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Autore Discussione: Antonio POLITO  (Letto 79473 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:21:04 pm »

LO STRAVAGANTE BIPOLARISMO ITALICO

Due questioni non secondarie


Il rito democratico delle primarie ha funzionato. Non con lo stesso entusiasmo del passato, quando per Prodi andarono a votare quattro milioni e trecentomila persone nel 2005; o come nel 2007, quando per Veltroni si recarono alle urne tre milioni e mezzo di italiani. Però stavolta la gara era vera. Così vera che non è ancora finita.

Domenica avremo dunque il nome del primo candidato premier di queste elezioni in cui nient'altro è sicuro, neanche se ci saranno candidati premier o se il premier verrà scelto dopo il voto. Probabilmente il vincitore sarà Bersani: pur avendo ricevuto meno consensi di quattro anni fa, è stato ripagato della sua scelta di mettersi nelle mani degli elettori piuttosto che dei capi corrente. Renzi probabilmente perderà, ma la sua sarà una vittoria morale: il Davide fiorentino ha combattuto da solo contro tutti, e nonostante le accuse di deviazionismo di destra è andato forte proprio nel cuore rosso del popolo democratico. Il futuro, come si suol dire, è suo.
Però le primarie non servivano solo a esibire la passione e l'orgoglio dell'elettorato di centrosinistra, mai in discussione, o ad opporre una mobilitazione politica di massa al dilagare dell'antipolitica. Si sperava producessero anche un effetto benefico sull'intero sistema. E questo invece manca ancora, per due motivi.

Il primo non dipende dal Pd ed è la zoppìa evidente del bipolarismo che sembra profilarsi. Se domenica si presenterà infatti lo schieramento di sinistra, niente si sa di quello di destra, e notizie vaghe e contraddittorie provengono da quello di centro. Allo stato i due maggiori candidati alla vittoria sono l'alleanza di sinistra da una parte e Grillo dall'altra. È evidente che un bipolarismo così non può reggere. L'anomalia italiana si trasformerebbe in una vera e propria stravaganza in Europa. E però, se qualcosa di serio non accade nel campo dei moderati e dei conservatori, così sarà.

Il secondo motivo invece dipende esclusivamente dal Pd. Bersani si trova ora a un bivio. La sua vittoria finale dipende dal favore dei 485 mila elettori più radicali della coalizione, quelli che al primo turno hanno votato Vendola. Una minoranza, che però può ora influire in modo decisivo su carattere, programma e persino composizione del futuro governo. Vendola ha già detto che in cambio del suo appoggio vuole sentire «profumo di sinistra». Eppure quell'aroma già sembrava troppo forte a coloro che, in Italia e all'estero, temono che una maggioranza così non regga alla prova del terzo debito pubblico del mondo.

Nasce dunque qui un problema: la sconfitta di Vendola alle primarie sconfigge anche le sue posizioni contrarie al pareggio di bilancio, al relativo Trattato europeo e alle riforme varate dal governo Monti, come dovrebbe e come pensavamo che fosse? O paradossalmente le rafforza, consegnandogli già da subito un potere di veto? Trattandosi di scelte che riguardano tutti gli italiani, è perciò indispensabile che ogni intesa che da qui a domenica verrà siglata a sinistra sia pubblica e trasparente, nei programmi come negli organigrammi.

Antonio Polito

27 novembre 2012 (modifica il 28 novembre 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_27/polito-questioni-non-secondarie_b3c0ecf6-3859-11e2-a2c7-8d9940659020.shtml
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« Risposta #31 inserito:: Dicembre 04, 2012, 05:12:08 pm »

LE ILLUSIONI DA SFATARE DIETRO IL SUCCESSO DI BERSANI

Le Favole da rottamare


«Dobbiamo vincere ma senza raccontare favole, perché poi non si governa». Questa frase, pronunciata da Pier Luigi Bersani subito dopo la vittoria, è forse il risultato più importante delle primarie del centrosinistra. Se il candidato premier ha sentito il bisogno di dirlo nel momento del successo, vuol dire che è consapevole che di favole ne sono state raccontate in questi mesi, e che è giunta l'ora di smetterla.

Nella favola più in voga si narra che l'arrivo della sinistra al governo libererà ingenti somme di denaro pubblico da investire in grandi opere (le «migliaia di cantieri» di cui parla Vendola), o in ritorni alle pensioni di anzianità (il progetto Damiano, poi bloccato dalla Ragioneria dello Stato perché costava 17 miliardi), o in «stimoli alla crescita» e «politiche industriali» (il keynesismo alla Fassina).

Questa favola si basa su due illusioni. La prima è che una sinistra vincente in Italia possa, in alleanza con i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi, ribaltare il tavolo europeo e mettere fine al rigore. Ma pure in Francia la sinistra vinse promettendo di riscrivere il Trattato europeo che impone la disciplina di bilancio, e una volta al governo si è precipitata a votarlo così com'era. E in Germania i socialdemocratici hanno approvato il Fiscal Compact, e non sembrano disposti a suicidarsi alle elezioni proponendo di spennare i tacchini tedeschi per i debiti dei passerotti italiani.

La seconda illusione è che Mr. Spread non sia più con noi. È vero, ieri è finalmente tornato, anche se per poco, sotto quota 300, la casa dei conti pubblici non brucia più, e questo si deve proprio a quelle politiche di rigore che nelle favole si sogna di rottamare. Però non è immaginabile alcuna crescita se le banche italiane continueranno a pagare interessi doppi di quelle tedesche e a farli pagare tripli alle imprese e alle famiglie. Lo spread ce lo abbiamo ancora sotto la pelle. E non si può nemmeno escludere che, se facciamo le mosse sbagliate, si debba ricorrere all'ombrello della Bce prima o dopo le elezioni.

Di favole ne sentiremo anche altre in campagna elettorale. Tipo quella che dice che possiamo risolvere i nostri problemi uscendo dall'euro (Grillo), o che potremmo risolverli tornando all'autorevolezza e alla credibilità di quando c'era lui (Berlusconi). Il Bersani che ha vinto le primarie ha dunque ora il dovere, oltre che il diritto datogli dal voto popolare, di agire da premier in pectore. Il suo Pd assomiglia oggi di più a un grande partito europeo, sia per le dimensioni elettorali fotografate dai sondaggi, sia per il pluralismo culturale che vi ha portato la sfida delle primarie. Il successo delle idee liberal, eretiche fino all'altro ieri e ora approvate da quattro elettori su dieci, può allargare il campo della sinistra. A patto che non si creda all'ultima favola che si racconta nel Pd: e cioè che le primarie le ha vinte il «profumo di sinistra» di Vendola, che ha preso quasi il 16%, e le ha perse il «profumo di destra» di Renzi, che ha preso il 40%.

