Camera, quindi ipotizzando lanciarla come sindaco di Benevento («La gente mi vorrebbe ma al Nord non capirebbero») e infine sistemandola non solo come consigliere ma addirittura alla guida dell'assemblea regionale. Familismo? Fece spallucce: «La verità è che senza Sandra il Consiglio sarebbe rimasto imballato. Ringraziassero il cielo con la faccia per terra».

Lei ricambiò compiendo a Ceppaloni il primo viaggio ufficiale da presidentessa, accolta dal marito ministro e sindaco del paesello sannita con la fascia tricolore: «Signor sindaco...», «Signora presidente...». Non bastasse, non ha perso occasione in questi anni di dipingere il consorte con toni agiografici non si sa quanto venati di ironia: «È il più grande statista del mondo». Ne parla, ha scritto Aldo Cazzullo, come se parlasse di Adenauer. E giura che non è amore: «Lo stimo». Quando hanno letto il provvedimento giudiziario firmato dal giudice per le indagini preliminari Francesco Chiaromonte, quelli che conoscono un po' Clemente & Alessandrina, il loro entourage familiare, la loro rete di rapporti politici hanno sorriso. Perché, se in Internet c'è chi esulta, a partire da www.mastellatiodio.com e dal blog di Beppe Grillo che mette in primo piano un video mastelliano con la canzone «Vaffanculo» di Marco Masini, è fuori discussione che almeno una parte delle accuse contestate appaiono a prima vista sconcertanti anche al più incallito degli anti-mastelliani. Una multa stracciata? Un'interrogazione parlamentare presentata per dare fastidio al direttore generale dell'ospedale Caserta Luigi Annunziata? Una pressione su Bassolino perché «desse loro una utilità consistita nell'assicurare loro la nomina a commissario dell'Area Sviluppo Industriale di Benevento di una persona designata dal Mastella»? Per carità, può darsi che i magistrati abbiano in mano prove schiaccianti di reati non ancora rivelate. Come può darsi che la scelta di cedere subito l'inchiesta a Napoli riconoscendo la propria incompetenza ma solo «dopo» avere spiccato gli ordini di cattura e avere terremotato la politica italiana sia formalmente corretta. Si vedrà. Una eventuale forzatura, però, sarebbe devastante. Perché ciò che i critici rimproverano a Clemente e Alessandrina, fermo restando l'obbligo di colpire i reati, ha a che fare più con la sanzione morale che con i provvedimenti giudiziari. Mai negato, Clemente, il suo modo di fare politica. Lo scrisse anche in un vecchio diario spiegando come occupa i momenti liberi: «Ne approfitto per sbrigare qualche pratica clientelare: pensioni, richieste di trasferimento, assunzioni, sussidi vari, orfani e invalidi civili». E ammiccava: «Mi raccomandano i figli che devono fare gli esami di maturità. Rispondo di sì a tutti, in realtà non mi impegno». Cos'è poi una raccomandazione? «Un peccato veniale. Per molto tempo servita a riequilibrare le ingiustizie nord-sud». Per lui la politica è questo: «Non può essere testimonianza od oltranza». Se lo sfidano risponde: «Sono Mastellik, sulle poltrone non mi fregano». Vogliamo dirlo? Nella sfrontatezza con cui parla di potere, sindaci, ministeri o sottosegretariati, c'è un candore che fa di lui un politico meno ipocrita e più trasparente di tanti altri. La moglie, che Dagospia incoronò come «femmina d'irreparabile bellezza », è uguale. Parola di Clemente: «È Sandra che tiene per me i contatti con la gente comune. Da lei capisco quello che pensa. Partecipa a comunioni e matrimoni. Cinquanta regali solo in giugno. Ci vorrebbe un'indennità supplementare per i deputati del Sud». Lei manda torroncini natalizi a centinaia di persone e lei si batte per la Falanghina e il caciocavallo di Castelfranco in Miscano e le provole affumicate del Matese e lei porta il marito al Columbus Day per incontrare gli emigrati di New York che possono tornare comodo e ancora lei organizza spettacolari serate a casa con decine di invitati («A mio marito per i 25 anni di matrimonio non ho chiesto l'anello col brillante ma una cucina da ristorante ») ed elettori e amici e clienti. Perché, certo, anche ieri ha ripetuto che lei e Clemente fanno politica in difesa «dei valori cattolici». Ma come li difendi, questi valori, senza un po' di primari, di assessori, di consiglieri comunali, di caporedattori o direttori nelle Asl?

Gian Antonio Stella
17 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 18, 2008, 03:01:47 pm »

Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia

Sanità e tessere, così fan tutti

Dalle intercettazioni su Mastella la conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità


«Cercasi radiologo targato Ds». «AAA. Cercasi pediatra vicino An». «AAA. Cercasi neurochirurgo convintamente Udc».

Dovrebbero avere l'onestà di pubblicare annunci così, i partiti: sarebbero più trasparenti. Perché questo emerge dalle intercettazioni della «Mastella Dynasty»: la conferma che la politica ha allungato le mani sulla sanità. Padiglione per padiglione, reparto per reparto, corsia per corsia. A donna Alessandrina, che oltre a preparare cicatielli con ragù di tracchiole si diletta di spartizione di poltrone, sarebbero servite «due cortesie: una in Neurochirurgia e una in Cardiologia». Il marito invece, a sentire lo sfogo telefonico del consuocero Carlo Camilleri, si sarebbe arrabbiato assai per «l'incarico di primario a ginecologia al fratello di Mino Izzo... Ma ti pare... Proprio il fratello di uno di Forza Italia che è di Benevento ed è contro di me... Ma non teniamo un altro ginecologo a cui dare questo incarico?». Vi chiederete: che se ne fa Clemente d'un ginecologo «suo»? E poi, con nove milioni di processi pendenti e i tagli folli ai bilanci dei tribunali e i giudici che si portano la carta igienica da casa, come faceva il ministro della Giustizia a trovare il tempo di occuparsi della bottega clientelare?

Ecco il punto: è in corso da anni, ma diventa sempre più combattuto e feroce, un vero e proprio assalto dei segretari, dei padroni delle tessere, dei capicorrente al mondo della sanità. Visto come un territorio dove distribuire piaceri per raccogliere consensi. Vale per il Sud, vale per il Nord. Per le regioni d'un colore o di un altro. Nella Vibo Valentia in mano al centrosinistra ardono le polemiche sulla decisione di distribuire 40 primariati (di cui 38 a compaesani vibonesi: evviva l'apertura alle intelligenze mondiali), 85 «primariati junior» e 153 bollini d'«alta specializzazione» in coincidenza con le primarie del Pd e il consolidamento del Partito Democratico Meridionale di Loiero, capace di folgorare un uomo noto in città come il primario del 118 Antonio Talesa, prima con An. Nel Veneto divampano quelle sull'«arroganza» (parola del capogruppo leghista in Regione Franco Manzato) di Giancarlo Galan. Il quale è messo in croce da un paio di settimane dai suoi stessi alleati del centro-destra per le nomine dei direttori generali nelle Asl. «Poltrone per la Lega, una. Per An, zero. Per l'Udc, zero. Per i fedelissimi del presidente, tutte le altre», ha riassunto un giornale non sinistrorso come Libero. «Un sistema feudale», secondo Raffaele Zanon, di An. In pratica, accusa Stefano Biasioli, il segretario della Cimo, la più antica delle sigle sindacali dei medici ospedalieri, additata come vicina ai moderati, «Galan ha nominato 23 fedelissimi su 24 direttori. Tranne che a Bussolengo (lì ha dovuto cederne uno al sindaco di Verona Tosi) sono tutti suoi. Di Forza Italia...».

