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Autore Discussione: Sergio RIZZO e Gian Antonio STELLA -  (Letto 10649 volte)
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« inserito:: Luglio 20, 2011, 10:05:44 am »

SPRECHI E PRIVILEGI, RIDURLI SI PUÒ

La Casta paghi. Qualche idea...

No, non possono chiedere ai cittadini di fidarsi ancora. Se Gianfranco Fini si dice «certo», in una lettera a il Fatto quotidiano, che «entrambe le Camere faranno la loro parte» e che i tagli ai costi della politica saranno «votati in Aula prima della pausa estiva» non può pretendere che gli italiani gli credano sulla parola. Sono stati già scottati troppe volte. Carta canta. Le promesse, le rassicurazioni e gli impegni non bastano più. Il presidente della Camera, nella sua prima intervista dopo l'insediamento, convenne che «il primo dei buoni esempi che devono dare i parlamentari è quello della presenza» perché «il vero costo che produce la "casta" è quello della improduttività». E ammonì: «I parlamentari devono essere presenti e lavorare da lunedì a venerdì, non tre giorni a settimana». Risultato? Prendiamo quest'anno: dal 1° gennaio a oggi, su 28 venerdì in calendario, quelli con sedute in Aula sono stati 2. Non sarà colpa sua, ma è così.

Quanto a palazzo Madama, Renato Schifani si prese mesi fa lo sfizio, nel corso della seduta imposta per varare la riforma universitaria voluta dal governo, di bacchettare i soliti criticoni: «Oggi, 23 dicembre, antivigilia di Natale, siamo qui a lavorare». Ciò detto, diede appuntamento a tutti al 12 gennaio 2011: 20 giorni dopo. Da allora, l'Aula è stata convocata 68 giorni su 198 e mai (mai!) di venerdì. Come del resto era successo in tutto il 2010: mai. C'è il lavoro in commissione? Anche a Washington. Eppure lì, dice uno studio di Antonio Merlo della Pennsylvania University, il Senato lavora in media 180 giorni l'anno: il 54% in più. Con un assenteismo 10 volte più basso.
Quanto ai costi, la Camera e il Senato Usa nel 2011 pesano insieme sulle pubbliche casse circa cento milioni meno dei nostri. Ma in rapporto alla popolazione, ogni americano spende per il suo Parlamento 5,10 euro l'anno, ogni italiano 27,40: cinque volte e mezzo di più. Diranno: ma poi lì ci sono i parlamenti statali. Vero: ma in California c'è un parlamentare locale ogni 299mila abitanti, in Lombardia ogni 124mila. Nel Molise ogni 10.659.

Questo è il quadro. C'è poi da stupirsi se una pagina di Facebook aperta domenica mattina da un anonimo ex dipendente della Camera deciso a vuotare il sacco sotto il titolo «I segreti della casta di Montecitorio», alle otto di sera aveva 135 mila «amici»? L'impressione netta è che, mentre chiedono ai cittadini di mettersi «una mano sul cuore e una sul portafoglio», per usare un antico appello di Giuliano Amato riproposto da chi aveva seminato l'illusione di non mettere mai le mani nelle tasche degli italiani, quelli che Giulio Einaudi chiamava «i Padreterni», non si rendano conto che il rifiuto di associarsi a questi sacrifici rischia di dar fuoco a una polveriera.

Come possono imporre «subito» i ticket sanitari fino a 45,5 euro a operai e impiegati rinviando a «domani» (quando?) l'inasprimento del costo a carico dei parlamentari dell'assistenza sanitaria integrativa? Come possono imporre «subito» un taglio alla rivalutazione delle pensioni oltre i 1.400 euro rinviando a «domani» (quando?) quello dei vitalizi loro, che nel 2009 hanno pesato per 198 milioni di euro e pochi mesi fa sono stati salvati con voto plebiscitario dalla proposta che voleva trasformarli in pensioni «normali» soggette alle regole comuni? Come possono imporre «subito» il raddoppio della tassa sul deposito titoli che colpirà i piccoli risparmiatori rinviando a «domani» (quando?) l'abolizione di quell'infame leggina che consente a chi regala denaro ai partiti di avere sconti fiscali 51 volte più alti di quelli concessi a chi dona soldi alla ricerca sulle leucemie infantili?
Nessuno contesta la necessità di provvedimenti anche duri. È irritante subirli dopo aver sentito e risentito che «la crisi è già alle spalle» (Renato Brunetta, agosto 2008), che occorreva «finirla con i corvi del malaugurio» (Claudio Scajola, febbraio 2009) e che chi diffidava dell'ottimismo era un «catastrofista» che alimentava, come tuonò Silvio Berlusconi nel maggio di due anni fa, «una crisi che ha origini soprattutto psicologiche». Ma è così: quando la casa brucia, va spento l'incendio. Costi quel che costi. Ma il golpe notturno che, con un paio di emendamenti pidiellini, ha stravolto all'ultimo istante la manovra di Tremonti che prevedeva l'adeguamento delle indennità dei parlamentari italiani a quelle dei colleghi europei, non è solo un insulto ai cittadini chiamati a farsi carico della crisi. È una scelta che rischia di delegittimare la stessa manovra delegittimando insieme la classe dirigente che la propone al Paese. Non è più una questione solo economica: è una questione che riguarda il decoro delle istituzioni. La rappresentanza. La democrazia stessa.

Il governo, la maggioranza e la stessa opposizione sono certi di essere nel giusto e che quanto prima metteranno mano sul serio ai costi della politica? Mettano da subito tutti i costi in piazza, su Internet. Tutto pubblico: stipendi, prebende, assunzioni, distribuzione delle cariche, consulenze, curriculum dei prescelti, voli blu, passeggeri a bordo, tutto. Barack Obama, pochi giorni fa, ha rivelato che i suoi più stretti collaboratori alla Casa Bianca prendono al massimo 172.200 dollari lordi: 118.500 euro. Cioè 15 mila in meno di quanto poteva guadagnare quattro anni fa un barbiere del Senato. Hanno o non hanno diritto, anche i cittadini italiani, a essere informati?

È stupefacente, oltre che offensivo, che in un momento di difficoltà qual è questo, una classe politica obbligata a farsi «capire» da un Paese scosso, impoverito, spaventato, non capisca la drammatica urgenza di una svolta. Ed è sconcertante che ancora una volta, a chi chiede conto dell'arroccamento in difesa delle Province o dei rimborsi elettorali cresciuti fra il 1999 e 2008 addirittura 26 volte di più del parallelo aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici (per non dire di quelli privati...) risponda rinviando tutto a una riforma complessiva ormai entrata nel mito come l'«Isola che non c'è» di Peter Pan.

Una riforma che, in un futuro rosa pastello, vedrà finalmente ricomporsi in un magico e perfetto equilibrio la Camera e il Senato, il Quirinale e le città metropolitane, le province e le circoscrizioni e i bacini imbriferi montani. Un mondo meraviglioso dove tutti vivremo finalmente felici e contenti. Con Biancaneve, Pocahontas, Cip e Ciop.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

18 luglio 2011 07:30© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_18/rizzo-stella-casta_4d7c4256-b0fb-11e0-8890-9ce9f56cae65.shtml
« Ultima modifica: Agosto 31, 2011, 12:10:58 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 10, 2011, 11:40:26 am »

MENO COSTI, I POLITICI DIANO L'ESEMPIO

Sì ai sacrifici, cominci la casta

Sotto lo slogan «No problem. W l'Italia», quasi surreale di questi tempi, il governatore calabrese Giuseppe Scopelliti partecipa nelle vesti di «Peppe Dj» alla diretta radio di Rtl 102.5 . Evviva. Il guaio è che i soldi per sponsorizzare «Miss Italia nel mondo» e tre settimane di «diretta» dal lungomare reggino, accusa il Corriere della Calabria, sarebbero stati presi dall'amputazione dei fondi per il «contrasto alla povertà e il sostegno alle famiglie».

Di là dello Stretto, in Sicilia, dove l'assessorato al Turismo offre 600 (seicento) serate-show compresi i «Nuovi Angeli» a Comitini, centinaia di pensionati-baby sfruttano la legge 104 (parente disabile da accudire) e vanno a prendere assegni regionali che sono mediamente di 45.447 euro l'anno, il triplo di una pensione media dell'Inps.

Alla Regione Lazio, che schiera 11 dipendenti per ogni «onorevole» (Palazzo Madama ne ha 3 per ogni senatore), il vitalizio degli ex consiglieri, che vanno in pensione anche a 50 anni, è calcolato non solo sull'indennità ma addirittura sulla diaria. La diaria! A Bologna la proposta del nuovo sindaco pd di ridefinire l'area metropolitana svuotando la Provincia è avversata dalla presidentessa pd della Provincia che punta anzi a una nuova sede da 31 milioni.

Nel Veneto, il consigliere Massimo Giorgetti ha ritirato la delega a una trattenuta dal suo stipendio di 500 euro: era stufo di essere l'unico baccalà ad aver preso sul serio la legge «moralizzatrice» votata dai colleghi all'unanimità. A Verona il presidente della municipalizzata luce e gas, che è anche segretario della Lega (messo lì dal sindaco leghista: l'avessero fatto i dicì o i comunisti apriti cielo!), ha deciso di sponsorizzare l'Hellas: 700 mila euro. Offrendo pure uno sconto sulle bollette a chi fa l'abbonamento allo stadio.

Pochi episodi. Che mostrano come i costi della politica, diretti o indotti, non riguardino solo Roma. Anzi, sotto certi aspetti i privilegi, gli sprechi, le megalomanie (si pensi alle «ambasciate» aperte dalle regioni in giro per il pianeta) sono più estesi, gravosi e difficili da sradicare là dove l'occhio dei cittadini è meno attento.

Tutto ciò pone a chi oggi deve chiedere sacrifici agli italiani un obbligo morale: per chiedere quei sacrifici deve farne. Dimostrando di volere dare davvero un taglio a un andazzo che appare sempre più insopportabile. Vale per il Palazzo, per lo Stato centrale, per gli enti locali.

E non ne usciremo invocando l'autonomia e il federalismo (troppe volte interpretati come capriccioso arbitrio) quasi fossero la panacea di tutti i mali. Serve una svolta. Che riconosca, ovvio, il diritto di ciascuno a governarsi e assumersi le proprie responsabilità. Ma con paletti rigidi. Il prezzo di tanti reucci, principi e ducetti decisi a ingraziarsi la plebe non ce lo possiamo permettere.
Come ricorda nella sua ultima requisitoria il procuratore generale siciliano della Corte dei conti, Giovanni Coppola, una certa deriva politica disperde enormi quantità di denaro in migliaia di gocce clientelari. Ogni goccia è solo una goccia. «Ma in definitiva il mare è formato da tante gocce d'acqua». E noi rischiamo di annegarci.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

10 agosto 2011 07:23© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_10/si-sacrifici-cominci-la-casta-rizzo-stella_e4c9e004-c30d-11e0-989a-eed57ce4aa2c.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 14, 2011, 11:01:51 am »

Sugli enti locali solo un primo passo

Le poltrone e i tagli Le scelte non fatte dalla classe politica


Dice il presidente pidiellino della provincia di Isernia, Luigi Mazzuto, che è tutta colpa del «solleone di Ferragosto che dà alla testa e gioca brutti scherzi». Figurarsi se il «suo» Berlusconi, solo perché le Borse hanno avuto un crollo apocalittico, va a tagliare davvero la sua Provincia! E intorno a lui, dal profondo Nord al profondo Sud, cova la rivolta.

Al punto che perfino l'aspetto più «spettacolare» della nuova manovra viene messo a rischio. Chiariamo subito: il proposito di tagliare le Province è un segnale importante.
Tanto più che solo un mese fa Pdl e Lega avevano sepolto sotto una valanga di no la proposta dipietrista di togliere gli enti dalla Costituzione, primo passo per la loro abolizione. La rottura della diga leghista, che aveva fino ad oggi impedito ogni taglio è una svolta poche settimane fa impensabile. Evviva.

Sarebbe ingiusto se chi chiede alla politica di tagliare in modo significativo non lo riconoscesse: è un passo avanti. Come quello del Pd che propone oggi, in alternativa al piano tremontiano, non solo lo «snellimento di Regioni, Province, Comuni», ma addirittura il «dimezzamento o più delle Province». Puzza di ipocrisia, dopo l'astensione di un mese fa che rafforzò il «no» della destra e più ancora dopo le motivazioni («Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per mandare un segnale», tuonò Dario Franceschini) che erano state addotte. Ma è un passo avanti.

Detto questo, facciamo un po' di conti. L'annuncio era stato: «Abolite tutte le Province sotto i 300 mila abitanti». Totale: 37. Poi è arrivata la precisazione: tranne quelle più grandi di tremila chilometri quadrati. Ed ecco sfilarsi Oristano e Sondrio e poi Olbia-Tempio Pausania e Matera e Siena e Grosseto e Nuoro e Belluno. E siamo già a 29.

Poi è entrato in campo, contro il governo berlusconiano, il berlusconiano governatore del Friuli-Venezia Giulia Renzo Tondo, ricordando che la competenza su queste faccende, a casa sua, non è di Roma e dunque le Province di Trieste e Gorizia non saranno abolite, ma semmai accorpate. Anzi, già che c'era ha precisato che lui non abolirà neppure i Comuni sotto i 1.000 abitanti: «Manterranno i municipi e i sindaci, ma verranno accorpati i servizi». E da 29 scendiamo a 27.

Mille chilometri più a sud, a quel punto è stata la volta dei siciliani che per bocca sia del leader democratico Antonello Cracolici sia dell'assessore lombardiano Gaetano Armao hanno precisato che l'isola è ancora più autonoma e dunque, semmai, le Province le aboliscono tutte loro, senza diktat romani. Per precisare meglio la cosa è intervenuto anche Gianfranco Micciché, che è sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ma scrive sul suo blog: «In questo governo siede tanta gente che non conosce il Paese. Esempio: l'accorpamento delle Province regionali di Enna e Caltanissetta è il risultato "matematico" del criterio adottato dal governo, ma è un risultato aberrante». E così, tolte Enna e Caltanissetta, caliamo a 25.

Potevano a quel punto tacere i sardi? Manco per idea. Ed ecco arrivare da Cagliari un'agenzia, chiaramente ispirata ai vertici regionali, che ricorda come «tutte le Province della Sardegna potrebbero sopravvivere alla soppressione» (e così i comuni sotto i 1.000 abitanti) perché «l'articolo 3 dello statuto speciale, testo di rango costituzionale mentre il decreto delineato dal Consiglio dei ministri avrà valore di legge ordinaria, attribuisce alla Regione potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni, seppure "in armonia con la Costituzione"». E anche se il governatore Ugo Cappellacci ribadisce di avere lui pure l'intenzione di tagliare, sfiliamo per ora dalla lista anche quelle di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell'Ogliastra. E da 37 siamo già scesi a 22. Un quinto del totale. A dispetto di quanto annunciato da Roberto Calderoli: «Aboliremo dal 25 al 35%. Ovviamente dopo il censimento previsto a ottobre».

