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Autore Discussione: VLADIMIRO ZAGREBELSKY  (Letto 28989 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Marzo 20, 2012, 11:30:17 pm »

20/3/2012 - MODIFICHE ALLE LEGGI

Se le richieste dell'Europa sono una scusa

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Non sempre ce lo chiede l’Europa. Nel dibattito politico il rinvio a una supposta richiesta proveniente da una non specificata «Europa», serve spesso a imprimere a una proposta un carattere di indiscutibile cogenza e qualche volta ad allontanare da sé la responsabilità
dell’iniziativa. Ma la formuletta del «ce lo chiede l’Europa» è equivoca se non altro perché non specifica da quale istituzione europea e con quale tipo di provvedimento, la richiesta venga avanzata.

I regolamenti dell’Unione europea si applicano direttamente, alle direttive bisogna dare attuazione, le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione e quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo vanno eseguite. L’altra vasta varietà di prese di posizione di organismi europei richiederebbe sempre precisazioni, anche per verificarne il diverso grado e tipo di effetto vincolante.

Alcuni temi di attuale discussione e contrasto in Italia, per un verso o per altro, rientrano nel genere della (falsa) osservanza di obblighi europei.

Comincerei ricordando che la responsabilità civile diretta dei magistrati è stata introdotta dalla Camera nella legge comunitaria (che dovrebbe riguardare solo l’attuazione di direttive comunitarie) presentandola come la necessaria conseguenza di un obbligo derivante da sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Ma sarebbe bastato - e basterebbe ancora - leggere quelle sentenze per vedere che si tratta di una tesi del tutto inventata. Le due sentenze cui ci si riferisce affermano soltanto la responsabilità dello Stato per la violazione del diritto dell’Unione, anche quando la violazione sia avvenuta per un atto giudiziario. Mentre dal Consiglio d’Europa viene l’indicazione che i magistrati rispondano civilmente solo in via indiretta (nei confronti dello Stato, responsabile diretto) e solo per dolo o colpa grave. Ecco dunque un caso di falsa prospettazione dell’esistenza di un obbligo europeo, che porta a conseguenze addirittura opposte all’indirizzo proveniente dagli organi europei.

Ma anche nel caso della abolizione del delitto di concussione, che sarebbe obbligata da una richiesta «europea» nell’ambito della lotta alla corruzione, c’è un grave fraintendimento. Nel corso del monitoraggio della messa in opera della convenzione contro la corruzione nelle transazioni internazionali, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che non è un’istituzione europea) ha indicato che la debolezza della repressione della corruzione deriva innanzitutto dal meccanismo della prescrizione dei reati, che troppo gravemente incide sulla capacità della magistratura di giudicare, e ha richiesto quindi all’Italia di provvedere a modificarne il regime. Analoga richiesta e messa in mora dell’Italia era già venuta dal comitato di valutazione degli Stati aderenti alla Convenzione penale contro la corruzione del Consiglio d’Europa. Questa quindi la prima, indiscutibile indicazione che è stata data all’Italia. Eco scarsa o nulla finora! Troppi interessi in campo.

Si propone invece di abolire la concussione (il delitto del pubblico ufficiale che abusando delle sue funzioni, costringe o induce altri a versar denaro o dare altra utilità) e si dice che si tratterebbe di un obbligo europeo. In realtà l’obbligo derivante dalla convenzione internazionale cui l’Italia ha aderito è quello di combattere efficacemente la corruzione (nella specie nei confronti di funzionari, ministri ecc. stranieri). La questione della concussione è stata posta perché è sembrato che troppo facilmente (tanto più se i fatti si sono svolti all’estero) gli imputati di corruzione possano difendersi dicendo di essere stati costretti o indotti a pagare per l’abuso che il pubblico ufficiale ha fatto delle sue funzioni. In tal caso è punibile chi ha ricevuto, ma non chi è stato costretto a pagare. E il documento Ocse conclude chiedendo all’Italia di eliminare questo tipo di difesa utilizzata dai corruttori che sostengono di essere stati costretti a pagare. Non quindi l’abolizione della concussione, ma il contrasto al suo richiamo strumentale nel processo. Di questo si tratta e non di altro. La proposta in discussione prevede invece che venga eliminata la concussione dal codice penale e che, come ora avviene, sia il corrotto che il corruttore vengano puniti per il delitto di corruzione, anche quando chi ha pagato sia stato a ciò indotto dal pubblico ufficiale. La condotta di minaccia o violenza del pubblico ufficiale che abusa delle sue funzioni rientrerebbe invece nel delitto di estorsione. Ma anche nel nuovo sistema chi ha pagato il pubblico funzionario cercherà di sostenere di aver pagato perché costretto (estorsione o concussione che sia).

Esattamente come ora si può fare con il delitto di concussione, perché la prova che consente di distinguere la costrizione dalla induzione è difficile e non può che essere valutata dal giudice caso per caso. Una riforma quindi ben poco utile rispetto alle preoccupazioni avanzate dall’Ocse. Una riforma inoltre che, come tutte quelle che maneggiano le previsioni del codice penale, rischia di avere conseguenze imprevedibili nella sua applicazione nei procedimenti penali già in corso.

Ma concludendo va detto che troppo sbrigativamente si usa l’argomento europeo, talora inventandolo, tal altra fraintendendolo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9902
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« Risposta #16 inserito:: Marzo 27, 2012, 07:24:01 pm »

27/3/2012

Anche quella omosessuale è una "famiglia"

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

La carta di soggiorno riconosciuta dalla Questura di Reggio Emilia a un cittadino uruguayano sposato in Spagna con un italiano, è la diretta conseguenza della sentenza del Tribunale che ha annullato il diniego inizialmente opposto.

Il Tribunale ha affermato che il diritto dell’Unione europea, che ha tra i suoi fondamenti la libertà di circolazione nei Paesi membri, implica il diritto a veder tutelata l’unione familiare, così come formatasi nel Paese di provenienza. Il Tribunale ha confermato che la questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso è di competenza dei parlamenti nazionali. Il diritto dell’Unione però disciplina aspetti specifici che sono di sua pertinenza e tra questi quello della libertà di circolazione. La sentenza ricostruisce il diritto dell’Unione e quello italiano conseguente e limita la sua portata ad un aspetto specifico: quello degli effetti sulla nozione di famiglia di un matrimonio (come quello omosessuale ammesso dalla Spagna), in funzione della libertà di circolazione dei cittadini europei nell’ambito dell’Unione. Benché importante, si tratta di questione delimitata.

Ma il Tribunale chiude la sua motivazione con un richiamo che va ben oltre il caso specifico, osservando come «lungi dall’attuare un riconoscimento dello status matrimoniale, la soluzione adottata appaia comunque conforme all’esigenza di dare attuazione al "diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia" riconosciuto all’unione affettiva tra due persone dello stesso sesso dall’articolo 2 della Costituzione». Un diritto riconosciuto dalla Corte costituzionale con una sentenza del 2010 e in linea con quanto affermato dalla Corte europea dei diritti umani. Quest’ultima ha confermato che appartiene agli Stati ammettere o negare i matrimoni omosessuali, ma che le unioni omosessuali (come d’altronde le unioni di fatto eterosessuali) danno luogo a una vita di famiglia, che va rispettata e protetta. Nello stesso senso si è recentemente espressa la Cassazione italiana sviluppando la motivazione di una sentenza con la quale ha negato la possibilità di trascrivere in Italia un matrimonio omosessuale celebrato all’estero. La Cassazione ha affermato che quel tipo di unione, indipendentemente dalla forma matrimoniale che il diritto italiano attualmente non ammette, merita il riconoscimento che deriva dal fatto che essa costituisce una famiglia. E la Carta dei diritti dell’Unione ha voluto espressamente considerare che esistono modi diversi dal matrimonio di costituire una famiglia.

La Costituzione, come la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vieta ogni discriminazione sulla base, tra l’altro, del sesso. Il divieto di discriminazione non equivale però al diritto a un trattamento per ogni aspetto eguale. Ma ogni differenza deve essere fondata su una differenza rilevante della situazione disciplinata. Larga è in proposito la discrezionalità di cui il legislatore può far uso, ma non senza limiti. Vegliano a che non ne abusi la Corte Costituzionale e la Corte europea.

Ecco allora che la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia rivela un respiro che va ben oltre il limitato caso concreto. I giudici nazionali ed europei adottano ormai una linea univoca: che le unioni omosessuali siano o no riconosciute come una forma legittima di matrimonio, è certo che esse non possono essere trattate come un fatto irrilevante. Una serie di aspetti della vita di coppia sono già presi in conto dalle leggi italiane. Il Tribunale cita ad esempio il risarcimento dei danni derivanti dalla morte del compagno, il trasferimento del contratto di locazione, il diritto del convivente omosessuale di astenersi dal testimoniare. Altri diritti verranno fatti valere davanti ai giudici, che dovranno giudicare tenendo presente che in linea di principio il rispetto della vita familiare non può aver contenuto diverso se si tratta di coppia omo o eterosessuale. Giudicheranno interpretando le leggi in vigore, fin dove è possibile farlo in coerenza con i principi affermati, oppure rinvieranno alla Corte Costituzionale l’esame della costituzionalità di quelle leggi. E poi, se i ricorrenti non avranno avuto soddisfazione vi sarà magari anche il ricorso contro l’Italia davanti alla Corte europea dei diritti umani.

I Parlamenti spesso si dimostrano inclini ad evitare di prendere posizione in materie sensibili, che dividono e suscitano emozioni profonde, radicate nella tradizione e nell’abitudine secolare. I giudici invece non possono sottrarsi all’obbligo di decidere le cause che vengono loro presentate. Un poco per volta emerge un orientamento; nel nostro caso un orientamento omogeneo in sede nazionale ed europea. Ma le decisioni dei giudici riguardano ogni volta la sola questione posta e rischiano di non essere costanti e univoche. Da tempo si attende che il Parlamento assuma le sue responsabilità legislative e regoli una buona volta la materia. Piuttosto che piccole specifiche disposizioni, è il momento della disciplina organica. Comunque le si voglia chiamare, si tratta di riconoscere e disciplinare le unioni omosessuali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9929
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« Risposta #17 inserito:: Aprile 17, 2012, 12:01:46 pm »

17/4/2012

Verità e rispetto il dovere degli stati verso le vittime

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Ha suscitato emozione e persino indignazione la sentenza della Corte di Assise d'appello di Brescia nella parte in cui, assolvendo gli imputati della strage di Piazza della Loggia, condanna i familiari delle vittime, costituiti parte civile, a pagare le spese processuali. La gravità del fatto oggetto del processo - ed anche il suo inserimento in una serie di vicende analoghe per natura e per esito processuale - spiega la reazione ed anche l’iniziativa del governo per porre rimedio a quello che è sentito come un aspetto particolarmente ingiusto della sentenza. Una prima impressione potrebbe collocare questa reazione esclusivamente sul piano delle sensibilità morali. Già, se così fosse, si tratterebbe di questione grave. Ma v'è di più. Il rispetto per le vittime (qui sono vittime i familiari di coloro che vennero uccisi) è un dovere giuridico dello Stato, che assume molte forme. Qui non si tratta di un fatto riducibile alla sua dimensione patrimoniale, ma del possibile conflitto con obblighi che lo Stato ha assunto ratificando trattati internazionali in materia di diritti umani fondamentali. Mi riferisco al Patto dei diritti civili delle Nazioni Unite e soprattutto alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Entrambi i trattati impongono agli Stati di proteggere la vita delle persone e di impedire che esse siano vittime di torture o di trattamenti inumani. E l'obbligo dello Stato si estende, dopo che fatti di quel genere si siano verificati, al dovere di svolgere indagini efficaci per identificare e punire i responsabili assicurando alle vittime la possibilità di partecipare alle indagini, esserne informate e ricevere, se possibile, adeguata soddisfazione.

