UMBERTO VERONESI.
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Editoriali
13/03/2013 - il caso
Staminali, lo Stato non è un nemico
Umberto Veronesi
Le cellule staminali sono un tipico caso di “overpromising” della scienza: l’entusiasmo a seguito di una scoperta può essere tale da far nascere troppe aspettative, o far sottostimare i tempi di applicazione. Quando le staminali furono isolate per la prima volta negli anni ‘90, ci rendemmo conto di trovarci di fronte a cellule con una potenzialità unica e straordinaria: il loro immenso spettro di capacità evolutiva fa sì che si possono trasformare in tessuti di organi diversi.
Pensammo allora di essere ad una svolta per tutte le malattie degenerative – per cui avevamo trovato una sorta di serbatoio di cellule di ricambio – e addirittura ipotizzammo di poter sostituire i trapianti d’organo. Dopo 15 anni siamo ancora lontani da tutto questo, anche se nella comunità scientifica la fiducia nelle possibilità di queste cellule rimane intatta. La ragione sta nella difficoltà e nella complessità delle procedure per ottenerle e utilizzarle. In realtà le staminali vanno divise in due famiglie: quelle di un organismo in formazione, l’embrione, sono totipotenti cioè in grado di trasformarsi in ogni cellula o tessuto, mentre quelle ottenute da cellule adulte per essere utilizzate devono essere sottoposte a processi complessi che permettano poi la trans-differenziazione, vale a dire creare tessuti diversi da quelli da cui provengono.
Per ragioni etiche le cellule embrionali non possono essere utilizzate in Italia e in molti altri Paesi, per cui la ricerca si è dovuta concentrare sulle staminali adulte, con le loro difficoltà. Attualmente alcune applicazioni delle terapie con staminali sono: la creazione di cute, ad esempio per riparare ustioni gravi; la creazione di tessuto adiposo utilizzato nella chirurgia ricostruttiva; le cure di strutture dell’occhio, come la cornea, o dell’orecchio. Va anche specificato che esistono staminali allogeniche (che provengono da un altro individuo), singeniche (che provengono da un gemello) e autologhe (che provengono dalla stessa persona).
Le staminali autologhe sono usate nella terapia anticancro per ripopolare il midollo osseo dopo dosi elevate di chemioterapia. Le sperimentazioni, anche in Italia, sono numerose e promettenti, nel campo delle malattie cardiache, neurologiche ed alcune malattie genetiche. Ma per l’applicazione clinica su ampia scala dobbiamo saper aspettare che la ricerca, seguendo i suoi parametri universali e rigorosi per la tutela dei malati, faccia il suo corso. Nel caso delle cellule staminali questo è tanto più vero perché se non sono prodotte in base a metodologie certificate, vi sono rischi per la sicurezza dei malati. In questi giorni i casi di Sofia, la bimba affetta da leucodistrofia metacromatica e degli altri bimbi trattati agli Spedali Civili di Brescia, e poi dei fratelli affetti dalla malattia di Niemann-Pick hanno angosciato e commosso la pubblica opinione. E soprattutto hanno drammaticamente confuso chi sta seguendo sperimentazioni cliniche sulle staminali, chi è in attesa di una cura che pare non arrivare in tempo, e in generale tutte le famiglie che hanno casi di malattie molto gravi. Si chiedono se è giusto o no seguire le indicazioni dei medici e delle istituzioni.
Personalmente capisco molto bene che nelle situazioni più tragiche, anche un tentativo giudicato inutile dalla scienza, appare comunque preferibile alla perdita della speranza. Inoltre come padre e come uomo capisco come la malattia di un figlio possa legittimare a compiere qualsiasi tentativo e a battere qualsiasi strada per guadagnare un’aspettativa per il futuro, anche se di pochi giorni soltanto. Tuttavia come medico e ricercatore rimango convinto che i pazienti debbano seguire le terapie sperimentali certificate dagli enti di sorveglianza, come l’Aifa e l’Istituto Superiore di Sanità, e che gli ospedali debbano seguire le indicazioni di questi organismi che hanno omologhi in ogni Paese civile. Le regole della scienza non sono asettiche e spietate. Sono semplicemente regole, studiate per garantire la massima efficacia e trasparenza, e per evitare abusi da parte di qualche scellerato che tenti di sfruttare commercialmente la disperazione delle famiglie. La Sanità pubblica non lavora per il male della popolazione. Lo Stato non è un nemico.