Avanti così rischiamo di entrare nel giochetto caro ad Agatha Christie: «Dieci poveri negretti / Se ne andarono a mangiar / uno fece indigestione, / solo nove ne restar. / Nove poveri negretti / fino a notte alta vegliar / uno cadde addormentato, / otto soli ne restar...».
Tocchiamo ferro, ma alla fine potrebbe spuntarla il coro di quanti si ribellano come il presidente molisano: «Se le Province sono inutili allora perché ne aboliscono solo alcune?». Per salvare quelle che pesano di più dal punto di vista elettorale o contano di più per Bossi che disse «se toccano Bergamo scoppia la guerra civile»? Meglio una scelta netta: via tutte. Magari procedendo con una road map che abbia date e scadenze fisse. Ma tutte, come era già previsto dai padri costituenti. Oppure il processo rischia di incepparsi e rivelarsi una boutade per placare i cittadini infuriati. L'idea di uscirne con un «dose omeopatica» di Province può essere suicida.

In questo momento in cui gli statali scoprono che dovranno aspettare due anni (due anni!) per avere la liquidazione, nulla è più controproducente per la casta politica che dare l'impressione di rifilare alla plebe zuccherini propagandistici. Due esempi? Lo sbandieramento di un taglio di «54 mila poltrone», che avverrebbe attraverso l'accorpamento (giusto) dei Comuni piccoli e piccolissimi. Che senso ha vantarsi di tagli simili? Non prendono un centesimo, nella stragrande maggioranza dei casi, i consiglieri di quei comuni. E spesso sono proprio loro, con gli assessori e i sindaci, i più generosi testimoni della politica sana e disinteressata.

Ancora più peloso è menar vanto, senza toccare mille altre cose, per la decisione che deputati e senatori paghino non il 10%, ma il 20% sui loro guadagni che eccedono i 150 mila euro. Quello che viene accuratamente rimosso è che larga parte della busta paga «vera» di un parlamentare (che poi dia dei soldi al partito ingordo è un'altra faccenda) consiste in diarie e rimborsi che non finiscono nell'imponibile. Tanto è vero che ci sono parlamentari che denunciano meno di 50 mila euro. Bene: sapete quanti senatori, stando all'ultima denuncia dei redditi disponibile, non arrivano a quel tetto che prevede la soprattassa? Il 45%, abbondante. Quanti deputati? Addirittura 378, pari al 60%. Totale: 523 parlamentari su 951 non lo pagheranno, quel raddoppio di una tantum . E gli altri lo pagheranno solo perché, oltre a quello del parlamentare, fanno troppo spesso altri lavori. Cosa che, nei Paesi seri, è vietata. Perché, direte, non introducono invece questo divieto a mantenere i piedi in due staffe? Ovvio: è molto più conveniente pagare la soprattassa. E magari vantarsene pure.

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella

14 agosto 2011 09:58© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_14/rizzo-stella-le-poltrone-e-i-tagli-le-scelte-non-fatte_2f6db068-c647-11e0-a5f4-4ef1b4babb4e.shtml
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 31, 2011, 12:00:48 pm »

BUONE INTENZIONI E AMARE REALTA'

L'evasiva lotta all'evasione


Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati...) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.

Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.

E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.

È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà...) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.

Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: "Questa è una rapina". Un impiegato: "Ah, credevo fosse la Finanza"».

È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).

E solo due mesi fa impose l'altolà alla offensiva contro gli evasori tuonando a Pontida: «Già martedì voteremo un decreto che metta dei paletti all'azione di Equitalia. Ci sono agricoltori che si sono visti sequestrare trattori, balle, mucche. Così non possono lavorare...». Tesi rafforzata, mentre venivano rimosse le «ganasce fiscali» e allungati di altri 180 giorni in tempi per i contenziosi, dalle parole di altri leghisti. Come Matteo Salvini: «In certi casi Equitalia pratica lo strozzinaggio». Per non dire della minaccia di Calderoli di uno sciopero fiscale se non fossero stati trasferiti alcuni ministeri al Nord.

Si sono convertiti? Bene: anche San Paolo, prima di restare folgorato sulla via di Damasco, aveva altre idee. Saranno però chiamati a darne prova in modo convincente su certi punti scabrosi. L'Agenzia delle Entrate sta lavorando, ad esempio, a una stretta sulle società di comodo. Quelle, per intenderci, cui sono intestate barche e ville (compresi lo yacht di Flavio Briatore o la Certosa di Porto Rotondo) per fare marameo al Fisco. Passerà, quella stretta? E come?

Non si tratta di convincere solo i cittadini. La stessa Corte dei Conti due anni fa, davanti all'ennesimo ipotetico pacco di miliardi da ricavare dalla guerra agli evasori e messo alla voce «entrate», usò parole dure: «Sussiste il problema dell'incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all'evasione a causa dell'assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l'effettivo recupero di evasione agli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima». Parole al vento. Ma pesanti come pietre. Tanto più alla luce di una manovra composta, come quella attuale, per oltre il 60% da aumenti delle entrate e per meno del 40 da tagli alle spese. Auguri.

Quanto ai «costi della politica», viene un sospetto: che per lasciare che tutto rimanga com'è, stiano «promettendo» che tutto cambierà. Vale per il dimezzamento dei parlamentari, vale per l'abolizione delle Province. Affidati a un mitico disegno di legge costituzionale destinato a fare 4 passaggi parlamentari in un anno e mezzo. Il tutto dopo anni di ringhiose barricate leghiste. Dopo che ai primi di luglio la stessa maggioranza aveva seppellito alla Camera sotto una valanga di no l'identica legge proposta dall'Italia dei Valori. Dopo che solo alla vigilia di Ferragosto, davanti ai crolli in Borsa, la prima versione della manovra aveva deciso di abolirne 37 poi scese a 29 e infine a 22. Anche qui, auguri.

Non possono pretendere però che i cittadini ci credano così, al buio. Non dopo avere scoperto che quel famoso progetto di riforma storica e immediata sventolato da Roberto Calderoli non è mai (mai) stato depositato. Non dopo aver letto sul «Giornale» tre anni fa un titolo a 9 colonne: «Via alla manovra: abolite nove Province». Non dopo avere trovato su «La Padania» di due settimane fa, a proposito di «svolte epocali» già oggi evaporate, il titolone «La Casta colpita al cuore». Questa volta gli annunci non bastano più. Non solo ai mercati: ai cittadini.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

31 agosto 2011 07:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_31/l-evasiva-lotta-all-evasione-sergio-rizzo-gian-antonio-stella_347e05bc-d38f-11e0-85ce-5b24304f1c1c.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 09, 2011, 06:02:24 pm »

Il dossier

Indennità e vitalizi d'oro, la beffa dei tagli alla politica e le promesse non mantenute

Non c'è traccia di «scelte epocali» e risparmi milionari.

Via anche la norma sull'ineleggibilità dei corrotti

   
«E tu osi credere ai tuoi occhi invece che a me?». Il fastidio con cui nella maggioranza vivono lo scetticismo dei cittadini nei confronti dei tagli alla politica ricorda la battuta di una leggendaria diva del cinema al marito che l'aveva sorpresa a letto con un amante: ma come, non ti fidi?

Il guaio è che di impegni, promesse, giuramenti, in questi anni ne abbiamo sentiti davvero troppi. Prendiamo due titoli di poche settimane fa dell'Ansa. Il primo: «Ok a bilancio Camera, tagli per 150 milioni». Il secondo: «Via libera Senato a tagli per 120 milioni». Non c'è estate, praticamente, che le agenzie non annuncino tagli radicali. Tutti futuri: il prossimo anno, nei prossimi due anni, nei prossimi tre anni... Poi vai a vedere e scopri che le spese correnti, quelle che contano, non scendono mai. E se Montecitorio nel 2001 costava 749,9 milioni di euro oggi ne costa un miliardo e 59 milioni. Sforbiciata reale nel 2011: meno 0,71%. E se Palazzo Madama dieci anni fa costava 349,1 milioni oggi ne costa 574. Con un aumento del 65%. In un decennio in cui il Pil pro capite italiano è calato del 4,94%. Sforbiciata reale nel 2011: 0,34%. Meno di un centesimo della amputazione radicale ai fondi per la cultura, falcidiati in un decennio del 50,2%.


E se al Quirinale va riconosciuto d'avere tentato di frenare la macchina impazzita e ormai quasi incontrollabile con un aumento del 5,07% negli ultimi anni seguiti al divampare delle polemiche sui costi della politica, non si può dire lo stesso per il Senato (+9,37%), la Camera (+12,64), la Corte Costituzionale (+11,48) e soprattutto il Cnel, schizzato all'insù, dopo un periodo di magra, del 20% tondo: il quadruplo dell'aumento del Colle.


Non diversamente è andata con altri impegni solenni. «Costi della politica, tagli epocali» era il titolone de «la Padania» di tre settimane fa. All'interno, lo stesso entusiasmo strillato a tutta pagina: «La Casta colpita al cuore». E il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli sventolava una serie di successi trionfali: taglio delle Province, taglio dei seggi e degli stipendi dei Consigli regionali, taglio dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, taglio complessivo di 54 mila «poltrone». Pochi giorni e il trionfo si ridimensionava. Ed ecco emergere che le Province in via di soppressione da 37 scendevano a 22, il taglio dei seggi e degli stipendi dei consigli regionali non poteva violare l'autonomia degli enti e dunque era affidato a un «ricatto virtuoso» (o tu tagli dove dico io o io taglio a te un po' di finanziamenti), i Comuni più piccoli non ne volevano sapere e le 54.000 «poltrone» si rivelavano così poco «lussuose» che dopo la pubblicazione sulla «Gazzetta Ufficiale» anche un giornale non ostile come «Libero» denunciava in un titolo: «Nella manovra non è previsto neppure un euro di ricavi dalle sbandierate soppressioni di Comuni e Province: segno che non ci credono neppure loro». Qualche giorno ancora e saltavano sia l'accorpamento dei piccoli Municipi che l'abolizione delle poche Province, rimandata a un lunare disegno di legge costituzionale. Come volevasi dimostrare.

Più o meno lo stesso tormentone che da anni ruota intorno alla soppressione degli enti inutili, bollati addirittura nella prima versione del codice delle autonomie, provvedimento governativo arenato in Senato da quattordici mesi, come «enti dannosi». Estate 2008: «Entro quest'anno sugli enti inutili calerà la ghigliottina». Estate 2009: «Via 34.000 enti inutili». E via così. Il risultato si può leggere nella relazione tecnica della manovra del 2011: «L'abrogazione degli enti con dotazione organica inferiore alle 50 unità non ha prodotto alcun risparmio». Enti tagliati? Manco uno. Ed ecco il 13 agosto scorso una nuova Ansa: «Via gli enti pubblici non economici con una dotazione organica inferiore alle settanta unità». Lo prevede il testo della manovra ma «con esclusione degli ordini professionali e loro federazioni, delle federazioni sportive, degli enti la cui funzione consiste nella conservazione e nella trasmissione della memoria della Resistenza e delle deportazioni». Restano fuori anche le organizzazioni per la Giornata della memoria, del Giorno del ricordo, le Autorità portuali e gli enti parco. Tempi? «Gli enti sotto le 70 unità sono soppressi al novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della manovra». Da allora, di giorni, ne sono passati venti. E invece che essere soppressi gli enti inutili, nella nuova versione della manovra, è stata soppressa la loro soppressione. Andiamo avanti?

Nella prima bozza Tremonti del 23 giugno era previsto che «i compensi pubblici erogati a qualsiasi titolo, politico o di pubblico servizio, ed a qualsiasi livello, tanto centrale quanto regionale, provinciale o comunale, non possono superare quelli erogati per i corrispondenti titoli europei». Traduzione: basta con le indennità e gli stipendi troppo alti rispetto alla media Ue. Decisione sacrosanta. Ma una misteriosa manina ha nottetempo infilato nel testo di un emendamento di poche paroline e la media europea di riferimento è diventata «ponderata rispetto al Pil» e limitata ai «sei maggiori Paesi», così da tagliar fuori i Paesi che avrebbero fatto abbassare le buste paga. Un giochetto che, secondo una nota interna della Cisl, avrebbe messo in salvo circa mille euro al mese.
Ancora più divertente, si fa per dire, è l'epilogo della promessa di adeguare le regole italiane a quelle straniere, che in molti casi vietano espressamente a chi è pagato per fare il parlamentare di fare altri lavori. Facoltà che in certi casi (ad esempio quello del medico Antonio Gaglione, che ha detto di non avere nessunissima intenzione di dimettersi e rinunciare alle prebende) ha portato anche al 93% di assenze.

La riforma sbandierata all'inizio prevedeva il taglio del 50% dell'indennità lorda. Poi il trauma è stato ridimensionato col raddoppio del prelievo di solidarietà, il 20% oltre i 90 mila e il 40% oltre i 150 mila. Ma siccome pochissimi hanno una indennità superiore a questa cifra (quelli che guadagnano molto lo devono proprio all'attività privata) la percentuale di riferimento reale è quella del 20%. Facciamo due conti? Dato che l'indennità lorda di un deputato semplice è di 140.443 euro e 68 centesimi lordi l'anno (poi bisogna aggiungere le diarie e rimborsi vari, al netto) un doppiolavorista avrebbe avuto con la prima versione delle nuove regole, un taglio di 70.221 euro e 84 centesimi. Con le regole nuove, 10.088 euro e 73 centesimi. Un settimo. Non bastasse, mentre il prelievo di solidarietà «doppio» non aveva scadenza, l'ultima versione dice esplicitamente che dura tre anni: 2011, 2012 e 2013. Non solo: non tocca più la Corte Costituzionale e il Quirinale. Che com'è noto, alla denuncia di Roberto Castelli, ha risposto bruscamente: tutta farina vostra, noi non c'entriamo, è il governo che decide.