Un tal obbligo, che si dice «procedurale» non per sminuirne l'importanza, ma solo per distinguerlo da quello «sostanziale» di non uccidere e non torturare, è particolarmente grave quando sia messa in discussione la responsabilità di organi dello Stato nella commissione dei fatti o nella copertura dei responsabili. Ed è questo il caso nelle vicende legate alle stragi commesse in quella che è stata chiamata la «strategia della tensione». Lo stesso discorso, riferito all'obbligo dello Stato italiano di indagare e punire, va fatto anche per quel che riguarda il comportamento di forze di polizia nella scuola Diaz a Genova. Ma di ciò occorrerà discutere quando le sentenze saranno definitive. Per ora va solo detto che contro l'Italia pende già un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. E proprio la Corte europea ha ieri pubblicato una sentenza che riguarda i diritti delle vittime. Si trattava di uno degli episodi più bui della guerra in Europa: l'uccisione di oltre 20.000 prigionieri di guerra polacchi nelle foreste di Katyn. Il 1˚ settembre del 1938 le truppe naziste invasero la Polonia. Qualche settimana prima l'accordo Molotov-Ribbentrop aveva previsto la spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia sovietica. E il 17 dello stesso mese le truppe sovietiche entrarono nel territorio polacco. Ne seguì l'annessione di parte della Polonia all'Urss e 13 milioni di polacchi divennero cittadini sovietici. 250.000 polacchi vennero presi prigionieri. Nel 1940, 21.857 di essi, in gran parte ufficiali dell'esercito, vennero uccisi per esplicito ordine di Stalin e del Politburo sovietico. La conferma di quella responsabilità è venuta dai documenti pubblicati dal governo russo dal 1990, da ammissioni dei nuovi dirigenti russi ed anche da una dichiarazione ufficiale della Duma russa nel 2010. Ma per lungo tempo le autorità sovietiche (e, al seguito, quelle comuniste polacche) attribuirono la responsabilità del massacro ai nazisti. Le indagini sulle responsabilità vennero svolte dalle autorità russe solo dopo la caduta del sistema sovietico, ma si conclusero nel nulla, con una decisione di archiviazione del 2004, di cui i familiari delle vittime ancora non hanno potuto avere conoscenza. L'indagine della Procura Militare è stata segretata e vi sono affermazioni di giudici russi che lasciano addirittura aperta l'ipotesi che questa o quella vittima sia in realtà «scomparsa».

Ad una presa di posizione di accettazione della responsabilità politica di Stalin e del partito comunista, non ha fatto seguito, rispetto alle singole vittime, un’attività concreta ed efficace di chiarimento dei fatti, offerta di tutte la informazioni possibili, ricerca dei corpi, riparazione.

L'interesse della sentenza della Corte europea (non definitiva, poiché certo sarà appellata dal governo russo) risiede nel fatto che la Corte ha ritenuto che il comportamento delle autorità russe nei confronti delle vittime (i familiari degli uccisi), ha costituito un trattamento inumano, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La Corte non ha potuto esaminare il fatto in sé della strage, né la mancanza di indagini efficaci sulle responsabilità di singole persone, poiché tutto si è svolto prima che la Russia, nel 1998, ratificasse la Convenzione. Ma in questo come in altri precedenti casi, ha affermato che l'inerzia, il distacco burocratico, la reticenza, il rifiuto di considerare le legittime richieste delle vittime costituiscono una violazione grave, «inumana» dei diritti delle vittime.

Tutte le vicende sono diverse l'una dall'altra e questa storica della strage di Katyn è difficilmente comparabile ad altre, ma le vittime e i familiari delle vittime hanno tutti, allo stesso modo, diritto ad un rispetto effettivo da parte dello Stato. Anche quelle delle stragi che hanno insanguinato per anni la politica e le vite degli italiani.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10003
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« Risposta #18 inserito:: Maggio 02, 2012, 09:26:38 am »

1/5/2012

La roulette russa giudici-lavoro

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Nel dibattito sulle possibili modifiche dell’articolo 18 della legge del 1970, che va sotto il nome di Statuto dei Lavoratori, si è inserito un argomento che, per la sua rilevanza generale, va segnalato e commentato indipendentemente dall’esito che avrà infine la proposta governativa ora all’esame del Senato. La questione riguarda il ruolo del giudice nel decidere l’annullamento di un licenziamento, perché intimato senza giusta causa, con la conseguente reintegra del lavoratore nel posto di lavoro.

Accanto ai motivi di merito portati dalle varie parti attorno all’ipotesi di adottare una «soluzione tedesca», si è accennato anche al tema della affidabilità dei giudici, con quella che potrebbe essere liquidata come una battuta impropria: «Sì ma, i giudici italiani non sono come quelli tedeschi». Non so quanto approfondita sia la conoscenza degli orientamenti e del modo di lavorare dei giudici tedeschi nel loro complesso, ma egualmente, per la realtà italiana, la questione non è liquidabile come se si trattasse solo di una fastidiosa insinuazione.

Il problema invece è della massima importanza e non riguarda solo il diritto del lavoro. La prevedibilità delle decisioni dei giudici è un aspetto fondamentale dello Stato di diritto, che richiede che i diritti e le libertà dei cittadini siano disciplinati dalla legge. La ragionevole certezza che le leggi possono assicurare è però vanificata quando la loro applicazione da parte del giudice è imprevedibile, oscillante, contraddittoria. Anche se è molto raro che una legge sia tanto chiara da escludere più interpretazioni, occorrerebbe che il legislatore producesse leggi che prevengano quanto più possibile le divergenze applicative. Ma ciò spesso non avviene per la difettosa tecnica di redazione o perché, alla ricerca di un accordo, si lasciano aperti e si rinviano alla decisione giudiziaria punti di conflitto politico. Un esempio di questa tendenza negativa si può vedere proprio nella proposta governativa sull’articolo 18, che in una particolare ipotesi sembra legare una diversa disciplina al caso in cui la mancanza della causa legittima di licenziamento sia «manifesta» e a quello in cui manifesta non sia, anche se accertata dal giudice. Una simile previsione è evidentemente destinata a produrre la massima imprevedibilità delle decisioni, su un punto di particolare rilevanza per la parti.

Per portare comunque a un livello sopportabile le divergenze interpretative, soccorrono strumenti processuali conosciuti dagli Stati ben ordinati. Solitamente si ricorre alla forza vincolante delle sentenze della Corte di Cassazione, oppure a varie forme di vincolo nascente dai precedenti derivanti dalle sentenze rese da altri giudici in casi analoghi. Non si giunge mai a una soluzione che elimini ogni incertezza. Rimane comunque un certo tempo in cui le discordanze attendono che il sistema di assesti e giunga a stabilità. Ma ciò che non è accettabile è un’imprevedibilità strutturale e senza rimedio efficace.

Nella materia riguardante la giusta causa nei licenziamenti una recentissima indagine di Andrea Ichino e Paolo Pinotti, pubblicata da La voce, ha reso evidente come, non solo la durata dei procedimenti giudiziari, ma anche e soprattutto i loro esiti siano diversissimi secondo il giudice cui la causa è stata assegnata. E poiché l’assegnazione a questo o a quel giudice è casuale, secondo criteri pressoché automatici, i due autori hanno potuto parlare di «roulette russa», così per il lavoratore che per il datore di lavoro. Cosa che è particolarmente grave quando la decisione sia resa da un giudice singolo e non collegiale e sia immediatamente esecutiva.

Naturalmente un’indagine statistica, che maneggia numeri e non tieni conto delle specificità di ogni caso, va utilizzata per quel che può dare. Le percentuali che sono state estratte dai dati vanno trattate con prudenza. Ma l’esperienza diffusa conferma che l’indicazione non è priva di fondamento e non limitata al campo del diritto del lavoro. D’altra parte, proprio in quest’ultima materia la recente applicazione della norma sul diritto a istituire rappresentanze sindacali - che al lettore sembrerebbe univoca ha mostrato sorprendenti contrasti tra giudice e giudice nel decidere la medesima questione.

Diverse valutazioni dei fatti nella loro specificità sono fisiologiche, poiché dipendono spesso dalla necessità di valutare circostanze e prove su cui è normale che si manifestino opinioni diverse. Il susseguirsi dei diversi gradi del processo - l’appello, la Cassazione - tende a garantire una conclusione motivata e accettabile anche quando opinioni diverse siano plausibili. La questione si presenta però diversamente quando si tratta di interpretare la legge (o il sistema delle leggi) applicabile. In questo caso il coesistere nel tempo di diverse e contrastanti interpretazioni, adottate da questo o da quel giudice, mette in discussione la stessa legge. Nell’assicurare i fondamenti dello Stato di diritto in Europa, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede che la disciplina dei diritti e delle libertà sia definita in modo ragionevolmente conoscibile e prevedibile nella sua applicazione da parte dei giudici. In diversi casi essa ha negato a un testo normativo la qualità di «legge», proprio perché l’applicazione da parte dei giudici era oscillante e imprevedibile, in modo tale che il cittadino era in sostanza alla mercé della decisione dell’autorità pubblica nel caso concreto.

L’impressione è che il fenomeno della discordanza di giudizi siano particolarmente grave in Italia. I giudici sembrano ritenere scarsamente vincolante la giurisprudenza della Corte di Cassazione e accade che persino questa sia incoerente, instabile e incapace di assicurare un’applicazione eguale della legge. E sono deboli gli strumenti processuali destinati a risolvere i conflitti di giurisprudenza. In Francia è stato instaurato un sistema per cui la prima decisione di un giudice su una legge che pone problemi interpretativi importanti, viene subito portata all’esame della Corte d’appello e poi con precedenza all’esame della Corte di Cassazione, perché questa possa rapidamente dire la parola definitiva. Si tratta di un sistema pratico, che suppone però che la sentenza della Cassazione sia poi vincolante per l’insieme dei giudici.

