30/5/2012
Ce la faremo da soli con il sorriso
ALBERTO MATTIOLI
Noi, e intendo noi emiliani in generale e noi modenesi in particolare, per il terremoto non siamo attrezzati né dal punto di vista pratico, e lo si è visto, né da quello psicologico. La tragedia non ci si addice. Dici che sei di Modena e subito i collegamenti mentali che scattano sono tutt’altri: motori, tenori, tortellini. Nove volte su dieci, il tuo interlocutore si illumina e ribatte: «Ah, sì, da quelle parti si mangia bene» (in realtà non è più così vero, perché scarseggiano le «rezdore» che sappiano ancora tirare la sfoglia come Dio comanda, ma si sa che il progresso talvolta è regresso. E in ogni caso il luogo comune resta).
Forse per questo clima pazzesco, d’inverno come in Siberia e d’estate come in Amazzonia, e sempre umidissimo, «quel gran pezzo dell’Emilia» (il copyright è di Edmondo Berselli) ha sempre dato alla luce degli spiriti gioviali ma eccentrici, saturnini, bizzarri, spiritosi tendenza nonsense. Modena è l’unica città del mondo dove ci si saluta con un «Addio!» incontrandosi e non lasciandosi. In una letteratura pomposa e trombona come la nostra, intendo la nostra italiana, l’unico grande poema eroicomico l’ha scritto uno dei nostri, intendo nostri modenesi, Alessandro Tassoni. E negli Anni Trenta la mitica collana dei «Classici del ridere» fu pubblicata da un editore di Modena, Angelo Fortunato Formiggini, che poi, lui che era il più modenese dei modenesi, ma aveva commesso il crimine di essere nato ebreo, quando furono promulgate le leggi razziali salì sulla Ghirlandina e si buttò di sotto.
Insomma, ci piace ridere e far ridere. La vita è qualcosa di troppo importante per prenderla sul serio, e troppo corta per non divertircisi. Per questo davanti ai morti, alle case che crollano, alla terra che si apre e che inghiotte la storia e la ricchezza di secoli, più che addolorati e arrabbiati e impauriti restiamo perplessi, sgomenti. Un terremoto, qui? La tragedia, la morte, qui, in questa pianura sconfinata, piatta, bassa, tremolante fra afe e nebbioni egualmente micidiali, non bella ma che a noi sembra bellissima, dove la natura è stata domata, dove non c’è un centimetro di terra che non sia stato lavorato, accudito, piegato dall’uomo per millenni, e dove i confini fra i campi sono ancora quelli della centuriazione romana? Non è solo ingiusto. E’ impossibile, inspiegabile.
E tuttavia nessuno ha il minimo dubbio che ne usciremo. Anche quando facciamo tutt’altro, e ormai facciamo tutti tutt’altro, restiamo dei contadini. Laboriosi e tenaci come tutti i contadini. Nello stemma del Comune, attorno allo scudo con la croce non ci sono i soliti rami d’alloro o di olivo. Ci sono due trivelle, l’attrezzo con il quale si scavavano pozzi e canali (già: ci eravamo sempre detti che, visto che in realtà la pianura galleggia sull’acqua, il terremoto era impossibile. E invece bastava leggere le cronache per sapere che di terremoti qui ce n’erano già stati, e anche peggiori di questo...). Siamo gente pratica, insomma.
Infatti nessuno crede allo Stato, agli aiuti, ai risarcimenti, alla ricostruzione fatta dagli altri, benché poi alla fine questa terra dia all’Italia molto più di quanto ne riceva, quindi sarebbe ampiamente in credito. Tutti invece credono fermamente in loro stessi. Adesso è il momento del dolore, della conta dei vivi e dei morti, di quello che si è perso e di quello che resta. Ma dateci tempo, e credo non ce ne voglia nemmeno troppo, e ricostruiremo tutto. Pregusto il momento in cui, quando dirò che sono di Modena, non mi risponderanno come adesso: «Modena? Ah, sì, dove c’è stato il terremoto», ma come sempre: «Modena? Ah, sì, Ferrari, Pavarotti, si mangia benissimo». E ci faremo una risata. Grassa.
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