Non bastasse ancora, la legge che vietava l'accumulo di cariche e già era di fatto ignorata (si pensi che siedono in Parlamento vari presidenti provinciali, da quella di Asti a quelli di Foggia, Bergamo, Salerno, Brescia...) è stata addirittura annacquata: l'incompatibilità assoluta fra incarico parlamentare e altre cariche elettive, introdotta nella prima versione della manovra agostana, si è ridotta a vietare l'accumulo del seggio alle Camere con le cariche elettive «monocratiche», presidenti provinciali e sindaci di Comuni oltre i 5 mila abitanti. Non con altre poltrone, come quelle di assessori o consiglieri provinciali e comunali. E non basta ancora. Nella prima bozza della manovra di luglio si diceva che dopo la scadenza dell'incarico nessun «titolare di incarichi pubblici, anche elettivi, può continuare a fruire di benefici come pensioni, vitalizi, auto di servizio, locali per ufficio, telefoni, etc...» Nel testo approvato, sorpresa sorpresa, è sparito ogni riferimento a «pensioni e vitalizi». Anche lì, la solita manina? Ma non è finita. Da giugno scorso giace alla Camera un altro disegno di legge che era stato sbandierato in pompa magna dal governo il 1° marzo 2010, sull'onda degli scandali sui grandi eventi e la Protezione civile: quello contro la corruzione. Ricordate?

Suonarono le trombe: «Nessuno mai è stato così duro contro i corrotti!».
Dopo più di un anno il disegno è stato approvato in Senato, ma diverso da come era nato. Nel testo iniziale si stabiliva per la prima volta che una persona condannata con sentenza definitiva a una pena superiore a due anni per reati come la corruzione non potesse venire eletta in Parlamento. In quello approdato a giugno dalla Camera la norma tassativa e immediatamente applicabile dopo l'approvazione della legge è diventata una «delega al governo per l'adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e divieto di ricoprire cariche di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi». Ricapitoliamo? Prima bisognerà approvare la legge. E già immaginiamo che verrà opportunamente modificata alla Camera per poi tornare in terza lettura al Senato... Un annetto per ogni passaggio e già siamo fuori tempo massimo. Ma se per miracolo dovesse superare l'esame del Parlamento prima della fine della legislatura, da quel momento il governo avrà ancora un anno di tempo per scrivere la delega. Campa cavallo... Per capire cosa è successo «davvero» è sufficiente citare un caso: quello di Salvatore Sciascia, l'ex manager Fininvest condannato in via definitiva a due anni e mezzo per corruzione della Guardia di finanza e portato nel 2008 in Senato. Come ha votato? Indovinato: a favore.

Per chiudere, a parte la sottolineatura che la telenovela intorno all'abolizione della metà dei parlamentari ormai giunta alla 1327a puntata è ancora aperta a ogni colpo di scena, vale la pena di ricordare che nonostante tutte le promesse è ancora in vigore la leggina più infame che, sotto l'infuriare delle polemiche, si erano impegnati a cambiare. Quella sulle donazioni. La quale riconosce a chi regala 100.000 euro alla ricerca sul cancro o ai lebbrosi uno sconto fiscale di 392 euro e chi regala gli stessi soldi a un partito politico uno sconto 50 volte più alto. Giuravano tutti che sarebbe stata spazzata via: e ancora lì.
E i cittadini dovrebbero fidarsi delle promesse di oggi?

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

09 settembre 2011 11:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_settembre_09/rizzo-stella-tutte-le-promesse-non-mantenute_46b89716-daa5-11e0-9c9b-7f60b377ee16.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:34:34 pm »

L'inchiesta

I primi tagli: iniziare dalla politica

L'agenda di governo di Mario Monti non può che cominciare dalla B. Berlusconi? No: Burocrazia


L'agenda di governo di Mario Monti non può che cominciare dalla B. Berlusconi? No: Burocrazia. Racconta il progettista della stazione Tiburtina di Roma di una conferenza dei servizi, «decisa per accelerare», con 38 partecipanti: trentotto! Un delirio: i 456 mila euro per dare le fotocopie del progetto a tutti gli invitati sono o no un costo della politica? Sì.
Ed è lì che, per fare le altre riforme necessarie, il nuovo premier dovrà mettere mano. Anzi, proprio per toccare il resto, dovrà «prima» affondare il bisturi lì: nel grasso della cattiva politica.

Va da sé che in una situazione come la nostra, dove i veti incrociati sono un incubo e il governo non può imporre alle Regioni manco la cilindrata delle autoblu senza beccarsi un ricorso alla Corte costituzionale, la strada del nuovo premier non sarà in discesa. Anzi. Le resistenze saranno vischiose, le ostilità mascherate ma callose: meno funziona la macchina dello Stato più certi politici possono mettersi di traverso, sollecitare un aiutino che dovrà poi essere ricambiato, allargare la clientela. Al punto che, dice la Corte dei conti, il costo supplementare delle «bustarelle» pretese per oliare il sistema sarebbe di 60 miliardi l'anno. Una somma che prima del decollo dello spread fra i BtP e i Bund tedeschi sarebbe bastata a pagare gli interessi annuali sul nostro debito pubblico.
E forse non è un caso se la legge anticorruzione, approvata fra squilli di trombe dal governo Berlusconi il primo marzo 2010, giace da un anno e sette mesi sotto la polvere. Il premier incaricato potrebbe partire da qua. In ogni caso, come dicevamo, un punto è certo: incidere sui costi più offensivi della cattiva politica, gli consentirebbe di raccogliere nel Paese, tra i cittadini, quel consenso necessario non solo a scardinare le resistenze più corporative dentro il Parlamento, ma a spiegare poi a quegli stessi cittadini che qualche medicina amara andrà deglutita. Un'opera di convincimento possibile solo a una classe dirigente capace di recuperare la credibilità perduta. Partendo, magari, da questo abbecedario.

A Auto blu
«Le abbiamo già dimezzate!», ha detto la ministra della Gioventù Giorgia Meloni mercoledì a La7. Il ministero della Difesa, che ha un centinaio di auto blu e 700 auto «grigie» nonostante solo in 14 avrebbero diritto al privilegio aveva appena acquistato 13 Maserati quattroporte blindate: alla faccia della manovra di luglio, che aveva stabilito la cilindrata massima di 1.600. Se ha ragione Brunetta si potrebbe risparmiare un miliardo l'anno. Da subito.

B Bilanci
È la riforma più urgente: i bilanci di Stato, Regioni, Province, Comuni sono un caos. Voci diverse, capitoli diversi, strutture diverse: ognuno fa come gli pare. Il tutto nella nebbia volutamente più fitta. Cosa c'è nei 50 milioni di euro della voce «fondo unico di presidenza» di palazzo Chigi? I soldi per le operazioni «discrete» degli 007 o la tinteggiatura dei muri? Servono bilanci unici, trasparenti, che lascino piena autonomia politica ma siano leggibili da tutti (le fognature si chiamino fognature, le consulenze consulenze) dove si capisca quanti soldi si spendono e per che cosa. Così i cittadini potranno fare dei confronti innescando una spirale che porterà a risparmi veri.

C Conflitto d'interessi
L'Italia è diventata una Repubblica fondata sul conflitto d'interessi. Basta con presidenti del Consiglio proprietari di reti televisive, ma anche assessori alla salute titolari di aziende fornitrici della sanità pubblica, sottosegretari proprietari di società che gestiscono la pubblicità per i giornali, sindaci geometri che presiedono giunte che approvano i loro progetti, avvocati-assessori che fanno causa alla propria amministrazione.

D Doppio lavoro
Se valessero a Roma le regole americane, ci sarebbero 186 parlamentari «fuorilegge»: tutti coloro che, pagati per fare i deputati o i senatori fanno pure altri mestieri, moltiplicando i propri affari grazie alla politica. E sottraendo tempo al proprio impegno istituzionale. Ecco: copiamo gli americani.

E Europa
Con la manovra di luglio si è deciso di equiparare gli stipendi dei nostri parlamentari alla media europea, sia pure corretta in base al Pil e limitata alle sei nazioni più grandi. Anche i rimborsi elettorali andrebbero adeguati a quella media. È inaccettabile che un italiano spenda in media 3 euro e 38 centesimi l'anno per mantenere i partiti, contro 2,58 degli spagnoli, 1,61 dei tedeschi e 1,25 dei francesi.

F Fisco
Una leggina infame permette a chi finanzia un politico di avere uno sconto fiscale 50 volte superiore a quello di chi dà soldi a un ente benefico o alla ricerca sul cancro. Avevano giurato di cambiarla, non l'hanno mai fatto. E tutte le proposte di legge presentate per correggere questo abominio giacciono mestamente in parlamento. Vanno tirate fuori e approvate. Subito.

G Gettoni
Un consigliere comunale di Padova incassa per ogni seduta 45,90 euro, uno di Treviso 92, uno di Verona 160. Per non dire delle regioni a statuto speciale, dove con trucchi vari un membro del consiglio municipale di Palermo può prendere 10mila euro al mese. Stop. L'autonomia non c'entra e non può essere usata a capriccio: regole fisse per tutti, da Lampedusa a Vipiteno.

H High speed
I ritardi sulla velocità di download, dove nella classifica netindex.com siamo al 70° posto dopo Kazakistan e Rwanda, sono così abissali da far sospettare a una scelta inconfessabile: meno funzionano gli sportelli elettronici, più i cittadini dipendono dai «piaceri» della burocrazia e della politica. Con costi enormi, da tagliare.

I Indennità
Le «buste paga» devono essere trasparenti, commisurate alla media europea, per tutte le cariche: l'assessore alla sanità altoatesino non può guadagnare 6mila euro più del ministro della sanità di Berlino. Basta furbizie, come certi rimborsi esentasse a forfait (magari anche a chi non ha la macchina, come nel Lazio) o il contributo per i portaborse che troppo spesso, incassato dal parlamentare, è girato ai collaboratori solo in minima parte e in nero. Si faccia come a Strasburgo, dove gli assistenti sono pagati direttamente dall'Europarlamento.

L Limiti
Il governo Prodi nell'infuriare delle polemiche aveva fissato un limite massimo agli stipendi dei superburocrati: 289 mila euro. Quel tetto, tuttavia, non è mai stato applicato. Tanto che il presidente delle Poste Giovanni Ialongo nel 2009 di euro ne ha presi 635 mila. Urgono nuove regole.

M Municipalizzate
Le società miste dei servizi pubblici locali sono state troppo spesso usate per aggirare le regole su assunzioni e appalti causando paurosi buchi finanziari ripianati dalla collettività. Basta. È inammissibile che un comune, socio principale, approvi un bilancio in rosso senza risponderne. Le regole devono essere le stesse del settore privato: chi truffa paga.

N Nomine
Il «manuale Cencelli», in base al quale vengono ripartite fra i partiti le poltrone pubbliche, vada al macero. Le nomine devono obbedire esclusivamente a criteri di merito. Va fissata la regola che chi ha ricoperto una qualsiasi carica elettiva non può essere nominato in un'azienda pubblica almeno per cinque anni. Sennò ogni poltrona diventa merce di scambio per i riciclati o per comprare un'alleanza.

O Onorevoli
Una legge costituzionale che preveda il dimezzamento dei Parlamentari e il superamento del bicameralismo perfetto si può approvare in 90 giorni. Sono tutti d'accordo, come dicono da mesi? Lo dimostrino.

P Province
Quante volte destra e sinistra hanno promesso che avrebbero abolito le Province? Costano fra i 14 e i 17 miliardi di euro l'anno e alla fine aveva accettato il taglio, sia pure a malincuore, anche la Lega. Passino dalle parole ai fatti. Anche in questo caso basterebbero tre mesi.

Q Quadruplo
Il mercato dell'auto in Italia è sceso ai livelli del 1983. Da quell'anno preso ad esempio il Pil pro capite è cresciuto del 40% ma il costo della Camera e del Senato in termini reali è quadruplicato. Un delirio megalomane. Da ricondurre a una maggiore sobrietà. Anche mettendo fine al principio dell'autodichia, in base al quale nessuno può mettere becco sui conti di Camera, Senato e Quirinale. Un controllo esterno, visto quanto è successo, è obbligatorio.

R Regioni
È intollerabile che rispetto agli abitanti i consigli regionali della Lombardia o dell'Emilia-Romagna costino circa 8 euro pro capite, quello sardo 51 o quello aostano 124. Identici servizi devono avere identici costi. Il «parametro 8 euro» farebbe risparmiare 606 milioni l'anno. Tolto l'Alto Adige per l'accordo internazionale da rispettare, andrebbero riviste inoltre alcune regole delle autonomie: non possono essere occasione di ingiusti squilibri e privilegi.

S Scorte
Da decenni ogni ministro dell'Interno dice d'averle tagliate, ma è una bufala. A Roma il rapporto fra auto di scorta e volanti della polizia, lo dice il Sap ma il prefetto concorda, è di otto a uno. Di più: la benzina per le scorte non manca mai, quella per le volanti o le gazzelle devono pagarla talvolta di tasca propria i poliziotti e i carabinieri.

T Trasparenza
Facciamo come gli inglesi: prendiamo le loro stesse regole sulla situazione patrimoniale di parlamentari, consiglieri regionali, sindaci e altre cariche elettive. Tutto trasparente, tutto sul Web. A partire dai finanziamenti privati ai partiti, oggi non solo limitati alle somme sopra i 50 mila euro, ma inaccessibili on-line. In più, la certificazione dei bilanci dei partiti va resa obbligatoria.

U Uniformità
È la regola aurea della buona amministrazione. I costi devono essere uniformi: dalle «liquidazioni» ai deputati alle siringhe delle Asl. Per mantenere i suoi dipendenti la Regione siciliana non può far pagare a ogni cittadino 353 contro i 21 euro della Lombardia. E se si stabilisce il blocco delle assunzioni, questo deve riguardare, a maggior ragione, anche palazzo Chigi.

V Voli blu
Nel 2009 le ore volate per ogni membro del governo sono state del 23% superiori al record del 2005 e addirittura del 154,2% rispetto al 2007 (gabinetto Prodi). La recente norma voluta da Tremonti che limita i voli blu ai massimi vertici dello Stato va applicata subito. Con l'obbligo di pubblicare su internet i dettagli di ogni viaggio: nome dei passeggeri, destinazione, costo. Una disposizione che dovrebbe essere retroattiva, perché i cittadini si possano rendere conto di quello che è successo negli ultimi anni.

W Welfare
Prima di toccare le pensioni dei cittadini va radicalmente cambiato il sistema dei vitalizi, che oggi vede da 11 a 13 euro di uscite per ogni euro di contributi in entrata. Vale per il Parlamento, vale per le Regioni: 16 anni dopo la riforma Dini è scandaloso che qua e là si possa andare in pensione ancora a 51 anni con quattro di contributi.

