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Autore Discussione: Giuseppe De Rita Troppe tentazioni  (Letto 4461 volte)
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« inserito:: Ottobre 06, 2008, 06:46:16 pm »

Troppe tentazioni


di Giuseppe De Rita


Alcuni ripetuti episodi di insofferenze e di violenza nei confronti di stranieri e di immigrati hanno nelle ultime settimane dato spazio a due fenomeni d'opinione collettiva molto frequenti in Italia. Da un lato la messa in fila e in evidenza mediatica di tali episodi ha fatto pensare che di evento in evento si possa arrivare a un grande avvento, quello del razzismo come nuova grande malattia italiana; e conseguentemente si è scatenata la sequela di dichiarazioni di segnalazione e denuncia del pericolo; di dialettica culturale e di scontro politico; di riaffermazione dei principi di civile convivenza che ha nei secoli contraddistinto la nostra società. Per carità, abbiamo il dovere di aver paura del razzismo e di riproporre atteggiamenti e comportamenti di adeguata nobiltà. Ma non si sfugge all'impressione che vi sia un notevole scollamento fra le polemiche in corso, con inevitabile loro calor bianco, e la più fisiologica e silenziosa evoluzione del modo in cui si fa quotidianamente integrazione di immigrati nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali italiane.

Ogni società fa integrazione attraverso lo sfruttamento delle proprie componenti socio-economiche dominanti: la Germania attraverso la grande impresa, quella che ha metabolizzato senza traumi milioni e milioni di turchi; la Gran Bretagna attraverso i mille percorsi di una multiculturalità ricevuta in eredità dai trascorsi imperiali; la Francia attraverso una regolazione assistenzialista a forte e nota tradizione statalista. Noi facciamo integrazione utilizzando anche inconsciamente le tre grandi componenti del modello italiano: facciamo integrazione nella piccola e piccolissima impresa dove gli immigrati trovano un clima relativamente sereno e parametri di responsabilizzazione personale tanto che non a caso, imitandoci, corrono anche l'avventura imprenditoriale; facciamo integrazione nelle famiglie, dove milioni di collaboratori domestici e di badanti entrano lentamente nella dinamica sociale quotidiana; facciamo integrazione nelle piccole città, nei paesi, nei borghi, dove milioni di immigrati trovano un alto tasso di socializzazione collettiva e sperimentano un adeguato tasso di controllo sociale.

Qualcuno ha parlato in proposito di integrazione «morbida» certo un po' esagerando specialmente se si ricorda che dai tre processi sopra citati restano fuori due inquietanti realtà: quella delle grandi città e delle loro periferie nella cui anomia senza socializzazione si intrecciano pericolosamente la devianza degli immigrati e l'aggressività di bulli e teppisti indigeni; e quella delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza. Ma è proprio su queste due sorgenti di inquietudine e pericolo che vanno focalizzate attenzione e impegno senza dimenticare che esse andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato; e senza soprattutto cedere alla diffusa attuale tentazione di ragionare su una generale «deriva razzistica». È questa tentazione naturale per chi vive di drammatizzazioni sovrastrutturali (mediatiche o politiche che siano); ed è una tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva; ma è una tentazione che ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati, processi e percorsi inadatti certo all'enfatizzazione mediatica e alla cultura degli eventi, ma incardinati saldamente in quella forza della lunga durata che ci ha sempre accompagnato nel tempo.

06 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 09, 2008, 05:31:24 pm »

Sicilia, l'abbuffata di Scoma e le clientele degli altri big

Ironia della sorte: il recordman dei favoritismi ha la delega alla Famiglia

Posti per sorella, cugino e cognata ecco l'assessore di Parentopoli

di ATTILIO BOLZONI e EMANUELE LAURIA


PALERMO - Figlio di un sindaco democristiano della Palermo spudorata degli anni '70, votatissimo, ammanicato, sempre candidato a tutto, come assessore alla Famiglia onestamente non poteva fare di più e di meglio. Specialmente per la sua famiglia: quella di sangue e quella politica.. Negli abissi della Regione siciliana c'è un onorevole che - quando si tratta di parenti - non resiste al fortissimo richiamo.

