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Autore Discussione: Leo Ferré. Alla scuola della poesia  (Letto 3151 volte)
Admin
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« inserito:: Marzo 07, 2012, 05:25:25 pm »

Alla scuola della poesia
di Leo Ferré

La poesia moderna non canta più... striscia.
Però ha il privilegio della distinzione...
non frequenta le parole malfamate,
anzi le ignora. Si prendono le parole con
le pinze: a "mestruale" si preferisce
"periodico", e si pretende che i termini
medici che debbano uscire dai trattati di medicina.
Lo snobismo scolastico che consiste
nel non usare in poesia che certe parole
ben definite, a privarla di certe altre,
che siano tecniche, mediche, popolari
o dialettali, mi fa pensare al prestigio del
baciamano e delle vaschette lava dita.
Non sono le vaschette lava dita a rendere
le mani pulite né il baciamano
a creare la tenerezza. Non è la parola che fa
la poesia, è la poesia che illustra la parola.
Gli scrivani che fanno ricorso alle dita
per sapere se tornano i conti dei piedi,
non sono dei poeti: sono dei dattilografi.
Oggigiorno il poeta deve appartenere ad
una casta, ad un partito o al bel mondo.
Il poeta che non si sottomette è un uomo
mutilato. La poesia è un clamore e deve
essere ascoltata come la musica.
La poesia destinata ad essere soltanto letta
e rinchiusa in veste.
tipografica non è ultimata. Il senso vero e proprio le viene
dato dalla corda vocale così come al violino
viene dato dall'archetto.
Il riunirsi in mandrie è un segno dei tempi.
Del nostro tempo. Gli uomini che pensano
in circolo hanno le idee curve.
Le società letterarie sono ancora la Società.
Il pensiero messo in comune è un pensiero comune. Mozart è morto solo,
accompagnato alla fossa comune da un
cane e da dei fantasmi.
Renoir aveva le dita rovinate dai reumatismi.
Ravel aveva un tumore che gli risucchiò
di colpo tutta la musica.
Beethoven era sordo.
Si dovette fare la questua per seppellire
Bela Bartok. Rutebeuf aveva fame.
Villon rubava per mangiare.
Tutti se ne fregano.
L'Arte non è un ufficio di antropometria.
La Luce si accende solo sulle tombe.
Noi viviamo in un'epoca epica ma non
abbiamo più niente di epico.
Si vende la musica come il sapone da barba.
La stessa disperazione si vende, non resta
che trovare la formula giusta.
Tutto è pronto: i capitali, a pubblicità
I clienti. Chi dunque inventerà la
disperazione? Con i nostri aerei
che fregano il sole.
Con i nostri magnetofoni
che si ricordano delle "voci ormai spente",
con le nostre anime ormeggiate in mezzo
alle strade, noi siamo sull'orlo del vuoto,
confezionati come carne in scatola,
a veder passare le rivoluzioni.
Non dimenticate che l'ingombrante
nella Morale, è che si tratta sempre della
Morale degli Altri. I canti più belli sono
quelli di rivendicazione.
I versi devono fare l'amore nella testa
dei popoli. Alla scuola della poesia non
si impara: CI SI BATTE.

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