Ma non diverse sono le accuse, a parti rovesciate, contro la gestione delle Asl «unioniste» toscane, umbre, emiliano-romagnole, «solo che lì il "partito" è così forte che se ne stanno tutti quieti e zitti», rincara Biasioli. Per non dire dei veleni intorno alla distribuzione di cariche nella sanità campana, cuore delle inchieste di oggi. O degli scontri interni alla destra per l'accaparramento dei posti in Sicilia, dove su tutti svetta l'Udc di Totò Cuffaro. Il quale non casualmente è un medico in una terra in cui i medici (compresi quelli legati alla mafia come Michele Navarra o più recentemente Giuseppe Guttadauro) hanno sempre pesato tantissimo. Quanto questo peso sia attuale si è visto, del resto, alle ultime comunali di Messina. Quando tra i candidati c'erano almeno 111 medici. In buona parte ospedalieri. Tra i quali, in particolare, una ventina del «Papardo», la più importante struttura peloritana: il primario di oculistica e quello del laboratorio analisi, il primario di medicina e quello di neurologia, il primario di pneumologia e quelli di chirurgia vascolare, cardiologia, rianimazione. Quasi tutti schierati con An. E indovinate a che partito apparteneva il direttore generale? Esatto: An. «Li hanno militarizzati tutti», accusò indignato Nunzio Romeo, il candidato del Mpa. Peccato che lui stesso fosse medico e presidente dell'Ordine dei Medici e guidasse a nome del medico Raffaele Lombardo una lista con 41 medici.

Pietro Marrazzo, il governatore del Lazio, dice che basta, per quanto lo riguarda è ora di finirla: «Se vogliamo marcare una svolta di sistema io ci sto. Sono qui. Disposto a rinunciare già domani mattina alla facoltà di nominare i direttori generali». Ma quanti colleghi lo seguirebbero? E cosa direbbero i partiti che sostengono la sua giunta all'idea di rinunciare alla possibilità di incidere su un settore chiave come questo? E' una tentazione comune a tutti, accusa Carlo Lusenti, segretario dell'Anao: «Se non sempre, la politica mette il naso 9 volte su 10. Per carità, non c'è solo la politica. Ci sono le lobby universitarie, le cordate, i sindacati... Però...». «E' un'intrusione massiccia. Capillare», conferma Biasioli, presidente della Società ligure di chirurgia Edoardo Berti Riboli: «Nel nostro ambiente si procede soltanto grazie al partito. Fra destra o sinistra non faccio differenze. Hanno la stessa voracità, solo che la sinistra è molto più strutturata». Capita nell'«azzurra» Lombardia dove la stessa Padania scatenò due anni fa una campagna contro «lo strapotere di Comunione e Liberazione negli ospedali regionali». Arrivando a pubblicare un elenco di «primari ciellini» e un'indimenticabile lettera di Raffaele Pugliese. Lettera in cui il primario del Niguarda ricordava ai «suoi» pazienti quanto fosse fantastica la sanità lombarda. Quindi? «Mi permetto di suggerirLe di sostenere la rielezione dell'attuale presidente della giunta regionale Roberto Formigoni». E torniamo al tema: alcuni saranno bravi, altri geniali, altri straordinari. Ma perché dovremmo affidare la nostra pelle a un medico scelto per la tessera? E se il «mio» chirurgo fosse un fedelissimo trombone?

Gian Antonio Stella
18 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Gennaio 22, 2008, 06:15:12 pm »

Dentro le aule

Processi che non finiscono mai: 3.612 istruttorie contro le toghe e 3.612 assoluzioni

Giustizia condannata

Sprechi, lentezze e 7,7 miliardi di euro 200 mila prescrizioni: record europeo


Cosa avete in agenda il 27 febbraio 2020? «Che razza di domanda!», direte voi. Eppure un paio di braccianti pugliesi, quel giovedì che arriverà fra dodici anni abbondanti, quando sarà un vecchio rottame (calcisticamente) perfino il baby Pato, hanno dovuto segnarselo su un quaderno: appuntamento in tribunale. Così gli avevano detto: se il buon Dio li manterrà in salute (hanno già passato la settantina: forza nonni!), se quel giorno non verranno colpiti da un raffreddore, se il giudice non avrà un dolore cervicale, se il cancelliere non sarà in ferie, se gli avvocati non saranno in agitazione, se l’Italia non sarà bloccata da uno sciopero generale con paralisi di tutto, se non mancherà qualche carta bollata, se non salterà la corrente elettrica, Sua Maestà la Giustizia si concederà loro in udienza. E potranno finalmente discutere della loro causa contro l’Inps.

Dopo di che, auguri. Di rinvio in rinvio, col ritmo delle nostre vicende giudiziarie, già immaginavano una sentenza tra il 2025 e il 2030. Magari depositata, cascando su un giudice pigro, verso il 2035. Già centenari.Ma niente paura: sulla base della legge Pinto avrebbero potuto ricorrere in Appello contro la lentezza della giustizia. E ottenere l’«equa riparazione » per avere aspettato tanto. Certo, avrebbero dovuto avere pazienza: da 2003 al 2005 i ricorsi di questo tipo sono infatti raddoppiati (da 5.510 a 12.130) e in certi posti come Roma ci vuole già oggi un’eternità (due anni) per vedersi riconoscere di avere atteso un’eternità. Quanto ai soldi del risarcimento, ciao… Le somme che lo Stato è costretto a tirar fuori ogni anno continuano a montare, montare, montare…

E per quella lontana data non è detto che ci sia ancora un centesimo. Il presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, del resto, l’ha già detto: «Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti i danneggiati dalla irragionevole durata dei processi, non basterebbero tre leggi finanziarie». Diagnosi infausta confermata il mese scorso dal ministero dell’Economia. Secondo il quale i cittadini che hanno «potenzialmente diritto all’indennizzo» per i processi interminabili sono «almeno 100mila» l’anno. Mettete che abbiano diritto a strappare in media 7 mila euro ciascuno e fate il conto. Erano già rassegnati, i due braccianti, a darsi tempi biblici quando il Tribunale, per evitare una figuraccia, li ha in questi giorni richiamati: era tutto un errore, l’appuntamento è solo nel 2013. Ah, solo nel 2013! Solo fra cinque anni! Ecco com’è, il libro sulla giustizia italiana scritto da Luigi Ferrarella e titolato, con un malizioso richiamo alla dannazione eterna, «Fine pena mai»: un libro sospeso tra il ridicolo e l’incubo.