Questo è il piccolo vizio di Francesco Scoma, figlio di Carmelo. Nella hit parade dell'intreccio politico-familistico di Palermo lui batte tutti. Li vuole tutti accanto a sé. Vicini, piazzati e sistemati, intruppati, mischiati fra il suo ufficio di gabinetto e gli altri staff, congiunti suoi e congiunti di altri potenti, tutti insieme come una grande famiglia all'assessorato alla Famiglia. In quella trama di complicità che è la Regione siciliana, nomina dopo nomina e incarico dopo incarico, l'onorevole del Popolo della Libertà - classe 1961, eletto per la quarta volta all'Assemblea - si sta rivelando il personaggio simbolo dei favoritismi che si ordiscono nel governo guidato del catanese Raffaele Lombardo.

E' in cima alla lista l'assessore Scoma, il number one. Anche per il nome che porta. Nel suo quartier generale, di Francesco Scoma non ce n'é uno ma ce ne sono due. L'altro è suo cugino. Preso da un altro ufficio regionale, remunerato con indennità aggiuntiva e sistemato alla Famiglia. Dove, esattamente? Al "controllo strategico" dell'assessorato. Un parente che controlla l'altro a spese del contribuente. Una sorella di Scoma, Antonella, è stata assunta nello staff dell'assessore alla Presidenza della Regione Giovanni Ilarda. Una cognata, Deborah Civello, ha trovato un posticino nello staff del presidente del parlamento Francesco Cascio. La signora era già scivolata un paio di anni fa in uno scandalo - 448 assunzioni senza concorso nelle municipalizzate di Palermo - che aveva provocato anche l'apertura di un'inchiesta giudiziaria. Deborah era entrata all'Amia, l'azienda ambientale.

Ma nell'assessorato alla Famiglia Francesco Scoma non ha favorito soltanto suoi consanguinei. Ha messo dentro pure quelli di tutti i suoi amici ai quali probabilmente non può dire di no. A cominciare dal suo padrino politico, il presidente del Senato Renato Schifani. La sorella, Rosanna Schifani, il 6 giugno del 2008 è stata nominata per chiamata diretta "componente della segreteria tecnica" dell'assessore Francesco Scoma. Già dipendente regionale dal 1991 con qualifica di "istruttore direttivo", la signora Rosanna ha avuto in busta paga - nel passaggio allo staff di Scoma - un'indennità di 14 mila euro lordi l'anno. Ma deve rinunciare agli straordinari che prendeva prima. Intanto, nell'ufficio di gabinetto dell'assessore alla Famiglia, come "esterno", è entrato anche uno degli assistenti di Schifani. Si chiama Giuseppe Gelfo. E pure Danila Misuraca, sorella del parlamentare del Pdl Dore. E anche Stefano Mangano, a lungo segretario particolare del sindaco di Palermo Diego Cammarata.

Una bella infornata di parenti in quella Regione dove Lombardo ha addirittura litigato con il predecessore Cuffaro sulle spese folli, ha promesso "interventi per rimuovere eventuali anomalie" e dichiarato guerra agli sprechi: 39 milioni di euro l'anno per mantenere gli uffici di gabinetto, 818 milioni per pagare i 21.104 dipendenti, 75 mila euro l'anno per liquidare lo stipendio di un dirigente "esterno".

Cambiano i governi ma alla Regione si aggirano i soliti noti. Un altro campione della Parentopoli è l'assessore al Bilancio Michele Cimino. Un'altra storia di cugini: Rino Giglione è il suo capo di gabinetto. Un altro, Maurizio Cimino, è il direttore della Protezione civile di Agrigento. E un terzo, Simone Cimino, è alla testa di una società che - in partnership con la Regione - si occupa di fondi finanziari. "Non ci vedo nulla di strano, è giusto che in uno staff ci siano uomini di fiducia", garantisce l'assessore.

E allora, per lui, nulla di strano che in quest'altra grande famiglia che si è ricomposta al Bilancio ci siano anche due uomini del sottosegretario alla Presidenza Micciché. Il primo è suo cognato Pietro Merra, il secondo il suo ex autista Ernesto Devola. La ragnatela delle parentele si spande dappertutto. Il figlio del sindaco Diego Cammarata - Piero - è dipendente a contratto della spa regionale e-Innovazione, il fratello dell'ex governatore Totò Cuffaro è vicedirettore dell'Agenzia dell'impiego, Francesco Judica che è il cognato del governatore Lombardo è manager all'Asl di Enna, l'assessore ai Beni Culturali Antonello Antinoro ha nel suo ufficio di gabinetto anche Antonella Chiaramonte (sorella del cognato), mentre l'assessore regionale ai Lavori Pubblici Luigi Gentile ha nominato suo cognato Carmelo Cantone segretario particolare.