Z Zavorra
Vanno tagliate subito sul serio tutte le spese esagerate. I dipendenti di palazzo Chigi sono attualmente più di 4.600 contro i 1.337 del Cabinet Office di David Cameron. La sola Camera paga per affitti 35 milioni di euro l'anno: 41 volte più che nel 1983. Una megalomania estesa alle Regioni. Dove negli ultimi anni gli investimenti immobiliari sono stati massicci. La Puglia «sinistrorsa» ha appaltato la costruzione della nuova sede per 87 milioni, la Lombardia «destrorsa» per il Nuovo Pirellone con un mega-eliporto ne ha spesi 400. Per non dire di certi contratti extra lusso: ogni dipendente medio del Senato costa 137.525 euro. Cioè 19 mila più dello stipendio dei 21 collaboratori stretti di Barack Obama.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

14 novembre 2011 10:06© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_novembre_14/I-primi-tagli-iniziare-dalla-politica-ecco-dove_9755f652-0e8d-11e1-98bb-351bac11bfea.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 04, 2012, 07:50:46 pm »

Stipendi DEI politici.

I parlamentari in difesa: in altri Paesi Ue si guadagna di più

Lo stenografo del Senato come il re di Spagna

Busta paga da 290 mila euro

A fine carriera stipendi quadruplicati.

Ai commessi fino a 160 mila euro


Può un senatore guadagnare la metà del suo barbiere di Palazzo Madama, come lamentano quei parlamentari che per ribattere ai cittadini furenti contro i mancati tagli dicono di prendere intorno ai 5 mila euro? No. Infatti non è così. Il gioco è sempre quello: citare solo l'«indennità». Senza i rimborsi, le diarie, le voci e i benefit aggiuntivi. Con i quali il «netto» in busta paga quasi quasi triplica.

Sono settimane che va avanti il tormentone. Di qua la busta paga complessiva portata in tivù dal dipietrista alla prima legislatura Francesco Barbato, che tra stipendio e diarie e soldi da girare al portaborse ha mostrato di avere oltre 12.000 euro netti al mese. Di là l'insistenza sulla sola «indennità». E la tesi che le altre voci non vanno calcolate, tanto più che diversi (230 contro 400, alla Camera) hanno fatto sul serio un contratto ai collaboratori e moltissimi girano parte dei soldi al partito. Una scelta spesso dovuta ma comunque legittima e perfino nobile: ma è giusto caricarla sul groppo dei cittadini in aggiunta ai rimborsi elettorali e alle spese per i «gruppi»? Non sarebbe più opportuno e più fruttuoso nel rapporto con l'opinione pubblica mostrare la busta paga reale, che dopo una serie di tagli è davvero più bassa di quella da 14.500 euro divulgata nel 2006 dal rifondarolo Gennaro Migliore?

Non ha molto senso, questa sfida da una parte e dall'altra centrata tutta su quanto prendono deputati e senatori. Peggio: rischia di distrarre l'attenzione, alimentando il peggiore qualunquismo, dal cuore del problema. Cioè il costo d'insieme di una politica bulimica: il costo dei 52 palazzi del Palazzo, il costo delle burocrazie, il costo degli apparati, il costo delle Regioni, delle province, di troppi enti intermedi, delle società miste, di mille altri rivoli di spesa che servono ad alimentare un sistema autoreferenziale.

Dice tutto il confronto con le buste paga distribuite, ad esempio, al Senato. Dove le professionalità di eccellenza dei dipendenti, che da sempre raccolgono elogi trasversali da tutti i senatori di destra e sinistra, neoborbonici o padani, sono state pagate fino a toccare eccessi unici al mondo. Tanto da spingere certi parlamentari (disposti ad attaccare Monti, Berlusconi, Bersani o addirittura il Papa ma mai i commessi da cui sono quotidianamente coccolati) ad ammiccare: «Siamo semmai gli unici, qui, a non essere strapagati».

Il questore leghista Paolo Franco lo dice senza tanti giri di parole: «Il contratto dei dipendenti di palazzo Madama è fenomenale. Consente progressioni di carriera inimmaginabili. Ed è evidente che contratti del genere non se ne dovranno più fare. Bisogna cambiare tutto». Come può reggere un sistema in cui uno stenografo arriva a guadagnare quanto il re di Spagna? Sembra impossibile, ma è così. Senza il taglio del 10% imposto per tre anni da Giulio Tremonti per i redditi oltre i 150 mila euro, uno stenografo al massimo livello retributivo arriverebbe a sfiorare uno stipendio lordo di 290 mila euro. Solo 2mila meno di quanto lo Stato spagnolo dà a Juan Carlos di Borbone, 50 mila più di quanto, sempre al lordo, guadagna Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica: 239.181 euro.

Per carità, non «ruba» niente. Esattamente come Ermanna Cossio che conquistò il record mondiale delle baby-pensioni lasciando il posto da bidella a 29 anni col 94% dell'ultimo stipendio, anche quello stenografo ha diritto di dire: le regole non le ho fatte io. Giusto. Ma certo sono regole che nell'arco della carriera permettono ai dipendenti di Palazzo Madama, grazie ad assurdi automatismi, di arrivare a quadruplicare in termini reali la busta paga. E consentono oggi retribuzioni stratosferiche rispetto al resto del paese cui vengono chiesti pesanti sacrifici.

Al lordo delle tasse e dei tagli tremontiani, un commesso o un barbiere possono arrivare a 160 mila euro, un coadiutore a 192 mila, un segretario a 256 mila, un consigliere a 417mila. E non basta: allo stipendio possono aggiungere anche le indennità. Alla Camera un capo commesso ha diritto a un supplemento mensile di 652 euro lordi che salgono a 718 al Senato. Un consigliere capo servizio di Montecitorio a una integrazione di 2.101, contro i 1.762 euro del collega di palazzo Madama. Per non dire dei livelli cosiddetti «apicali». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai rapporti col Parlamento Antonio Malaschini, quando era segretario generale del Senato, guadagnava al lordo nel 2007, secondo l'Espresso, 485 mila euro l'anno. Arricchito successivamente da un aumento di 60 mila che spappolò ogni record precedente per quella carica. Va da sé che la pensione dovrebbe essere proporzionale. E dunque, secondo le tabelle, non inferiore ai 500 mila lordi l'anno.

È uno dei nodi: retribuzioni così alte, grazie a meccanismi favorevolissimi di calcolo, si riflettono in pensioni non meno spettacolari. Basti ricordare che gli assunti prima del '98 possono ancora ritirarsi dal lavoro (con penalizzazioni tutto sommato accettabili) a 53 anni. Esempio? Un consigliere parlamentare di quell'età assunto a 27 anni e forte del riscatto di 4 anni di laurea ha accumulato un'anzianità contributiva teorica di 38 anni. Di conseguenza può andare in pensione con 300 mila euro lordi l'anno, pari all'85% dell'ultima retribuzione. Se poi decide di tirare avanti fino all'età di Matusalemme (che qui sono 60 anni) allora può portare a casa addirittura il 90%: più di 370 mila euro sul massimo di 417 mila.

Funziona più o meno così anche per i gradi inferiori. A 53 anni un commesso è in grado di ritirarsi dal lavoro con un assegno previdenziale di 113 mila euro l'anno che, se resta fino al 60º compleanno, può superare i 140 mila. Con un risultato paradossale: il vitalizio di un senatore che abbia accumulato il massimo dei contributi non potrà raggiungere quei livelli mai. E tutto ciò succede ancora oggi, mentre il decreto salva Italia fa lievitare l'età pensionabile dei cittadini normali e restringere parallelamente gli assegni col passaggio al contributivo «pro rata» per tutti. Intendiamoci: sarebbe ingiusto dire che le Camere non abbiano fatto nulla. A dicembre il consiglio di presidenza del Senato, ad esempio, ha deciso che anche per i dipendenti in servizio si dovrà applicare il sistema del contributivo «pro rata». Ma come spiega Franco, è una decisione che per diventare operativa dovrà superare lo scoglio di una trattativa fra l'amministrazione e le sigle sindacali, che a palazzo Madama sono, per meno di mille dipendenti, addirittura una decina. Il confronto non si annuncia facile. Anche nel 2008, dopo mesi di polemiche sui costi, pareva essere passato un giro di vite, sostenuto dal questore Gianni Nieddu. Ma appena cambiò la maggioranza, quella nuova non se la sentì di andare allo scontro.

E tutto si arenò nei veti sindacali. Stavolta, poi, la trattativa ha contorni ancora più divertenti. Controparte dei sindacati è infatti la vicepresidente del Senato Rosy Mauro, esponente della Lega Nord, partito fortemente contrario alla riforma delle pensioni e sindacalista a sua volta: è presidente, in carica, del Sinpa, il sindacato del Carroccio. Nel frattempo, chi esce ha la strada lastricata d'oro. Il consigliere parlamentare «X» (alla larga dalle questioni personali, ma parliamo di un caso con nome e cognome) ha lasciato il Senato a luglio del 2010 a 58 anni. Da allora, finché non è entrato in vigore il contributo triennale di solidarietà per i maxi assegni previdenziali, palazzo Madama gli ha pagato una pensione di 25.500 euro lordi al mese: venticinquemilacinquecento.

Per 15 mensilità l'anno. Spalmandoli sulle 13 mensilità dei cittadini comuni 29.423 euro a tagliando. Da umiliare perfino l'ex parlamentare Giuseppe Vegas, oggi presidente della Consob, che da ex funzionario del Senato, sarebbe in pensione con 20 mila. Neppure il commesso «Y», assunto a suo tempo con la terza media, si può lamentare: ritiratosi nello stesso luglio 2010, sempre a 58 anni, ha diritto (salvo tagli tremontiani) a 9.300 euro lordi al mese. Per quindici. Vale a dire che porta a casa complessivamente oltre 20mila euro in più dello stipendio massimo dei 21 collaboratori più stretti di Barak Obama.

Sono cifre che la dicono lunga su dove si annidino i privilegi di un sistema impazzito sul quale sarebbe stato doveroso intervenire «prima» (prima!) di toccare le buste paga dei pensionati Inps. I bilanci di Camera e Senato del resto parlano chiaro. Nel 2010 la retribuzione media dei 1.737 dipendenti di Montecitorio, dall'ultimo dei commessi al segretario generale, era di 131.585 euro: 3,6 volte la paga media di uno statale (36.135 euro) e 3,4 volte quella di un collega (38.952 euro) della britannica House of Commons. E parliamo, sia chiaro, di retribuzione: non di costo del lavoro. Se consideriamo anche i contributi, il costo medio di ogni dipendente della Camera schizza a 163.307 euro. Quello dei 962 dipendenti del Senato a 169.550. E non basta ancora. Perché nel bilancio del Senato c'è anche una voce relativa al personale «non dipendente», che comprende consulenti delle commissioni e collaboratori vari, ma soprattutto gli addetti a non meglio precisate «segreterie particolari». Con una spesa che anche nel 2011, a dispetto dei tagli annunciati, è salita da 13 milioni 520 mila a 14 milioni 990 mila euro. Con un aumento, mentre il Pil pro capite affondava, del 10,87%: oltre il triplo dell'inflazione.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

4 gennaio 2012 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_04/stipendi-politici-in-difesa-ma-lo-stenografo-del-senato-e-pagato-come-il-re-di-spagna-rizzo-stella_7232dd04-369c-11e1-9e16-04ae59d99677.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 26, 2012, 03:47:57 pm »

I costi della politica

Privilegi, sprechi e bilanci colabrodo

Tutte le (folli) spese delle Regioni

Uscite lievitate del 75% in 10 anni. In nome dell’«autonomia»


«Ben 454 mila euro per la Zelkova!». Letta la notizia, i siciliani hanno pensato: «Deve essere una slava del giro delle Olgettine». Macché: è una pianta rara che la Regione vuol tutelare iniziando con l’assumere («appurata l’esiguità di personale in organico»: sic) un consulente da 150 mila euro. Fulgido esempio di come le Regioni, in nome dell’autonomia, siano spesso sorde agli appelli a stringere la cinghia. Scrive Raffaele Lombardo sul suo blog che quella varata giorni fa «è una finanziaria di straordinario rigore». Sarà... Ma certo gli stessi giornali isolani denunciano da settimane come l’andazzo sia sempre lo stesso.

Ed ecco la decisione di salvare il Cefop (uno dei carrozzoni della «formazione professionale» che da decenni ingoiano da 250 a 400 milioni l’anno dando lavoro a circa ottomila formatori pari al 46% del totale nazionale) seguendo il modello Alitalia con la creazione d’una «bad company» su cui caricare i debiti pari a 82 milioni per dare vita a una nuova società «vergine » da sfamare subito con altri 29 milioni e mezzo. Ecco la scelta di chiedere al governo di usare 269 milioni di fondi Fas (destinati alle aree sottosviluppate) per tappare una parte della voragine sanitaria. Ecco l’idea di accendere un nuovo mutuo da 500 milioni. Ecco la delibera che autorizza i Comuni, nel caso siano in grado di farsene carico (aria fritta elettorale: le casse comunali sono vuote) ad assumere 22 mila precari in deroga ai divieti nazionali. E via così.

Fino alle storie più stupefacenti, come quella di Zorro, il vecchio cavallo donato dal governatore a Villa delle Ginestre, dove curano i pazienti con lesioni spinali, perché sia usato per l’ippoterapia e messo a pensione a 2.335 euro al mese (il doppio di quanto costa il trattamento di un purosangue compresa la fisioterapia in piscina…) senza che ancora sia stata comprata, per i malati, manco la sella. Passi lo Stretto risalendo verso nord e leggi sul Corriere di Calabria che Pietro Giamborino, dopo una sola legislatura da consigliere regionale, è appena andato in pensione a 55 anni (rinunciando al 5% del vitalizio), dopo che milioni di italiani hanno visto allontanarsi il giorno dell’agognato ritiro dal lavoro fino a 67 anni. O che per le «spese di rappresentanza» del presidente dell’assemblea regionale Francesco Talarico sono stati stanziati per il 2012 la bellezza di 185 mila euro. Più del doppio di quanto costò ai tedeschi nel 2006, sotto quella voce, il presidente della Repubblica Horst Köhler.

Risali ancora verso nord e scopri che la maggioranza di destra che governa la Campania si è appena liberata dell’ingombro di dover trovare i soldi prima di fare una legge. C’erano voluti 9 anni per mettere dei vincoli seri. Nel 2002, ai tempi del primo Bassolino, era stata fatta una norma che imponeva di verificare, prima di ogni atto, la copertura finanziaria. Ma non era mai diventata operativa. Finalmente, nel marzo 2011, era stata votata l’istituzione presso la giunta regionale di un ufficio delegato a controllare la copertura finanziaria delle proposte arrivate in Consiglio. L’unico argine possibile ai deliri clientelari ed elettoralistici. Giorni fa, a dispetto della crisi e dei moniti del governo, ecco la retromarcia: grazie al voto di 24 consiglieri, le proposte di legge regionale non dovranno più avere il «visto di conformità» della struttura dedicata a fare le verifiche finanziarie. Per avviare l’iter di una legge, magari spendacciona, basterà una «relazione tecnica » degli «uffici della giunta regionale competenti in materia di finanze e bilancio». Tutta un’altra faccenda.