Un formidabile reportage su un pianeta che tutti pensiamo di conoscere e che scopriamo di non conoscere affatto. Almeno non fino in fondo. Fino agli abissi di numeri e situazioni incredibili. Un racconto che trabocca di storie, aneddoti, personaggi curiosi e surreali ma che allo stesso tempo non concede un grammo al populismo, alla demagogia, al qualunquismo. E che proprio grazie a questa sobrietà ricca di humour ma esente da ogni invettiva caciarona, in linea con lo stile di Ferrarella che i lettori del Corriere bene conoscono, rappresenta la più lucida, netta e spietata requisitoria contro un sistema che rischia di andare a fondo. E di tirare a fondo l’intero Paese. Sia chiaro: non ci sono solo ombre, nella giustizia italiana. Di più: se ogni giorno si compie il miracolo di tanti processi che arrivano in porto, tante udienze che vengono aperte, tanti colpevoli che finiscono in galera e tanti innocenti che ottengono l’assoluzione, è merito di migliaia di persone perbene, giudici, cancellieri, impiegati, fattorini, che si dannano l’anima in condizioni difficilissime. Se non proprio disperate.

Ma certo, anche le luci mostrano quanto sia buio il contesto. Bolzano, che nonostante un buco del 45% negli organici riesce ad aumentare la produttività, ridurre l’arretrato e insieme dimezzare le spese abbattendo addirittura del 60% i costi delle intercettazioni fa apparire ancora più scandalosi i contratti stipulati separatamente dai diversi tribunali per l’affitto delle costose apparecchiature necessarie al «Grande Orecchio », affitto che configurava «uno sconcertante ventaglio dei costi da 1 a 18 per lo stesso servizio». Torino, «capace tra il 2001 e il 2006 di ridurre di un terzo il carico pendente del contenzioso ordinario civile: una performance che, se imitata da tutti i tribunali italiani, in cinque anni avrebbe ridotto di 238 giorni il tempo medio di attesa di una sentenza civile» dimostra quanto siano incapaci di una reazione all’altezza la stragrande maggioranza degli altri uffici, dove si è accumulato un «debito giudiziario» spaventoso: «4 milioni e mezzo di procedimenti civili e 5 milioni di fascicoli penali». Una «macchina» sgangherata e infernale. Che «consuma più di 7,7 miliardi di euro l’anno» e per cosa? «Per impiegare in media 5 anni per decidere se qualcuno è colpevole o innocente; per far prescrivere da 150 a 200mila procedimenti l’anno, record europeo; per incarcerare ben 58 detenuti su 100 senza condanne definitive; per dare ragione o torto in una causa civile dopo più di 8 anni, per decidere in 2 anni un licenziamento in prima istanza; per far divorziare marito e moglie in sette anni e mezzo; per lasciare i creditori in balia di una procedura di fallimento per quasi un decennio; per protrarre 4 anni e mezzo un’esecuzione immobiliare».

Ma certo che ci sono raggi di sole. A Milano, per esempio, dall’11 dicembre 2006 si possono «emettere decreti ingiuntivi telematici. Il risultato del primo anno è stato fare guadagnare a cittadini e imprese richiedenti dai 12 ai 14 milioni di euro: cioè i soldi fatti loro risparmiare, nella differenza tra costo del denaro al 4% e tasso di interesse legale al 2,50%, dal fatto di poter disporre con quasi due mesi d’anticipo dei 700 milioni di euro che costituiscono il valore dei circa 3.500 decreti ingiuntivi emessi. Un effetto leva pazzesco: 100mila euro spesi per investire nella tecnologia, ma già 12-14 milioni di euro di ritorno per la collettività nel primo anno». Qual è la lezione? Ovvio: occorre assolutamente investire sulle nuove tecnologie. Macché. «Fine pena mai» dimostra che, dovendo tagliare e non avendo il fegato di tagliare là dove si dovrebbe ma dove stanno le clientele, le amicizie, le reti di interessi, hanno via via deciso di tagliare in questi anni perfino le email, gli accessi a Internet, l’acquisto di programmi elettronici, la messa a punto di software specifici, l’assistenza informatica.

L’ultimo somaro sa che se non puoi contare su un’assistenza efficiente, addio: il tuo computer può improvvisamente diventare inutile come un’auto senza ruote. Bene: su questo fronte «la disponibilità del ministero per il 2006 copre appena il 5% del fabbisogno annuale ». Auguri. Per non dire del casellario ancora aggiornato in larga parte manualmente e che dovrebbe diventare totalmente informatico quest’anno (e vai!) nonostante dovesse esserlo già dal 1989 (diciotto anni fa) e per questa sua arretratezza ha consentito ad esempio a una nomade «fermata in varie città 122 volte per furti o borseggi, e condannata a segmenti di pena di 6/9 mesi per volta» di totalizzare «in teoria 20 anni di carcere senza mai fare nemmeno un giorno in prigione». Colpa dei ministri di destra e di sinistra che si sono succeduti ammucchiando «troppe riforme» spesso in contraddizione l’una con l’altra. Del Parlamento che ha via via affastellato leggi su leggi votando ad esempio 19 modifiche alla custodia cautelare in tre decenni.

Dei politici che non hanno mai trovato la forza, il coraggio, lo spirito di servizio per dare «insieme» una nuova forma a un sistema giudiziario che ormai è così sgangherato che riesce a recuperare «soltanto dal 3% al 5%» delle pene pecuniarie, con una perdita secca annuale di 750 milioni di euro, cioè sette miliardi in un decennio, «nonché di 112 milioni di euro di spese processuali astrattamente recuperabili ». Così cieco che, taglia taglia, offre per le spese agli uffici giudiziari di Campobasso 138 mila euro e poi ne spende un milione, sette volte di più, per risarcire i cittadini vittime della giustizia troppo lenta anche per mancanza di fondi. E i magistrati? Tutti assolti? Ma niente affatto, risponde Ferrarella. Il quale non fa sconti a nessuno. E se riconosce qualche buona ragione a chi tende a inquadrare certi ritardi «nel contesto», contesto che è «il migliore avvocato difensore » del giudice sotto accusa, non manca di denunciare assurdità che gridano vendetta. Possibile che perfino chi si «dimenticò » in galera 15 mesi un immigrato se la sia cavata con una semplice censura perché «era la prima volta»? Che non abbia pagato dazio neanche chi ha depositato sentenze «riguardanti cause decise più di sette anni prima»? Che 3.612 istruttorie aperte per accertare la responsabilità delle «toghe» in 3.612 casi di indennizzo per processi troppo lenti si siano concluse con 3.612 assoluzioni?