Antonio Polito

4 dicembre 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_04/bersani-favole-da-rottamare-Polito_692375b8-3ddd-11e2-ab02-9e37f2f89044.shtml
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« Risposta #32 inserito:: Dicembre 10, 2012, 07:33:17 pm »

Le scelte del Professore

C’è un’Italia dietro Mario Monti? Questa è in definitiva la domanda cui il Professore dovrà rispondere nelle prossime ore, e non riguarda solo il suo futuro. Silvio Berlusconi, l’uomo che sull’orlo del fallimento nazionale gli girò tutte le cambiali che aveva firmato con l’Europa e che non era in grado di onorare, vuole tornare. Eccita quella parte del Paese convinta che le cambiali si possono non pagare. Sa che è un’idea popolare. A destra, dove Maroni chiede al Pdl di «andare avanti, fino in fondo », anche se non è chiaro dove sia il fondo. Ma anche a sinistra dove, dalla Fiom a Vendola, c’è chi considera l’Europa un club di banchieri da rovesciare a colpi di deficit.

Il guaio maggiore del discorso di Milanello sta proprio nel ridare legittimità a entrambi questi estremismi. Anche se Berlusconi non vincerà le elezioni, ha già cambiato il contenuto delle elezioni. Da domani ciò che conta è di nuovo da che parte si sta, non che cosa si fa; da domani non si fa più di conto con i soldi pubblici, ma si rifà la conta dei voti che possono portare i soldi pubblici. Si gioca a berlusconiani contro antiberlusconiani, per la sesta volta di seguito. L’armistizio è durato 13 mesi. La guerra continua. Il mondo ci guarda incredulo.

Mario Monti ha la possibilità di fermare questo infernale meccanismo? Dopo il gesto con cui ha lasciato, indicando con chiarezza il responsabile, ha davanti a sé tre strade. La prima è ritirarsi, come il de Gaulle isolato dai partiti della Quarta Repubblica, in attesa che una nuova emergenza lo richiami. La seconda è fare da garante di futuri governi di sinistra che abbiano bisogno di farsi garantire, poiché le loro credenziali in Europa e sui mercati non sono sufficienti: Bersani ci spera. La terza strada è scommettere che ci sia davvero un’Italia dietro di lui, un’Italia che considera quest’anno un inizio, non una parentesi, e chiederle di contarsi. Facendo dunque appello al popolo nell’unico modo conosciuto in democrazia: chiedendone il voto. Non in conto terzi.

Dal punto di vista personale, ognuna di queste scelte sarebbe legittima e dignitosa. Ma la terza cambierebbe lo scenario: invece che l’ennesimo referendum su Berlusconi, le elezioni diventerebbero un referendum sull’Europa. Si dice che Monti abbia avuto più applausi all’estero che in patria: ma è ciò che serviva a un Paese con il quarto debito del mondo, che dipende dunque dalla fiducia altrui per respirare oggi e prosperare un domani. Il governo ha certamente commesso errori, ma la direzione di marcia era chiara e lo stile nuovo. L’ultimo provvedimento varato è stato l’incandidabilità dei condannati; l’ultimo provvedimento impedito è stato il taglio delle Province. Può essere che l’Italia di Monti sia minoritaria, ma ovunque, perfino in Grecia, di fronte all’alternativa «o dentro o fuori» gli elettorati hanno scelto l’Europa. E, in ogni caso, di minoranze coraggiose c’è sempre bisogno in un Paese in cui le maggioranze elettorali si sciolgono di solito come neve al sole.

Antonio Polito

10 dicembre 2012 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_10/polito-le-scelte-del-professore-monti_d62bd95a-428f-11e2-af33-9cafd633849d.shtml
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 23, 2012, 02:23:54 pm »

UNA SCELTA E IL QUADRO POLITICO

La solitudine dei numeri primi

È comprensibile l'incertezza che macera Mario Monti. Per quante e importanti siano le sue relazioni internazionali, nella politica italiana è un uomo solo. Il suo anno nelle istituzioni è stato «octroyé», cioè concesso dai partiti. Ora che ha messo le tasse e fatto le riforme che loro non avevano il coraggio di mettere e fare, non vogliono che contenda i loro voti. Dopo il servo encomio, è dunque l'ora del codardo oltraggio.
Gli avvertimenti di Berlusconi e D'Alema sono stati brutali ma univoci; si tratta di uomini potenti e i loro non sono consigli da prendere alla leggera. L'unico potere che l'ha protetto, il Quirinale, da oggi non può più farlo: con lo scioglimento delle Camere, si scioglie anche il governo del Presidente.
A Monti non resta che il Centro. Ma il Centro, come ha spiegato ieri Angelo Panebianco, è un luogo ambiguo nel bipolarismo infantile imposto dal Porcellum : perché i suoi voti contino, devono essere messi a disposizione del vincitore. Non il viatico migliore per prenderne molti.
Ecco spiegato perché a destra e a sinistra, dopo aver giurato per un anno di volersi disfare del sistema elettorale e di aspirare a un bipolarismo maturo, e c'era solo da decidere se tedesco o francese, alla fine siano tutti felici di restare italiani.
La sesta discesa in campo di Berlusconi ha poi fatto il resto. Ha radicalizzato in pochi giorni lo scontro elettorale, rimettendo tutti nelle posizioni di sempre, come al gioco delle belle statuine. Dopo un anno passato a occuparci di cose noiose come lo spread, siamo allegramente tornati al referendum sul Cavaliere, sui suoi minutaggi televisivi e sulle sue rodomontate. Tertium non datur . Bersani ne è così contento che è pronto perfino a concedere all'avversario di sempre la sfida tv. Aggiungiamoci un altro pm che scende in politica sfruttando la popolarità ottenuta con un'inchiesta, e il déjà-vu del ventennio è quasi completo: l'unica novità è un comico che apprezza gli ayatollah e vorrebbe uscire dall'euro.
Questa affannosa corsa alle estreme è certamente una delle cause che sconsigliano a Monti la competizione elettorale. Allo stesso tempo però è anche la prova della nostra mancata guarigione, e dunque consiglierebbe un'offerta politica nuova per non ricascare nei vizi di sempre.
Monti dirà oggi che cosa ritiene vada fatto dal prossimo Parlamento. Un memorandum da lasciare ai partiti è sempre utile, ma è bene sapere che i partiti sono ormai in fuga dall'agenda Monti, come hanno dimostrato le ultime convulse giornate parlamentari. Resta da capire chi si batterà per quel programma, sia che Monti torni Cincinnato, come appare più probabile, sia che si arrischi a fare il Cesare dei centristi. Perché ogni giorno di incertezza che passa indebolisce entrambe le opzioni, e rischia di trasformare la solitudine di Monti in ostracismo alle riforme.

ANTONIO POLITO

23 dicembre 2012 | 8:01© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_23/la-solitudine-dei-numeri-primi-antonio-polito_a0db8568-4cce-11e2-83d8-cd3029dc7d61.shtml
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 10, 2013, 07:45:55 pm »

LE DIVERSE COMPONENTI DEL PD

Un difficile equilibrio


Non deve stupire che perfino Matteo Renzi, un giorno dopo Stefano Fassina, abbia attaccato Mario Monti dandogli del demagogo. Quando si avvicinano le elezioni i politici cambiano pelle: anche chi voleva essere leone si fa volpe, e se necessario pure gazzella, pur di raggiungere l’obiettivo della conquista del potere, che in un partito è il fine ultimo dell’azione politica. E il partito di Bersani è ormai un partito disciplinato. Così come il New Labour di Blair «silenziò» la sua ala sinistra per vincere le elezioni dopo 18 anni di digiuno, nel Pd di Bersani si sta dunque «silenziando » l’ala destra, che a dire il vero spesso si autosilenzia da sola.