Gli autori del blitz? Gli stessi sostenitori, come dicevamo, del governatore Stefano Caldoro che proprio su quel filtro abolito contava per arginare gli incontenibili rivoli di spesa. Caldoro, preoccupato per i conti, è passato al contrattacco con la proposta di introdurre anche nello statuto regionale il principio del pareggio di bilancio appena entrato nella Costituzione. Ce la farà? Mah… Assomiglia tanto a una lotta contro i mulini a vento.

«Autonomia!», insorgono in coro i governatori tutte le volte che lo Stato centrale prova a sfiorare le loro prerogative. E sulla Consulta piovono valanghe di cause, quasi sempre coronate da successo. Ricorsi contro il limite di cilindrata delle auto blu. Contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. Contro i pedaggi sulle strade dell’Anas. Contro l’Imu. Per non dire delle sollevazioni contro i tagli ai Consigli regionali: sono addirittura undici le Regioni che hanno contestato davanti alla Corte Costituzionale l’articolo 14 della manovra dello scorso agosto, l’ultima firmata da Giulio Tremonti, che imporrebbe alle loro assemblee, dalle prossime elezioni, una cura dimagrante di 343 poltrone. Undici. Motivazione? «È assolutamente necessario contrastare l’ondata di provvedimenti indirizzati contro le nostre prerogative», ha spiegato il governatore della Sardegna, Ugo Cappellacci. Il guaio è che, rivendicando stizzite questa autonomia («tocca semmai a noi tagliare le Province, tocca semmai a noi tagliare le indennità, tocca semmai a noi tagliare le poltrone…») tutte e venti le Regioni si sono trasformate in zone franche, dove la spesa pubblica va alla deriva.

La prova? Fra 2000 e 2009, mentre il Pil pro capite restava fermo per poi addirittura arretrare di cinque punti, le uscite delle Regioni italiane sono lievitate da 119 a 209 miliardi di euro. Ormai rappresentano più di un quarto di tutta la nostra spesa pubblica. La crescita, dice la Cgia di Mestre, è stata del 75,1%: un aumento in termini reali, contata l’inflazione, del 53%. Oltre il doppio del pur astronomico incremento reale (25%) registrato nello stesso periodo dalla spesa pubblica complessiva, passata al netto degli interessi sul debito da 581 a 727 miliardi. Parliamo di 89,7 miliardi «in più» ogni anno, di cui appena la metà, ovvero 45,9 miliardi, addebitabili a quella sanità che rappresenta la voce più problematica dei bilanci regionali. In testa tra gli enti che più hanno accelerato c’è l’Umbria, dove le spese sono salite del 143%, seguono l’Emilia-Romagna (+125%), la Sicilia (+125,7%), la Basilicata (115,2%), il Piemonte (+91,8%) e la Toscana (+84,6%). Fosse aumentata così anche la nostra ricchezza, saremmo a posto. Il diritto (giusto) all’autonomia può giustificare certi bilanci colabrodo? È accettabile che la spesa sanitaria, dal 1978 di competenza regionale, presenti qua e là differenze abissali? O che ogni lombardo sborsi per il personale regionale 21 euro l’anno contro i 70 della Campania, i 173 del Molise o i 353 della Sicilia tanto che se tutte le Regioni si allineassero ai livelli lombardi risparmieremmo 785 milioni l’anno? Possiamo ancora permetterci le cosiddette «leggi mancia» che ad esempio hanno visto il Lazio spendere con 250 delibere a pioggia (tutte finite, dice l’Espresso, nel mirino della Corte dei Conti) qualcosa come 8,6 milioni di euro per iniziative che andavano dalla Rievocazione storica della battaglia di Lepanto a Sermoneta alla Sagra del carciofo di Sezze? Per non dire dei progetti faraonici, delle società miste nate a volte solo per distribuir poltrone, delle megalomanie. Venti Regioni, ventuno sedi di rappresentanza a Bruxelles: solo quella del Veneto è costata 3,6 milioni di euro. Venti Regioni, 157 piccole «ambasciate» all’estero, dagli Stati Uniti alla Tunisia. Venti Regioni, centinaia di sedi e immobili sparsi per tutta Italia.

Spese inenarrabili. Un caso? Denunciano quelli di Sel che oltre alle sedi istituzionali la Regione Lazio dispone di 13 fabbricati a uso residenziale e 367 appartamenti.Malgrado ciò, spende ogni anno 20 milioni per affittare altri immobili. E ha deciso di dare il via a lavori di ampliamento della sede della Pisana, con la costruzione di due nuove palazzine. Costo previsto: dieci milioni. Una spesa indispensabile? Ed era indispensabile, di questi tempi, investire 16,3 milioni di euro come ha fatto il Consiglio regionale del Piemonte per rilevare e ristrutturare la ex sede torinese del Banco di Sicilia? O stanziare 87 milioni per la nuova sede del Consiglio regionale della Puglia, appaltata nello scorso mese di agosto? O spenderne addirittura 570 per la nuova sede della Regione Lombardia, una reggia con tanto di eliporto e di foresteria per il governatore costata 127 mila euro di soli arredamenti?

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

26 aprile 2012 | 8:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_26/privilegi-sprechi--bilanci-colabrodo-sergio-rizzo-gian-antonio-stella_3c3a3b8e-8f61-11e1-b563-5183986f349a.shtml
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 21, 2013, 05:34:26 pm »

L'inchiesta

La spesa delle Province tutta in affitti e stipendi

Corsa contro il tempo per evitare il rinnovo dei consigli nel 2014

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella

Tic. Tic. Tic. Dal rubinetto delle Province, nelle gole arse degli imprenditori, escono poche gocce: un undicesimo dei soldi destinati allo sviluppo economico. Tutto il resto lo trattiene per le spese vive (un miliardo!) il rubinetto burocratico. Lo dicono i dati in possesso al governo. Che cerca di trovare uno sbocco al tormentone sul destino di questi enti per alcuni (presidenti, assessori, galoppini...) «indispensabili», per altri del tutto superflui.

Il ministro degli Affari regionali, Graziano DelrioIl ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio
Pesa otto miliardi e 633 milioni la spesa «corrente» delle Province, vale a dire i soldi per il personale, gli affitti, le bollette, la benzina nelle macchine, gli stipendi degli assessori, i gettoni dei consiglieri... L'equivalente dei soldi necessari per eliminare l'Imu sulla prima casa ed evitare l'aumento dell'Iva, e avanzerebbe ancora qualcosa. La cifra è contenuta in una tabella che sta sul tavolo del ministro degli Affari regionali, l'ex sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio.

Certo, non sparirebbe d'incanto, quel costo, se le Province dovessero scomparire dall'oggi al domani. Ma una bella fetta sì. Eppure il ritornello del Ptpt, il Partito Trasversale delle Province in Trincea che comprende uomini della sinistra e della destra e soprattutto della Lega Nord, non cambia mai: dall'eliminazione delle Province si risparmierebbero solo poche briciole. C'è perfino chi argomenta, dati alla mano, che la spesa aumenterebbe per parte di quei 56 mila dipendenti provinciali eventualmente trasferiti alle Regioni, dove le buste paga sono più pesanti.

Dopo aver gioito per la decisione con cui la Corte costituzionale ha cassato la norma del salva Italia che privava di funzioni e di rango elettivo le Province, contestando il veicolo usato per farla passare (il decreto legge d'urgenza), il presidente dell'Upi Antonio Saitta, del Pd, esulta per la sentenza del Tar del Lazio che ha giudicato eccessivi i tagli imposti con la spending review dal governo Monti. Ossia, 500 milioni per il 2012 e 1,2 miliardi per il 2013. «Tagli palesemente iniqui e sproporzionati, a danno dei servizi ai cittadini. Per colpa loro molte Province sono andate in predissesto, con ricadute sul personale, sui servizi erogati e sulle imprese...» E a sentire lui e i suoi colleghi, pare quasi che l'Italia intera si regga su questi enti di lignaggio antico la cui abolizione fu discussa, in previsione della nascita delle Regioni, addirittura alla Costituente. Ma è davvero così?

Entriamo nei numeri della tabella sul tavolo di Delrio. Per scoprire che forse, rispetto a quel grido di dolore, qualcosa non torna. Nel 2011 le entrate delle Province sono state pari a 11 miliardi 289 milioni, le spese a 10 miliardi 963 milioni. Avanzo: 326 milioni. Tolti gli 8,6 miliardi di spese correnti, ne restano per le spese in conto capitale solo 2 e 330 milioni. Traduzione: per ogni euro di investimenti nei vari settori di competenza addirittura 3,7 se ne vanno solo per mantenere in vita le strutture. Quasi il quadruplo! Ma questa è la media.

Se poi si scende nelle pieghe dei conti si hanno sorprese che lasciano di stucco. Sostiene ad esempio lo stesso Saitta, in un voluminoso rapporto concepito come «un muro di faldoni» eretto «per dimostrare quanto lavoro ha fatto e quanto è utile» l'ente di cui è presidente, che «ogni euro stanziato dalla Provincia ha un effetto moltiplicatore pari a 2,8». Sarà... Ma al di là delle perplessità sul fatto che anche le Province spendano soldi per cose di cui normalmente si occupano, oltre allo Stato, sia i Comuni sia le Regioni, restano i numeri di cui dicevamo. Gli interventi a favore dello sviluppo economico, per dire, sono una funzione tipicamente regionale. Eppure le Province hanno un budget di un miliardo e 43 milioni. Peccato che le spese correnti, per questo capitolo, siano di 948 milioni: il 91% del totale. Un quarto del gettito dell'Imu sulla prima casa. Gli investimenti per lo «sviluppo», però, non superano i 95 milioni. Il nove percento! E non si tratta dell'unico fiume di denaro che via via, di ufficio in ufficio, di firma in firma, di timbro in timbro, si riduce a un rigagnolo. Dei 213 milioni che dovrebbero soccorrere la cultura e i beni culturali, quelli che se ne vanno in spese correnti sono 183: l'85%. Dei 192 per il turismo e lo sport, la «macchina» ne beve 161: l'84%. Per non dire degli interventi nel sociale: 248 milioni di spese correnti, 10 milioni di investimenti. Un venticinquesimo. Quanto ai trasporti locali, una delle funzioni più importanti attribuite alle Province, le cifre sono ancora più sconcertanti: un miliardo e 375 milioni di spese correnti, 28 milioni di investimenti. Cioè un quattordicesimo.
La stessa tabella elaborata dai tecnici per il ministro democratico, avviato a un durissimo braccio di ferro con il presidente dell'Upi (l'unione delle Province italiane) nonostante appartengano entrambi al Partito democratico, afferma che le sole spese correnti per il mantenimento delle strutture provinciali sono pari a 2 miliardi 325 milioni. Più, ovviamente, le spese per le elezioni: 400 milioni ogni cinque anni. Davvero i risparmi risulterebbero irrisori nel caso in cui le Province svanissero?

La partita, però, non si gioca solo sui soldi. In ballo c'è l'azzeramento di un intero livello di potere. La riduzione, nel calvario di ogni pratica burocratica, di un timbro, un parere, un pedaggio da pagare in tempo e denaro alla proliferazione di amministrazioni autorizzate a mettersi di traverso a ogni progetto.

Ed è qui che si sta consumando un durissimo braccio di ferro dentro lo stesso governo. Dopo la sentenza della Consulta, il premier Enrico Letta ha avviato l'iter di una legge costituzionale che, passo indispensabile per fare il resto, dovrebbe togliere la parola «Province» dalla Carta fondamentale. Una svolta: solo due anni fa il Pd («Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per mandare un segnale», disse Dario Franceschini) aveva aggiunto la sua astensione alla valanga di «no» della destra e della Lega che aveva sepolto la stessa iniziativa proposta dai dipietristi. Ma i tempi, ahinoi, rischiano di essere biblici.
Soprattutto perché quel provvedimento, dopo il rituale doppio passaggio fra Camera e Senato, dovrà essere seguito anche da una legge ordinaria con chissà quanti altri passaggi fra Montecitorio e Palazzo Madama. Campa cavallo. Per evitare che tutto finisca ancora una volta in una gigantesca bolla di sapone, Delrio ha preparato un grimaldello con l'obiettivo di eliminare di fatto le Province senza attendere i tempi della modifica costituzionale, che comunque andrebbe avanti per la propria strada.

È un disegno di legge che dovrebbe essere approvato dal prossimo Consiglio dei ministri. La bozza è composta da 23 articoli, che seguono una traccia simile a quella del salva Italia: questa volta apparentemente inattaccabile dalla Consulta, perché non si tratta di un provvedimento d'urgenza. L'idea (non nuovissima ma finalmente, forse, realizzabile), è quella di trasformare le Province in assemblee di sindaci autoregolate, senza più organi elettivi, per di più incentivando la costituzione di Unioni dei Comuni per razionalizzare quanto più possibile i servizi municipali. Ridotte a qualcosa di simile a semplici agenzie per le cosiddette aree vaste, resterebbero loro poche competenze nelle strade, nel trasporti, nell'ambiente e nella «programmazione della rete scolastica».

Dal primo gennaio del 2014, inoltre, le Province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Reggio Calabria diventeranno aree metropolitane, con un consiglio formato dai sindaci dei Comuni presieduto dal sindaco del capoluogo. Siccome il disegno di legge non rimanda a decreti o regolamenti attuativi, come invece avviene di solito nei nostri bizantini meccanismi legislativi, le norme sarebbero immediatamente applicabili. Entro venti giorni dalle elezioni comunali successive all'approvazione del provvedimento, il presidente della Provincia o il suo commissario, prorogati fino a quel momento, dovrebbero convocare l'assemblea dei sindaci per l'elezione del presidente della Provincia. Incarico, è specificato, a titolo gratuito come quello dei partecipanti all'assemblea provinciale.