In Italia la cultura professionale dei magistrati esalta la loro individuale indipendenza e mette in ombra il profilo istituzionale del giudizio. Si parla del potere giudiziario come «potere diffuso», come se ciascun giudice ne fosse personalmente depositario. Il valore del precedente, che assicura prevedibilità anche quando non appaia pienamente convincente, è largamente rifiutato e tende invece a prevalere l’autorità della decisione del singolo giudice. E’ un tratto culturale e professionale che, nella sua forza, è specificamente italiano; frutto di una storia svoltasi nel dopoguerra, di liberazione dal peso di una gerarchia conservatrice, insensibile alla novità rappresentata dalla Costituzione repubblicana. Ma quel periodo storico è in Italia da tempo concluso, cosicché le ragioni di un ordinato funzionamento del complesso sistema giudiziario dovrebbero ora prevalere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10051
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« Risposta #19 inserito:: Maggio 29, 2012, 11:05:08 am »

28/5/2012

Fecondazione, cosa divide l'Italia dall'Europa

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Il sintetico comunicato stampa con cui la Corte costituzionale ha dato notizia della restituzione degli atti ai giudici che hanno sollevato questione di costituzionalità del divieto di fecondazione assistita di tipo eterologo (con gameti di persona estranea alla coppia), intendeva certo corrispondere all’attesa ansiosa dei molti che sono oggetto di quel divieto e che speravano che esso fosse levato. Accanto a costoro, ma con speranza opposta, stavano gli altri, che ritengono fondamentale mantenere in Italia quel divieto. E le dichiarazioni rese dagli uni e dagli altri, oltre che le posizioni espresse dai commentatori, hanno spesso riempito di contenuti opposti quelle poche righe di comunicato, interpretando la decisione della Corte alla luce delle proprie speranze.

Ma a ben vedere la decisione interlocutoria della Corte è affatto neutra e non lancia segnali circa il suo orientamento sul merito della questione. Ed è persino possibile che un orientamento non si sia ancora formato e maturi solo quando le eccezioni di costituzionalità della legge 40 del 2004 verranno riproposte e riprese in esame. L’unica cosa che si può ora dire è che la Corte non ha deciso. Si può aggiungere che avrebbe potuto farlo, in un senso o nell’altro, ma non è contrario alla prassi il fatto di restituire gli atti ai giudici remittenti quando nel frattempo si sia verificato un fatto nuovo e potenzialmente rilevante.

Nel caso specifico il fatto nuovo è formalmente di grande rilievo. Tutti i giudici che avevano posto alla Corte costituzionale il quesito di costituzionalità del divieto di quel particolare tipo di fecondazione medicalmente assistita, si erano riferiti anche al tenore di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, richiamandola a sostegno della tesi della incostituzionalità. Ma la sentenza citata non era ancora divenuta definitiva e nel frattempo è stata riformata dalla Grande Camera della Corte. Venuto meno il punto d’appoggio di uno degli argomenti sviluppati dai giudici remittenti, si può comprendere che la Corte costituzionale attenda la riconsiderazione del quadro di riferimento per pronunciarsi sul fondamento delle eccezioni di costituzionalità.

Il fatto nuovo è però solo formalmente rilevante. Nella sostanza invece credo che lo sia ben poco. Le due sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano la condizione di due coppie che, secondo la legge austriaca, non possono ricorrere in patria all’inseminazione eterologa, unico modo per esse di procreare. La legge austriaca applicata a quei ricorrenti non è identica a quella italiana, che prevede un generale divieto di fecondazione eterologa. Non solo, ma la differenza di valutazione che ha portato la Corte europea prima a pronunciarsi nel senso che il divieto ledeva il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e familiare e poi, con la successiva sentenza definitiva, a negare invece che l’Austria avesse violato quel diritto, riguarda il cosiddetto «margine di apprezzamento nazionale» nella protezione dei diritti fondamentali della persona. Un margine che la prima sentenza aveva ritenuto oltrepassato nel caso concreto e che invece la Grande Camera ha giudicato compatibile con il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le particolarità dei diversi casi concreti sono quindi di speciale importanza.

Naturalmente la questione del margine di discrezionalità lasciato ai singoli Stati nella scelta delle modalità di protezione dei diritti e delle libertà che essi hanno «riconosciuto» ratificando la Convenzione europea, è tutt’altro che irrilevante. Per un suo allargamento anzi premono gli Stati per svincolarsi quanto più possibile dal controllo che in sede europea svolge la Corte. Ma ciò che in proposito ha detto la Corte europea nel caso austriaco, non può avere meccanica trasposizione nella situazione italiana. Toccherà invece alla Corte costituzionale valutare se, con riferimento alle norme costituzionali italiane, il complessivo sistema della legge n.40, con i valori e le esigenze che essa esprime, sia equilibrato e proporzionato nella limitazione del diritto individuale al rispetto delle scelte di vita privata e famigliare che si proiettano nelle scelte procreative (quanto alle restrizioni possibili la Convenzione europea richiede che esse siano «necessarie di una società democratica»).

Ciò che invece vincola la Corte costituzionale è il principio di diritto affermato dalla Corte europea, quando ha detto che rientrano nell’ambito della vita privata e familiare protetta dalla Convenzione le decisioni di diventare o non diventare genitori. Si tratta di affermazione che la Corte ha fatto nella prima, come nella seconda e definitiva sua sentenza nel caso austriaco (richiamando anche suoi precedenti in casi relativi all’Irlanda e al Regno Unito). Nello stesso senso si era pronunciata la Corte costituzionale austriaca e il principio non era stato negato dal governo austriaco nello svolgimento della procedura davanti alla Corte europea. E’ difficile immaginare che la Corte costituzionale italiana vada in altra e contraria direzione su questo punto.

Dunque la Corte costituzionale esaminerà la questione del divieto imposto dalla legge italiana in rapporto ai diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e anche in relazione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha già detto la Corte costituzionale va intesa «come interpretata dalla Corte europea». E a questo proposito - se non altro per non esporre l’Italia al rischio di una sentenza di violazione della Corte europea - la Corte costituzionale terrà certo conto dei criteri seguiti in sede europea nella gestione del difficile criterio del margine di apprezzamento nazionale. Nel definire i limiti della discrezionalità nazionale, la Corte europea fa sempre riferimento al «consenso europeo», per come esso emerge dalle legislazioni e dalle prassi dei quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Più chiaro l’orientamento europeo, più ristretto l’ambito della discrezionalità dei singoli Stati nel separarsene, e viceversa. Non solo, ma la Corte europea sottolinea sempre che la sua giurisprudenza è evolutiva e cerca di seguire le dinamiche culturali e sociali che emergono dagli Stati europei. Nel caso austriaco la Corte europea, invitando gli Stati europei a un costante aggiornamento, ha riconosciuto che è evidente una tendenza europea nel senso di autorizzare pratiche di fecondazione eterologa. Un orientamento che non è smentito da differenze riguardo ai limiti alla possibilità di conoscere l’identità del donatore e talora alla diversa considerazione della donazione di sperma maschile o di ovuli femminili. Oggi un divieto come quello posto dalla legge italiana è presente solo in Lituania e Turchia. In questo quadro europeo dovrebbero essere molto forti le esigenze nazionali italiane, per separarsi dall’orientamento che assolutamente prevale in Europa. Tanto più che quel tipo di fecondazione è facilmente disponibile in tanti Paesi a noi vicini e quindi utilizzabile, sol che se ne abbiano le possibilità economiche e pratiche. Il divieto, che si giustificherebbe per la «non naturalità» del procedimento e per l’inusuale rapporto che si instaurerebbe tra il nato e coloro che hanno contribuito a generarlo, resta quindi sterile questione di principio. Essa è imposta da chi la condivide a coppie che già soffrono della infertilità e che vorrebbero realizzare il loro legittimo desiderio di divenir genitori usufruendo, come è garantito dal Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, della possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni».

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10154
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 01, 2012, 03:31:28 pm »

13/6/2012

Le nomine Agcom e il primato del pluralismo

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Sarebbe bene sostituire la misteriosa sigla della Agcom con il suo nome vero, per ricordare la natura e la missione di quella Autorità indipendente, che è istituita «per le garanzie nelle comunicazioni». Essa svolgerà un ruolo decisivo nella assegnazione delle frequenze per le trasmissioni televisive: un ruolo determinante per ciò che vedremo, ascolteremo e sapremo nei prossimi anni. La gravità degli attuali problemi economici, che monopolizzano le attenzioni e preoccupazioni, spinge a vedere solo il profilo economico di questioni che invece riguardano anche altre ed importanti esigenze. E’ significativo che le critiche largamente portate alle recenti nomine dei componenti della Autorità finiscano spesso con il riflettersi solo sulle previsioni di comportamento di questo o quel commissario nelle decisioni che hanno conseguenze economiche sui vari operatori televisivi, attuali o potenziali.

Nessuno, specie di questi tempi, può sottovalutare la portata economica delle decisioni da prendere. Ma essa non deve esaurire l’ attenzione di chi le prende, né la vigilanza della pubblica opinione. In un suo intervento a «Otto e mezzo» de La7, l’altro giorno il segretario del Pd ha menzionato la cacciata «politica» di Santoro dalla Rai come un esempio di inettitudine «economica» da parte di una impresa, che dovrebbe curare i suoi interessi. Difficile nascondere lo stupore: non un cenno al profilo che riguarda la qualità dell’informazione fornita dalla Rai, responsabile del servizio pubblico. Come se, al contrario, non ci fosse stato nulla da dire nel caso in cui il programma cancellato non avesse avuto grande audience. Evidentemente l’unica logica è ormai quella dei costi/ricavi economici.

La informazione, completa e pluralistica è un bene pubblico, condizione fondamentale di una società idonea a far vivere il sistema democratico. Ad essa deve tendere l’opera del Parlamento, del Governo e della Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni. In linea con ciò che prescrive la Costituzione, è ora giunta a ricordarcelo una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Con essa l’Italia è stata riconosciuta in violazione della libertà di espressione e informazione.

Da tempo la situazione italiana è ritenuta allarmante in tutte le sedi europee. Nel 2003 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione, rilevando che il livello di concentrazione del mercato televisivo italiano era il più alto in Europa ed era caratterizzato da un duopolio fra RAI e Mediaset. All'epoca poi entrambe erano sotto l'influenza del presidente del Consiglio. Il Parlamento europeo ha anche notato che il sistema audiovisivo italiano continuava ad operare fuori di un quadro legale, in violazione di quanto stabilito nel 1994 e poi ancora nel 2002 dalla Corte costituzionale.