da - http://lastampa.it/2013/03/13/cultura/opinioni/editoriali/staminali-lo-stato-non-e-un-nemico-LoS8AzEfJYQThp1weKJ4gK/pagina.html
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SOCIETÀ
07/10/2013 - INTERVISTA
Veronesi “Il caso Lizzani? La vita è un diritto non un dovere”
Umberto Veronesi conduce da anni una battaglia a favore dell’eutanasia
L’oncologo: poter morire con dignità è una conquista ancora da fare.
Ci vuole una legge”
FLAVIA AMABILE
Umberto Veronesi non ci sta. Ex ministro della Sanità, oncologo, autore di testi sul diritto all’eutanasia, chiede che si torni a parlare della fine della vita perché morti come quella del regista Carlo Lizzani sono anche «una forte forma di denuncia e di protesta».
Lo ha sostenuto anche il figlio: se in Italia fosse stato possibile, il padre avrebbe chiesto l’eutanasia.
«Purtroppo, invece, in Italia, e anche in molte parti d’Europa, il diritto di morire con dignità è una conquista ancora da fare,. Non è possibile immaginare Mario Monicelli che si alza dal letto di un ospedale, che apre la finestra e si butta giù o i tanti che lo fanno senza avere titoli di giornale. Ci sono mille modi di interrompere la propria vita più serenamente. E’ necessario avviare un dibattito serio».
Un terzo dei suicidi è a carico di chi ha più di 65 anni e metà degli anziani soffre di depressione.
«E’ un problema vero ma non parlerei di depressione, piuttosto di demotivazione alla vita. Sono persone che pensano: sono anziano, non sto bene, sono di peso alla società e alla famiglia, perché devo vivere? È stata presentata una richiesta di legge di iniziativa popolare. Sono state raccolte le firme e presentate. Se si dovesse avviare l’iter di legge si parlerà finalmente di questo complesso tema, e poi tutto è possibile, anche che la legge possa essere approvata. Non dimentichiamo quello che accadde negli anni Settanta con l’interruzione di gravidanza».
Sia in quel caso che ora si tratta di un problema molto sentito dagli italiani. In tanti hanno un parente anziano che non ce la fa più e minaccia di farla finita.
«Abbiamo 3mila suicidi in Italia, tutti purtroppo tragici. La maggior parte si impiccano o si buttano giù dalla finestra. Sono un po’ di meno quelli che si asfissiano con il gas perché è un’operazione lunga, complessa. Ancora di meno quelli che usano i barbiturici perché spesso non funzionano. Rari quelli che si ammazzano con un colpo di pistola perché le armi non si trovano facilmente. È un insieme di vicende tragiche su cui dovremmo ricominciare a riflettere. Se si è stanchi di vivere si ha anche il diritto di andarsene, la vita è un diritto ma non un dovere. Nessuno può toglierti la vita, ma decidere di troncarla da soli è un diritto».
I cattolici sostengono che la vita sia un dono e di conseguenza non si è liberi - né prima della nascita né dopo - di interromperla.
«È verissimo ma esiste anche l’autodeterminazione. Ed in Italia esistono dieci milioni di atei e agnostici e milioni di persone che professano religioni diverse. Quindi chi è fedele agli insegnamenti della Chiesa li segua ma non può pretendere di invadere la legge civile. Chi non è credente ha il diritto di non ascoltare i dettami della religione».
Bisognerebbe provare a vivere sempre e comunque.
«La decisione spetta solo a noi, non è giusto mettere la nostra vita nelle mani di medici che ci torturano con macchine capaci di far vivere un corpo senza coscienza, senza ricordi, senza pensieri. È una forzatura, bisognerebbe assecondare la natura. Eutanasia è un pessimo termine, preferisco parlare di desistenza dalle cure, di aiutare a morire».
Qualsiasi sia il termine che cosa direbbe agli italiani che non hanno più voglia di vivere?