E qui comincia la corsa contro il tempo. Messo in allarme soprattutto da questa nuova mossa di Delrio, il Partito Trasversale delle Province in Trincea sta studiando le contromisure con un obiettivo preciso. Impedire che la legge vada in porto prima della primavera 2014, quando scadranno ben 53 Province: dalla A di Alessandria alla V di Verona.
La rivendicazione per andare a votare è già pronta. Le pressioni sono fortissime anche nelle 21 Province nel frattempo già scadute e commissariate, in molti casi con gli ex presidenti. Alcune delle quali avrebbero preteso addirittura il voto immediato, dopo la sentenza della Consulta a loro favorevole. Sentenza ottenuta schierando un esercito di legali. Tra i quali Beniamino Caravita di Toritto, Massimo Luciani e Giandomenico Falcon. Tre principi del Foro che fanno parte anche della commissione di saggi incaricata di riformare la Costituzione. Coerenze italiane...

21 luglio 2013 | 8:37
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DA - http://www.corriere.it/economia/13_luglio_21/spesa-province_ca4c5b52-f1ce-11e2-9522-c5658930a7bc.shtml
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 20, 2013, 04:40:14 pm »

L'ITALIA CHE LAVORA E MERITA DI PIÙ

Un'immagine risollevata


«È più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio», diceva Albert Einstein che da ebreo i pregiudizi li aveva provati sulla sua pelle. Sarebbe insensato illuderci: non basterà forse il figurone del raddrizzamento al Giglio della Costa Concordia, nel quale noi italiani abbiamo avuto un ruolo straordinario, per raddrizzare del tutto la figuraccia di quel naufragio in «quel» modo. Ma certo stavolta abbiamo dato il meglio.

Per mesi e mesi l'errore imperdonabile di Francesco Schettino e la sua fuga dalle responsabilità, randellata a brutto muso («torni a bordo, cazzo!») dal comandante della Capitaneria Gregorio De Falco, aveva pesato sull'immagine internazionale dell'Italia. Basti ricordare il velenoso commento pubblicato online dallo Spiegel («Mano sul cuore, vi sorprendete che il capitano fosse un italiano?») che tracimava di stereotipi insultanti e s'avventurava a chiedersi se avesse senso «ignorare la psicologia dei popoli» mettendo «insieme culture economiche così diverse nella camicia di forza della moneta unica». Una tesi assurda prima ancora che offensiva. E respinta da tantissimi tedeschi che mai si sognerebbero di rovesciare su di noi tanti insopportabili luoghi comuni.

Non era un giorno qualsiasi, quel 13 gennaio 2012. La mattina Standard & Poor's aveva declassato di due gradini il rating dell'Italia da A a BBB+, lo spread con i Bund tedeschi era tornato su a 488 punti, Milano aveva chiuso per l'ennesima volta peggio delle altre Borse europee e mentre cadevano nuovi frammenti dal Colosseo era crollato perfino il titolo della Juve. L'immagine della gigantesca nave bianca che si spegneva su un fianco per colpa di chi la governava causando danni enormi alla bellissima isola del Giglio sembrò dunque la metafora dell'Italia. Non solo agli occhi degli stranieri. Ce lo ricorda il tormentone sul comandante. Col Pd che accusava il sindaco di Palermo di aver abbandonato la città «come Schettino» e la Padania che titolava «Monti come Schettino» e i ribelli che rinfacciavano a Di Pietro «di portare l'Idv sugli scogli come Schettino» e via così...

Per questo è un sollievo, oggi, salutare la formidabile impresa al Giglio, dove è stato strappato al mare un bastimento due volte e mezzo più grande del Titanic, come una nuova metafora. Quella di un Paese che, se vuole, può far cose apparentemente impossibili. Schierare uomini in gamba. Intelligenze scintillanti. Spirito di sacrificio. Forza di volontà. Capacità di scommettere su se stessi. Tutte virtù che abbiamo ma non sempre esercitiamo nella quotidianità. Verrebbe da dire nella scia di De Falco, perdonate il moccolo: «Possiamo farcela, cazzo!».

Certo, raddrizzare la situazione economica dopo tanti anni di malinconica deriva, dare respiro alle imprese, varare le riforme urgenti a partire dall'abolizione del bicameralismo perfetto, restituire una prospettiva ai giovani, rilanciare l'immagine ammaccata delle nostre ricchezze culturali, recuperare le energie immense del Sud troppo spesso abbandonato a se stesso e alle mafie, è più complicato che rimettere in asse una grande nave.

Ci sono momenti di morale basso, però, che possono cambiare di colpo. Basta un sussulto d'orgoglio, a volte, per rialzarsi e ripartire. Purché sia chiaro, l'hanno detto tra gli altri Gabrielli e Letta, che nessuno vince da solo. Che occorre fare squadra. Lavorare insieme. Spalancare l'Italia, come stavolta, alle migliori «teste» del pianeta pronte a lavorare con noi. E chissà che magari, fra tanti anni, non ricorderemo il recupero di ieri come il momento della svolta.

18 settembre 2013 | 7:34
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Gian Antonio Stella

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_18/un-immagine-risollevata_dd7b5c7a-2020-11e3-8197-f40f962f8de4.shtml
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 16, 2013, 11:04:33 pm »

TAGLIO DECISO MA TEMPI LUNGHI
Il coraggio della dieta

Evviva la concorrenza. Se la tanto invocata abolizione (in differita) dei rimborsi elettorali decisa dal governo sia dovuta alla voglia di Enrico Letta di prendere in contropiede Matteo Renzi che stava per annunciare una netta accelerazione, non si sa. Come non si sa quanto possa aver pesato la scelta di Berlusconi e Grillo di cavalcare il ribellismo dei Forconi. Movimento ancora informe ma infettato, tra tante persone esasperate e perbene, da infami rutti contro i «banchieri ebrei» e insensati peana a favore dell’ungherese Viktor Orbán, l’anima bruna dell’Europa autoritaria post comunista. Ma ciò che non era riuscito al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico passato nel ‘93 con il 90,3% dei voti né alle varie ondate di indignazione contro la crescita abnorme dei soldi ai partiti (+1.110%) nel primo decennio del secolo segnato in parallelo dal ristagno e dall’impoverimento degli italiani pare essere riuscito al peperoncino della concorrenza. Dentro la sinistra, dentro la destra, dentro l’opposizione a tutto e tutti.

È come si fosse aperta una gara a chi mostra d’avere una più forte e impaziente spinta riformatrice. Al punto di scavalcare per virtù dichiarata, nell’ansia di far perdonare alla politica la bulimia di questi anni, il resto d’Europa. Dove, come ricordano Piero Ignazi, Eugenio Pizzimenti e altri, solo la Svizzera non prevede alcuna forma di finanziamento. Estremismi all’italiana: dalle abbuffate trimalcioniche alla dieta totale. Dicono i grillini, i quali nei giorni scorsi sono riusciti a far passare un emendamento piccolo ma saggio perché consente di disdettare in 30 giorni una serie di esosi contratti d’affitto (11 sedi per il Senato, 20 per la presidenza del Consiglio, 21 per la Camera: assurdo) che il decreto voluto da Letta per tagliare corto con le meline parlamentari, è solo l’annuncio d’un progressivo esaurimento dei rimborsi che si compirà fra quattro anni. Vero. E mai come oggi i cittadini devono tenere gli occhi aperti su eventuali ritocchi, ripensamenti, giochini.

Sarebbe ingeneroso, però, dire che non rappresenti un passo avanti. Sul piano dei risparmi ma più ancora sulla trasparenza. Non solo dei bilanci dei partiti, la cui pubblicazione online diventa finalmente tassativa: è prevista la diffusione sul web anche degli elenchi di persone e società che finanziano la politica. Bene. E bene le misure che potrebbero spingere alla fine dei partiti personali, le sanzioni in denaro per chi viola la parità uomo-donna, l’obbligo di indicare negli statuti di ciascuna forza politica la cadenza delle assemblee dove sottoporre le leadership alla verifica democratica. Certo, che una donazione di 70mila euro a una onlus possa avere uno sconto fiscale di 537 euro e a un partito di 18.200 (34 volte di più) è una disparità ardua da capire. Che continuerà a caricare sulle casse pubbliche una parte significativa dei costi.

Per non dire degli altri capitoli meno vistosi del finanziamento, come i contributi ai gruppi parlamentari e alla stampa di partito: neanche sfiorati. Staremo a vedere. Una svolta radicale, del resto, è nell’interesse dei partiti stessi. Troppi denari pubblici, garantiti sempre e comunque, avevano reso quasi superfluo il rapporto con gli elettori. Creando un distacco inaccettabile. Essere obbligati a raccogliere euro su euro li costringerà a parlare, discutere, convincere uno ad uno i cittadini. E, finalmente, ad ascoltare ciò che hanno da dire.

14 dicembre 2013
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Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_14/coraggio-dieta-d04831fe-6486-11e3-bf08-7326d8b40f20.shtml
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:56:14 pm »

Il rapporto
Vigili, asili, strade: tutti gli sprechi dei Comuni italiani
I dati elaborati da una società del Tesoro. Milano ha il record di contravvenzioni.
Al sud sprechi per la burocrazia

Di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Com’è possibile che Roma, proprietaria di un immenso patrimonio edilizio comunale, spenda per le sedi dei vigili canoni d’affitto 117 volte superiori a quelli di Milano? Eccolo qui, un esempio clamoroso per capire quanto servano le tabelle sui «fabbisogni standard»: i cittadini possono vedere, confrontare, rendersi conto. E decidere chi premiare e chi punire.
Era ora, che qualcosa cominciasse a filtrare, di quella massa enorme di dati. Eppure sono così tante, per ora, le contraddizioni che occorre prendere quei numeri con le molle. Sennò si rischia di spacciare Casal di Principe, per decenni regno dei Casalesi, udite udite, per un municipio virtuoso.

Parlando dei trasporti, propose di fissare dei «costi standard»: trentadue. E da allora l’invocazione è stata ripresa da tutti. A destra e sinistra. Un tormentone. Finché nel 2010 la Sose, una società per l’89% del Tesoro e per l’11 della Banca d’Italia, ha cominciato a raccogliere a tappeto, con l’aiuto dell’Ifel (il centro studi dell’Anci) una miriade di numeri su sei comparti dei bilanci comunali: burocrazia interna, polizia locale, istruzione pubblica, territorio e viabilità, ambiente e rifiuti e politiche sociali, compresi gli asili nido.
I risultati ufficiali saranno messi a disposizione fra un mese. Potete scommetterci: scoppierà un putiferio. Tanto più se il governo decidesse di tagliare o premiare sulla base delle cifre nude e crude. Piero Fassino, presidente dell’Anci, l’ha già detto: «I dati sono del 2010, mentre l’incidenza maggiore sulla spending review arriva dal triennio 2011-2013 segnato da drastici tagli: raccomando al governo di non prendere provvedimenti in base a quelle tabelle».

Ci abbiamo messo il naso in quel rapporto stilato, è bene precisarlo, su numeri forniti dagli stessi Comuni. Trovando dati che gridano vendetta. Ma anche incoerenze che danno ragione alla tesi su lavoce.info di Massimo Bordignon e Gilberto Turati: «Usare questi numeri per separare gli “spendaccioni” dai “risparmiosi”, senza tenere conto di quantità e qualità dei servizi offerti, può generare disastri. Si rischia cioè di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono». Un solo esempio: possibile che la Calabria, che secondo uno studio di Stefano Pozzoli in quel 2010 aveva, rispetto agli abitanti, un quattordicesimo dei posti negli asili rispetto all’Emilia possa essere considerata «risparmiosa» perché mancano le scuole materne e le maestre?
Di più: è inaccettabile che da questo «pattugliamento» a tappeto sui conti dei Comuni siano stati esclusi quelli delle Regioni speciali. Hanno diritto a gestire i soldi in autonomia? D’accordo. Ma possiamo sapere «come» li spendono, i soldi degli italiani? Detto questo, evviva: il monitoraggio capillare, da completare con la definizione di alcuni servizi minimi, è un passo avanti enorme. Che comincia a far chiarezza sull’anarchia dei bilanci.


Il record negativo in Umbria

La prima cosa che balza all’occhio è il presunto record di virtuosità dei Comuni calabresi, che spendono il 10,65% in meno del fabbisogno standard complessivo al quale avrebbero diritto. Cioè della somma che, tenendo conto di un mucchio di fattori più o meno penalizzanti (esempio: solo chi sta in montagna può capire il peso sociale, scolastico, economico di certe nevicate) viene indicata come necessaria perché tutti i cittadini siano sullo stesso piano. Per contro, la peggiore risulta essere, nonostante un livello dei servizi superiore, la rossissima Umbria, dove i Comuni spendono il 9,71% più del fabbisogno calcolato. Di più: la Calabria sembra addirittura meno sprecona del Veneto, del Piemonte e delle Marche.
Dice tutto il confronto fra Perugia e Lamezia Terme. La prima, bella, dolce e benestante, è la città con oltre 70 mila abitanti che ha la peggiore performance in assoluto, con una spesa che nel 2010 ha superato del 31% il fabbisogno standard. La seconda batte tutti sul fronte opposto: nel 2010 ha speso il 41% in meno.
Come mai? Forse perché spendeva pochissimo per funzioni essenziali quali la riscossione dei tributi (35 mila euro contro un fabbisogno di 446 mila), gli asili nido (641 mila euro contro 930 mila) e il «sociale»: 2 milioni 522 mila contro 7 milioni 439 mila. Scelte imposte dal peso esorbitante di servizi burocratici come l’anagrafe, lo stato civile e il servizio elettorale: 1.162 mila contro un fabbisogno tre volte più basso, 468 mila. Il contrario di Perugia, più parsimoniosa nelle spese per la burocrazia ma assai più esposta sul fronte dell’ambiente (36,2 milioni contro i 6,2 stimati come fabbisogno standard), dello smaltimento dei rifiuti (31,7 milioni contro 22,5) e dei trasporti pubblici (25,3 milioni contro 4).

Il Sud risparmia (sui servizi)
Numeri in linea con una tendenza generale: le regioni meridionali, spiega la Sose, «da un lato risultano spendere più dello standard nel settore dei servizi generali di amministrazione e controllo», cioè per i burocrati e i dipendenti in genere, «e dall’altro spendere meno dello standard nel settore dei servizi sociali».
Bologna, ad esempio, figura sì in «zona rossa» con una spesa 2010 superiore del 4,76% allo standard, ma si tratta di una scelta precisa: investe nell’istruzione 60,4 milioni, contro i 37,5 previsti da Sose. Giusto? Sbagliato?
Il Sud impiega più risorse dello standard in burocrazia e meno per i servizi sociali

I risultati, scommettono gli emiliani, si vedranno più in là. Così come scommettono su se stessi i Comuni veneti (Vicenza su tutti), che a dispetto dei servizi buoni e a volte eccellenti riescono a spendere, come notava Albino Salmaso sul Mattino di Padova , il 7% in meno della media italiana.
Un dato lusinghiero. Purché, in attesa della seconda parte del monitoraggio sul livello dei servizi, venga preso comunque con le pinze: i numeri possono essere bugiardi. Avete presente Casal di Principe, la cittadina della «Terra dei fuochi» tenuta in ostaggio per decenni dai Casalesi ed espugnata a giugno dal sindaco antimafia Renato Natale? Risulta tra i municipi più virtuosi della Campania. Basta dire che la sua spesa 2010 era inferiore al fabbisogno standard del 41,6%.