Gian Antonio Stella
22 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 24, 2008, 09:35:56 am »

Venti mesi di «maggioranza sexy»

Romano e le liti, dagli spinelli a Bush

L’ottimismo contro tutto: «Mediazioni? Mai. I comunisti? Folklore. E Mastella sarà una sorpresa»


«Fine de’a gita». Gli ultimi ed esausti respiri del governo Prodi, con quel malinconico applausino nell’aula deserta alla lettura dell’inutile fiducia ottenuta alla Camera, fanno venire in mente al diessino Gianni Cuperlo uno striscione allo stadio di Treviso all’epilogo dell’unica avventura in A chiusa con 23 sconfitte: «Fine de’a gita». Mai si era visto, in realtà, un gruppo di «gitanti» così rissoso. Fin dall’inizio. Da quella interminabile notte in cui, stremato dalla delusione per la «vittoria mutilata», quella vittoria che i sondaggi per mesi avevano dato come larghissima ed ora si rivelava sottile come carta velina, il Professore era apparso per dire: «Le elezioni le abbiamo vinte. Di un soffio, ma vinte». Al diavolo i dubbi e le offerte berlusconiane di una grande coalizione: «Posso governare cinque anni. La legge me lo permette». E via così. Con le citazioni di Bush che perfino al momento di decidere la guerra in Iraq (pur contando su un certo consenso trasversale) aveva al Senato un solo voto in più dei democratici e quelle di Churchill e Adenauer e «tanti altri che avevano un solo voto di maggioranza». E guai a ricordare che qui da noi la situazione era diversa perché dalle altre parti non capita che una coalizione sia costretta a contare sulla salute di sette senatori a vita: «Come va, caro, quel dolorino al nervo sciatico? ». Lui tirava dritto. Facendo coraggio a se stesso per far coraggio agli altri. Certo di durare? «È una squadra, la nostra, coesa e omogenea, dureremo cinque anni».

Proprio sicuro? «C’è l’impegno di tutti affinché questa coalizione vada avanti nei prossimi cinque anni. La coalizione è questa. Non cambia. Dura l’intera legislatura». E le risse interne? «Ogni motore va collaudato, vi assicuro che fra poco si sentirà armonia, come a sentire una Ducati o una Ferrari. Una Feraaaaari! ». E l’incapacità di decidere? «I ministri non possono esprimere opinioni, debbono esternare le decisioni, le conseguenze e le implementazioni ». E il rischio quotidiano di una caduta? Al che, lui allargava le mani come un Cristo Pantocratore per abbracciare nella benedizione tutti gli elettori delle circoscrizioni estere: «Abbiamo avuto l’incarico di governare dagli elettori di cinque continenti. Quindi governeremo». Il giorno dopo la vittoria uscì di casa a Bologna, per la sgroppatina quotidiana sotto i portici con una tuta azzurra attillatissima con scritto «Italia» sulla schiena e sprizzava il buonumore di chi era convinto che l’impresa più difficile, vincere le elezioni, fosse stata compiuta: il resto, bene o male, sarebbe stato meno complicato. Del resto, aveva già spiegato a Giampaolo Pansa come vedeva il futuro: «A me non piace mediare. Voglio governare. Ogni volta che si riunirà il Consiglio dei ministri, non si discuterà, ma si deciderà». Sì, ciao. Una tensione dopo l’altra. Tutti i giorni. Sulla scelta di confermare la decisione berlusconiana di concedere agli americani l’aeroporto «Dal Molin», con Massimo D’Alema che diceva che «una retromarcia sarebbe stata letta come un atto ostile» e Manuela Palermi, capogruppo dei comunisti italiani in Senato, che tuonava: «Il governo deve dire no».

Sulle impronte digitali, che Luciano Violante invocava contro i clandestini che si cancellano i polpastrelli e Paolo Cento avversava perché «invece di fare leggi per acchiappare i potenti che evadono e che delinquono ce la prendiamo con qualche povero diavolo di immigrato ». Sulla droga, col ministro Livia Turco da una parte e la mamma Turco Livia dall’altra: «Il più stupefatto, quando ho aumentato la dose minima consentita per uso personale, è stato mio figlio. Mi ha detto: "Mamma, non ti capisco". Gli ho detto: "Adesso ti spiego: come madre, se provi a farti uno spinello ti riempio di botte". Poi c’è la mia posizione come ministro. Gli ho domandato: "Secondo te è giusto che un tuo compagno di scuola al quale i genitori non hanno fatto una capa tanta come tuo padre e io l’abbiamo fatta a te, e che magari pensa che fumare uno spinello non sia pericoloso, corra il rischio di venire arrestato?». Una via crucis. Nella prima stazione si contempla... Nella seconda... Per venti mesi, in mezzo ai flutti, agli scossoni, agli uragani, alle grandinate, Prodi non ha perso occasione per sottolineare d’esser il perno di tutto. Ironico: «Berlusconi dice che domani cadiamo? Lo dice tutti i giorni...». Tranquillo: «Sono sereeeeno. Fermo e sereeeeno». Sicuro: «Il nostro è un governo seeerio e coeso, coeso e seeerio!». Le bufere sui costi della politica? «Mo quello è un tema che ho inventato io! Entro giugno vareremo un disegno di legge!». Perplessità sull’obesità di un esecutivo di 102 persone? «Abbiamo dovuto cedere qualcosa... Ma nei punti chiave ho deciso io: Amato agli interni, Padoa Schioppa all' economia, D’Alema agli esteri... Squadra buonissima!».

E Mastella alla Giustizia? Rispondeva ficcandoti il dito indice nelle costole per rafforzare il concetto: «Io dico che Mastell a s a r à una s o r p r e s a . Una sor-pre-sa!». «Ma c’è o ci fa?», si chiedevano i corrispondenti esteri che non capivano fino a che punto questo suo marmoreo ottimismo fosse un modo per caricare gli amici e irridere agli avversari o se ci credesse davvero. Il massimo lo diede quando l’inviato del tedesco Die Zeit gli chiese: «La nostra signora Merkel fa già fatica a guidare una coalizione di due soli partner. Ci spieghi come farà a tenerne insieme nove ». E lui: «All’interno dei vostri due partiti di coalizione esistono quaranta diverse correnti, non solo nove! I tedeschi, mi perdoni la franchezza, hanno impiegato molto più tempo a stringere il patto di coalizione rispetto a noi. Ci hanno messo due mesi! In un mese io ho fatto eleggere i presidenti delle due Camere, un presidente della Repubblica, formato il governo e superato il voto di fiducia. Siamo italiani, ma mi sembra che da voi il tutto proceda con molta più fatica. Noi abbiamo solo più folklore, Rifondazione Comunista, i Comunisti Italiani...».