«Di procurarsi una corda o di aprire una finestra: non c’è altra soluzione legittima o accettabile. È assurdo perché uccidersi non è reato, anche il tentato suicidio non è punibile. Allora perché è reato aiutare qualcuno se questa persona ha scritto chiaramente qual è la sua volontà?»
http://www.lastampa.it/2013/10/07/societa/veronesi-il-caso-lizzani-la-vita-un-diritto-non-un-dovere-BRb2GhGuwP9Xqatnil8UwI/pagina.html
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L’intervista
Umberto Veronesi, da psichiatra a oncologo «In un bar di via Pacini ho capito il mio destino»
«Femminista ante litteram», dalla madre Erminia ha imparato «l’intelligenza e la dolcezza delle donne»
Cosa porta un «ragazzo di cascina», nato e cresciuto alle porte di Milano in una modesta famiglia contadina, a diventare uno dei chirurghi oncologi più importanti del XX secolo? Determinazione, studio, passione, intuito, cocciutaggine e una speciale empatia con i pazienti, preziosa eredità di mamma Erminia. Incontriamo Umberto Veronesi, classe 1925, nel suo studio all’Istituto Europeo di Oncologia, di cui è direttore scientifico.
Dalle stalle, quelle vere con gli animali, all’Olimpo della Medicina. La strada è lunga, com’è iniziata?
«Merito di mia madre Erminia, una donna semplice ma di grande intelligenza. Quando mio padre morì lasciandola sola con sei figli, io avevo appena 6 anni. Avrebbe potuto mandare me e i miei quattro fratelli a lavorare nei campi invece si trasferì in città e decise di farci studiare».
Non che lei dimostrasse una gran voglia di stare sui libri, ho letto che fu bocciato due volte. Uno strano inizio per chi poi avrebbe inanellato ben 16 lauree honoris causa e una montagna di riconoscimenti internazionali...
«È successo tanto tempo fa, alle medie. Era una scuola autoritaria, fascista ed io già allora avevo uno spirito ribelle, anticonformista. Poi però divenni uno studente modello: alla maturità classica al Parini passai con la media dell’8».
Perché ha scelto Medicina?
«Ho avuto una vita difficile, turbolenta. Ho fatto la guerra, sono quasi morto a causa di una mina, sono stato partigiano. Ho visto la miseria, la crudeltà ingiustificata, le torture, le sofferenze. Diventando medico e in particolare psichiatra, ho pensato che avrei potuto studiare come il germe del male si insinua nella mente dell’uomo e magari anche come estirparlo».
Allora all’inizio era psichiatria... cosa l’ha spinta verso oncologia?
«La pigrizia. L’Istituto dei Tumori era vicino a casa. Sorseggiando un aperitivo in un bar di via Pacini un amico mi propose di fare tirocinio col professor Pietro Bucalossi: quel giorno ha segnato il mio futuro. Allora l’Istituto era una sorta di lazzaretto, il cancro era una condanna a morte. Rassegnazione e fatalismo regnavano non solo tra i pazienti ma anche tra i medici. Per me fu una folgorazione, ricordo di aver pensato: devo dedicare la vita a questo tema. Volevo sradicare il circolo vizioso secondo cui “nessuno ne parla perché tanto si muore e si muore perché nessuno ne parla”».
Non ha mai avuto tentennamenti?
«I miei professori mi dissero che era pura follia. Ero il primo del corso, avevano grandi progetti su di me: mi volevano specializzando in cardiochirurgia a Houston o in neurochirurgia a Stoccolma. Non ho mai scordato una frase: “ricordati Umberto che la ricerca sul cancro è una ricerca perdente”».
Ha dedicato la maggior parte del suo lavoro alla cura del tumore al seno. C’entra col grande amore che ha per le donne?
«Sono un femminista ante litteram. Mia madre Erminia mi ha insegnato ad ascoltare il mondo femminile, a capire quanto sia dolce, tollerante, intelligente. Vedere i massacri che si operavano sui corpi delle donne mi sconvolgeva. A quei tempi anche per un tumore di pochi millimetri si praticava la mastectomia totale: si toglieva il seno, la pelle, i muscoli, tutti i linfonodi, poi si sottoponeva l’intero torace a radioterapia. Era la regola, non si scappava: un vero scempio».