Un elenco infinito. Che continua con i parenti del ministro di Grazia e Giustizia. Angelino Alfano non ha soltanto la cugina Viviana Buscaglia nello staff dell'assessore all'Agricoltura, ma ha anche il cugino Giuseppe Sciumé vicedirettore generale all'Azienda Trasporti. Tutti sbandierano lunghi curriculum, ma chi lo toglie dalla testa a migliaia di disoccupati siciliani che siano miracolati per meriti di parentela?

Come scrivevamo all'inizio di questo articolo l'emblema dello sconcio familistico alla Regione siciliana tocca però all'assessore alla Famiglia, quello che nella passata legislatura ha toccato un altro record: il numero delle missioni all'estero. Risultavano otto, nel settembre del 2007: 4 a Bruxelles, 2 in Spagna, 1 a Washington, 1 a Parigi.

Nel governo Francesco Scoma è dal 2004, in politica da sempre. Suo padre Carmelo è stato sindaco di Palermo dal gennaio del 1976 all'ottobre del 1978, erano gli anni del dominio finale di Vito Ciancimino e anche lui - Scoma padre - fu coinvolto negli affari sui "grandi appalti" della città, quindici anni di spadroneggiamento sempre delle stesse imprese. Da assessore, Scoma figlio è diventato famoso per la sua spasmodica voglia di candidarsi ovunque. Alla vigilia delle ultime elezioni regionali era praticamente in corsa dappertutto. Alla Presidenza della Provincia (dove aveva promesso ad almeno una trentina di amici il posto di assessore), al parlamento, alla Presidenza dell'Assemblea.

Quando è divampato nelle scorse settimane lo scandalo di Parentopoli, intervistato da "Viva Voce" di Radio 24 è caduto dalle nuvole: "Allora vogliamo dire che essere familiari di politici sia un reato?". L'altro giorno Scoma, che è anche assessore agli Enti Locali, ha preparato un disegno di legge contro i privilegi nei comuni. Tagli, gettoni di presenza al posto degli stipendi, stop al cumulo per sindaci e presidenti di Provincia con il doppio incarico di deputato. Insomma, un bel repulisti. Poi, all'articolo 15 del suo provvedimento, una piccola smagliatura: le ispezioni nei Comuni dalle gestioni allegre, d'ora in poi, potranno essere fatte anche da professionisti esterni alla Regione. E a spese degli enti controllati. Sarà naturalmente Scoma, in persona, a scegliere gli ispettori. Qualcuno sospetta che l'assessore alla Famiglia abbia qualche altro cugino.


(9 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 28, 2009, 11:21:21 pm »

Una nazione in corso


Negli ultimi dieci giorni due argomenti sono esplosi nel dibattito sociopolitico italiano: il rinnovato interesse per il sottosviluppo del Sud con evidenti tentazioni ad un meridionalismo tutto politico e rivendicativo; e la frustrazione di dover constatare, anche in relazione alla progettata celebrazione del 150˚anniversario dell’Unità, che siamo in piena dis-unità, in una nazione profondamente divisa.

Si tratta di due argomenti di fatto ricorrenti nella nostra faticosa ricerca di identità nazionale e che ritornano sempre collegati fra di loro, fin da quando i padri nobili del meridionalismo presero i l dualismo fra Nord e Sud come la frattura, antica e futura, della nazione italiana.

Non sono del tutto convinto che questo abbinamento porti a risultati utili e felici, forse dovremmo cominciare a distinguerli. Nell’abbinamento si annidano infatti dei regressivi pericoli di psicologia collettiva; il pericolo di veder esasperati i riferimenti di radicale distinzione etnica e culturale (la superiorità del pensiero meridiano o quella dell’ideologia della tecnica e del fare); il pericolo di una contrapposizione che tende ad accentuarsi per le tonalità di linguaggio di coloro che ne parlano, sia in termini di lamento che di voluto disinteresse, con immotivati sconfinamenti nel reciproco disprezzo; il pericolo soprattutto che la polemica pro e contro il Sud rappresenti alla fine il campo di giudizio e di condanna dell’unità italiana.