Ma più del comportamento del ceto politico, ciò che è importante valutare è che cosa stia accadendo nell’elettorato del Pd, perché sarà di grande importanza anche dopo il voto. Il nocciolo duro, quello dei circoli e dei militanti, ha impresso con le primarie una netta svolta a sinistra che ha indotto anche molti «moderati» ad adeguarsi, soprattutto quelli ricandidati. Ma alle primarie ha votato un decimo dell’elettorato del Pd. I restanti nove decimi stanno ricevendo segnali contraddittori sul tema del rapporto, passato e futuro, con Mario Monti.

Secondo autorevoli commentatori come Eugenio Scalfari, infatti, l’agenda di Monti è uguale all’agenda di Bersani: quindi il primo avrebbe dovuto evitare di fare la competizione al secondo, e anche per lui si sarebbe trovato un posto da «indipendente», al governo o al Quirinale. Secondo Bersani medesimo, però, la sua agenda differisce in maniera sostanziale, essendo identica per ciò che in quest’anno ha funzionato — il controllo dei conti e dello spread—ma diversa per ciò che è andato male: e dunque promette di trovare nei conti le risorse per metterci «un po’ di crescita e di equità ». Invece lungo l’asse Fassina- Vendola-Camusso l’agenda Monti è proprio da rottamare, perché è l’agenda della destra europea che sta portando al disastro il continente, anzi «thatcheriana e reaganiana» secondo il segretario della Cgil.

Bisognerà vedere a chi crederanno di più gli elettori, tra queste tre posizioni. Perché man mano che si allontanano da quella di Scalfari e si avvicinano a quella di Camusso, le sorti di un ipotetico governo di sinistra possono cambiare. Si tratta di un antico problema, un vero e proprio circolo vizioso della sinistra. Funziona così: negli anni dell’opposizione si creano aspettative esagerate (per esempio di riaprire il discorso sulle pensioni di anzianità); una volta al governo si deludono necessariamente e rapidamente quelle aspettative; l’elettorato deluso ben presto si stacca (vedi sondaggi sulla presidenza Hollande); la componente interna di sinistra comincia ad inseguire l’elettorato deluso; nella rincorsa prima o poi la corda si spezza; il governo cade.

Renzi è oggi sicuro che Vendola farà il bravo ragazzo, e che non si assumerà la stessa responsabilità che si prese insieme con Bertinotti nel 1998, facendo cadere il primo governo Prodi. È possibile. Ma pure Bertinotti era diventato un bravo ragazzo nel 2006, al secondo tentativo di Prodi, eppure il governo cadde lo stesso, anche quella volta in soli due anni. Più delle personalità e dei patti preelettorali, contano infatti le logiche politiche. Se si fa credere ai propri elettori che Monti è l’inferno e poi non li si porta in paradiso, si può star certi che prima o poi un Turigliatto salta fuori; e per mandare al diavolo i ricchi finisce per mandarci la sinistra, per la terza volta in vent’anni.

Antonio Polito

9 gennaio 2013 | 7:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_09/un-difficile-equilibrio-antonio-polito_0fd121a2-5a22-11e2-b3af-cb49399e516b.shtml
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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 23, 2013, 09:01:00 am »

LA SCENEGGIATA DELLE LISTE CAMPANE

Sorprese, ricatti e buttafuori

Nicola Cosentino era impresentabile, e dunque non è stato presentato nelle liste del Pdl in Campania. Sembra un'ovvietà, ma è una novità. Si è alzata l'asticella della decenza pubblica: gli italiani hanno fissato nuovi limiti a ciò che è consentito in politica, e ora tutti ne devono tener conto. Quest'anno non è passato invano. Mentre pagavamo i debiti dello Stato, ci sono diventati intollerabili i predatori insediatisi nello Stato. E bisogna ammettere che i nuovi arrivati, da Grillo a Monti, seppure in modi molto diversi tra loro, hanno contribuito a rendere inaccettabile ciò che lo è.


Il trauma nel Pdl è grande, perché escludere un imputato è più difficile in un partito il cui leader è a sua volta imputato in tre processi e vive in una condizione di guerra perenne con la magistratura. E perché è difficile per tutti, non solo per dei garantisti, prendere una decisione che tra qualche settimana aprirà le porte del carcere preventivo all'ex deputato Cosentino, accusato di essere un «colletto bianco» della camorra (del resto un anno fa l'ex ministro dell'Interno Maroni, oggi principale alleato di Berlusconi, votò ostentatamente a Montecitorio per il suo arresto). Ci sono volute 72 ore di feroce battaglia politica e un epilogo tra il drammatico e il farsesco, con l'escluso accusato di fuggire con le liste, il caos per ricostruirle, il sospetto su chi tra i suoi sponsor gliele avesse date.

Eppure, sebbene la presunzione di innocenza valga anche per Cosentino, non c'era bisogno dei sondaggi per capire che quella candidatura avrebbe politicamente sfregiato la coalizione di centrodestra. Al Nord ma anche al Sud, dove perfino il governatore pdl della Campania, Stefano Caldoro, aveva posto il suo aut aut: «O lui o me». Spinto da un Alfano tornato a combattere una battaglia di rinnovamento del partito, alla fine Berlusconi ha detto no.


Purtroppo però non tutto è bene ciò che finisce bene. Intanto Cosentino ha dato una preoccupante dimostrazione di forza. Per il Cavaliere è stato più facile mettere da parte Dell'Utri, sodale di una vita, che il ras della Campania. Perché? Le minacce dell'escluso («Vi sfascio, vi rovino») fanno pensare che almeno in Campania il Pdl sia più una truppa di capitani di ventura che un partito, e che qualcuno di loro abbia accumulato abbastanza potere da ricattare il re. L'autoriforma di quel partito deve cominciare da lì: democrazia interna e collegialità.


Il secondo problema sta nel fatto che, ancora una volta, i partiti si sono dovuti far scrivere il copione dai giudici. Questo riguarda anche il Pd, che pure con ben altra decisione ha tolto dalle liste i suoi «chiacchierati». Alcuni di loro però avevano addirittura fatto e vinto le primarie. Ci vuole dunque una legge che regoli la vita dei partiti, del resto prevista dalla Costituzione. E ci vuole una riforma elettorale che dia agli elettori il potere di scegliere i parlamentari, invece che a un sinedrio o a un capo.
Infine bisogna ricordare che l'impresentabilità non è un aspetto solo penale. Di relitti di una politica arrogante e incapace, pur senza avvisi di garanzia, nelle liste ne sono rimasti parecchi.