 Mai una concessione a chi gli ricordava come il suo governo fosse sempre sull’orlo della crisi. Anzi, un giorno con Gianni Riotta si permise una battuta che gli sarebbe stata rinfacciata: «Ci sono stati quattro casi di coscienza sull’Afghanistan, è vero. Ma siamo ancora qui, mi pare. Avessimo vinto le elezioni con più agio sarebbe stato più facile ma così è più thrilling, c’è più avventura. Vuole la verità? È più sexy!». Dieci anni fa, nel 1998, andò uguale: sorrise dell’ipotesi di andarsene fin quasi all’ultimo. Sempre ottimista a costo d’apparire giulivo: «Non è ancora l’epoca delle vacche grasse ma la stiamo preparando!», «Abbiamo l’attivo primario più alto del mondo!», «Ho il fiato corto? Durerò vent’anni! », «Problemi? Sono come quel personaggio del Carosello, "Ercolinosempreinpiedi". Solo che lui dondolava e io no». Anche ieri sera, mentre dai banchi del governo si avviava verso l’uscita, assicurava agli amici che lui non dondolava: «Andiamo fino in fondo». Anche molti dei suoi però, ieri sera, hanno spento la luce sospirando sullo slogan ulivista della campagna vincente di due anni fa e un millennio fa: «Domani è un altro giorno».

Gian Antonio Stella
24 gennaio 2008

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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 25, 2008, 04:52:25 pm »

Cusumano e gli altri, l'aula è un'arena

Applausi ai «traditori» Clemente e Lamberto


C'è è chi insulta, chi sputa, chi sviene, chi urla, chi avvampa, chi sbanda, C'è chi mena: se Romano Prodi voleva sbattere la porta mostrando agli italiani come un Parlamento possa trasformarsi in un rissoso bordello in cui strillano cesso e checca e merda, ce l'ha fatta.

Se invece sperava sul serio di portare (politicamente) a casa la pelle, gli è andata perfino peggio di quanto temesse. E sotto le macerie del suo governo, o se volete delle sue macerie personali, rischia ora di restare l'intera sinistra. Non ha voluto sentire ragioni, il Professore. Non i consigli di Giorgio Napolitano, che dal Quirinale gli aveva detto che forse non era il caso di sfidare il mondo intero sull'alternativa secca «o con me o contro di me».

Non gli ultimi avvertimenti, quasi accorati, di chi come Domenico Fisichella lo implorava: per favore, non costringermi a votarti contro. Non le invocazioni dei compagni di viaggio, preoccupatissimi all'idea di una sorta di ordalia parlamentare dopo la quale sarebbe stato difficilissimo tentare ricuciture capaci di evitare un'immediata corsa alle urne con l'Unione in pezzi, Walter Veltroni scardinato dal piedistallo sul quale era stato issato dalle (per quanto contestate) primarie e questa legge elettorale. Non le parole sferzanti di avversari come Francesco D'Onofrio: «Lei ha fatto un discorso livido questa sera, livido contro parti della sua maggioranza, livido contro quest'Aula». Niente da fare. Voleva cadere così, in Parlamento. Con la conta. Ed è caduto. «C'è qualcosa di magico, nella caduta», disse un giorno Giuliano Ferrara. E forse l'ormai ex presidente del consiglio è convinto davvero che un giorno, chissà, anche questa sua scelta verrà rivista col senno di poi come una solenne prova di fedeltà alle istituzioni. Di dignità. Di ossequio alle regole. Fino all'ultimo. Ma il «modo» in cui è andata la giornata di ieri, i toni, le parole, i sudori, le beffe («Lei, Presidente, prenderà tutte le ecoballe della Campania su di sè e con esse andrà a casa») hanno offerto l'impressione di una cosa diversa. Come se il Professore non fosse uscito solo battuto, cosa messa nel conto. Ma fosse stato sottoposto a una specie di «luxtratio simplex et tecnilocolorata». La «lezione» a base di pittura sulla faccia e sui capelli e sui vestiti, che gli studenti più anziani come lui infliggevano alle matricole in quegli anni Cinquanta in cui studiava alla Cattolica di Milano dove era stato avviato dal professore di italiano al Liceo che si chiamava Ermanno Dossetti, il fratello di Giuseppe.

C'è chi dice tra i suoi amici, come Angelo Rovati, che no, quello di ieri non è stato un atto di superbia intellettuale e politico da parte di chi ha dato mostra di essere talora po' ganassa («E-si-go!», «Parlo solo io!», «Ci metto un po' a decidere, ma poi vinco: ho sempre vinto») e si era convinto di essere l'unico collante capace di tenere insieme i cattolici e i trotzskisti, gli anticlericali e i focolarini, i gay esuberanti e le cattoliche penitenziali col cilicio ma piuttosto l'ultimo gesto di «amore per le istituzioni ». C'è chi invece, come Roberto Castelli, arriva a paragonare l'orgogliosa rivendicazione dei meriti del governo battuto («Mi rendo conto che il paragone per alcuni versi è ardito, perché allora eravamo in presenza di un'enorme tragedia e oggi alla più classica delle commedie all'italiana») al discorso di Mussolini al Lirico nel dicembre 1944: «Quando disse: "Qualunque cosa accada, il seme è destinato a germogliare" oppure "Il mio lavoro sta producendo ogni giorno frutti e sono certo che ne darà in futuro"». Certo è che il passo d'addio di quello che è stato per una dozzina di anni il punto di riferimento di una metà degli italiani, da quel giorno del '95 in cui Massimo D'Alema si alzò dalla terza fila del Teatro Umberto per incoronarlo («Lei è una persona seria e noi abbiamo deciso di conferirle la nostra forza »), è stato occasione per scattare istantanee indimenticabili. Che hanno mostrato come il Parlamento sia sul serio lo specchio del Paese. Nel bene e nel male. Ecco la piccola vanità intellettuale del professore Fisichella, che ammette certo di essere stato candidato dalla Margherita e di essere perciò grato a Rutelli ma aggiunge piccato «mi permetto di ricordare che non ero e non sono un tizio qualunque cui viene regalato un seggio parlamentare». Ecco il tormento comunista di Franco Turigliatto, che spiega che proprio non può, lui, votare per un governo come questo dopo che «la Sinistra ha ingoiato tutto senza riuscire ad ottenere nulla» al punto che «la crisi si materializza nella forma più politicista espressa dalla rottura dell'Udeur».