Troppo facile, viene da pensare leggendo i giornali degli ultimi giorni, attribuire alle difficoltà di rapporto fra Nord e Sud tutte le spinte a interpretare l’Italia come divisa, disunita, sull’orlo della secessione. Più difficile, ma forse più utile è invece riprendere il discorso sul modo stesso in cui abbiamo costruito l’Italia, prima e dopo l’unificazione formale del 1870. Devo al riguardo dire, anche se risulterò in infima minoranza, che sono meno pessimista dei tanti profeti della disunità. Ho letto troppe volte «L’Italiano » di Giulio Bollati per non essere convinto che l’unità nazionale è un processo di lunga durata, «un essere in corso d’essere».

Due sono i fattori che erano alla base e che ancora operano in tal processo: da un lato la unica lingua e dall’altro la ricca diversità territoriale. Non dimentichiamo che Petrarca e Dante cominciarono a scrivere in italiano cinquecento anni prima dell’unificazione; non dimentichiamo che i nostri attuali riferimenti linguistici correnti vengono dai grandi scrittori della lingua (dal perfezionista Manzoni ai raffazzonati libretti di Verdi); non dimentichiamo che negli ultimi decenni siamo stati unificati dalla lingua, scolastica, giornalistica o televisiva che fosse; e non dobbiamo quindi sorprenderci se oggi la lingua, l’italiano, è una enorme forza unificante e in «corso d’essere».

Basta prendere atto del modo in cui sempre più si esprime e comunica il popolo, con un declino rapido e quasi inatteso di quel primato del dialetto che pure aveva sostenuto le più aggressive ipotesi di secessione. Vince la lunga durata dell’italiano, con tutto quel che ciò comporta in termini di identità collettiva.

La seconda forza dell’unificazione in corso d’essere è quello della ricchezza dell’articolazione territoriale. Scriveva il Sismondi intorno al 1845 che «l’Italia è diventata non una nazione ma un semenzaio di nazioni, in cui ogni città fu un popolo libero e repubblicano». Secoli di unificazione statalista, centralizzata, burocratica hanno offuscato quella convinzione, ma non hanno potuto cancellarne la base fenomenologica. Ed oggi l’Italia ha ripreso il cammino di quella articolata concezione della «nazione semenzaio di nazioni ». Può spiacere che su quel cammino si ritrovino sindacati di territorio, leghe, movimenti, partiti, lobbismi localistici; ma non sfugge a nessuno che si tratta di una «dialettica sullo stesso libro», un essere diversamente partecipi di un sommerso processo di unificazione. Siamo destinati a restare e diventare una nazione plurima al di là del termine «federalismo» mal consumato nei decenni, da Gioberti e Rosmini fino alla recente legge sul federalismo fiscale.

Siamo quindi una nazione in corso di essere, che si costruisce sulla lunga durata di due radici: una lingua forte e di tutti ed un semenzaio di nazioni che continuano a cercare faticose convergenze (anche nelle discussioni sui fondi FAS o sul finanziamento delle opere pubbliche). Sono le radici che portano, secondo una famosa frase di Martin Buber; e le nostre hanno superato la prova, dimostrando che avevano torto coloro che pensavano di «fare l’Italia senza gli italiani» e che lavoravano su nobili opzioni socioistituzionali calate dall’alto (un’unica PA, un’unica scuola, un’unica sanità, ecc.) che oggi sembrano a tanti le macerie di un’unità non compiuta. Se le ponessimo a base delle celebrazioni del 2011, finiremmo per dover trarre un bilancio a dir poco frustrante; usiamole invece, tali celebrazioni, per riscoprire come e quanto le radici ci portino nel tempo, in un processo unificante sotterraneo ma di grande potenza.