Ma se andiamo a vedere come spendeva quell’anno i denari pubblici, scopriamo che per gli uffici preposti a raccogliere le tasse comunali, c’erano briciole. Fabbisogno stimato da Sose: 113.242 euro. Euro impiegati: 167. Cioè 678 volte di meno: perché mai infastidire i compaesani chiedendo loro le tasse? Quanto all’ambiente, devastato dai veleni scaricati perfino nel cortile della ludoteca, il fabbisogno stimato era di 445.949: ne spesero un quarto. I denari servivano per la burocrazia municipale. Costosissima.

I fabbisogni standard e il contesto
Assurdo. Certo è che la Provincia di Caserta, la più avvelenata dagli scarichi industriali di tutta l’Italia, dimostra una volta di più come gli stessi «fabbisogni standard» abbiano sì un senso, ma debbano tener conto del contesto. Nel 2010 l’ente provinciale casertano spese il 35% in più del previsto investendo nel settore ambientale 57 milioni: cinque volte più del fabbisogno standard calcolato da Sose: 11 milioni 581.147 euro. Spreconi? Dipende da come sono stati investiti soldi. Ma che quella terra sventurata abbia bisogno di più quattrini per il risanamento di ogni ipotetica media nazionale è fuori discussione.

Gli eccessi delle località turistiche, da Cortina d’Ampezzo a Capri
Così come è complicato calcolare lo «standard» per località turistiche che a seconda delle stagioni possono moltiplicare la popolazione di tre, cinque, dieci volte. Al Nord e al Sud. Il fabbisogno finanziario teorico di Cortina d’Ampezzo sarebbe inferiore del 52% alla spesa reale, quello di Capri del 39,6, di Ischia del 42,6, del Sestrière del 52,4, di Gallipoli del 38,6. Spreconi? O piuttosto inchiodati dall’obbligo a mantenere dei servizi decenti?
Non mancano, nelle realtà più piccole, esempi di virtuosità stupefacente. Il record spetta a un paesino bergamasco, Blello, che ha un fabbisogno teorico del 108,9% superiore a quello che il municipio spende in realtà: i 79 abitanti si sanno accontentare. O si sono rassegnati. Così a Cartignano, 180 residenti, nel cuneese, dove il differenziale è del 108,4%. O nella salernitana Omignano, dove lo «standard» sarebbe più alto del 97,2. Ma sono tutti «risparmiosi» o costretti a far buon viso a cattiva sorte a causa della marginalità?
Risultati simili, nelle metropoli, sono impensabili. A Roma nel 2010 ogni cittadino spendeva per i servizi fondamentali 1.695 euro, dei quali 400 per mantenere i dipendenti municipali. A Milano 1.830: 441 per il personale. A Napoli 1.416 euro: per i «comunali» 477. Ma quanto valgono questi numeri se non si tiene conto del divario, qua e là abissale, dei servizi forniti?

Polizia locale e multe a confronto
I tre Comuni allo specchio dicono tutto delle differenze fra i diversi pezzi d’Italia. Basti prendere il costo della funzione forse più sensibile per un Comune, quello della polizia locale. Il fabbisogno standard di Roma è fissato in 323 milioni: nel 2010 spese il 14,5% in più. All’opposto Milano, che sborsò per i vigili il 38,3% in meno ma anche Napoli, che «risparmiò» il 29%. Eppure il Campidoglio, in quel 2010 preso in esame, fornisce ai cittadini in qualità e quantità molto meno di Palazzo Marino. Per carità, le multe stradali sono forse un indicatore anomalo, ma i dati sono interessanti: i 5.998 vigili di Roma elevavano manualmente 929.442 contravvenzioni (154 a testa: tre a settimana), i 3.179 colleghi milanesi 1.178.780: 370 pro capite, più di una al giorno. Per non parlare delle 79.870 sanzioni di diverso genere fatte a Milano contro le 27.990 di Roma e le appena 963 di Napoli. O dei 255 arresti effettuati dai «ghisa» ambrosiani a fronte dei 110 dei «pizzardoni» capitolini e dei 64 dei «caschi bianchi» partenopei.

Le spese mostruose di Roma per gli affitti
Per non dire degli affitti di cui scrivevamo. Nonostante fosse proprietario di 59mila immobili, storicamente gestiti assai male, il Comune di Roma in mano alla destra dopo anni di giunte di sinistra, pagava nel 2010 per i locali occupati dalla polizia municipale canoni per tre milioni e mezzo contro i 30.017 euro di Milano: 117 volte di più. Una spesa mostruosa. Che costringeva il Campidoglio a risparmiare su tutto il resto. Comprese le tecnologie indispensabili per amministrare meglio una realtà complicata quale quella capitolina. Solo 2,9 milioni di euro investiti contro i 6,4 di Palazzo Marino. Con riflessi clamorosi sul controllo territoriale. I questionari compilati dai rispettivi Comuni e aggiornati al primo agosto di quest’anno dicono che a Milano la polizia locale dispone, per un territorio di 181 chilometri quadri, di 1.359 telecamere. A Napoli, dove i chilometri quadrati comunali sono 1.117, i vigili ne hanno 100. E a Roma? Il Comune con la superficie più vasta d’Italia, 1.285 kmq, di telecamere ne ha solo 45. Cioè una ogni 48 chilometri.

4 ottobre 2014 | 08:04
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Da - http://www.corriere.it/inchieste/14_ottobre_04/vigili-asili-strade-tutti-sprechi-comuni-italiani-8b3ae838-4b88-11e4-afde-3f9ae166220d.shtml
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 15, 2015, 12:07:38 pm »

L’INCHIESTA le spese DEI MUNICIPI

Il Comune che investe in matite e quello che sperpera per le liti
Un sito web mette a confronto i bilanci delle amministrazioni: il paese più piccolo d’Italia, Pedesina (Sondrio) conta 12 consiglieri su 33 abitanti.
Micigliano spende 356 euro pro capite in parcelle di avvocati


Di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

ROMA - «Varie, eventuali e generiche». Manca solo questa dicitura, nelle voci dei bilanci dei Comuni italiani. Per il resto c'è tutto. Con legende così fumose che ti chiedi: cosa diavolo c'è sotto? Esempio: «Rimborso anticipazioni di cassa». Cioè? Boh... Quattro miliardi e mezzo di euro. Come l'Imu sulla prima casa. Lo rivela un nuovo sito da oggi online. Dove i cittadini possono, finalmente, confrontare quanto spendono per le stesse cose, dal materiale di cancelleria alle piante da vivaio, gli oltre ottomila municipi italiani. Alleluia! Purché questo lavoro straordinario venga aggiustato con l'obbligo, su troppe voci, di uscire dall'indefinito. È un pozzo senza fondo di informazioni fondamentali, numeri assurdi e curiosità, il sito soldipubblici.mgpf.it. Navighi un po’ e ti poni domande bizzarre: con chi sono in guerra a Micigliano, in provincia di Rieti, per spendere in «liti e patrocinio legale» 356 euro pro capite contro il miserabile centesimo (un cent!) del comune di Pisa o gli zero (zero carbonella) centesimi di altre migliaia di municipi? Oppure: quali animali si sono comprati a Barengo, in provincia di Novara, per spendere 26 euro abbondanti a testa contro i 2 centesimi di Nocera Inferiore? E cos’è questo «global service» che ha fatto scucire al Comune di Spoleto quasi 217 euro per ogni cittadino se a Pavia non hanno tirato fuori una sola monetina?.

Il pasticcio dei codici fiscali
In realtà, molti dati vanno presi con le pinze. È ovvio, ad esempio, che il Comune di Longarone non spende un milione e mezzo di soldi pubblici per ogni cittadino: il guaio è che la banca dati originaria, il Siope (Sistema Informativo Operazioni Enti Pubblici) di Bankitalia, non è stato ancora aggiornato di recenti ritocchi. Vedi appunto Longarone, che dopo la fusione con Castellavazzo risulta avere 6 abitanti invece di 5.433. Peggio, la nuova realtà comunale conserva il nome di prima ma con due codici Istat, due codici fiscali... E pasticci simili sono segnalati per altri sei Comuni: Montoro, Fabbriche di Vergemoli, Scarperia, San Piero, Tremezzina e Val Brembilla. Un peccato, certo. Ma secondario rispetto alla massa enorme di numeri che consentono per la prima volta agli abitanti di Portofino o Bergolo, Marsala o Luserna, come dicevamo, di fare dei paragoni. E capire se il loro municipio, rispetto per esempio ai Comuni vicini, è amministrato bene o male. Per poterne poi chiedere conto. Una trasparenza che, rimossi i piccoli errori iniziali grazie alle inevitabili precisazioni di questo o quel municipio, dovrebbe consentire poi un maggiore controllo pubblico dei conti. E di conseguenza non solo contenere le spese ma arginare la corruzione che conta proprio, per prosperare, sul caos totale dei bilanci.

La squadra e le falle del sistema
E dunque evviva Riccardo Luna, il giornalista esperto di startup innovative pubblicamente ringraziato per questo lavoro anche da Matteo Renzi. Evviva l’équipe di Giovanni Menduni del Politecnico di Milano che basandosi sui dati del Siope ha battezzato il sito soldipubblici.gov.it segnalando con onestà le iniziali discrepanze. Ed evviva Matteo Flora, della «Thefool» di Milano (Monitoraggio, Moderazione, Gestione e Tutela Legale della Reputazione Online) che ha fatto il passo successivo costruendo il portale soldipubblici.mgpf.it per dare la possibilità a tutti di vedere le classifiche generali e pro capite delle varie spese.
Certo, il sistema zoppica sulle varie voci dei bilanci. Che differenza c’è tra gli «incarichi professionali esterni» e gli «incarichi professionali»? Peggio ancora, certe caselle sono così generiche, come scrivevamo, da lasciare spazio a ogni interpretazione: «altre spese per servizi», «altri tributi», «altre infrastrutture» e così via. Prova provata della necessità di cambiare le regole definendo una volta per tutte per ministeri, Regioni, Province (finché ci saranno) e Comuni le diciture che possono essere utilizzate. Così da permettere di capire se sotto la dicitura «altri contratti di servizio» c’è una serata di fuochi artificiali, un cenone clientelare o l’appalto per le fognature.

I miliardi «scomparsi»
Torniamo ai 4 miliardi e mezzo dei «Rimborsi anticipazioni di cassa», metà di quanto i Comuni hanno speso nel 2014 per gli stipendi del personale, nove miliardi. Come sono stati impiegati? Non lo sa nessuno, tranne i cassieri municipali. Si tratta infatti di somme loro affidate per pagamenti in contanti dei quali non esistono riscontri immediati. Ci saranno magari il mese successivo, quando si scoprirà se sono stati usati ad esempio per viaggi o formazione professionale. O si capirà, per intuizione, dal rendiconto del bilancio. Ma la classificazione Siope non dice nulla di più. Una follia: la trasparenza esclude zone grigie. Per non dire di altre sovrapposizioni e intrighi che appaiono studiati apposta per non far capire nulla. Ci sono «trasferimenti correnti ad imprese di pubblici servizi» (253 milioni) e poi «trasferimenti correnti ad aziende speciali» (220 milioni), e poi «trasferimenti correnti ad altri enti del settore pubblico» (1,3 miliardi!) e «trasferimenti correnti ad altri» e «trasferimenti in conto capitale ad altri» e «trasferimenti correnti a imprese pubbliche» ... Di cosa parliamo? Di cosa?

Le categorie «gemelle»
E cosa distingue i soldi per «Beni di valore culturale, storico, archeologico e artistico» e quelli per le «opere artistiche»? E come vanno distinti i denari spesi per «fabbricati civili a uso abitativo, commerciale e istituzionale» (1,3 miliardi!) e le «locazioni» (389 milioni) e gli «altri beni immobili» (un miliardo e 552 milioni!) e la «manutenzione ordinaria e riparazione di immobili» (752 milioni!) e le «altre spese di manutenzione ordinaria e riparazioni» pari a 571,6 milioni? E che differenza c’è fra «beni di rappresentanza» e i «servizi di rappresentanza»? Non esiste nemmeno la certezza che in quelle voci i Comuni mettano tutti le stesse cose. L’addetto che materialmente compila i mandati ha sì l’obbligo di metterci un codice: ma lo sceglie lui. Lui! E il tesoriere che stacca l’assegno non è tenuto a controllare che sia giusto, ma solo che un codice ci sia. E così sarà fino al prossimo 15 marzo, quando l’obbligo di fattura elettronica per le pubbliche amministrazioni almeno questo problema, Deo gratias, dovrebbe risolverlo.

Le spese dei più piccoli
Eppure, nonostante il guazzabuglio, qualcosa di come gli enti locali spendono i soldi si riesce finalmente a capire, grazie soprattutto al numeretto che gli «hacker» hanno messo accanto a ogni cifra: il valore pro capite, appunto. Quel numeretto dice, ad esempio, che certe dimensioni lillipuziane dei municipi non hanno senso. Il Comune più piccolo d’Italia, Pedesina in Provincia di Sondrio, paga per le indennità del sindaco e dei consiglieri comunali 9.358 euro: tanto quando spende (9.679 euro) alla voce «competenze per il personale a tempo indeterminato», forse un unico impiegato part-time. Fanno 283 euro a testa. Ovvio, con 33 abitanti, un sindaco e 11 consiglieri comunali... Moncenisio di consiglieri ne ha 11 per 34 abitanti, e spende ancora di più: 15.449 euro. Sono 454 euro a persona, che fanno di quel paese torinese il posto dove si stanziano più soldi pro capite per mantenere i pubblici amministratori. E anche per le consulenze: sempre che per «incarichi professionali» si intendano quelle. La spesa pro capite nell’ultimo anno è stata di 955 euro. Per un totale di 32.495 euro. Una cifra modesta, in assoluto. Neppure paragonabile con i 75,1 milioni (28 euro pro capite) di una città come Roma. Ma la dice lunga su quanto l’accorpamento dei Comuni minuscoli, pur nel rispetto delle tradizioni storiche e del diritto di rappresentanza, sia indispensabile per mettere sotto controllo la spesa.