È stravolto, il trotzkista piemontese. E ancora più stravolto sarà al momento del voto, quando il suo «no» verrà accolto da urla di gioia e di approvazione dai banchi di tutti quelli che lui non sopporta. Applausi beffardi. Che sa gli verranno rimproverati al ritorno a Torino, da dove il capogruppo regionale dei comunisti italiani gli ha già fatto avere via Ansa il benvenuto: «Turigliatto: il miglior amico di Confindustria, chiesa e americani. Presto tornerà nella sua Torino e potrà fare solo danni minimali alla classe lavoratrice». Ecco gli slanci retorici del neo-democristiano Mauro Cutrufo che, forse per mostrarsi degno della laurea (taroccata) che sbandiera honoris causa alla «University of Berkley» (da non confondere con la vera Berkeley: tre «e») spiega a Prodi: «Ammiriamo la sua caparbietà e la volontà di una parlamentarizzazione della crisi, tuttavia, nel concreto e per il Paese, ha consentito solamente che si potesse mettere in scena una plateale morte del cigno: come il cigno, orgoglioso, sicuro dei propri mezzi e del proprio potere, ha provato strenuamente quanto inutilmente a dibattersi, ma le fauci della volpe che si nascondeva proprio tra le fila della sua maggioranza... ». E come dimenticare l'intervento di Francesco Nitto Palma? Timoroso che i colleghi abbiano scordato che un tempo fu magistrato, il senatore azzurro sversa sentenze latine una dietro l'altra. Meglio: parte col francese («"Après moi, le déluge!", "Dopo di me, il diluvio!", che mi auguro per lei la storiografia assegni a Luigi XV invece che a madame Pompadour »), poi si sfoga: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur», «obtorto collo», «Acta est fabula », «Acta est tragedia»... E la rifondarola Rina Gagliardi? Dopo avere implicitamente chiesto scusa al Professore di averlo fatto cadere dieci anni fa riconoscendo le buone ragioni di chi allora non era d'accordo («il futuro si prospetta, ahimè, molto peggiore del pur non splendido presente») la senatrice comunista non trova di meglio che affidarsi, in qualche modo, al buon Dio.

E «sperare nel miracolo che quest'Aula stasera dia la fiducia a questo Governo». Il meglio però, arriva quando parla Nuccio Cusumano. Siciliano di Sciacca, figlio come Pierluigi Bersani di un benzinaio, è un parlamentare di lungo corso, giacché entrò in Senato nel 1992, quando apparteneva alla Dc di Salvo Lima, ma è vistosamente emozionatissimo. Sbanda, si accartoccia, riprende fiato, va in affanno, si arrabatta in analisi sulla «complessiva ripartenza rispetto ad un quadro sfilacciato ed appesantito vistosamente dalle permanenti e intense iniziative dell'opposizione» e finalmente, dopo essersi lagnato di quei maligni che hanno confidato ai giornali che lui starebbe sul punto di piantare Mastella per restare fedele al governo a causa di un piacerino fatto a Filippo Bellanca, il suo segretario tuttofare, finalmente si decide: «Scelgo in solitudine, scelgo con la mia libertà, scelgo con la mia coerenza, senza prigionie politiche, ma con l'esaltante prigionia delle mie idee, della mia probità, scelgo per il Paese, scelgo per la fiducia a Romano Prodi». Non l'avesse mai detto! Dai banchi di An, elegantemente agghindato con un maglione rosso buttato con studiata nonchalance sulle spalle della giacca come il suo grande amico Franco Zeffirelli butta le sciarpe e i foulard, salta su Nino Strano. Che urla: «Cesso! Sei un cesso! Cesso!». E poi «Merda! Sei una merda! Merda!». Franco Marini tenta disperatamente di calmare gli animi sbattendo la capanella: «Colleghi senatori! Colleghi senatori!» L'assemblea è un inferno. «Checca!», strilla Strano, «Checca! Checca! Sei una checca squallida!». In quel momento scatta Tommaso Barbato, il capogruppo Udeur che si fionda sul collega ribelle urlandogli: «Vergogna! Vergogna! ». C'è chi giurerà: «Gli ha sputato. Uno sputo alla Totti». Sputo tentato o sputo consumato? «Consumato, consumato!», conferma Gerardo D'Ambrosio: «Consumato e aggravato». Cusumano sbianca, si piega su un fianco, si accascia... «Sta male!», urla qualcuno. «Fate largo, sono un medico», si offre un vicino senatore.

E via così, tra urla belluine. Destinate a ripetersi al momento del voto. Quando il «traditore», masticando una gomma americana per ostentare d'avere recuperato la padronanza di se stesso, passerà sotto la presidenza per dire il suo «sì». A proposito: «traditore» chi? Eh già, negli applausi e nei fischi finali c'è infatti una piccola contraddizione. Fischi e schiamazzi e insulti a Cusumano. Boati di entusiasmo per Lamberto Dini e Franco Turigliatto e Clemente Mastella e Domenico Fisichella che votano contro il governo nel cui nome erano stati eletti. Bizzarrie della storia. L'esatto contrario di quanto accadde dieci anni fa. Quando lo stesso Mastella e quelli come lui che avevano deciso di spostarsi a sinistra per far nascere il governo D'Alema, furono investiti da un uragano: «Ma come! Contro il popolo che li ha eletti! Contro chi li ha votati!». Il più sobrio fu Gianfranco Fini: «Siete dei puttani». Il più bellicoso Gianfranco Micciché: «Saltimbanchi, truffatori, massoni, boiardi, vermi!» Un'incoerenza? Boh, dettagli... «Prodi, accattate sta mortadella!», grida felice Nino Strano mangiandosi una bella fetta di roseo salume. E ammicca: «Io a Cusumano non volevo mica offenderlo chiamandolo checca. Sono quarant'anni che danno della checca a me... L'offesa era "checca squallida". Squallida...».

Gian Antonio Stella
25 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 05, 2008, 09:09:44 am »

Binetti, Turigliatto e il popolo ulivista tra i protagonisti

Tormenti e poi tradimenti

La legislatura dei tre cilici

Dalla lite Luxuria-Gardini alle lacrime di Cusumano


E chi se la scorda, questa legislatura dei tre cilici? Breve ma intensa. Penitenziale e insieme sadomaso. Ruotata tutta intorno a tre sofferenze. Il cilicio di Paola Binetti, il cilicio di Franco Turigliatto, il cilicio del 
Vladimir Luxuria (Ansa)
popolo di sinistra. Tre cilici diversi. Portati con spirito diverso. Paola Binetti, psicologa vicina all'Opus Dei, convinta che l'omosessualità sia «una malattia da curare», sarà ricordata soprattutto per la sua invocazione al cielo quel giorno in cui si apprestava a negare la fiducia al «suo» governo piuttosto che votare l'articolo che puniva chi «incita a commettere o commette atti di discriminazione» fondati su religione o tendenze sessuali: «Mi auguro solo che lo Spirito Santo scenda su quest'aula perché non so proprio se, alla fine, potrò votare il decreto». Votò contro. Decisa a sopportare fino in fondo le ironie dei compagni della maggioranza intorno a un paio di interviste in cui aveva confidato di dormire su una tavola di legno e di portare appunto il cilicio: «La vita di ognuno di noi è esposta a prove e difficoltà e ci vuole un certo "allenamento". Le privazioni, lo spirito di mortificazione, un domani mi aiutano ad affrontare cose più grandi».