Antonio Polito

22 gennaio 2013 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_22/cosentino-ricatti-Polito_d80cff5e-645b-11e2-8ba8-1b7b190862db.shtml
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« Risposta #36 inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:42:42 am »

LA COMPETITIVITÀ, TEMA DIMENTICATO

Non ci sono più pasti gratuiti


Forse stiamo avendo la campagna elettorale che ci meritiamo. Si avverte rassegnazione, assuefazione a un destino di impoverimento e di declino. Ognuno se ne lamenta, certo, e ognuno cerca di lenirne il disagio tirando la coperta dalla propria parte, magari preparandosi a votare per chi promette di proteggerlo di più; ma nessuno sembra davvero credere che esista il modo di allargare la coperta. L'essenza della crisi italiana resta nascosta, taciuta: produciamo troppa poca ricchezza rispetto a quanta ne consumiamo. Per questo ci siamo riempiti di debiti.
Se vent'anni fa si poteva credere allo slogan «meno tasse per tutti», ora il pessimismo consiglia un «meno tasse per me e più per gli altri».
Il tarlo del «gioco a somma zero», l'idea che se uno sta meglio un altro deve per forza stare peggio, si è insinuato nello spirito pubblico della nazione. In parte è l'effetto di una lunga depressione. Ma ne è anche la causa. Abbiamo avuto quindici anni di stagnazione e cinque di recessione; nessuno, neanche il Giappone, ha conosciuto un ventennio peggiore.

I partiti attizzano la guerra fratricida tra italiani per le risorse pubbliche, ingegnandosi a scovare sempre nuove tasse per sostituire quelle che pagano i propri elettori: accise sui tabacchi al posto di imposte sulla casa, condoni dei capitali in Svizzera invece che gettiti di Equitalia, patrimoniali sui ricchi per sconti sui poveri. Si illudono di usare il Fisco come strumento salvifico di giustizia sociale.
Di conseguenza si scagliano addosso devastanti sospetti di clientelismo fiscale: i quattro miliardi dell'Imu servono a salvare il Monte dei Paschi o a pagare le multe per le quote latte?

L'altra sera in tv c'era un servizio sulla crisi della storica Cartiera Burgo. Un operaio la spiegava semplicemente così: non siamo più competitivi, l'energia elettrica costa troppo, non conviene più produrre qui. Si potrebbe aggiungere che anche il costo del lavoro è troppo alto, nonostante i salari siano troppo bassi, perché dalla nascita dell'euro a oggi è cresciuto in Italia il 30% in più della media europea.
Si potrebbe aggiungere che non si investe in ricerca applicata, che il mercato del lavoro è ancora uno dei più rigidi del mondo, che i gradi di burocrazia necessari per avviare un'impresa sono cinquanta come le sfumature del grigio. Uno studio in circolazione a Francoforte mette il nostro Paese in fondo alle classifiche di tutti i fattori di competitività, compresi i livelli di corruzione e di educazione. Ma i politici in studio non hanno parlato di niente di tutto ciò. Hanno cominciato a snocciolare progetti, ovviamente finanziati con le tasse, per assistere le vittime di questo tsunami sociale o per disegnare «piani» per il lavoro, magari fantasmagorici come quello dei 4 milioni di posti evocato ieri da Berlusconi. Ma come si crea lavoro se non si producono più beni e servizi, e a costi minori?

Ha scritto Lorenzo Bini Smaghi sul Financial Times che la parola mancante di questa campagna elettorale è quella cruciale: competitività.
La nostra non è migliorata neanche dopo la crisi, nonostante la cura da cavallo della svalutazione interna: è infatti cresciuta meno che in Spagna e Irlanda, perfino meno che in Grecia. Per questo noi italiani stiamo soffrendo più di ogni altro in Europa, con l'eccezione dei poveri greci: dal 2008 il Pil è sceso di 7 punti, facendo fare al nostro reddito un balzo indietro agli anni 90. La crisi è così grande che non andrebbe sprecata. E invece la stiamo sprecando, con una campagna elettorale che somiglia sempre meno all'alba della Terza Repubblica, e sempre più a una reincarnazione della Seconda.

Antonio Polito

8 febbraio 2013 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_08/no-pasti-gratuiti_3ce6e652-71b7-11e2-8d40-790077d2d105.shtml
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« Risposta #37 inserito:: Febbraio 17, 2013, 09:15:53 pm »

Il marcio e il caos

Forse il Consiglio superiore della Magistratura dovrebbe disporre un'indagine statistica per accertare se questa storia della giustizia a orologeria è vera o no. Se è vero, cioè, che in momenti politici particolarmente delicati, come una campagna elettorale, l'attivismo delle procure si intensifica e gli ordini di custodia cautelare fioccano. Certo è che negli ultimi giorni il tintinnar di manette si è sentito, eccome. Ma è provenuto da luoghi così distanti tra loro e per inchieste così diverse l'una dall'altra che è difficile credere all'ipotesi della «manona giudiziaria» di cui ha parlato Silvio Berlusconi. Più che al disegno intelligente di un deus ex machina che manovra dall'alto le inchieste, sembra piuttosto di assistere a un vero e proprio caos organizzato, all'incrociarsi casuale ma micidiale delle tre debolezze del sistema-Italia: una corruzione dilagante, una politica declinante, una giustizia debordante.

La corruzione dilagante è sotto gli occhi di tutti. C'è del marcio in Italia, e questo è un fattore killer per la nostra economia. I capitali esteri non arrivano anche perché sanno che da noi si paga il pizzo, la tangente, la mancia; che si può essere scavalcati da un concorrente solo perché gioca sporco; che la trasparenza nei confronti del mercato non è la Bibbia del nostro capitalismo di relazioni (è con l'accusa di comunicazioni truffaldine e aggiotaggio che è stato arrestato ieri il finanziere Alessandro Proto). Il coinvolgimento contemporaneo di tre grandi aziende come Monte dei Paschi, Eni e Finmeccanica in vicende nelle quali la governance è sotto accusa, depone male per il Paese non meno del debito pubblico. La domanda che circola nel mondo è: ci si può fidare di voi? È un costo in più del rischio-Italia. La corruzione è così dilagante che talvolta rischiamo di perseguire come tale anche ciò che altrove è considerato solo lobbismo, dandoci ulteriormente la zappa sui piedi. Il confine è molto sottile, ma i nostri magistrati dovrebbero seguire il criterio dell'applicazione «ragionevole» della norma, suggerito più volte dalla Consulta.

La politica declinante è invece lo sfondo di questo giudizio universale. Un regime politico al tramonto è la riserva di caccia ideale per gli inquirenti, perché le loro prede perdono protezione e spesso anche lucidità. Fu così anche nel crollo della Prima Repubblica: prima venne la vittoria elettorale della Lega, che mandò in tilt il sistema, e solo dopo le inchieste di Tangentopoli, che gli assestarono il colpo di grazia. Quel che oggi accade a Finmeccanica, il cui capo azienda è stato arrestato, allora toccò all'Eni con i quattro mesi di carcerazione preventiva per Gabriele Cagliari, finiti con un tragico suicidio. Se allora fu l'emergere della Lega a consentire ai magistrati di attaccare un feudo del potere socialista, oggi è il declinare della Lega a lasciare Orsi privo della protezione che l'aveva portato fino alla guida del gruppo.