Il caso italiano deciso dalla Corte europea è straordinario innanzitutto nel suo svolgimento. I governi italiani succedutisi nel tempo a partire dal 1999 sono riusciti a farsi condannare dal Consiglio di Stato, dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e ora infine dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E le sentenze in materia della Corte costituzionale sono andate nello stesso senso, ma sono rimaste ignorate da Parlamento e Governo. Tutti i giudici in terra si sono pronunciati: contro il governo, contro la legge italiana e contro l’applicazione fattane che «aveva favorito gli operatori esistenti a danno dei nuovi, anche se questi erano titolari di concessione, ma si trovavano nella impossibilità di trasmettere per la mancata assegnazione di radiofrequenze». Si trattava della società Centro europa 7, che nel 1999 aveva ottenuto la concessione per l’installazione di una rete televisiva con diritto a tre radiofrequenze atte a coprire l’80% del territorio nazionale. L’attribuzione di quelle frequenze doveva essere fatta secondo le prescrizioni di un «piano di assegnazione», che però fu attuato solo nel 2008. Nel frattempo, mentre si preparava il passaggio alle trasmissioni numeriche, una serie di norme transitorie aveva permesso agli operatori già attivi di continuare a trasmettere occupando le relative frequenze. L’impedimento valeva, infatti, per i nuovi operatori, cui le frequenze non venivano assegnate.

La Corte europea - nella stessa linea seguita da tutti i giudici che sono intervenuti nella vicenda - ha addebitato all’Italia di non avere adottato una legislazione e una azione amministrativa idonee a «garantire un effettivo pluralismo nei media». Non basta infatti l’esistenza di più canali e la possibilità teorica di accedere al mercato audiovisivo. Occorre invece una possibilità effettiva, in modo da «assicurare nel contenuto dei programmi, considerato nel suo insieme, una diversità che rifletta quanto più possibile la varietà delle correnti di opinioni che attraversano la società». Poiché la democrazia si fonda sulla libertà di espressione e richiede il massimo pluralismo delle voci. I media audiovisivi, poi, svolgono un ruolo particolarmente importante, perché la trasmissione di suono e immagine produce un effetto più immediato e potente del messaggio scritto. «Se un gruppo economico o politico potente fosse autorizzato a dominare il mercato dei media audiovisivi, che hanno il potere di far passare messaggi immediati, una simile posizione dominante sarebbe lesiva della libertà di comunicare e di ricevere informazioni e condurrebbe quel gruppo ad esercitare una pressione che restringerebbe la libertà editoriale, mettendo in crisi il ruolo fondamentale della libertà di espressione nella società democratica, in particolare quando si tratti di informazioni e idee di interesse generale, che, d’altra parte, il pubblico ha diritto di conoscere».

La considerazione degli interessi economici, se isolata e insensibile alle esigenze dei doveri e diritti fondamentali, potrebbe spingere ad assegnare tutte le frequenze ad un solo operatore, se solo ce ne fosse uno abbastanza ricco da offrire un prezzo più alto di tutti gli altri. Ma lo Stato deve assicurare il massimo grado possibile di pluralismo nella informazione, anche pagando qualche necessario prezzo economico, specialmente quando «il sistema nazionale è caratterizzato da un duopolio». Ciò vale naturalmente quando si tratti di mettere una pluralità di operatori in condizioni di trasmettere. Ma vale altrettanto quando si considera il «servizio pubblico» cui è destinata la Rai e che essa deve essere messa in grado di svolgere al riparo da pressioni, censure, allettamenti politici o altrimenti forti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10222
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« Risposta #21 inserito:: Luglio 06, 2012, 11:04:55 am »

6/7/2012

Quel delitto che l'Italia non punisce

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

La sentenza della Cassazione conclude sul piano della giustizia penale una vicenda nazionale tra le più gravi. Riferendosi ai dirigenti della polizia e agli agenti che avevano agito nella scuola Diaz in coda alla giornata di proteste contro il G8 del 2001, la Corte di appello di Genova, nella sentenza che ora la Cassazione sostanzialmente ha confermato, aveva parlato di «tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile» e di «enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero».

I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. E’ noto anche che costoro furono minacciati ed umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo ad imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione.

E’ sui fatti gravissimi cui si riferiscono le imputazioni di lesioni che merita qui soffermarsi. Sul resto almeno, pur dopo undici anni, la giustizia penale si è pronunciata. Ma le violenze fisiche, pur accertate, sono rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste hanno avuto la sostanza di ciò che a livello internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che l’Italia ha ratificato nel 1988: l’atto con il quale un agente della funzione pubblica - personalmente o da altri su sua istigazione o con il suo consenso - infligge dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, per ottenere informazioni o confessioni, o per punire o intimorire la vittima. Oltre ad episodi di vera tortura, nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha ratificato nel 1955.

La Convenzione Onu contro la tortura impone agli Stati di prevedere nel loro sistema penale interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, mettere in atto opera di prevenzione e assicurare la punizione dei responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e da quella europea contro la tortura.

Ma l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni. Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce, l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore, come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal Tribunale di Asti, ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo nel nulla. Nel frattempo sembra che nemmeno siano state applicate sanzioni disciplinari e anzi che qualcuno dei responsabili abbia ottenuto promozioni.

Se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo. Accanto all’inadeguata gravità delle pene e l’operare dei condoni, è il meccanismo italiano della prescrizione che rende solo apparente la repressione dei fatti di tortura (come peraltro anche quella di altri gravi reati). Ma di questo, nella sua risposta al Consiglio dei diritti umani, il governo non ha fatto cenno.

La conseguenza sul piano della credibilità internazionale dell’Italia è seria. Essa sarà aggravata e certificata quando sulla responsabilità del governo italiano, per aver lasciato impunite quelle violenze, si pronuncerà la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale già sono stati presentati ricorsi.

In Parlamento si sono arenate iniziative legislative. Il pretesto fatto valere è stato quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono anche accuse più che fondate. Per altro verso in Parlamento si è preteso che le violenze, per costituire tortura, dovessero essere «ripetute» e non soltanto, come è ovvio, raggiungere un certo livello di gravità. In conclusione nulla si è fatto. Recentemente la discussione è ripresa. V’è chi si preoccupa e sostiene che solo ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è offensivo per i corpi di polizia. Purtroppo i fatti dimostrano che non si tratta di ipotizzare, ma di prevedere ed essere pronti a punire. E a me pare sia offensivo piuttosto pensare che le forze di polizia, nel loro complesso, preferiscano l’impunità di coloro che tradiscono la loro missione di legalità e rispetto delle persone.

Per attenuare l’impressione che si abbiano di mira le forze di polizia e trovare in Parlamento la necessaria condivisione, sta emergendo l’ipotesi di prevedere un delitto generico di tortura, che potrebbe essere commesso da chiunque, aggiungendo un’aggravante quando il fatto sia commesso da un agente pubblico. Un recente disegno di legge di iniziativa del sen. Marcenaro ed altri va in questa direzione. Soluzione tuttavia non facile, perché la finalità che muove il torturatore, nella definizione data dalla Convenzione Onu, rinvia naturalmente alla azione di forze di polizia o comunque ad organi dello Stato e difficilmente invece ad un soggetto indifferenziato. Ma, se serve a sbloccare la situazione, può trattarsi di soluzione opportuna.

E sarebbe bene che, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo discuterà i ricorsi contro l’Italia o il Consiglio dei diritti umani dell’Onu riprenderà in esame la questione, il governo si presenti potendo dire almeno che è stato messo rimedio, per il futuro, alla grave mancanza.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10302
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« Risposta #22 inserito:: Luglio 19, 2012, 10:04:42 pm »

19/7/2012

Unioni gay, la strada verso una soluzione condivisa

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Torna nella discussione pubblica la questione del riconoscimento giuridico da dare alle coppie omosessuali. A Milano il Consiglio comunale esamina la proposta di istituire un registro delle unioni civili: coppie di fatto da assimilare per certi versi alle coppie sposate.

Nel Pd il tema ha dato luogo a vivaci contrapposizioni.

V’è dunque motivo per ritornare su un problema ineludibile, che attende ancora soluzione.

Nel diritto italiano e in quello europeo vi sono alcuni punti fermi. Fermi per il momento, poiché l’evoluzione che in materia si è svolta nel passato, è naturalmente destinata a continuare. Ma allo stato attuale si tratta di un punto di arrivo da cui non si può prescindere. La Corte Costituzionale ha affermato che il matrimonio su cui si fonda la famiglia, secondo l’articolo 29 della Costituzione, è quello previsto dal Codice Civile, come unione di persone di sesso diverso. Al tempo stesso la Corte ha ritenuto che il riconoscimento da parte della Repubblica dei diritti fondamentali dell’uomo e delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, secondo l’articolo 2 della Costituzione, riguarda anche l’unione omosessuale. Essa è «intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Ma non v’è omogeneità tra il matrimonio cui la Costituzione si richiama e l’unione omosessuale. Il riconoscimento giuridico di quest’ultima non richiede necessariamente l’equiparazione al matrimonio, come dimostra la varietà delle soluzioni adottate dai vari Paesi europei. Spetta quindi al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire, mediante il controllo di ragionevolezza delle soluzioni legislative, a tutela di specifiche situazioni, che richiedano un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale.

Nel diritto europeo dei diritti umani, cui l’Italia è vincolata, da un lato si afferma che la soluzione di ammettere i matrimoni omosessuali è possibile, ma non obbligatoria per gli Stati e, dall’altro però si dice che le unioni omosessuali stabili possono dare origine a una «vita familiare» al cui rispetto gli Stati sono tenuti (articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

Vi è una forte sintonia e piena compatibilità tra il diritto costituzionale italiano e il diritto europeo in materia, sia nel riconoscere discrezionalità al legislatore nazionale, sia nel pretendere però che le unioni omosessuali stabili non siano lasciate nel limbo dell’irrilevante, del non riconosciuto dal diritto o addirittura del costretto alla clandestinità. Nelle leggi di molti Stati europei ed anche in quelle italiane, così come nelle decisioni dei giudici, si trovano diversi esempi in cui alle coppie di fatto vengono riconosciuti diritti sociali come quelli delle coppie sposate. Ne sono esempi il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla morte del compagno, il trasferimento del contratto di locazione e altri ancora. Quando poi alla coppia di fatto è riconosciuto un certo diritto, allora da quel diritto non può essere esclusa una coppia per il solo fatto di essere omosessuale, poiché si tratterebbe di discriminazione inammissibile.