E fa male? «Non più che portare il busto come facevano le donne in altri tempi. O girare in inverno con l'ombelico di fuori». Sempre meglio, aveva precisato successivamente, «che i tacchi a spillo». «Il sadomasochismo è un modo di godere. Purché ci sia libera scelta», commentò feroce Franco Grillini, storico leader gay e deputato della stessa Unione. E mai come in quel momento, in un Paese come il nostro che vede atei devoti come Marcello Pera corteggiare il Papa e cristiani ricchi di fede come Oscar Luigi Scalfaro battagliare in difesa della laicità, si è visto quanto fosse assurdo tenere insieme tutte le anime di un centrosinistra che per anni, all'opposizione, s'era illuso che per fare squadra bastasse l'antiberlusconismo. Come se questo potesse tenere insieme un teorico delle liberalizzazioni come Pierluigi Bersani e un no-global come Francesco Caruso, capace di portare alla Camera due finte molotov e marchiare Tiziano Treu e il povero Marco Biagi come «assassini». Il cilicio di Franco Turigliatto era un cilicio autoflagellatorio sul genere di quello di Mara «d'Arco» Malavenda, la pulzella rossa di Pomigliano, che per il senso di colpa di chiamarsi Assunta tra i disoccupati aveva cambiato nome e nella legislatura ulivista scaricava in Parlamento decine di migliaia di emendamenti tesi a intralciare il governo della sinistra «borghese» traditrice del proletariato. Affetto da sensi di colpa operaisti dolorosi come una colica addominale e più cupo di un vedovo in lutto stretto, Turigliatto fu il primo ad abbattere Prodi, sparandogli contro sulla missione di pace in Afghanistan. E spiegò tra i sospiri a Jacopo Jacoboni de La Stampa che lui non poteva porsi il problema della precarietà del governo: «Non ho mai avuto uno stipendio regolare, io. La pensione non l'avrò neanche, credo; quella vita senza certezze la conosco bene perché l'ho vissuta su di me». Al che, perfida, arrivò una lettera del rifondarolo Rocco Papandrea che spiegava come il compagno, dopo aver lavorato al Comune di Torino «con un contratto dirigenziale », fosse stato sistemato in Regione fin dal '99: «Fui io ad assumerlo e firmare il contratto...».

Espulso dal partito, sospirò. Durissimo, purissimo, levissimo. Come nel '98 lo erano stati i trotzkisti di Livio Maitan: «Oooh! Erano decenni che aspettavo di abbattere un governo borghese!». Il terzo cilicio l'ha portato per due anni, patendo e sanguinando a ogni stazione del calvario, dalle spaccature sulla base di Vicenza a quelle sui Dico, il popolo ulivista. Quello che aveva riempito il Circo Massimo con Cofferati ed era andato entusiasta a votare alle primarie per Prodi e per anni aveva sognato «un grande governo» come quello promesso dal Professore per ritrovarsi con una maggioranza scheletrica e un governo grasso. Di cotica pesante. Così obeso, con quei 102 ministri e viceministri e sottosegretari, da imbarcare panchinari della politica provinciale come il mitico Pietro Colonnella, che si vantava sul sito governativo d'essere stato protagonista, come presidente della Provincia ascolana, dell'«apertura del Traforo di Forca Canapine» e dell'avvio dei lavori per il «polo scolastico del Pennile di Sotto». Come dimenticarle, certe istantanee? Fausto Bertinotti che, eletto presidente della Camera, solca il Transatlantico tra un'ala di commessi come non avesse fatto altro in vita sua e si installa dedicando la vittoria «alle opevaie e agli opevai ». E poi lo schiamazzo a Montecitorio di Elisabetta Gardini, che esce stravolta dai bagni femminili, dopo averci incrociato la deputata transgender Vladimir Luxuria manco se l'avesse palpeggiata un maniaco: «Sono entrata, l'ho visto e l'ho vissuta come una violenza, una violenza "sessuale", mi sono proprio sentita male». Per non dire di Clemente Mastella, che appena conquista la poltrona di ministro della Giustizia («Vedrete», confida Prodi ai cronisti, «Sarà una sorpreeesa! ») prende di petto la catastrofe di dieci milioni di processi arretrati spostando la sede della scuola superiore per la magistratura da Catanzaro alla «sua» Benevento. Nobili motivi: «Avere la presenza di 2500 magistrati ogni settimana significa persone che vengono qua. Alloggeranno negli alberghi della città, mangeranno nei ristoranti della città, andranno a cena... Un indotto interessante... Qualcuno comprerà un vestito, comprerà una camicia, comprerà un prodotto dell'artigianato locale...».


 E come scordare Sergio De Gregorio? Neanche il tempo d'essere eletto tra gli anti- berlusconiani diepietristi e, in cambio della poltrona di presidente della Commissione Difesa, diventa un berlusconiano di ferro e mette a disposizione del nuovo capo il suo micropartito, «Italiani nel Mondo», nato dal commercialista cambiando la ragione sociale di un grossista di ombrelli e pellami. E Luigi Pallaro? El hombre de la pampa, arrivato direttamente dall'Argentina, si presenta con un misterioso paso doble: non è di destra, non è di sinistra, che farà? «Non butterò mai giù io un governo». E il giorno della mancata spallata sulla politica estera mantiene la promessa. Regalando a Francesco Storace l'opportunità di una battuta: «Du' ggiorni perzi a parla' der monno e bbastava chiede' a Pallaro: 'a Palla', che voti?». E resterà la legislatura di Vincenzo Visco, accusato d'essere un «Vampiro delle tasse» e di avere rimosso il generale Roberto Speciale non perché si faceva portare sulle Dolomiti i branzini appena pescati ma perché insisteva a volere indagare sul caso Unipol. E quella delle polemiche sui costi e i privilegi della politica, polemiche ereditate dal passato ma ravvivate da episodi come quello di Gustavo Selva che, per aggirare il traffico bloccato e raggiungere La 7 per una comparsata, al posto di un taxi prese un'ambulanza. E quella delle risse volgarissime su Rita Levi Montalcini e gli altri senatori a vita, bollati da maturi settantenni come «senatori pannoloni». Insomma, una legislatura tragica e ridicola, drammatica e insensata, di buone volontà e esasperanti furbizie, di virtuosi risparmi e sventurati sprechi. E chiusa così come si doveva chiudere. Con quello svenimento in diretta dell'ex mastelliano Stefano Cusumano, crollato su un fianco tra gli insulti e gli sputi come l'avesse fulminato Giove pluvio. Un colpo di teatro perfetto, per un teatrino.

Gian Antonio Stella

05 febbraio 2008
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 09, 2008, 11:48:51 am »

Andata e ritorno: Gli alleati del Cavaliere tra insulti e marce indietro

Lambertow e gli altri, Silvio perdona tutti

Due mesi fa Fini diceva del partito unico: altro che teatrino, siamo alle comiche finali


«Vabbe' che l'Italia è il Paese del trasformismo ma tutto ha un limite», sbottò Berlusconi all'idea che Dini voltasse gabbana. Gli amici di destra, però, si rilassino: la frase non è di ieri.