In ogni caso, non c'è speranza di pulizia finché i vertici di grandi aziende con proiezione internazionale verranno scelti dalla politica per motivi politici. Si è visto a sinistra con il Monte dei Paschi di Siena, una banca gestita di fatto dal Pds-Ds-Pd. Si vede ora a destra con Finmeccanica, basta leggere come fu scelto il vertice secondo la testimonianza di uno dei papabili: «Letta e Berlusconi erano per la mia nomina, Tremonti non era in disaccordo, solo la Lega spingeva per Orsi...». Il quale Orsi, appena nominato, provvide subito a spostare la sede legale di Alenia Aermacchi da Pomigliano d'Arco al Varesotto, terra natale di Maroni.

Infine c'è la giustizia debordante, antico male italiano che non sembra essere stato in alcun modo curato in questi vent'anni in cui pure la politica ha molto strepitato contro la magistratura. Innanzitutto c'è un uso disinvolto, insistito e spesso spettacolare della custodia cautelare. È difficile non chiedersi perché per inchieste che duravano da mesi (Finmeccanica e Monte Paschi), o per personaggi noti come Massimo Cellino e Angelo Rizzoli, si sia resa improvvisamente indispensabile la privazione della libertà personale. L'impressione è che la lentezza del sistema giudiziario stia convincendo più di un magistrato che l'unica condanna ottenibile sia quella dell'opinione pubblica, e che il mandato di cattura venga talvolta usato come una sentenza. A questo si aggiunge un sistema mediatico che sempre meno fa differenza tra sospetti e prove, un pubblico eccitabile che chiede giustizieri invece che giustizia, e uno star system che sempre più proietta le toghe celebri in politica. È un corto circuito che innesca un populismo giudiziario non meno pernicioso del populismo politico. Il quale, a dieci giorni dalle elezioni, sentitamente ringrazia.

Antonio Polito

15 febbraio 2013 | 9:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_15/il-marcio-e-il-caos-polito_b8e3a646-7743-11e2-a4c3-479aedd6327d.shtml
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« Risposta #38 inserito:: Marzo 02, 2013, 10:59:51 pm »

LA GESTIONE DELL'EMERGENZA

Una soluzione ragionevole

La frettolosa offerta di Bersani a Grillo è il frutto di un vizio antico: inseguire ogni nuovo radicalismo come se fosse una «costola della sinistra», sperando così di riassorbirlo. Ma Grillo, nonostante abbia strappato molti elettori alla sinistra, non è un compagno che sbaglia.
È un'altra cosa. E per capire che cos'è andrebbe innanzitutto preso in parola. La sua risposta a Bersani è infatti un programma politico:

1) non voterò mai la fiducia a nessun governo;

2) non certo a chi è stato sconfitto e si sarebbe già dovuto dimettere;

3) se proprio volete, votate voi la fiducia a un governo 5 Stelle.

Tutto dice che non sta bluffando. Il suo movimento è nato per spazzare via il sistema dei partiti; perché mai dovrebbe accorrere a salvarlo proprio ora che è morente? Non sarà il senso di responsabilità a frenarlo, non ne ha: se la promessa di rimborsare l'Imu di Berlusconi è «voto di scambio», la sua proposta del reddito di cittadinanza è «aggiotaggio». E poi Grillo vuole cambiare il mondo, è portatore di una vera e propria ideologia: si batte per la decrescita felice, un'Italia in cui tutti siano più poveri ma più solidali ed ecocompatibili, «meno lavoro, meno energia, meno materiali». Non la svenderà per sedersi al tavolo di una trattativa politica.

Naturalmente possiamo sbagliarci. Ma, se non ci sbagliamo, il rompicapo italiano paradossalmente si semplifica. È infatti fuori discussione che bisogna formare un governo. Finché non ce n'è uno, nessuno investe, nessuno compra, nessuno presta: l'anno potrebbe finire con un altro crollo del due per cento di Pil. La decrescita è già tra noi, e non sembra affatto felice.

Serve dunque una maggioranza che voti la fiducia a un governo in entrambe le Camere. Se Grillo si escluderà, resteranno solo in tre: il Pd, il Pdl e Monti. La soluzione si trova lì, o non si trova.

È possibile? È molto difficile. Ma la comune rovina potrebbe diventare un'opportunità. Avendo perso insieme più di dieci milioni di voti, i due partiti maggiori dovrebbero cercare un nuovo inizio, piuttosto che sperare in un colpo di fortuna al casinò con un altro giro di Porcellum . Hanno entrambi bisogno di tempo per emendarsi, rigenerarsi, farsi perdonare. Il disastro politico che abbiamo di fronte è colpa loro.
Del resto il Paese ha bisogno di qualcosa che solo loro possono fare: la riforma di una democrazia parlamentare che non funziona più.
Da tempo il Pd chiede il modello elettorale a doppio turno; da tempo il Pdl aspira al presidenzialismo. Basterebbe sommare le due cose per darsi un sistema istituzionale forte come in Francia, che garantisce esiti elettorali certi e governi stabili.

A Grillo i partiti potrebbero rubare il programma di moralizzazione della vita politica semplicemente applicandolo, e nel modo più integrale: azzeramento del finanziamento pubblico, dimezzamento del numero dei parlamentari, eliminazione del Senato (diventerebbe una Camera dei rappresentanti delle Regioni), abolizione delle Province. In prima fila dovrebbero mandare la seconda generazione, accantonando i gruppi dirigenti attuali: quello del Pd perché ha perso troppe elezioni, quello del Pdl perché ha fallito in troppi governi. A Palazzo Chigi dovrebbe andare un homo novus , meglio se donna, e al Tesoro una personalità fuori dalla mischia che applichi gli impegni che abbiamo già preso con l'Europa. Un governo sostenuto dai due maggiori partiti avrebbe forse la forza di trattare con la Germania per un allentamento dell'austerità e con la Bce nell'eventualità di un paracadute; mentre ogni governicchio sarebbe un paria sulla scena internazionale e ogni avventura sarebbe un incubo.

Se fossimo in Germania un governo così sarebbe già nato, e non è escluso che un risultato elettorale ambiguo lo faccia nascere davvero anche lì a fine anno. In Italia ha davanti a sé due formidabili ostacoli: la guerra civile strisciante che dura da vent'anni e la posizione giudiziaria di Silvio Berlusconi, che a lui fa sognare lo scudo di una carica istituzionale e ai suoi nemici fa sperare in un nuovo esilio d'oltremare.
 
Ma il Pd e il Pdl devono sapere che quando i partiti non servono a governare vengono spazzati via. In Francia stavano per farlo i generali, prima che de Gaulle desse vita alla Quinta Repubblica. In Italia sta per farlo Grillo.