Questo il quadro nel quale si colloca la richiesta di introdurre il matrimonio omosessuale. Richiesta ammissibile, ma senza risposta vincolata alla sola soluzione matrimoniale. E d’altra parte, anche per le coppie eterosessuali la tendenza generale sembra essere quella che allarga le possibilità di scelta, senza costringere all’alternativa tra il matrimonio o il nulla. Le numerose soluzioni europee di Pacs, Dico e simili stanno a dimostrare in che senso si evolvano le esigenze sociali. Ed è anche significativo che la scelta matrimoniale, unica disponibile, sia sempre meno adottata da coppie che pur hanno uno stabile progetto di vita comune.

L’introduzione del matrimonio omosessuale, pienamente equiparato a quello tra persone di sesso diverso, trova divisa la società italiana. E la divisione sarebbe anche più evidente quando, come sarebbe necessario, si affrontassero nel dettaglio i vari aspetti collegati al matrimonio. Basta pensare alla possibilità della adozione richiesta dalla coppia omosessuale (ancora in Italia non è ammessa l’adozione da parte del singolo, o da parte della coppia di fatto). E’ sbagliato ritenere che l’opposizione sia solo di parte cattolica e che su questa come su altre questioni che hanno a che fare con l’etica sociale sia possibile tracciare un confine netto, tra una comunità cattolica e una che cattolica non è o non si sente. Intanto è esperienza comune costatare quante differenze di atteggiamento e quante sfumature di opinione esistano tra gli italiani cattolici e poi – frutto della Storia - diverse istanze etiche e sociali sono condivise anche da chi non si richiama all’insegnamento della Chiesa. Sarebbe grave per la società italiana se esistessero due rigidi fronti opposti su temi di questo genere. Facilmente sarebbero campi l’un contro l’altro armato. Ma non è così, per fortuna. Né, in materia, corre una divisione secondo le categorie della destra e della sinistra politica, maggioranza governativa e opposizione. Si tratta di una realtà di cui occorre tener conto. Essa rende difficile arrivare a conclusioni legislative, ma ha il vantaggio di esprimere vitalità democratica e possibilità di evoluzione senza drammi e «guerre di religione». La pretesa di ottenere la soluzione maggiore, quella matrimoniale, in questo quadro sociale e politico, contrasta con la via della progressiva risposta alle esigenze legittime di riconoscimento e regolazione, che nessuna persona o gruppo ragionevole potrebbe respingere. Non si tratta di chiudere un discorso che per sua natura non può cristallizzarsi, ma di permettere una soluzione il più possibile condivisa, incapace di urtare chicchessia e idonea a dar riconoscimento ad una realtà sociale che ne ha diritto.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10346
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« Risposta #23 inserito:: Luglio 27, 2012, 04:31:06 pm »

26/7/2012

In difesa della salute

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Le frequenti notizie di stampa riguardanti la salute sono per lo più preoccupanti.

Episodi di «malasanità» mettono in ombra la vasta area di «buonasanità» offerta dal Servizio Sanitario Nazionale italiano. La massima sensibilità rispetto a tutto ciò che riguarda la salute è comprensibile, ma può in proposito essere utile qualche osservazione generale. Lo Stato sociale europeo e in particolare quello italiano ha ormai radici tanto forti che l’accumularsi nel tempo di diritti assicurati dalle leggi non rappresenta più soltanto un dato legislativo, contingente e mutevole nel tempo. Un alto livello di sicurezza sociale è ormai acquisito come naturale e irretrattabile. In particolare per la salute ogni insufficienza e ogni arretramento nel servizio pubblico sono vissuti come un diniego di giustizia. Il servizio pubblico sanitario si ritiene debba essere non solo tendenzialmente totale, ma anche gratuito, cosicché l’introduzione o l’aumento dei ticket non è questione che rinvia a scelte politiche, come tali discusse, ma lede diritti. Si tratta di una cultura e di una civiltà che distingue l’Italia e larga parte d’Europa, ma che è lontana dall’essere universale. Basta pensare alla battaglia politica, ancora in corso negli Stati Uniti, per l’introduzione di un sistema di assicurazione generalizzata in materia sanitaria, ove gli interessi economici coinvolti fanno leva su radicati contrasti culturali in ordine al ruolo della società e dello Stato rispetto all’individuo.

Nella Costituzione italiana la tutela della salute è riconosciuta come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della società. Si tratta dell’unico diritto della persona che la Costituzione qualifica come fondamentale. E’ un diritto i cui contenuti sono in certa misura indefiniti e mobili. Essi si arricchiscono con lo sviluppo della ricerca medica e l’aumento delle terapie a disposizione dell’umanità; essi però si riducono quando le risorse economiche pubbliche scarseggiano. Il Comitato delle Nazioni Unite responsabile della vigilanza sull’attuazione del Patto internazionale dei diritti economici e sociali (1966), definendo la portata del diritto alla salute come il «diritto alle migliori condizioni di salute fisica e mentale raggiungibili», ha tra l’altro affermato che esso implica il dovere degli Stati, una volta raggiunto un certo livello di garanzia della salute, di non arretrare. Si tratta di orientamento che appoggia la resistenza, oggi evidente in molti Paesi, alla diminuzione dei servizi sanitari come conseguenza di tagli alle risorse pubbliche ad essi destinate. Una resistenza che si manifesta in Italia, ma anche in Portogallo, Spagna, Francia e riguarda, senza le necessarie distinzioni, sia la vera eliminazione di servizi, sia le modifiche organizzative o gestionali dirette a diversamente utilizzare le risorse disponibili. In proposito il primo che viene in mente è il tema della geografia della medicina di prossimità e dell’articolazione sul territorio dei diversi livelli dell’intervento medico. Ad esso si riferiscono sia l’impianto del recente Piano della Regione Piemonte sia l’annunciato progetto del Ministro della Salute Balduzzi sul ruolo e l’organizzazione dei medici di base.

I provvedimenti conseguenti alla c.d. «spending review» promettono meno risorse economiche anche nel settore sanitario. Ma il ministro Grilli, pochi giorni orsono, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha assicurato che la revisione della spesa sanitaria garantisce economie di spesa, senza alcuna incidenza negativa sul livello qualitativo e quantitativo dei servizi erogati ai cittadini.

C’è da chiedersi come questo sia possibile, quando si considerino le riduzioni delle risorse di origine statale insieme a quelle regionali. E’ probabile che l’effettiva erogazione dei servizi subisca una diminuzione o un rallentamento. La disponibilità teorica può non mutare, ma le liste di attesa si allungano (e cresce il ricorso alla sanità privata). La riduzione dei finanziamenti all’attività del privato sociale –spesso decisiva per rendere effettivo l’accesso alle cure - lascia intatti apparentemente il ruolo e l’ampiezza del servizio pubblico, che però diventa meno fruibile da parte di fasce sociali deboli e particolarmente vulnerabili. Con ciò si vuol dire che il termine «tagli» può condurre a equivoci e a nascondimenti della realtà. Sul piano formale si può negare che il «taglio» sia stato apportato, anche se c’è chi nella realtà lo patisce. La trasparenza in materia è molto importante, sia perché assicura la corretta informazione della cittadinanza, sia perché riporta la responsabilità delle scelte nel luogo istituzionale proprio, sia esso il governo nazionale o quello regionale. Se sono necessarie riduzioni nei servizi offerti in materia sanitaria, le scelte da fare richiedono partecipazione e chiarezza, secondo criteri di priorità razionali e non discriminatori. Partecipazione al processo decisionale, pubblicità delle scelte effettuate, non discriminazione nei loro effetti, sono criteri sottolineati da tutte le organizzazioni internazionali, come il già ricordato Comitato economicosociale delle Nazioni Unite e l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Merita uno speciale richiamo la regola della non discriminazione. Essa non vieta soltanto le dirette esclusioni di parte della popolazione dall’accesso ai servizi di prevenzione e di cura (per ragioni di razza, sesso, religione, origine, condizione economica o sociale, ecc.). Essa riguarda anche la più insidiosa discriminazione indiretta, quella che fa pesare di fatto su gruppi della popolazione le loro caratteristiche o debolezze, che non riguardano lo stato di salute, ma che incidono sulla possibilità di avvalersi dei benefici che sono a disposizione della generalità. Gli esempi sono facili. Il più evidente è quello che riguarda la c.d. accessibilità economica del servizio sanitario, legata alla sostenibilità del relativo costo. Ma l’elenco degli esempi è lungo. Se il luogo in cui è fornito il servizio sanitario viene allontanato, senza prevedere mezzi di trasporto adatti a chi, per salute, età o altro non ne dispone, una misura che sembra neutra si traduce in una discriminazione indiretta. La complessità delle procedure amministrative da seguire per accedere al servizio, se non accompagnata da una sufficiente e capillare informazione, finisce con l’escludere chi, per la non conoscenza della lingua o per altro, si perde tra gli uffici e gli sportelli, che pure – apparentemente - gli sono aperti.

Il discorso può allungarsi, ma ciò che emerge è la necessità di evitare i «tagli lineari» e di discutere invece e stabilire criteri e priorità, nel disegnare l’area coperta dal servizio pubblico e nello stabilirne l’accessibilità e il costo per gli utenti.

Altra cosa è la lotta agli sprechi e alla corruzione. Una lotta che è da appoggiare senza riserve. Essa sì può ridurre i costi complessivi a carico dello Stato e delle Regioni, senza diminuire l’ampiezza del diritto alla salute di tutte le persone.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10374
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 09, 2012, 05:46:29 pm »

9/8/2012

Una disciplina per l'obiezione

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Il Comitato nazionale per la bioetica ha pubblicato un parere sul fondamento e la portata dell’obiezione di coscienza.

Sulla richiesta, cioè, del singolo di essere esonerato da un obbligo previsto dalla legge, perché ritiene che tale obbligo contrasti con la propria coscienza e sia lesivo di un suo diritto fondamentale. Il Comitato ha affermato che l’obiezione di coscienza in materia bioetica costituisce un diritto della persona costituzionalmente fondato sui diritti inviolabili dell’uomo; un diritto però che va esercitato in modo sostenibile, così da non limitare né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti ad altri dalla legge.

Il parere affronta specificamente questioni di bioetica e in particolare quelle derivanti dall’esistenza di diverse concezioni sull’inizio e la fine della vita umana e quindi sulla portata del diritto fondamentale alla vita.

Le argomentazioni sviluppate dal Comitato per fondare le sue conclusioni, sono particolarmente complesse e spesso opinabili nei vari passaggi. Ma è certo condivisibile la conclusione che l’obiezione di coscienza, in certe circostanze e in certi limiti, deve essere riconosciuta dalla legge, per non entrare in collisione con il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa (art.19 della Costituzione) o, come più compiutamente afferma la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art.9), di veder rispettata la propria libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Da questi diritti costituzionali viene normalmente tratto il fondamento della richiesta di riconoscimento della obiezione di coscienza. E l’ultima Carta dei diritti fondamentali, in ordine di tempo, quella dell’Unione Europea, espressamente prevede all’art.10, come corollario della libertà di pensiero, coscienza e religione, il dovere degli Stati di riconoscere l’obiezione di coscienza disciplinandola con le leggi nazionali.