Lei passerà alla storia per essere il padre della chirurgia conservativa del seno. Una svolta epocale.
«Ricordo la prima paziente che si sottopose a quadrantectomia. Era una giovane donna di 28 anni con un piccolo nodulo. Gli altri medici erano stati irremovibili: o mastectomia totale o niente. Doveva sposarsi di lì a una settimana e piangendo diceva che non poteva presentarsi dal marito senza un seno, che tutta la sua vita - sessuale, affettiva - ne sarebbe stata sconvolta. Preferiva morire piuttosto. Le dissi che avevo una soluzione, firmò per acconsentire all’intervento. Guarì completamente».
E i colleghi?
«Non approvavano, aggrottavano le sopracciglia. Poi nel dicembre del ‘69 al grande convegno di Ginevra dell’Oms proposi di avviare uno studio formalizzato sulla quadrantectomia. Ero giovane, sconosciuto e la mia proposta era rivoluzionaria. Ci fu una sollevazione ma alla fine ottenni il lasciapassare dell’Oms. Nei 10 anni successivi mi sono svegliato ogni notte di soprassalto pensando “se mi sbaglio queste persone sono condannate”».
Poi nel luglio ‘81 il New York Times le dedica la copertina e un articolo a sei colonne.
«Da quel momento le donne americane pretesero, quando possibile, la quadrantectomia. In quel momento sono stato criticato, mi diedero del ciarlatano. Haagensen, il più grande chirurgo americano, mi ha tolto la parola e non me l’ha più ridata».
E la svolta del vegetarianesimo?
«Non ricordo neanche più l’ultima volta che ho mangiato carne. Da bambino avevo un vitello adorabile: lo nutrivo, mi seguiva come un cagnolino... come avrei mai fatto a mangiarlo?
Lei ha un animale domestico?
«Sì un gatto che adoro, si chiama Cipollina. Beh vede? Potrebbe mai mangiarsi Cipollina?».
16 novembre 2013
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Silvia Icardi
Da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_novembre_16/umberto-veronesi-psichiatra-oncologo-in-bar-via-pacini-ho-capito-mio-destino-42167784-4eaa-11e3-80a5-bffb044a7c4e.shtml
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Editoriali
09/03/2014
Ecco perché il futuro è donna
Umberto Veronesi
Come medico delle donne e come sostenitore della scienza al femminile in Europa, credo sarebbe più corretto in futuro discutere di «quote azzurre».
Per prendere posizione oggi nel dibattito sulla parità di genere nella legge elettorale, basterebbe infatti ispirarsi all’equilibrio biologico del Pianeta: l’umanità è composta per metà da donne e per metà da uomini, e dunque la «superiorità» del maschio è una costruzione squisitamente culturale, nata dalle condizioni di vita di secoli fa. O piuttosto una «distorsione», resa necessaria in società in cui la violenza e l’aggressività, tendenze legate al profilo ormonale maschile, avevano una funzione importante perché garantivano l’approvvigionamento del cibo – tramite la caccia e la conquista di territori – e la protezione della prole in comunità dedite principalmente alla guerra. Nelle società moderne tuttavia il quadro è capovolto: la violenza è un handicap, mentre valgono molto di più le capacità di ricomporre i conflitti tramite il dialogo, la comprensione e l’intuizione, che sono prerogative tipicamente femminili. Per questo penso che alle donne andrebbe riconosciuto un ruolo non solo paritario, ma addirittura superiore a quello dell’uomo, perché sono più adatte al mondo di oggi. Da qui la mia provocazione delle «quote azzurre». Ho molto riflettuto sui punti di forza femminili e ne ho raccolti dieci, che ho pubblicato nell’ultimo capitolo del libro «Dell’Amore e del Dolore delle Donne» (Einaudi, 2010). Il primo è di ordine biologico: con la procreazione, la donna ha nelle sue mani la sopravvivenza della specie umana. Senza contare che nei primi mesi di vita, i bambini sono esposti prima di tutto all’influenza materna, dunque il mondo dell’infanzia, che ci determina come adulti, è un mondo femminile. Il secondo è la capacità di unire il ruolo procreativo e materno con quello sociale e lavorativo: una delle conquiste sociali più recenti che non ha ancora espresso tutto il suo potenziale rivoluzionario. Il terzo è la resistenza al dolore e alla fatica. Potrei testimoniare con migliaia di storie, come le donne abbiano una capacità straordinaria di affrontare la malattia e il dolore psicologico e fisico.