Pro capite a confronto
I confronti, sul pro capite, possono essere micidiali. Gli amministratori locali a Roma costano 7,8 milioni: due euro per abitante. Che salgono a 3 a Milano, 5 a Napoli, 6 a Palermo, 11 a Cosenza, 12 a Siracusa e Caserta, 13 euro a Bolzano, 14 a Messina, 15 a Chieti, 22 a Vibo Valentia, 24 ad Aosta... Per carità, è chiaro che più piccola è una realtà e più lo stesso identico servizio costa. Ma una regolamentazione fissa sui gettoni di presenza decisi a livello nazionale in rapporto anche agli abitanti appare indispensabile: i 498 milioni stanziati nel 2014 per le indennità e i gettoni alle giunte e ai consiglieri comunali potrebbero essere spesi più equamente.

Prendiamo una delle voci più grosse? Lo smaltimento dei rifiuti, che costa agli italiani quasi 8 miliardi e mezzo l’anno. Il Comune di Napoli nel 2014 ha sborsato 305 euro per ogni cittadino, Venezia 318: ovvio, in una città dove i turisti sono quotidianamente il triplo degli abitanti la raccolta differenziata è complicatissima. Ma si possono spendere 684 euro pro capite a Porto Cesareo, 760 a Capri, 802 a Caorle? Fermo restando, si capisce, che non sempre un’alta spesa pro capite denuncia una mancanza di efficienza. Prendiamo il trasporto pubblico locale: il Comune dove il costo è più elevato è Milano: 621 euro per abitante, contro i 265 di Roma, i 230 di Napoli, i 263 di Brescia e addirittura gli 85 di Palermo. La qualità del servizio di trasporto nel capoluogo lombardo non è minimamente paragonabile, però, non solo con quella dei capoluoghi siciliano o campano, ma neppure quella di Roma. Dove l’incasso dei biglietti è la metà rispetto a Milano e una società come l’Atac, fosse privata, sarebbe già fallita.

Le spese delle scuole
E i servizi scolastici? A Milano si spendono 33 euro per abitante. Niente, in confronto ai 118 di Basiglio, il Comune più ricco d’Italia, o ai 108 di Maranello, il paese della Ferrari. In confronto ai 21 di Potenza, però, si tratta di un’enormità. Ma anche in rapporto ai 17 di Firenze, agli 11 di Livorno, agli 8 di Catania e Latina, ai 7 di Cagliari, ai 6 di Catanzaro... Onestamente: siamo sicuri che i servizi milanesi, in questo settore, valgano tre volte quelli livornesi? È qui che servono, i confronti. Com’è possibile che Milano nel 2014 per la voce «servizi ausiliari e pulizie» abbia speso 23 euro per abitante e Roma solo 7? Risponderete: la differenza si vede. Ma come la mettiamo con Potenza, che ne ha spesi 103? E Salerno: 120? E Muggia, che di euro ne ha investiti 138, può davvero dimostrare che valeva la pena di stanziare il triplo pro capite di Trieste (44 euro) con la quale confina? È così abissale, la differenza, o c’è qualcosa che non torna?

«Varie e generiche»
Della serie «varie e generiche»: a cosa si riferisce la voce «altri materiali di consumo» che assorbe in totale 518 milioni e vede in testa per numeri assoluti Ragusa e nel pro capite il borgo sudtirolese di Tires? Pennarelli, fotocopiatrici o sci? E come mai alla voce «Mezzi di trasporto» Roma risulta avere speso nell’ultimo anno 77,1 milioni contro 4,2 di Milano? Spese improvvise e non previste?
Una cosa è certa. Una volta messa a punto la banca dati online con le precisazioni e le contestazioni di questo e quel Comune, nulla sarà più come prima. Già oggi i cittadini di Pomezia, per dire, hanno il diritto di chiedere: come mai per «carta, cancelleria e stampati» la città spende 1,4 milioni e cioè più di Milano (988 mila), Catania (971 mila) o Roma (769 mila)? E perché, si interrogheranno a Roio del Sangro, il loro Comune per «pubblicazioni, giornali e riviste» sborsa 53 euro pro capite contro i 2 di Trento? E come mai Cittareale ha speso 186 euro pro capite di «derrate alimentari»? Tempi duri, per gli amministratori spendaccioni. Purché non ci si accontenti di questo primo assaggio di trasparenza e si metta mano infine al modo insensato di fare i bilanci. E purché, dopo quelli comunali, vengano messi online, con la stessa chiarezza, i bilanci delle Regioni e dei ministeri. Che al momento, però, sembrano un po’ sordi...

15 gennaio 2015 | 08:26
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_gennaio_15/comune-che-investe-matite-quello-che-sperpera-le-liti-36988c5c-9c84-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:33:33 pm »

IL GRANDE DEGRADO
Roma si è fermata al capolinea del bus: salta una corsa all’ora
Colosseo e Galleria Borghese chiudono ai turisti per assemblea. I visitatori in Rete: «Pulizia zero». Così è fallito un sistema clientelare che legava partiti e comitati d’affare

Di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
Dicevano le rilevazioni statistiche relative al mese di gennaio 2015 che in una sola giornata, per la precisione un sabato, si erano perdute 865 corse. Per la linea 60, una delle più centrali, non ne erano state effettuate in una settimana ben 383, vale a dire 12,6 al giorno: quasi una ogni ora, s’intende escludendo la notte.

I motivi? Magari l’organizzazione, se è vero che sempre a gennaio sono state fatte 3.388 ispezioni sulle anomalie del cosiddetto «accodamento» di due o più vetture (autobus della stessa linea fermi al capolinea o che procedono uno dietro l’altro). E pensare che i richiami sull’accodamento nel gennaio 2007 erano stati appena 163. Un ventesimo di quelli di otto anni dopo. Dunque delle due l’una: o le verifiche sui disservizi non erano mai state fatte per anni con analogo zelo, oppure gli autobus allora funzionavano benissimo. Il che, ovviamente, è fantascienza.

Mezzi in condizioni pietose e officine chiuse di pomeriggio
Ma ai ritardi e alle corse saltate contribuisce pure lo stato pietoso dei mezzi. Su 2.300 autobus disponibili ce ne sono 600 letteralmente inservibili. Per il trasporto, ovviamente: servono come pezzi di ricambio. Ma all’Atac non deve funzionare bene neppure il cannibalismo. Dicono sempre i dati dell’azienda che gli interventi dei meccanici di piazza sulle vetture rotte hanno una percentuale di successo del 55,18 per cento. Quasi metà non si riescono a riparare e devono essere ricoverate nelle officine. Dove, non ci crederete, ma il pomeriggio non si lavora.

I cittadini (e, immaginiamo, anche i turisti esterrefatti) l’hanno scoperto grazie ai manifesti con cui il Partito democratico ha tappezzato generosamente la pareti delle strade cittadine. Testuale: «Atac - Officine aperte anche il pomeriggio. Una proposta sostenuta dal Pd per migliorare il servizio di trasporti pubblico ai cittadini».

È concepibile che una metropoli frequentata da 40 milioni di turisti con i trasporti che non funzionano e gli autobus che si scassano a ripetizione tenga le officine chiuse il pomeriggio? Ed è possibile che nessuno sia mai intervenuto prima per mettere fine a questo sconcio? Pesantissime sono in questo caso le responsabilità della politica. Di tutti i partiti che si sono alternati al Campidoglio: le maggioranze, perché hanno governato male, e le opposizioni, perché non si sono opposte abbastanza. E se non si può mettere la croce addosso al solo Marino, certo dopo due anni di governo è lecito chiedere che cosa si è fatto, oltre a scoprire che le officine dell’Atac sono sempre rimaste chiuse il pomeriggio.

I motivi del crac dell’Atac
Perché il crac dell’azienda dei trasporti della Capitale, che è stato certificato ieri in modo drammatico con il licenziamento dei responsabili e perfino dell’assessore Guido Improta, non è il semplice fallimento di un’azienda municipalizzata. Anche se una delle più grandi del Paese: il gruppo ha 12 mila dipendenti, più dell’Alitalia. E non è un caso che si stia pensando proprio a una soluzione come quella studiata a suo tempo per la compagnia di bandiera.
Con l’Atac è fallito un modello assurdo di relazioni industriali incentrato sul rapporto perverso fra i sindacati e la politica. Ed è anche il fallimento di un sistema clientelare per il quale l’interesse dei partiti, delle correnti e dei comitati d’affari (che spesso coincidono con i partiti) prevale sempre sull’interesse pubblico. Lo stesso sistema con il quale è stata gestita per anni la città, precipitandola in un degrado disastroso. A prezzi astronomici.
Così all’Atac, dove i contratti venivano negoziati direttamente fra i sindacati e i politici, scavalcando i vertici aziendali, con il risultato che un autista di tram guidava 700 ore l’anno contro le 850 di un suo collega napoletano e addirittura 1.200 di un tramviere milanese. Ed è bastato mettere in discussione alcuni dei privilegi portati a casa in quel modo negli anni per scatenare un feroce sciopero bianco, con le metropolitane bloccate per ore, ritardi biblici nel servizio e drammatiche tensioni sociali. Un ricatto odioso, che ha dimostrato quanto sia ancora potente il fronte degli irriducibili.

Raccolta dei rifiuti ferma la domenica
E così pure all’Ama, che di dipendenti ne ha quasi 8 mila. Alla municipalizzata dei rifiuti si era arrivati a siglare quattro anni fa un contratto integrativo che riconosceva il premio di produttività a chi si era presentato al lavoro almeno metà delle giornate e non aveva accumulato più di cinque giorni di sospensione per motivi disciplinari. Scoperta di queste ultime ore, grazie a un altro manifesto del Partito democratico con cui sono stati riempiti i muri della città, a Roma nei giorni festivi la spazzatura resta nei cassonetti. Testuale: «Ama - La raccolta dei rifiuti anche la domenica - La proposta sostenuta dal Pd per una città più pulita».

Ci si può stupire allora che le strade della Capitale siano in condizioni indecenti dal centro alla periferia? Che i giardini pubblici siano un ricettacolo di sporcizia? Che anche le piazze e le vie più frequentate dai turisti siano piene di immondizia? Nonostante un costo della tariffa per i rifiuti soldi urbani fra le più alte d’Italia?

Quel modello di tutela di certi interessi corporativi, si diceva, ha fatto scuola. Superando evidentemente anche i confini delle società comunali. Succede allora che una mattina di luglio migliaia di turisti, magari reduci da una sfacchinata nei carri bestiame dell’Atac, arrivati davanti al Colosseo (che con 6 milioni di ingressi l’anno è fra i monumenti più visitati del mondo) trovino il cancello sbarrato e un cartello che dice: «Chiuso per assemblea. Ci scusiamo per il disagio». Con traduzione pure in inglese, bontà loro. Ma niente tedesco, né francese, e nemmeno spagnolo. Il cinese, poi... Chi lo sa il cinese?

I giudizi sui siti di viaggi
E se la stessa cosa capita il giorno dopo, come è capitato, alla Galleria Borghese, ci possiamo meravigliare se mr e mrs Smith, tornati a Los Angeles da un viaggio allucinante a Roma consigliano ai loro amici di non metterci piede? Magari trasferendo il loro giudizio su uno di quei siti internet, tipo Tripadvisor, che sono ormai la bibbia dei viaggiatori?
Fatevi un giro, su quei siti, per vedere quali giudizi lusinghieri vengano affibbiati ai servizi pubblici della Capitale. Uno a caso, dal suddetto Tripadvisor: «Autobus affollatissimi agli orari di punta, ancora più rarefatti in altri orari. La sofferenza è garantita. Pulizia zero, sicurezza zero. Vergognoso». Questa è la vetrina della città più ambita, dicono le rilevazioni, dai turisti di tutto il mondo. Ed ecco perché non basta dire che si volta pagina, come tante volte si è fatto, e si è fatto anche ieri, se poi la pagina non si volta sul serio. Né può essere considerata una vera soluzione un licenziamento in conferenza stampa di un singolo assessore che già un mese fa aveva del resto manifestato l’intenzione di gettare la spugna.

L’agonia durata due anni
Quando due anni fa l’amministrazione attuale si è insediata l’Atac era una società nel cui bilancio figuravano perdite portate a nuovo per 700 milioni: polvere messa sotto il tappeto, ma che qualcuno prima o poi avrebbe dovuto togliere. Tirando fuori, appunto, tutti quei soldi. Era una società decotta da tempo immemore, con una storia funestata da vicende sconcertanti come un’inchiesta giudiziaria su biglietti falsi, si disse per milioni, e tangenti per l’acquisto di filobus mai utilizzati: perché non esisteva nemmeno la corsia attrezzata per farli marciare. Una municipalizzata di trasporto pubblico nella quale gli incassi dei biglietti non coprivano a fine anni Novanta che il 24 per cento dei costi, contro il 35 per cento stabilito come limite minimo da una legge dello stato, e che oggi incassa il 38 per cento degli introiti contabilizzati dalla milanese Atm. Con costi astronomici, i più alti d’Italia: oltre 10 euro a chilometro. Un’azienda con un assenteismo impressionante, arrivato a superare le 1.400 assenze giornaliere: quasi il 12 per cento della forza lavoro dell’intero gruppo. E alla quale non era stato risparmiato, come estremo sfregio, nemmeno l’assalto di Parentopoli. Per non parlare dei megadirettori che durante la precedente giunta avevano retribuzioni superiori ai 350 mila euro, e dell’evasione: il numero dei passeggeri degli autobus che non pagano il biglietto arriva anche al 40 per cento. I controllori erano appena settanta, poi sono diventati 300. Senza tuttavia grandi progressi.

In ballo il futuro della città
La logica del Codice civile avrebbe consentito allora di portare i libri in tribunale. Che però non è accaduto. Sarebbe stata una iniziativa traumatica, certo. Ma come già si era verificato per l’Alitalia, il medico pietoso ha reso il malanno ancora più grave. Dichiarare fallita l’Atac due anni fa avrebbe fatto scoppiare il bubbone avendo poi il tempo per rimediare. Soprattutto, sarebbe arrivato forte e chiaro un messaggio a tutto quel mondo clientelare e affaristico che sui conti della città più grande d’Italia ha speculato ignobilmente per anni, come dimostrano le inchieste di Mafia Capitale. Ma anche a chi semplicemente ci campava con il minore sforzo e impegno possibile. Il messaggio che chi sbaglia deve pagare. E le toppe non si mettono più.

Vedremo ora. Qui non è in ballo il salvataggio di un’azienda pubblica, ma il salvataggio di Roma. Da come sarà affrontato questo passaggio dipende tutto. Anche il futuro politico di Marino.

25 luglio 2015 | 07:45
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