Il Comitato ritiene anche che il riconoscimento legale della obiezione di coscienza sia un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della problematicità riguardo ai limiti della tutela dei diritti inviolabili (nella specie il diritto alla vita). Ci si potrebbe esprimere in modo diverso, riconoscendo semplicemente che vi sono materie in cui non vale il principio di maggioranza o piuttosto che esso trova limiti e freni nel riconoscimento dei diritti fondamentali degli individui e delle minoranze. Tra questi vi è il diritto di mantenere e veder rispettati i propri diversi orientamenti filosofici, etici e religiosi. Donde la difficoltà di legiferare, con la pretesa della maggioranza che si esprime in Parlamento di dettar legge in via generale, senza eccezioni e senza spazio per il dissenso. La legge italiana riconosce la possibilità di evitare attività contrarie ai dettami della propria etica o religione in materia di interruzione volontaria della gravidanza e di procreazione medicalmente assistita (oltre che nella sperimentazione sugli animali).

Ma lo spazio lasciato al dissenso dei singoli non può mettere nel nulla o render difficile per gli altri il godimento dei diritti riconosciuti dalla legge o più in generale impedire il funzionamento di un servizio pubblico. Donde la necessità di contemperare esigenze contrapposte o, come scrive il Comitato, di tener conto della possibilità che l’obiezione di coscienza possa “essere piegata a strumento di sabotaggio nelle mani di minoranze fortemente organizzate oppure oggetto di abuso opportunistico da parte di singoli”. E’ necessario allora prevedere una disciplina dell’obiezione di coscienza “sostenibile” con la predisposizione di un’organizzazione delle mansioni e del reclutamento del personale che ricorra alla mobilità del personale. Il Comitato suggerisce anche di ricorrere a forme di reclutamento differenziato, in modo da equilibrare il numero degli obiettori e dei non obiettori e così assicurare il servizio previsto dalla legge. Si tratta di un’indicazione molto importante, che merita qualche sviluppo. L’obiezione del libero professionista che si astiene dal praticare certi trattamenti sanitari, ritenendoli contrastanti con le proprie convinzioni etiche, è cosa diversa da quella di chi liberamente sceglie di operare come dipendente di un ente pubblico, che ha come missione specifica quella di fornire al pubblico un servizio il cui contenuto è definito dalla legge. Un bando di concorso per un posto in un ospedale pubblico che descriva le mansioni che il vincitore sarà chiamato a svolgere implica evidentemente da parte dei concorrenti l’accettazione del relativo dovere e l’esclusione di obiezioni. L’obiezione di coscienza che taluno avanzi nei confronti di questa o quella specifica attività dovrebbe portarlo a non partecipare al concorso e a orientarsi professionalmente altrove. In proposito si può pensare al testimone di Geova che rifiuti di praticare trasfusioni di sangue e tuttavia pretenda di partecipare a un concorso per un posto di chirurgo in un ospedale pubblico. Va anche aggiunto che la riserva mentale di obiettare successivamente e sottrarsi così allo svolgimento delle mansioni oggetto del concorso, sarebbe inammissibile e contrasterebbe con il dovere di chi si è visto affidare funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore (art.54 della Costituzione). Né concorsi per posti pubblici così definiti sarebbero discriminatori poiché l’orientamento etico o religioso dei singoli avrebbe solo rilevanza per le scelte libere di ciascuna persona. Altro discorso evidentemente si dovrebbe fare se ci si trovasse nel diverso caso di attività imposte a tutti dalla legge, com’era il servizio militare prima dell’abolizione della leva obbligatoria.

Tra i numerosi aspetti discussi dal Comitato, uno ancora merita di essere ricordato per la sua importanza. Il Comitato precisa che il tema e i problemi della obiezione di coscienza non riguardano il diverso campo della libertà costituzionale del singolo individuo - non più il sanitario, ma il paziente - di definire e gestire i suoi interessi, diritti e valori in tema di salute; libertà che lo Stato deve rispettare. Il Comitato fa l’esempio di una norma che imponesse a un testimone di Geova, per la tutela della sua stessa salute, di sottoporsi a una trasfusione di sangue che egli rifiuta secondo i precetti della sua religione. In realtà la ragione del rifiuto è irrilevante, poiché nella sfera del singolo, come riconosce l’art.32 della Costituzione, prevale l’autonomia individuale. Allo stesso modo, afferma il Comitato, è irrilevante per lo Stato la ragione che spinge taluno, anche attraverso dichiarazioni anticipate, a rifiutare qualunque altro tipo di trattamento.

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« Risposta #25 inserito:: Agosto 25, 2012, 05:48:44 pm »

25/8/2012

La gravità delle pene

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

L’inumanità di ciò che ha fatto Breivik non deriva solo dalle decine di giovani vite che ha spento e dalle centinaia di feriti e mutilati che ha prodotto, ma anche dalla presunzione del superuomo che, per lanciare al mondo il suo messaggio, riduce a oggetto irrilevante la persona delle sue vittime. Vittime anche a suoi occhi incolpevoli, ma strumenti utili al suo disegno. Certa essendo – e anzi rivendicata - la sua colpevolezza, come resistere alla tentazione di trasferire dal fatto alla persona il giudizio di «non umanità»? Che farne? Come punirlo? Punirlo o renderlo inoffensivo, o entrambi? Come in altri atroci casi il dibattito esce dalle aule giudiziarie, dagli studi dei criminologi e dei penalisti, dai parlamenti e investe la società nel suo complesso. La richiesta è solitamente di maggior severità delle pene inflitte ed anche di lunga, se non definitiva, esclusione del colpevole dal consorzio sociale.

In Norvegia il difficile (impossibile?) quesito sulla capacità di intendere e di volere di Breivik è stato oggetto di sondaggio di opinione e la maggioranza ha detto di volerlo condannato piuttosto che internato in custodia psichiatrica. In Belgio, pochi giorni orsono, la liberazione condizionale dopo sedici anni di reclusione, della moglie complice del Dutroux che seviziò e uccise numerose giovani ragazze, ha spinto centinaia di persone a protestare in corteo, guidate da parenti delle vittime. In Italia le condizioni, spesso inumane, in cui i detenuti vengono tenuti in carcere non riescono a suscitare grande turbamento nella società. Negli Stati Uniti i candidati alla presidenza si guardano bene dal mettere in discussione la pena di morte, ma persino si tengono lontani dal problema della diffusione delle armi da fuoco, pur davanti alle ripetute stragi con esse compiute. Segnali diversi di un atteggiamento che ha tratti simili.

La storia delle pene criminali riflette la varietà degli scopi del potere statale di punire, dopo che lo Stato ne ha assunto il monopolio, progressivamente escludendo o limitando la vendetta privata. Essa illustra anche l’evoluzione dei costumi e della sensibilità umana, che ha portato via via ad attenuare le più atroci sofferenze inflitte ai rei. A lungo pene con sofferenze per noi oggi inconcepibili rimasero in vigore e furono praticate in società per altri versi celebrate come modelli di raffinata civiltà. Tra i tanti, la Venezia del ‘600 e ‘700 né può essere un esempio. Si trattava non solo della pena di morte, ma con essa di torture efferate, praticate in pubblico per punire il colpevole e, con le sue sofferenze, ammonire il popolo. Il popolo ne era intimorito, ma anche partecipava allo spettacolo. Ciò che in Europa fa parte della storia, è ancora visibile altrove nel mondo e qui da noi ora suscita orrore. Ma si tratta di storia nostra ancora recente e non priva di lasciti. Cesare Beccaria, solo duecentocinquant’anni orsono, combatteva la pena di morte e la pratica della tortura, ma per i più gravi reati suggeriva una pena gravissima, una «perpetua e gravosa detenzione»; sulla sua scia Denis Diderot, proponeva di sostituire la pena di morte con la «schiavitù perpetua», con «una dura e crudele schiavitù».

E si trattava degli intellettuali più illuminati della loro epoca, quella in cui affondano le radici del diritto del nostro tempo. Nello stesso ordine di idee, la proposta del Comitato della legislazione penale dell’Assemblea costituente francese del 1789 di abolire la pena di morte, era accompagnata e sostenuta dall’atrocità della pena sostitutiva: pena detentiva da dodici a ventiquattro anni, così descritta: «Il condannato sarà detenuto in una segreta oscura, in completa solitudine. Corpo e membra porteranno i ferri. Del pane dell’acqua e della paglia gli forniranno lo stretto necessario per nutrimento e doloroso riposo». Una volta al mese la porta della cella sarà aperta «per offrire al popolo una lezione importante. Il popolo potrà vedere il condannato carico dei ferri al fondo della sua cella, e leggerà sopra la porta il nome del condannato, il delitto e la sentenza».

E’ passato il tempo, i costumi si sono addolciti, la repulsione per la crudeltà, anche e specialmente se praticata dallo Stato, è cresciuta nella società. Ma la questione della gravità della pena da infliggere ai colpevoli di reati (non necessariamente solo dei più gravi) è sempre aperta e riguarda la giustificazione e lo scopo della pena, insieme alla legittimazione dello Stato e della società a infliggerla. La retribuzione per il male cagionato si accompagna alla preoccupazione di eliminare il pericolo che il criminale può rappresentare. Pene dolorose dunque, e lunghe o persino perpetue, come l’ergastolo («fino alla fine»). Ma a queste elementari richieste si accompagna ora, pur senza integralmente sostituirsi ad esse, un diverso atteggiamento, non disperato rispetto alla natura inemendabile del criminale, ma ottimista o almeno non chiuso alla speranza. Si tratta della scelta, anche propria della nostra Costituzione, che vede nella pena l’occasione e la possibilità di risocializzazione del reo: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Pene lunghissime e tanto più le pene perpetue, non solo finiscono per applicarsi nel corso del tempo a persone che necessariamente sono diventate radicalmente diverse da quelle che hanno commesso il delitto (perché allora continuare a punirle?), ma in più, sopprimendo ogni speranza nel detenuto, lo incattiviscono piuttosto che aprirlo a rapporti corretti con gli altri. Chi opera nelle carceri a contatto con i detenuti conosce questa dinamica nell’esecuzione delle pene.

Sono questi degli argomenti che rispondono alle domande di fondo sul potere o addirittura del dovere di punire? E sul come e quanto punire? O sono solo considerazioni che arricchiscono il quadro, mostrando quanto complesso e relativo esso sia? Forse senza risposta definitiva e tranquillizzante.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10458
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 29, 2012, 04:52:58 pm »

29/8/2012

Una legge incompatibile con i diritti

VLADIMIRO ZAGREBELSKY

La legge italiana che disciplina l’utilizzo delle procedure mediche di fecondazione assistita e più particolarmente le limitazioni che essa impone, sono oggetto di critiche e polemiche fin dalla sua approvazione nel 2004. Critiche e polemiche che riguardano sia la legge in sé, sia le linee guida emanate dal ministero della Salute per specificarne, integrarne e aggiornarne le previsioni.