Antonio Polito

1 marzo 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_01/soluzione-ragionevole_f3a901c4-8231-11e2-b4b6-da1dd6a709fc.shtml
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« Risposta #39 inserito:: Marzo 12, 2013, 06:40:38 pm »

LE DIFFICILI SCELTE DEL PD

Tre ipotesi per un partito

Che cosa deve fare il Pd? Che cosa gli conviene fare? E ciò che gli conviene, coincide con ciò che conviene all'Italia? Sono domande alle quali è difficile rispondere: il giovane Partito democratico deve trovare in queste ore il senso della sua missione nazionale, o perdersi. Ne è dunque comprensibile il travaglio, e anche l'evidente stato di choc.

Con la ri-discesa in campo di Renzi, le linee possibili sono diventate tre. La prima è quella di Bersani: andare alle elezioni dopo aver corteggiato Grillo. La seconda è quella dello sfidante alle primarie: andare alle elezioni senza aver corteggiato Grillo. Il segretario e il suo gruppo dirigente si muovono infatti come se fossero convinti che i voti del Pd e quelli del Movimento 5 Stelle siano interscambiabili. Gli appelli degli intellettuali di area ne sono la prova. L'idea è che, in realtà, la sinistra ha vinto le elezioni, solo che si è divisa a causa dell'eccessiva timidezza del Pd. Basta dunque riunificarla sotto le bandiere di un maggiore radicalismo. E se Grillo non ci sta a mettersi nel corso della Storia, il popolo capirà, e i voti in libera uscita torneranno alla casa del padre.

Renzi la vede diversamente. Non solo non crede alla possibilità di un accordo con Grillo, e anzi bolla come «scilipotismo» il retropensiero di quei bersaniani che sperano di staccare qualche stellina dalle 5 Stelle (in realtà di senatori ne servirebbero almeno una quarantina). Ma Renzi crede anche che un accordo non sarebbe nell'interesse del suo partito, perché lo consegnerebbe a un movimento ambiguo, integralista, intriso di sentimenti anti-parlamentari e anti-europei, umiliando così la vocazione di forza di governo per cui il Pd fu fondato. Renzi pensa di poter battere Grillo sul suo stesso terreno, da solo e in campo aperto. Per questo spera che il dialogo fallisca e che si torni alle urne.

Queste due linee sono opposte: l'una tiene in sella Bersani, l'altra lo sostituisce a breve (anche se a Renzi non basterà giocare il secondo tempo della partita come se fosse il primo, perché la Storia non si ripete mai uguale a se stessa, e in natura il vuoto si riempie in fretta).

Però entrambe le strategie si muovono, per così dire, all'interno di un sistema Grillo-centrico: nella convinzione cioè che sarà lui il competitor della sinistra nel futuro bipolarismo italiano. Entrambe dunque sottovalutano la forza della destra, che pure ha appena preso alle elezioni gli stessi voti della sinistra, pur uscendo da un disastro di governo; e trascurano le ragioni profonde del suo elettorato, non meno interessanti da comprendere di quelle degli elettori 5 Stelle. La terza linea possibile del Pd sarebbe perciò quella di aprire un dialogo con questa parte del Paese e del Parlamento, nella quale ci sono forze interessate più di Grillo a un progetto di salvezza nazionale. Complice il solipsismo giudiziario in cui appare ormai avviluppato il leader della destra, questa terza linea per ora è in sonno nel Pd. Ma le prossime settimane potrebbero risvegliarla; e, con essa, le poche residue speranze di un compromesso istituzionale capace di evitare la rovina comune.

Antonio Polito

11 marzo 2013 | 10:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_11/tre-ipotesi-per-un-partito-antonio-polito_698fddf8-8a0d-11e2-8bbd-a922148077c6.shtml
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« Risposta #40 inserito:: Marzo 17, 2013, 11:34:26 am »

Il caso M5S

Le Camere non sono il ripostiglio della Rete


Benvenuti nel mondo dei franchi tiratori. I grillini erano entrati in Parlamento appena l'altro ieri compatti come una falange macedone, monolitici come una novella Compagnia di Gesù, giurando obbedienza perinde ac cadaver. E al primo voto vero, alla prima occasione in cui non hanno potuto evitare di scegliere, si sono clamorosamente divisi. La democrazia parlamentare non è un « meet up ». È fatta di voti e di regole. E senza vincolo di mandato.

Messi di fronte all'alternativa tra Grasso e Schifani, numerosi senatori grillini hanno dunque rifiutato una sdegnosa equidistanza, e cioè il mantra stesso di un movimento che considera i partiti tutti uguali e tutti da cancellare, per sostituirli con la democrazia diretta del 100 per cento in cui i cittadini si autogovernano. Non basta star seduti sugli spalti alle spalle di tutti gli altri per evitare di sporcarti nell'arena, quando ti chiamano a votare per appello nominale. Né viene in aiuto la tattica indicata ai suoi seguaci da Beppe Grillo, valutare «proposta per proposta» per evitare così di fare scelte «politiche». Quella di votare Grasso era infatti una «proposta», e un buon numero di senatori grillini l'ha accettata, facendo così una scelta altamente politica.

L'inflessibile logica del sistema parlamentare, nel quale alla fine di ogni discussione c'è sempre un ballottaggio in cui devi dire sì o no, non è d'altra parte aggirabile con i riti della democrazia online, perché sulla Rete non vale la regola «una testa un voto» ma votano solo le minoranze attive. Sarà sempre più difficile, emendamento per emendamento, stare in Parlamento aspettandosi che a decidere sia qualcuno che sta fuori. Ogni giorno si vota innumerevoli volte, e ogni voto può avere conseguenze sulla vita di tutti. Ecco perché l'assemblea parlamentare è diversa da un consiglio comunale o da un'assemblea condominiale: perché fa le leggi, la cosa più politica che ci sia.

D'altra parte i «grillini» non sembrano aver finora trovato nemmeno un modo accettabile per garantire quella trasparenza e pubblicità del dibattito che finché erano fuori del Parlamento sembrava la più innovativa delle soluzioni. Finora l'unica riunione dei gruppi cui abbiamo assistito in «streaming» è stata quella in cui i neoparlamentari si presentavano: più un happening che un'assemblea politica. Ieri, quando il gruppo del Senato ha dovuto decidere, lo ha fatto invece a porte chiuse, con i giornalisti che origliavano come ai bei tempi della Dc, e che riferivano di urla e di pugni sul tavolo poi sfociati in un'aperta contestazione del capogruppo (altra questione delicata: i leader sono essenziali in ogni consesso, e i grillini non ne hanno uno in Parlamento; senza un leader e una linea, il motto «uno vale uno» non può che trasformarsi in continua divisione).

Ma l'astuta mossa di Bersani, che a Schifani ha evitato di opporre un nome usurato della vecchia politica per preferirgli l'ex magistrato antimafia, non ha solo aperto una crepa tra i «grillini», ha anche svelato due punti deboli di quel movimento. Il primo è il rischio di irrilevanza. Se continua così, il 25 per cento dei voti degli italiani in Parlamento non conta nulla. Il Movimento 5 Stelle è completamente privo di potere coalizionale. Il partitino di Vendola, che ha preso poco più del 3 per cento alle elezioni, ha usato invece al massimo quel potere, prendendosi la presidenza della Camera.