Il quarto punto precedente è la motivazione. Così come per un motivo superiore (l’amore per i figli o per la vita stessa) una donna sopporta e supera tragedie profondissime, così per l’attaccamento ad una causa o un’idea è una lavoratrice instancabile, intelligente, tenace. Al quarto è legato il quinto punto che è il senso della giustizia. Già oggi metà dei nostri magistrati è donna e la maggior parte di loro si distingue per integrità e fermezza di giudizio. Il sesto punto è la tendenza all’armonia, che è in linea con il senso femminile per l’organizzazione e l’ordine, molto importante nelle attività gestionali. Il settimo è la maggior sensibilità soprattutto in senso artistico e culturale. Dico spesso che al cinema, a teatro, ai concerti, alle mostre troviamo soprattutto donne, mentre gli uomini riempiono gli stadi.
L’ottavo è la capacità di ragionamento e concentrazione. Al contrario di ciò che si è detto per secoli, la donna è più adatta alle attività scientifiche e di ricerca. Al Campus di ricerca biomolecolare dell’Istituto Europeo di Oncologia, metà del personale è donna e la produttività è straordinaria. Il nono punto è che le donne decidono meglio e più rapidamente nelle situazioni critiche. Cito ancora il mio campo: quando qualcuno si ammala in famiglia, anziani o bambini, è la donna che prende in mano la situazione. Il decimo, a cui ho già accennato è che la donna è portata alle soluzioni diplomatiche e la fine delle guerre è la condizione imprescindibile per il progresso civile. È ovvio che i punti di forza sono molto più di dieci e basta guardarsi intorno: alle nostre compagne, figlie, madri, colleghe per rendersi conto che, quote a parte, il futuro è donna.
Da - http://www.lastampa.it/2014/03/09/cultura/opinioni/editoriali/ecco-perch-il-futuro-donna-jpdzHWiXuKt7sg2SIhEqGL/pagina.html
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Editoriali
10/04/2014
I valori perduti
Umberto Veronesi
La sentenza di condanna di Pier Paolo Brega Massone disegna una vicenda ad un tempo tragica e atroce, ma deve essere innanzitutto un monito per tutto il Paese al recupero dei valori etici originari della medicina. Anche se sempre più si lavora in équipe multidisciplinari, la decisione finale sull’atto terapeutico spetta in gran parte al singolo medico.
E richiede sicuramente esperienza e competenza, ma anche limpidezza ed equilibrio morale. L’asse di questo equilibrio, e dunque il valore fondamentale da rimettere al centro della professione medica, è il rapporto umano con il paziente. Bisogna recuperare la relazione di fiducia fra medico e paziente, che era la parte migliore della medicina paternalistica dello scorso secolo e che si fonda sul dialogo. E’ importante che il medico oggi come ieri sappia ascoltare, ma anche che sappia spiegare in modo chiaro ed esaustivo le cure che propone al malato, e in questo momento soprattutto si gioca la sua onestà. In Italia lo strumento di questo dialogo è il Consenso informato alle cure, che è di per sé una grande conquista dei nostri tempi perché permette al cittadino di riappropriarsi della decisione se e a quali cure sottoporsi. Il problema è che la burocrazia che si è creata intorno al Consenso informato in realtà oggi riduce la comunicazione perché il processo di acquisizione del consenso - che presuppone appunto il capire e il condividere - si è risolta in buona parte in moduli e modulistiche che portano ben lontano da quella che era l’intenzione del legislatore. Oggi fra medico e paziente si è creata una distanza eccessiva, uno spazio asettico che va urgentemente ricolmato. I medici del futuro dovranno recuperare la dimensione umana delle medicine antiche.
Da - http://lastampa.it/2014/04/10/cultura/opinioni/editoriali/i-valori-perduti-4K2NGc6zTblD1a0sAYzCDL/pagina.html
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