Come si ricorda un referendum parzialmente abrogativo venne fatto fallire nel 2005 con il non raggiungimento del quorum di votanti.

E’ recente la decisione dalla Corte Costituzionale di restituire ai giudici che l’avevano prospettata, la questione di costituzionalità del divieto di ricorso alla fecondazione con ovocita o gamete di persona esterna alla coppia (la fecondazione eterologa). La questione verrà certo riproposta e la Corte Costituzionale deciderà. In passato, nel 2009, la stessa Corte aveva dichiarato incostituzionale perché irragionevole e in contrasto con il diritto fondamentale della donna alla salute, la limitazione a tre degli embrioni da impiantare contemporaneamente, senza possibilità di produrne un maggior numero da utilizzare nel caso che il primo impianto non avesse avuto esito positivo.

Ora è un diverso aspetto della regolamentazione, che una diversa Corte ritiene incompatibile con i diritti fondamentali della persona. Ancora una volta si tratta dell’irragionevolezza di un impedimento posto dalla legge italiana all’accesso a una tecnica che è frutto del progresso medico. In proposito va ricordato che il Patto internazionale dei diritti economici e sociali delle Nazioni Unite, riconosce a tutti la possibilità di «godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni». Limiti e condizioni sono possibili, ma, come per tutte le deroghe a diritti fondamentali, essi devono essere ristretti al minimo indispensabile per la tutela di altri diritti fondamentali confliggenti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha deciso il ricorso di una coppia italiana protagonista (e vittima) di una vicenda esemplare dell’irragionevolezza della legge, che li esclude dalla possibilità di utilizzare le tecniche di fecondazione medicalmente assistita. I due ricorrenti avevano generato una figlia malata di mucoviscidosi. Fu così che essi appresero di essere entrambi portatori sani di quella malattia. Nel corso di una successiva gravidanza, la diagnosi prenatale rivelò che il feto era anch’esso malato. Ricorrendo alla legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, essi procedettero all’aborto. Poiché tuttavia desideravano un secondo figlio e naturalmente volevano evitare che fosse malato, richiesero di procedere alla fecondazione artificiale, per conoscere lo stato dell’embrione prima di impiantarlo, escludere quello malato e utilizzare quello sano.

La legge che disciplina la materia limita il ricorso alla fecondazione medicalmente assistita al solo caso in cui la coppia è sterile o infertile. Le linee guida ministeriali del 2008 hanno ritenuto che sia assimilabile al caso d’infertilità maschile quello in cui l’uomo sia portatore delle malattie sessualmente trasmissibili derivanti da infezione da Hiv o da Epatite B e C. Ma non hanno considerato altre situazioni di genitori malati. E così alla coppia restò negata la possibilità di superare l’infermità e dar corso, con la fecondazione medicalmente assistita, a una gravidanza che si sarebbe conclusa con la nascita di un bimbo sano.

La Corte europea ha rilevato che la legge italiana nel caso in cui la diagnosi prenatale riveli che il feto è portatore di anomalie o malformazioni, consente di procedere all’interruzione della gravidanza. In effetti proprio a ciò aveva fatto ricorso la coppia, nella gravidanza successiva alla nascita della figlia malata. Vi è dunque, secondo la Corte, un’evidente irragionevolezza della disciplina, che, permettendo l’aborto e invece proibendo l’inseminazione medica con i soli embrioni sani, autorizza il più (e il più penoso), mentre nega il meno (e meno grave). La Corte ha così rifiutato gli argomenti del governo italiano, che sosteneva che la legge tende a proteggere la dignità e libertà di coscienza dei medici e a evitare possibili derive eugenetiche. Argomenti contraddetti dal fatto che la legge consente di procedere all’aborto in casi come quello esaminato dalla Corte. In più ha pesato il fatto che la grande maggioranza dei Paesi europei consente la fecondazione medicalmente assistita per prevenire la trasmissione di malattie genetiche (solo l’Italia e l’Austria la vietano e la Svizzera ha in corso un progetto di legge per ammetterla). Irragionevole nel sistema legislativo italiano e ingiustificato nel quadro della tendenza europea, il divieto ha inciso senza ragione sul diritto della coppia al rispetto delle scelte di vita personale e familiare, garantito dalla Convenzione europea dei diritti umani.

La sentenza non è definitiva. Il governo italiano può chiederne il riesame da parte della Grande Camera della Corte europea. Se diverrà definitiva, sarà vincolante per l’Italia, una modifica della legge sarà inevitabile e saranno inapplicabili le linee guida ministeriali. La Corte Costituzionale ha già più volte detto che la conformità alla Convenzione europea dei diritti umani, «nella interpretazione datane dalla Corte europea», è condizione della costituzionalità delle leggi nazionali. Una revisione della legge potrebbe convincere il legislatore ad abbandonare l’ambizione di disciplinare il dettaglio, con ammissioni ed esclusioni particolari che inevitabilmente creano disparità irragionevoli. Questa è una materia in cui occorrerebbe lasciar spazio alle scelte individuali (in questo caso quella di non rinunciare a procreare un figlio, un figlio sano) e alla responsabilità dei medici nel fare il miglior uso possibile del frutto della ricerca e dell’avanzamento delle conoscenze e possibilità umane. La Corte Costituzionale ha già ripetutamente posto l’accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l’arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10470
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 06, 2012, 10:22:57 pm »

Editoriali
06/11/2012

Il contrasto tra numeri e salute

Vladimiro Zagrebelsky


Alla fine pare che i fondi per mantenere il livello di assistenza ai malati gravi non autosufficienti, come principalmente quelli colpiti dalla Sla, siano stati trovati. 

 

C’erano dunque. Ma il disegno di legge di stabilità, presentato dal ministro dell’Economia e delle Finanze a nome del governo, li tagliava, destinandoli altrove. Se il lavoro che si svolge in Parlamento per riscrivere la manovra finanziaria di fine anno risolverà il problema, si potrebbe esser soddisfatti, un errore e un torto saranno stati riparati e si potrebbe dire che tutto è bene quel che finisce bene. Non è però così semplice e la vicenda, anche se avrà conclusione positiva, merita qualche riflessione. Anche perché potrebbe essere vista come l’esempio di un problema più generale.

 

Il diritto alla salute – intesa questa come il più elevato livello dello stato di salute raggiungibile dalla persona – è l’unico diritto che la Costituzione qualifica come fondamentale. E non per enfasi e sovrabbondanza redazionale, ma per meditata e discussa ragione nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente. L’Italia è poi tenuta a garantire questo diritto per trattati internazionali come il Patto delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, la Carta sociale europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Certo la disponibilità delle risorse economiche incide sulle prestazioni dello Stato anche in materia di diritto alla salute e di diritti fondamentali in generale. Ma un’attenta identificazione delle priorità è indispensabile e deve essere motivata e aperta alla discussione. Nulla di questo è avvenuto, fino a quando hanno fatto irruzione i malati e le loro famiglie, forti della loro estrema debolezza e dell’irresistibile impressione delle immagini del dolore esposto davanti alla sede del governo. 

 

Possibile che, almeno per prudenza se non per rispetto di quei malati, il governo non abbia evitato di dover affrontare l’insostenibile impatto dell’indignazione e della reazione sorte nell’opinione pubblica e quindi in Parlamento? Una risposta può essere forse trovata nel fatto che il disegno di legge di stabilità viene presentato dal solo ministro dell’Economia e delle Finanze, senza l’abituale «concerto» degli altri ministri interessati. Ma sarebbe una risposta formalistica e insufficiente. In realtà è illuminante il fatto che, quando la proposta governativa ha incontrato le prime critiche, la reazione è stata del tipo: «Fate quel che volete, purché il saldo rimanga invariato». Il saldo, quindi, unico scopo da ottenere. Perché il saldo è «tecnico» e il resto è «politica»! Certo le scelte tra i vari interessi e valori da proteggere o promuovere o invece penalizzare o limitare appartiene alla sfera della politica, che trova il suo luogo naturale nel Parlamento e i suoi attori nei partiti politici e nelle organizzazioni della società. Ma è difficilmente comprensibile l’estraneità ostentata e a tratti persino compiaciuta dei responsabili economici del governo, che palesemente godono di un’assoluta preminenza. Così soltanto si spiega che, solo al montare della protesta, i ministri della Salute e delle Politiche Sociali abbiano potuto intervenire e operare efficacemente. 

 

I malati gravi non autosufficienti, portatori di patologie degenerative, oltre a richiedere le cure e gli strumenti necessari per sopravvivere, hanno necessità di disporre delle apparecchiature, che consentono loro di alleviare il peso della vita: si tratta di apparecchi costosi e in continua evoluzione tecnologica, che consentono di spostarsi, comunicare, compiere gesti elementari. L’assistenza continua è indispensabile, così come una complessa organizzazione di mezzi e persone. Quando il malato si trova nel suo domicilio, non si può imporre ai famigliari un impegno totale, continuo, insostenibile. Tra l’altro, se l’assistenza domiciliare efficace non è assicurata, necessariamente aumentano i ricoveri e i relativi costi per il Servizio Sanitario Nazionale. La questione dunque rientra a pieno titolo nel campo della politica sanitaria e del diritto alla salute. Essa merita di essere discussa e poi decisa riconoscendone la complessità e delicatezza. Malamente è affrontata con la brutalità dell’Economia. Meglio la consapevolezza e la responsabilità della Salute.

da - http://lastampa.it/2012/11/06/cultura/opinioni/editoriali/il-contrasto-tra-numeri-e-salute-J2ZyAnq3fkHMyZ69c7vYOK/pagina.html
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« Risposta #28 inserito:: Novembre 12, 2012, 04:04:33 pm »

Editoriali
12/11/2012

L’anonimato e i diritti dei neonati

Vladimiro Zagrebelsky


La legge sulla fecondazione medicalmente assistita esclude la possibilità della madre di dichiarare di voler rimanere anonima e persino stabilisce che, nel caso di inseminazione eterologa, il coniuge o il convivente che ha consentito non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità. 

 

La volontà di generare un figlio non può dunque essere revocata. Questa la legge vigente. Ma ora alla Camera dei Deputati è stata approvata (ancora in Commissione) una modifica, che ammette il «parto anonimo»: la madre vuole rimanere anonima e per il figlio si apre la procedura di adozione. 