La seconda debolezza del M5S è che, per quanto Grillo lo voglia sottrarre alla logica destra-sinistra, la sua élite parlamentare, come segnalava ieri Michele Salvati su questo giornale, pende notevolmente a sinistra e al momento decisivo lo dimostra, come ieri per impedire la vittoria di Schifani. Non basterà forse a risolvere il problema di Bersani, visto che anche con i franchi tiratori «conquistati» ieri gli mancano ancora una ventina di senatori per un voto di fiducia, oltretutto palese; ma può bastare per logorare rapidamente la presa di Grillo sui suoi eletti, forse meno manovrabili di come lui se li immaginava.

Antonio Polito

17 marzo 2013 | 9:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_17/camere-non-sono-ripostiglio-della-rete_6bf360c0-8edf-11e2-95d7-5288341dcc81.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Marzo 31, 2013, 07:47:16 pm »

L'EDITORIALE

Abbiate pietà

di  ANTONIO POLITO


Il Venerdì Santo di quindici anni fa, nel gelo del Castello di Stormont a Belfast, le due fazioni irlandesi che si erano combattute per trent'anni e tremila morti fecero pace. Alla trattativa erano presenti uomini che, dal versante cattolico e da quello protestante, avevano guidato milizie armate e avevano personalmente ordinato uccisioni e stragi degli avversari. Eppure ne nacque un governo comune dell'Irlanda del Nord.
Nel Venerdì Santo del 2013 i partiti italiani, che non escono da una guerra civile e che dovrebbero avere nel loro Dna l'attitudine al compromesso su cui si basano le democrazie, non sono stati capaci di dire di sì al presidente Napolitano e di dar vita a un governo. Non c'è neanche un punto di contatto fra i tre maggiori partiti: Grillo non vuole fare niente, Berlusconi vuole fare solo un governissimo impossibile perché il Pd lo rifiuta, e il Pd accetterebbe solo un governicchio dopo il fallimento di Bersani.

La gravità della crisi che sta sconvolgendo la Repubblica è tutta qui. La legge elettorale non riesce più a dare una maggioranza al Parlamento. Il Parlamento non riesce più a dare un governo al Paese. Il presidente è chiamato costantemente a riempire i vuoti di una democrazia parlamentare che ormai cammina come un ubriaco sull'orlo della Costituzione. E meno male che si tratta di Giorgio Napolitano, uomo di cui nessuno, né Berlusconi che sette anni fa si rifiutò di votarlo, né Grillo che appena qualche mese fa lo insolentiva, osa più negare l'imparzialità e il senso patriottico.

Però neanche Napolitano può più fare miracoli. È in scadenza di mandato. Non dispone dell'arma dello scioglimento anticipato. Non può forzare la mano ai partiti costringendoli a un governo del presidente, perché tra qualche settimana il presidente sarà un altro.

Stavolta solo un accordo tra i partiti può risolvere il rebus. Solo se c'è un compromesso, Napolitano può dargli un nome e una forma. Se non ci sarà, se nessuno mollerà neanche un po' delle sue ambizioni elettorali, personali o processuali, i partiti aggraveranno la crisi di sistema fino a coinvolgervi la Presidenza stessa, costringendo quella attuale a rinunciare anzitempo al mandato. Sarebbe una scelta drammatica, più un atto di accusa che un atto di dimissione, soprattutto da parte di un uomo come Napolitano che al servizio delle istituzioni non ha mai rinunciato. E sarebbe un parto prematuro della Presidenza futura, esposta al rischio di nascere con la tara di una scelta partigiana che contrasta con la lettera e lo spirito della Costituzione.

Nella lunga notte della politica italiana che dura da due settennati, solo il Quirinale è finora uscito miracolosamente indenne dall'incendio delle istituzioni. Coloro che abbiamo eletto stanno per appiccare il fuoco anche all'ultimo Colle della Repubblica?

Antonio Polito

30 marzo 2013 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_30/abbiate-pieta-antonio-polito_bbbc4d08-98fb-11e2-be8a-88dcfd04ece6.shtml
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« Risposta #42 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:47:30 pm »

Virtù repubblicane

Oggi che l'espressione «uomo del secolo scorso» suona quasi come un insulto, bisogna onorarla in Giorgio Napolitano, nato nel 1925, appena sette anni dopo la fine della Grande Guerra, e appena chiamato ad altri sette anni di servizio alla Repubblica, che gli auguriamo duri fino al 2020. Perché è vero che i giovani sono il nerbo di una nazione, ma ci sono momenti in cui anche loro hanno bisogno della lezione dei padri della patria.

Questo è stato, una lezione di virtù repubblicana, il discorso breve, severo, ma intriso di commozione personale, con cui Napolitano non ha parlato al Paese, ma in nome del Paese. Ai parlamentari ha detto: la politica non è uno stato di guerra di tutti contro tutti, è un modo di governare la cosa pubblica; come tutti gli italiani, sono stanco di ricordarvelo; voi non rappresentate qui le vostre fazioni, e nemmeno i vostri elettorati, ma la nazione intera.

Il presidente, pur sempre esplicito, non aveva mai parlato così fuori dai denti. Ha indicato le cause del misero stato attuale nella «lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità» dei partiti. Ha indicato nella «imperdonabile» mancata riforma del Porcellum la causa dell'ingovernabilità, e nella gara per la conquista del suo «abnorme premio» il miraggio che ha incantato il Pd di Bersani, «vincitore che ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza» (del resto anche il vincitore precedente, che nel 2008 aveva ottenuto una ben più solida maggioranza, se l'era vista evaporare nel giro di due anni). Ha poi ricordato al Movimento 5 Stelle che la via del cambiamento non è nella contrapposizione tra Parlamento e Paese, e che tutti i partiti e i movimenti politici sono comunque vincolati «all'imperativo costituzionale del metodo democratico» (frase, almeno quella, che i parlamentari grillini avrebbero fatto bene ad applaudire).
Soprattutto Napolitano ha spiegato a tutti, specialmente ai tanti nuovi deputati che in queste settimane hanno più volte dimostrato di non saperlo e a chi li aizza dall'esterno, che la politica democratica consiste nel fare i conti con la realtà del risultato elettorale, e che non se ne può più di questa «sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze»; perché nessun partito ha vinto le elezioni, e d'altra parte in tutti i Paesi d'Europa governano delle coalizioni, talvolta anche tra forze in competizione, o perfino avverse tra di loro. A meno di non voler «prendere atto della ingovernabilità». Ma, alzando la voce, a questo punto Giorgio Napolitano ha aggiunto la frase chiave del discorso: «Non è per prendere atto di questo che ho accolto l'invito a prestare di nuovo giuramento come presidente della Repubblica».

Napolitano formerà dunque un governo. Spetterà alle Camere dargli la fiducia. «Se mi troverò di nuovo davanti a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato - ha concluso - non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese». Stavolta dispone di un'arma più forte della moral suasion , e la userà.