Giuseppe De Rita

28 luglio 2009
da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 17, 2011, 04:58:23 pm »


GOVERNARE LA CONTINGENZA

Il commento

Italia Ostaggio del Degrado

Alcuni amici stranieri, attribuendomi una autorità morale che forse non ho, mi rimproverano da tempo di non esprimere adeguata indignazione, adeguato richiamo etico, almeno adeguata segnalazione del senso del ridicolo rispetto allo spettacolo che va da mesi in onda nella nostra arena pubblica.
Qualche scusante più o meno giustificativa penso di averla. Anzitutto non mi indigno, perché avverto che l'indignazione serve molto per infiammare gli animi ma poco per stabilire una seria dialettica politica, al di là delle strumentalizzazioni spesso taroccate che essa subisce. In secondo luogo non faccio richiami etici, perché sono convinto che il moralismo non si traduce mai in cultura di governo e che ancor meno ci si può aspettare dall'immoralismo di potere, specialmente in una società dove tutto galleggia su una diffusa amoralità quotidiana. Ed in terzo luogo non segnalo i pericoli di cadere nel ridicolo, perché temo che sia una battaglia persa in un sistema dove una suora conciona le folle e dove centinaia di parlamentari sottoscrivono versioni inverosimili (tipo «la nipote di Mubarak») su vicende su cui ridacchia anche il mio portiere romeno.
Non me la sento quindi di esercitare la triplice nobiltà che mi è richiesta, anche perché, anzi specialmente perché, sono convinto di un'altra e seria verità: questo è un Paese che ha un drammatico bisogno di essere governato, ma dove è proprio nel vuoto di ogni cultura di governo (cioè di comprensione e gestione del sistema) che la dialettica sociopolitica ha subito una torsione verso il basso, verso pulsioni emotive spesso avventate, verso comportamenti di pura inerzia di potere. O ci diamo una mossa a elaborare una nuova cultura di governo o continueremo ad esser prigionieri del degrado, anche istituzionale.
Da dove si parte per tale elaborazione? La risposta è difficile e comporta l'umiltà di tempi lunghi, perché il primo passo, assolutamente indispensabile, è quello di mettere in ombra per qualche anno le due parole-mito degli ultimi decenni: programmi e riforme. Non illudiamoci: chi propone programmi (magari straordinari, magari enfatizzati a «frustate») rischia di scrivere inutili scenari o pacchetti di improbabili misure; mentre chi propone riforme rischia di ripetere ipotesi ormai strutturalmente incapaci di tradursi in incisive decisioni strategiche. Posso dichiarare il mio personale dispiacere, ma non posso fare a meno di dire che i due strumenti sono troppo usurati per far da base ad una cultura di governo buona per gli anni futuri.
Avanzo quindi l'ipotesi che oggi occorre attrezzarsi a «governare la contingenza», cioè i fenomeni ed i processi che via via si presentano nell'evoluzione socioeconomica, senza farsi prendere dalla nostalgia per la magica parola «vision» su cui si basa il cosiddetto primato della politica.
È infatti evidente che nella società moderna «non ci sono che processi» (dalla globalizzazione all'esplosione dei flussi migratori), che spiovono dal di fuori e creano incertezze e sfide per tutti i soggetti sociali, piccoli e grandi che siano; essi di conseguenza possono essere gestiti solo fenomeno per fenomeno, soggetto per soggetto, caso per caso, decisione per decisione, in un crescente primato della contingenza.
È la indiscutibile realtà di fatto, con tutta la sua carica di relativismo nei giudizi e diempiria continuata nei comportamenti. Ne troviamo più che facile conferma nella attuale situazione italiana dove dobbiamo fronteggiare solo delle contingenze: la ripresa degli sbarchi di immigrati, la esplosione politica del Nord Africa, il rientro dal debito impostoci dalle nuove direttive europee, l'egoismo aziendale di molte imprese che vivono di globalizzazione, la risistemazione della finanza locale in vista del federalismo, l'incidenza del permanere della crisi occupazionale sulle decisioni economiche delle famiglie, la bolla dei due milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Bastano, credo, questi fenomeni per mostrare quanto sia fuori luogo una politica centrata su programmi e riforme; e quanto siamo obbligati a introiettare la contingenza come riferimento strutturale di una cultura di governo meno nobilmente ambiziosa e più faticosamente quotidiana di quella che ha ispirato la politica negli
ultimi decenni. Ed è questa la prospettiva su cui un po' tutti dobbiamo fare maturazione culturale: dalle imprese alle istituzioni, dalle famiglie alle rappresentanze d'interesse. Uniti tutti nel misurarci sul contingente, nell'incertezza e addirittura nella finitezza dei nostri poteri; e con una conseguente umiltà collettiva che ha meno riscontri mediatici ma maggiore qualità etica rispetto alle troppe indignazioni che oggi tengono banco.

Giuseppe De Rita

17 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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