 

Ma tutti hanno diritto al rispetto dell’identità personale. I limiti che la legge impone alla possibilità di conoscere l’identità dei genitori e la propria ascendenza devono quindi essere mantenuti nello stretto necessario, quando essa confligga con la tutela di altri diritti fondamentali. In tal senso si è da tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha esaminato recentemente il caso italiano e la legge che vieta che venga svelata al figlio l’identità della madre, che partorendo abbia dichiarato di voler mantenere l’anonimato. La violazione del diritto del figlio a conoscere le proprie origini biologiche è stata vista nel fatto che – a differenza delle regole vigenti negli altri Paesi europei che permettono il parto anonimo - la legge italiana non ammette eccezioni o limiti temporali. Il diritto del figlio è annullato dalla decisione della madre di abbandonarlo e di rimanere per sempre inconoscibile. 

 

L’esigenza di trovare una disciplina che riesca a contemperare l’interesse della madre e il diritto del figlio, con procedure e valutazioni che permettano di superare l’anonimato, deve ora trovare riscontro nella legge italiana. Rimane superata la diversa posizione assunta nel 2005 dalla Corte Costituzionale, che aveva ritenuto che la possibilità di vincere l’anonimato della madre avrebbe comunque impedito di «assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e … distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi». La Corte si riferiva all’intenzione della legge di evitare parti clandestini, aborti clandestini, infanticidi. Così decidendo però la Corte metteva nel nulla il diritto del figlio alla propria identità (persino quando esistano motivi di salute che richiedano la conoscenza dell’identità dei genitori). E lo faceva richiamando le «situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale» in cui la madre sceglieva l’anonimato e l’abbandono del figlio. Ora quando la madre si trovi in condizioni drammatiche, tanto gravi da indurla a rinunciare al figlio, si può capire che la legge ammetta il parto anonimo. Ma la legge non richiede che vi siano motivi gravi per la scelta dell’anonimato e la madre può rifiutare il figlio solo perché concepito fuori del matrimonio o non desiderato. In tal modo essa semplicemente si sottrae ai doveri di genitore.

 

L’anonimità della madre, tanto più se unita all’impossibilità assoluta di superarla, dovrebbe essere riservata a situazioni estreme. E’ incomprensibile quindi che la si ammetta anche nel caso di donna che partorisca a seguito di fecondazione medicalmente assistita: dopo quindi una scelta consapevole, una volontà di generare fermamente manifestata nella lunga e gravosa procedura medica. Proprio per questo è probabile che questa nuova possibile scelta non venga mai esercitata. La riforma assume allora un più che discutibile valore di principio: un generale diritto di rifiutare il figlio al momento del parto. E’ stato detto in proposito che «tutte le madri sono eguali». Vero, ma le condizioni in cui si diventa madri non lo sono. E i figli hanno diritti. 

da - http://lastampa.it/2012/11/12/cultura/opinioni/editoriali/l-anonimato-e-i-diritti-dei-neonati-Ma7BdjJgHczR9mCxbuy9eP/pagina.html
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« Risposta #29 inserito:: Dicembre 02, 2012, 05:34:18 pm »

Editoriali
02/12/2012

Quei vuoti difficili da riempire

Vladimiro Zagrebelsky


Decenni di attività industriale senza riguardo per le regole di protezione della salute e dell’ambiente hanno prodotto un disastro sul terreno e nei corpi di lavoratori dell’Ilva e di abitanti di Taranto. Nemmeno le istituzioni pubbliche ne escono indenni. E nemmeno i sindacati dei lavoratori, se è vero che nel corso degli anni la loro azione è stata timida e inefficace. Il disastro va oltre la dimensione ambientale e sanitaria e, come questa, lascerà ferite difficilmente rimarginabili. Snodi essenziali del sistema andrebbero ripensati, se ce ne fosse la forza e la capacità. Oggi si è davanti al dilemma che oppone salute e lavoro: il pericolo per la salute alla certezza della perdita del lavoro di molti, non solo a Taranto. Una situazione creatasi perché nel tempo si è tollerato che il problema crescesse fino a divenire drammatico. Il riferimento alla tolleranza rinvia alla responsabilità di governi e autorità loca li, che si sono dimostrati incapaci di disciplinare la con dotta dell’azienda. 

 

Non sorprenderebbe che quella tolleranza sia stata a lungo alimentata da connivenze, da pratiche corruttive, da scambi di favori a livello governativo e locale. Enorme infatti era il peso dell’Ilva, sia come capacità di interferire nella azione di controllo, che avrebbe dovuto essere svolta ai vari livelli governativi e locali, sia come possibilità di mettere sul tavolo le conseguenze sociali di ogni intralcio alla realizzazione delle politiche aziendali. Argomento quest’ultimo spiacevole, ma fondato sui fatti e quindi ineludibile, anche ora. Una considerazione, che richiama l’idea del ricatto, non sarebbe però sul tavolo di chi deve gestire la situazione presente, se fin dall’inizio ciascuno avesse fatto il suo dovere, senza lasciar crescere un problema ora non affrontabile senza danni. 

 

Lo scontro che si alimenta opponendo i diritti della «politica» all’azione della magistratura, nasce anche questa volta male. Per decenni le espressioni nazionali e locali della «politica» sono state inefficaci e timide, se non conniventi. Oggi dichiarazioni orgogliose di autonomia della «politica» suonano stonate. Ancora una volta. Venendo a tempi recenti, la gravità della situazione e la natura dell’azione della magistratura erano state rese note dalla Procura della Repubblica di Taranto. Il procuratore era stato sentito due volte lungamente dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, a febbraio e a settembre di quest’anno. Il procuratore aveva parlato chiaro e aveva anche auspicato collaborazione e convergenza di azione tra le diverse istituzioni. 

 

La magistratura non è chiamata a risolvere problemi generali, né disporrebbe dei mezzi per farlo. Essa non gestisce questioni come quella che oggi oppone le esigenze dell’economia nazionale e dell’occupazione a quelle della protezione dell’ambiente e della salute. La magistratura è chiamata ad applicare la legge e dispone di strumenti processuali che sono stati disegnati a quello specifico scopo. La legge punisce chi procura un disastro dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità. Quando sia necessario per evitare che le conseguenze del reato siano aggravate o protratte nel tempo, la legge prevede che il giudice disponga il sequestro delle cose con le quali il reato è commesso. I margini di discrezionalità per il magistrato sono ristretti, se egli rimane nell’ambito del suo ruolo, specialmente quando sia grave il pericolo derivante dalla continuazione dell’azione che costituisce il delitto. Questo quadro di norme non deriva da un’arbitraria decisione della magistratura, ma dall’attenta opera legislativa prodotta dal Parlamento, sede massima delle scelte politiche.

 

Ha allora poca base la critica alla rigidità della magistratura, alla sua cecità e insensibilità alle conseguenze economiche e sociali dei suoi provvedimenti. E ciò specialmente da parte di chi protesta ogni volta che l’azione giudiziaria sembra fuoriuscire dagli stretti limiti del suo ruolo. Naturalmente però resta il problema dell’adeguatezza del sistema vigente rispetto alle esigenze proprie di situazioni di grande portata come quella che l’Ilva ha creato, nell’inerzia di chi avrebbe dovuto contrastarla. Non è questa la prima volta che l’azione della magistratura lascia irrisolti o addirittura crea problemi su piani diversi, ma collegati a quello su cui essa opera. Non solo l’obbligo di esercitare l’azione penale, ma soprattutto la rigidità degli strumenti processuali che la legge ha stabilito producono talora difficoltà e danni collaterali. Questa volta sono di particolare importanza. La descrizione delle ragioni che spiegano la natura dei provvedimenti della magistratura non deve portare a negare l’esistenza del problema. Irresponsabile e comunque sterile sarebbe accontentarsi del fatto che impianti pericolosi sono chiusi, che responsabili di gravi reati sono in carcere o indagati e che la magistratura ha fatto il suo dovere.

 

Il governo ha approvato un decreto legge, in considerazione «dei prevalenti profili di protezione dell’ambiente e della salute, di ordine pubblico, di salvaguardia dei livelli occupazionali». Il governo afferma che l’Autorizzazione Integrata Ambientale dello scorso ottobre e il Piano operativo presentato dall’azienda per metterne in opera le prescrizioni «assicurano l’immediata esecuzione di misure finalizzate alla tutela della salute e alla protezione ambientale e prevedono graduali ulteriori interventi sulla base di un ordine di priorità finalizzato al risanamento progressivo degli impianti». Il decreto legge ha stabilito che le misure a tutela dell’ambiente e della salute di cui alla Autorizzazione - quelle e solo quelle - sono «in grado di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili». Il governo ha quindi reimmesso la società Ilva nel possesso dei beni dell’impresa e, senza limiti quantitativi in rapporto all’inquinamento cagionato, l’ha «autorizzata alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento e della conseguente commercializzazione dei prodotti per tutto il periodo di validità dell’Autorizzazione Integrata Ambientale, salvo che sia riscontrata da parte dell’autorità amministrativa competente l’inosservanza delle prescrizioni impartite nell’Autorizzazione stessa». 

 

Perché nessun dubbio sia possibile, il governo ha poi stabilito che i provvedimenti di sequestro dell’autorità giudiziaria consentono di diritto, in ogni caso, la prosecuzione dell’attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti. Consentono e consentiranno, cioè, proprio quello che ora essi espressamente impediscono. Per giunta il decreto esclude ogni possibile intervento della magistratura, anche per il caso in cui l’azienda si sottragga agli obblighi stabiliti dall’Autorizzazione Integrata Aziendale; la sanzione prevista è infatti amministrativa ed è irrogata, se del caso, dal Prefetto. 

 

Facile osservare che non basta una legge per stabilire che ciò che è scritto in un provvedimento governativo (la Autorizzazione) è il migliore e il più idoneo possibile, né che le premesse del decreto legislativo sono piene di affermazioni che appartengono alla categoria delle speranze. In ogni caso il decreto, ora sottoposto alla firma del Presidente della Repubblica, contiene un’esplicita modifica, per legge, di provvedimenti giudiziari: modifica dei provvedimenti di sequestro già assunti e non solo modifica per il futuro della legge che li disciplina. E per di più in considerazione di una specifica situazione, una specifica azienda, specifiche persone. Cosa resta del codice penale e del codice di procedura? Cosa resta dell’obbligo per la magistratura di perseguire i reati? Bisognerebbe ricordarsi del fondamento delle democrazie costituzionali moderne, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789): «ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione». 

Intravedere il disastro di istituzioni e principi fondamentali della Repubblica, allarma e rattrista. Tuttavia non manca anche un poco di simpatia, per la magistratura e per il governo. Simpatia però nel senso etimologico del «patire insieme». 


da - http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/quei-vuoti-difficili-da-riempire-OTef3PnqacuvkEBnZV7mPM/pagina.html
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