Antonio Polito

23 aprile 2013 | 10:17© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_23/polito-virtu-repubblicane_ef7d6240-abd3-11e2-b753-2de04ad0a16e.shtml
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« Risposta #43 inserito:: Maggio 31, 2013, 04:13:43 pm »

L'EDITORIALE

Una domanda di governo

Non sempre opporsi paga


Dire che il voto di domenica abbia premiato il governo è certamente esagerato, soprattutto con queste percentuali di astensione. Ma di sicuro ha premiato il governare. Si è diretto cioè verso forze politiche disposte ad assumersi la responsabilità del fare, dell'amministrare la cosa pubblica. Tra queste non c'è il Movimento 5 Stelle. In democrazia anche il voto di protesta contiene sempre una richiesta di governo, seppure di un governo diverso. In assenza di risposte, la protesta ritorna nel non voto. È quello che, più o meno, ha fatto la metà degli elettori di Grillo. Il Movimento è così rientrato in limiti elettorali più fisiologici. L'anomalia non è ciò che è accaduto domenica, ma ciò che era successo alle elezioni politiche. I miracoli non si ripetono. E la reazione del leader, che rispolvera la sciocchezza antropologica di una Italia «migliore» che sta con lui e di una «peggiore», composta da più di venti milioni di pensionati e impiegati pubblici, che lo osteggia per interesse, rende anche più difficile che si ripetano.

La notizia della morte del bipolarismo destra-sinistra era dunque lievemente esagerata. Né sembra imminente la sua trasformazione, auspicata da Grillo, in una sfida tra lui e Berlusconi. Perché il Pd resiste. Pur nella crisi, dimostra di essere fatto di un materiale che è facile da piegare ma difficile da spezzare: il radicamento territoriale, ereditato dal Pci e dalla Dc, e una rete di amministratori locali credibili o esperti. Una cosa sono i trecento dirigenti che ne combinano di tutti i colori a Roma. Un'altra i tre milioni di elettori che corrono alle urne qualsiasi cosa accada a Roma, lo zoccolo duro del partito. Questo spiega perché meno gente vota e meglio va il Pd: dispone degli elettori più militanti, fino al limite del masochismo, e degli eletti più attendibili. E spiega anche perché se tornassero i collegi uninominali ai «grillini» non basterebbe più Grillo per prendere voti.

Esce in ogni caso smentita da questa consultazione la tesi che solo l'opposizione paghi, purtroppo molto di moda negli ultimi anni. Quello di domenica non è stato infatti un voto antigovernativo. C'è materia di riflessione per il Pd. Proprio quando i suoi critici interni lo giudicavano destinato ad essere spazzato via dall'alleanza con il Pdl, ha ridato un segno di vita. Mentre quando ha imitato il movimentismo e la protesta, come in campagna elettorale e subito dopo, ne è uscito a pezzi. D'altra parte è stato il «governo dell'inciucio» di Letta a far sua l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, non il «governo di cambiamento» promesso da Bersani. Né vale l'obiezione che a Roma è arrivato primo il più anti-governativo dei candidati del Pd, Ignazio Marino, perché nella capitale il successo porta ben impresso il marchio governativo antico del sistema di relazioni di Goffredo Bettini.

I «governativi», però, devono stare attenti a non farsi illudere dallo scampato pericolo. Il gigante dell'opinione pubblica non si è affatto placato. È in attesa. Della politica gliene importa fino a un certo punto. Vuole un governo, e vuole che faccia qualcosa. A Letta e ad Alfano ha dato tempo, non consenso. Non ha voluto che tirassero le cuoia prematuramente, ma non permetterà che tirino a campare.

Antonio Polito

29 maggio 2013 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_29/polito-domanda-di-governo_bd9d09ae-c81d-11e2-8fbd-d55cdeb0d621.shtml
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« Risposta #44 inserito:: Giugno 04, 2013, 05:29:20 pm »

DIETRO LE PROPOSTE SUL PRESIDENZIALISMO

Il sospetto indelebile


«Il presidenzialismo rompe», titola l'Unità . E in effetti tutte le riforme sono una gran rottura per chi non vuol cambiare. Bisogna però capire se ciò che rompono era già rotto. In casi del genere anche il più prudente dei conservatori dovrebbe accettare l'urgenza del cambiamento. Ebbene in Italia da due anni e mezzo il governo non è più espressione del voto dei cittadini: prima con il Berlusconi-Scilipoti, poi con il Monti-Passera e ora con il Letta-Alfano, si è dovuti ricorrere a soluzioni in vario grado extra-elettorali. Di conseguenza il capo dello Stato, figura non eletta direttamente dai cittadini, svolge di fatto da tempo il ruolo di primo piano nella formazione dei governi e del loro programma. La legge elettorale non riesce più a dar vita a una maggioranza in entrambe le Camere. La Corte costituzionale sta per sancirne la illegittimità. Il nostro sistema politico è già rotto, che altro ci vuole a capirlo? Chi dice che non è una priorità cambiarlo usa dunque lo stesso argomento di Grillo, per il quale non era una priorità nemmeno fare un governo.

Eppure è bastato un barlume di possibile accordo tra i partiti sulla riforma costituzionale per far scattare il riflesso pavloviano di chi da vent'anni crede che riforme e berlusconismo siano sinonimi: e giù allarmi di svolta autoritaria, pericoli di scorciatoie carismatiche, mobilitazioni in difesa della Costituzione più bella del mondo, che non si tocca perché non è cosa vostra (dunque è cosa nostra?). Siccome è impossibile dipingere la Francia semi-presidenziale come una Repubblica delle banane, allora si lascia intendere che lo sia l'Italia, malata cronica di autoritarismo e sempre in cerca di un nuovo duce. Gli stessi che sostenevano l'improbabile tentativo di Bersani di reclamare Palazzo Chigi con l'argomento che in Francia Hollande aveva ottenuto l'Eliseo con il 29% dei voti al primo turno, ora inorridiscono all'idea del secondo turno e dell'Eliseo. Chi ha speso anni a raccomandare una radicale rigenerazione della nostra democrazia rappresentativa, ora si accontenterebbe di una «manutenzione». Non è questione di sistemi. Hanno respinto a turno anche il modello americano perché dà troppi poteri al presidente, l'inglese perché ne dà troppi al premier e il tedesco perché ne dà troppi al cancelliere. Ora bocciano il francese per salvare l'unico potere cui tengono: il loro potere di veto.

Qualche giorno fa il governatore Visco ha detto che l'arretramento del nostro Paese dipende dal fatto che da 25 anni non riusciamo più a «rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici» del mondo. Più o meno la data a partire dalla quale la nostra politica ha cominciato a dividersi tra chi vorrebbe cambiare tutto per non cambiare nulla e chi pensa di fargli un dispetto non cambiando davvero mai nulla.
Sarebbe ora di accettare l'idea che anche una comunità, come tutti gli esseri viventi, può perire per paura di cambiare.

Antonio Polito

4 giugno 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_04/presidenzialismo-politica-Polito_33aa0622-ccd5-11e2-9f50-c0f256ee2bf8.shtml
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