E il Cavaliere non ce l'aveva, ovvio, con il «Lambertow» che ieri è accorso nel nuovo Pdl passando dopo 12 anni da sinistra a destra, ma con il «Lambertow» che passò da destra a sinistra.

Si sa: chi se ne va è un ributtante opportunista, chi arriva un amato figliol prodigo. È la politica, baby. Certo, a sinistra c'è chi dirà che solo una manciata di settimane fa l'ex ministro degli esteri di Prodi, D'Alema e Amato aveva fondato il suo movimento liberaldemocratico spiegando che si collocava «naturalmente nel centrosinistra ». E chi ricorderà come lo stesso Cavaliere avesse a suo tempo marchiato Dini come «il maggiordomo di Scalfaro» che mascherava «il governo dei comunisti», Francesco D'Onofrio come «un ermafrodito» sulla via di diventare «transessuale», Umberto Bossi come un burattino in mano alle sinistre e Gianfranco Fini come «il ventriloquo di D'Alema». Ma perché rinvangare? Bentornato, Lambertow! La sinistra, del resto, sospettava che sarebbe finita così dai tempi in cui Cuore, per dare il benvenuto all'ex ministro del Tesoro berlusconiano, aveva intonato: «Compagni, dai cambi e dalle officine...».

La nascita anche a destra di una nuova forza politica per semplificare come il Pd a sinistra un panorama da incubo, con 157 partiti registrati (o 158 con quello di Bruno Tabacci: ma ormai anche gli appassionati hanno perso il conto) ha questo di buono: costringe i cacicchi a decidere. Dentro o fuori. A costo di mettere da parte certe contrapposizioni, certe forzature, certi insulti che mai come ora appaiono curiosi. Prendete Alessandra Mussolini.

Accusò Berlusconi di averla «accoltellata nella schiena» e piantò in asso Fini fondando un partitino suo («Ha osato definire il fascismo, cioè mio nonno, male assoluto! ») irridendo agli ex camerati «neo-democristiani che scodinzolano davanti alla porta del Ppe per un lasciapassare nel salotto buono».
Ieri, contrordine camerati: «Va reso merito a Berlusconi e Fini dello sforzo per tentare di dare corpo e sostanza a qualcosa che sembrava un sogno irrealizzabile, ora vicino a diventare realtà». E gli scodinzolanti del Ppe? Boh...

Il Cavaliere sorride. L'ha sempre detto, lui, che vorrebbe andare d'accordo con tutti: «Per non litigare mi posso fare concavo o convesso ». E pur avendo denunciato mille volte il ribrezzo per un certo teatrino della politica («Torno a Roma, torno nella cloaca »), ha imparato da un pezzo come gira. Ai tempi in cui il leader della Lega lo chiamava «Berluscaz», Fini confidò: «Silvio odia Umberto con tutto il cuore, io non so odiare quanto odia lui». Deciso a vincere, però, si fece davvero concavo e convesso: «Per tornare con Bossi abbiamo dovuto gettarci dietro le spalle tante frasi spiacevoli. Solo io con lui avevo 18 cause giudiziarie ». E se era riuscito allora a gettarsi alle spalle insulti come «suino Napoleon» o «cornuto delinquente», poteva avere puzze sotto il naso con l'amico Gianfranco? È vero, dovranno ammettere entrambi che il passaggio dalla rissa all'abbraccio è stato svelto. Solo due mesi fa, come ricordava giorni fa Francesco Storace (seguito ieri da Teodoro Buontempo, che ha messo in guardia il Cavaliere dal fidarsi «dei cavalli di Troia che aspettano solo di indebolire la coalizione ») la decisione di Sua Emittenza di salire sul predellino della macchina per tenere il «proclama di San Babila» annunciando la nascita del nuovo partito, era stata accolta dal leader di An con irritazione: «Comportarsi nel modo in cui sta facendo Berlusconi non ha niente a che fare con il teatrino della politica: significa essere alle comiche finali. Da queste mie parole, volutamente molto nette, voglio che sia a tutti chiaro che, almeno per quello che riguarda il presidente di An, non esiste alcuna possibilità che An si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi». E giorno dopo giorno la collera era sembrata montare, fino a fargli dire: «Io sono il presidente di Alleanza nazionale, non una pecora». Traduzione: non entro nel gregge di nessuno.

Va da sé che, plaudito alla pace rapidamente fatta dopo la caduta di Prodi, anche i tifosi dell'idea di una lista comune si sarebbero aspettati che l'annuncio di un accordo venisse dato questa volta insieme. Tutti e due. Alla pari, o quasi. Macché. Il Cavaliere non solo è salito su un secondo predellino, quello della trasmissione Panorama del giorno condotta da Maurizio Belpietro su Canale 5, ma ha dato lui la notizia anche del consenso dell'amico Gianfranco. Al quale non ha lasciato che il compito di assentire: «Condivido la proposta di Berlusconi di dare al popolo del 2 dicembre, al popolo delle libertà un'unica voce in Parlamento... ».

E chi lo guiderà, questo popolo? Un consolato con due consules? Un presidente e un segretario? Un condottiero unico a staffetta? E Fini, dopo essere stato per venti anni il numero uno della destra, che peso avrà dentro questo contenitore più grande? Si vedrà...

Il rapporto tra i due, in realtà, è sempre stato piuttosto complesso.
Fin da quando Berlusconi, dopo avere sdoganato l'allora segretario missino appoggiandolo prima nella corsa per il Comune di Roma e poi nella fondazione di An, rivendicò l'alleato come una creatura sua: «Si è candeggiato: prima di me era il cavaliere nero sul cavallo nero adesso è il cavaliere bianco sul cavallo bianco».

Un'idea fissa. Ribadita con la sua battuta più famosa: «Sono stato come la fata Smemorina di Cenerentola: erano delle zucche e li ho trasformati in principi». E confermata mille volte con gli ammiccamenti sull'erede, l'eredità, il delfino, il successore... Mettetevi al posto di Fini: è dura, a cinquantasei anni, fare ancora la parte del principino che aspetta che il Re un giorno, quando ne avrà voglia, gli posi la corona in testa. E così l'ha detta, fuori dai denti: «Successore designato per via monarchica da Berlusconi? La monarchia è un'istituzione rispettabilissima ma io sono repubblicano dalla nascita».

 Ma la politica è la politica. E Gianfranco ha già detto come la pensa: «La politica presuppone che i sentimenti personali non siano al centro dell'azione dei partiti. Sono sfere diverse». Avanti col nuovo partito, dunque. E la successione? All'ennesima domanda sul tema, un giorno rispose canticchiando Lucio Battisti: «Berlusconi non è una stella / che al mattino se ne va...».


Gian Antonio Stella
09 febbraio 2008

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